IL RAJASTHAN di val bene una messa? – 3° Parte
Lungo la strada per Jodhpur, nostra meta giornaliera, ci fermiamo al tempio Jainista di Ranakpur, uno dei più importanti di questa strana religione. I suoi adepti, infatti, oltre ad osservare un lodevole ripudio della violenza, si attengono ad un radicale rifiuto del cibo animale. E quando dico radicale, voglio intendere proprio radicale. Per non incorrere nel pericolo di ingerire involontariamente un insetto, spesso portano dei fazzoletti legati davanti alla bocca e cercano di evitare qualsiasi mezzo di locomozione per non correre il rischio di schiacciare formiche o quant’altro. Pur avendo un numero ridotto di adepti, concentrati per lo più nel Rajasthan, i loro templi sono imponenti, ricchi di marmi e di pregevole fattura. E, ovviamente, non è consentito entrarci con le calze, come facciamo di solito negli altri templi. I piedi devono essere rigorosamente nudi e … Ha ricominciato a piovere.
La bellezza degli interni ci fa subito dimenticare i piedi bagnati ed i marmi freddi e, mentre ci confondiamo con i fedeli avvolti nei loro camici bianchi, veniamo rapiti dal silenzio e dalla serenità che pervade il luogo. Giungiamo a Jodhpur a sera e, visto che il nostro albergo è un pò fuori dal centro ed io non ho alcuna intenzione di mangiare, decido di rimanere in camera a riposare in vista delle fatiche future.
Disteso sul letto, mi metto a guardare la televisione.
Era capitato anche nei giorni scorsi di accendere un po’ la tele, ma immancabilmente mi ci ero addormentato davanti senza prestarle molta attenzione. Ora invece, mi bastano pochi minuti per venire preso da una specie di smania che mi impedisce di distoglierne lo sguardo.
Le trasmissioni sono così orrende da creare dipendenza! I due terzi dei canali trasmettono film musicali Bollywood style, già di per sé raccapriccianti. I restanti canali sono invece di spettacoli, quiz e amenità varie, che definire kitsch risulta un complimento. Il tutto talmente inondato di pubblicità, da far impallidire le nostre reti commerciali. Sono conquistato. Fino alla fine del viaggio non potrò più fare a meno di guardare la TV per almeno un’oretta prima di andare a dormire.
11° GIORNO: JODHPUR Mentre sto sudando copiosamente lungo la stradina che porta alla fortezza di Merenghar, mi ripeto mentalmente (cosa che mi sorprendo ormai a fare sempre più spesso) che forse questa sarà diversa dalle altre. Siamo al dodicesimo giorno di viaggio e sento di iniziare ad accusare la stanchezza. I siti e le città cominciano ad apparirmi tutti uguali, ma forse si tratta del mio costante malessere che mi mette di cattivo umore. Per fortuna un insperato evento, cambia all’improvviso il mio stato d’animo. Alla biglietteria, udite, udite! hanno le audioguide! e c’è anche l’italiano! E’ una innovazione sconvolgente che rende la visita affascinante, anche perché la fortezza si rivela senza dubbio la più bella visitata fin qui. La monotona, ma rassicurante voce italiana mi accompagna atraverso splendide sale, stanze principesche, palazzi che sembrano lavorati all’uncinetto, musei con collezioni una più interessante dell’altra. Perdo subito il gruppo, anche perché mi attardo a vedere una collezione di armi situata in una sala tanto soffocante che pian piano tutti l’abbandonano. Mi trovo così a vagare tra le stanze ed i corridoi, assieme ad un gruppo di ragazzi indiani che parlano tra loro pettinandosi in continuazione i capelli. Non appena ho messo piede in questa nazione, mi sono subito reso conto della strana fissazione degli uomini per le loro capigliature. Forse per l’invidia suscitata in me dalle fluenti chiome che esibiscono, ho preso a notare la grande cura con cui gli indiani trattano i loro capelli. La prima richiesta dei bambini che ti assaltano per strada, non è per i soldi, ma per dello shampoo. Ed ogni indiano, di qualunque età esso sia, gira sempre con un pettinino in tasca che tira fuori in ogni occasione per rimettersi a posto il ciuffo. Daltronde, che la loro sia una vera fissazione, è testimoniato anche dalla pubblicità televisiva. Almeno la metà degli spot trasmessi, sono di prodotti per la cura e l’estetica dei capelli. A questo riguardo, la cosa più bizzarra alla quale si può assistere girando per le strade, è la strana tintura rossa alla quale si sottopongono le persone anziane. Pur di non mostrarsi in pubblico con i capelli bianchi, cosa evidentemente disdicevole, se non hanno mezzi sufficienti per effettuare tinte naturali, si colorano i capelli con il più economico henné, che dona loro l’aspetto di tanti Biscardi ambulanti.
Ritrovata Miriam, saliamo sugli spalti del castello, dove, tra fusti di antichi cannoni, godiamo dello stupendo spettacolo della città sottostante. Jodhpur è soprannominata la città blu e da quassù se ne capisce il motivo. Una distesa di case azzurro lavanda, colpisce l’occhio creando un gradevole effetto cromatico. Si dice che la tradizione derivi dal fatto che la gran parte delle case del centro storico appartenesse a bramini, tradizionalmente identificati dal blu, ma sembra che oggi la tradizione perduri, in quanto il colore addolcisce i raggi del sole e tiene lontane le zanzare.
Comunque, quale che sia il motivo, il risultato è davvero strepitoso.
Attraverso un sentiero che scende dalla rocca, raggiungiamo il centro cittadino fino alla Torre dell’orologio, di influenza chiaramente anglosassone. Il manufatto si trova proprio al centro di una piazza circondata da portici, cuore nevralgico della città vecchia, dove si tiene un colorato e chiassosissimo mercato.
Il Boss si infila subito in un negozietto proprio sotto i portici, dove sembra si produca il miglior lassi del Rajasthan e, rinfrancato lo stomaco, si lancia in un furioso shopping.
La mania per lo shopping di Stefania ha del patologico. Da quando siamo arrivati, non ha fatto altro che comprare, comprare, comprare. Tessuti di ogni genere e colore, braccialetti, collane, sciarpe, statuine, camice di seta, anelli, ninnoli. Si è perfino fatta realizzare da un sarto un vestito ed un sari completo che non metterà mai nella sua vita. Ha già dovuto comprare una nuova valigia per trasportare la mole di roba acquistata e nonostante ciò la sua mania compulsiva la prende incontrollabile ad ogni nuova sosta.
Io e Miriam, come al solito, ci perdiamo per i vicoli della città vecchia. Non abbiamo mangiato nulla, se non le solite banane e con il caldo che c’è abbiamo bisogno di tirarci un pò su. Dobbiamo bere una Coca Cola. Se sono tornato vivo dal mio viaggio, penso di doverlo proprio alla Coca Cola, anzi, per essere più precisi, alla Pepsi Cola, visto che qui in India i più noti concorrenti non esistono proprio. L’unico modo per compensare l’incessante perdita di liquidi e zuccheri è la continua ingestione di questa bevanda gassata (la sola disponibile qui). Sono arrivato a consumarne fino a 3 litri al giorno! Girando abbiamo notato che al pian terreno di molte case, sono pubblicizzati svariati alberghetti e locande con bar sulla terrazza. Ne scegliamo uno con un nome accattivante e saliamo la ripida scalinata d’accesso. Giunti al primo piano, ci ritroviamo inaspettatamente proiettati in una comune anni 70. Tappeti e cuscini buttati per terra in ogni angolo della piccola hall, ospitano ragazzi poco vestiti di varie nazionalità sdraitai mollemente, chi intento a leggere, chi a fumare da elaborati narghilè. C’è un bancone su un lato che fa pensare ad una specie di reception, dietro il quale un indiano completamente tatuato è sprofondato in una sgangherata poltrona. Gli chiediamo notizie del bar e lui ci indica di salire delle scale che non avevamo notato perché coperte da una tendina di cristalli colorati. Mentre saliamo i due piani che ci separano dalla cima della casa, do un’occhiata ai corridoi dove sono ospitate le stanze della pensione. Non ci sono porte a chiuderle, ma dei semplici teli di fattura indiana, come ne abbiamo visti tanti nei mercatini finora. Ed anche qui, ragazzi con zaini in spalla o con asciugamani in vita, entrano ed escono di continuo.
L’igiene non mi sembra delle migliori, ma il posto ha un suo appeal. Con venti anni di meno l’avrei trovato intrigante. Anche la terrazza, diciamo che ha un fascino … Decadente. Due pesanti tavolini in ferro, coperti da tovaglie il cui ultimo lavaggio risale a qualche settimana prima, e quattro sedie sbilenche, sono l’unico arredo. Alcune stuoie luride coprono quello che dovrebbe essere l’angolo cucina, mentre due vasi incolti ingentiliscono l’ambiente. Ci accomodiamo ad un tavolo, mentre in quello a fianco due ragazze in mutande discorrono fra loro in francese consumando il pranzo (o la cena, non so. Sono le cinque di pomeriggio). Questo posto mi riporta ai viaggi avventurosi, senza una lira in tasca, ma con tanta spensieratezza, della mia gioventù. Lo adoro sempre più. Il panorama è stupendo. La vista spazia dalla fortezza del Merenghar che letteralmente ci sovrasta, a tutta la città vecchia. Da quassù possiamo godere di tutte le bellezze che questo posto incredibile e assurdo offre, senza essere coinvolti nel caos, nei rumori, negli odori della città sottostante. Stiamo sorseggiando la nostra Pepsi, quando all’improvviso, come rispondendo ad un richiamo silenzioso, decine e decine di persone appaiono sui tetti circostanti innalzando nel cielo dei coloratissimi aquiloni. Restiamo in silenzio a guardare estasiati lo straordinario spettacolo mentre il sole inizia a tramontare. Ci sono momenti nella vita in cui tutto è perfetto. Durano poco, alle volte anche solo un istante, ma rimangono impressi nella mente per sempre.
Questo è uno di quei momenti.
12° GIORNO: JODHPUR – JAISALMER La tappa che andiamo ad affrontare oggi è tra le più lunghe del viaggio. Dovremo percorrere quasi 400 chilometri inoltrandoci nel deserto fino a Jaisalmer, al confine con il Pakistan.
Sono previste solo un paio di soste e si prospetta una lunga e monotona giornata in pullman a leggere ed ascoltare la musica spaccatimpani di Raghu. Come ho già avuto modo di esporre, sono un grande appassionato di musica e cerco sempre di acquisire informazioni e materiale sulle tradizioni musicali dei paesi che visito. Qui in India si può dire che i ritmi della giornata siano scanditi dalla musica che sgorga perenne da qualsiasi fonte ed in qualsiasi luogo. Lo schema delle canzoni è pressappoco sempre uguale, un duetto tra una voce maschile ed una femminile molto acuta (spesso stridula). Sulle prime ne ero rimasto affascinato, ma col passare del tempo, le voci penetranti e la ripetitività della trama musicale, hanno cominciato a stancarmi. Così come non riesco più a trovare interesse per la visita ai templi minori, tutti uguali nei minimi particolari, al punto che decido di non entrarvi più.
Metto in atto il mio proposito sia a Mandore che ad Osyian, le due visite previste, preferendo aggirarmi per le solite bancarelle che invadono l’area antistante qualsiasi sito religioso. Ad Osyian, mentre attendo l’uscita di mia moglie, mi imbatto in uno strano soggetto. Indossa solo un tessuto a fiori drappeggiato a mò di pantalone e svariate collane e cavigliere. Ha una lunga barba nera ed i capelli raccolti in una crocchia. Fin qui niente di strano, se non fosse che nella mano ha una lunga frusta con la quale si fustiga violentemente una spalla, dalla quale sgorga del sangue.
Non mi è chiaro il motivo di tale masochismo, finché non vedo una piccola folla accalcarglisi attorno facendo offerte di cibo o denaro. Gli schiocchi della frusta sono così rumorosi che mi si accappona la pelle al pensiero del dolore che gli devono procurare, ma osservando meglio la scena, mi accorgo che in realtà il furbacchione si guarda bene dal colpirsi realmente. I colpi che sferra, infatti, sono sì rivolti verso la sua spalla, ma questa non viene mai percossa. Ciò che fa rumore è solo la punta della frusta che colpisce il terreno. Anche le ferite sanguinanti sono una finzione. Nè la spalla, nè la schiena riportano alcuna cicatrice ed il sangue, invece di scorrere copioso, rimane sempre immobile sugli stessi punti, probabilmente frutto di qualche vernice.
‘Ma chi vuole fregare questo tipo? Forse dei sempliciotti indigeni, non certo uno smaliziato turista europeo!’ Ma chi lo sa? Forse anche i sempliciotti indigeni si sono accorti della finzione, ma vogliono solo crederci. Oppure, ancora più semplicemente, non gliene frega niente a nessuno. E’ un altro morto di fame che vuole un pò di elemosina e basta.
Perché l’indiano, questa disillusione ce l’ha negli occhi, sempre. Non so se si tratti del credo induista che promette un riscatto sociale nelle prossime vite, oppure dell’assurda divisione in caste che impedisce di fatto qualsiasi elevazione ai più poveri. Ho l’impressione che molti di loro non vivano la vita, ma la lascino scorrere nella speranza di qualcosa di meglio che verrà dopo la morte. Miriam mi ha raggiunto proprio mentre sono immerso nei miei pensieri. Ha visto una bella borsetta in una bancarella e l’ha acquistata dopo una breve contrattazione. Sta per pagare, quando un ragazzo, forse il figlio del commerciante, mi si avvicina. Dice che vorrebbe tanto che gli facessi una fotografia. “Ma certo!” Lo faccio avvicinare a mia moglie e scatto. Il ragazzo guarda l’immagine dal monitor della macchinetta fotografica e si apre in un largo sorriso. Proprio in quel momento realizzo di non avere alcuna possibilità di fargliela avere. Chiedo il suo indirizzo, in modo da potergliela spedire, ma lui mi fa cenno che non importa.
Allora capisco. Non voleva avere una sua fotografia, ma voleva che io avessi una sua fotografia. Una testimonianza indelebile della sua esistenza che varcherà i confini del suo misero villaggio.
Gli ultimi chilometri prima di Jaisalmer sono un susseguirsi ininterrotto di caserme, accampamenti militari e posti di blocco. La vicinanza con l’odiato Pakistan si fa sentire.
Il nostro albergo in pieno centro stanotte non è disponibile, così ci sistemiamo provvisoriamente in periferia ed andiamo in avanscoperta. Io ed alcuni altri compagni dobbiamo cambiare dei soldi e ci mettiamo alla ricerca di una banca. Non dobbiamo andare molto lontano, perché nella grande piazza all’ingresso della città ce ne sono ben due, ed una ha anche il bancomat.
Constatando che la fila in banca, alllo sportello del cambio, è consistente, decido di optare per il gabbiotto del bancomat, stranamente vuoto. Ne comprendo il motivo non appena messoci piede. Un’ondata di aria gelida mi investe in pieno, elargendomi un sicuro raffreddore fulminante. L’aria condizionata è a regimi insostenibili, soprattutto per me che sono sudato fradicio. Cerco di coprirmi come posso, ma dopo poco devo desistere e mi metto diligentemente in fila nella banca adiacente.
Abbiamo la cena prenotata presso il ristorante sito nella terrazza dell’albergo dove dovremo spostarci l’indomani. L’appuntamento è lì davanti per le sette, ma alle sei e mezzo, veniamo colti dal solito diluvio pomeridiano. Almeno qui nel deserto avevamo sperato di risparmiarcelo. Ci spostiamo verso la piazza nella speranza di ripararci dentro l’albergo, ma constatiamo subito che è impossibile perfino muoverci. Il problema è che la strada principale, essendo in discesa, convoglia una grande quantità di pioggia, formando un vero e proprio fiume d’acqua che, scendendo a valle verso la piazza dove è ubicato il ristorante, trascina con sè ogni genere detriti. Terra, sabbia, escrementi vari, immondizia, tutto si mischia formando una fanghiglia densa e maleodorante che ci arriva alle caviglie. Vorrei togliermi i sandali, ma ho paura di ferirmi i piedi, cosa non consigliabile in queste condizioni, così, appollaiato su un muretto, attendo speranzoso la fine del diluvio. Una volta terminata la pioggia, però, rimane il problema di guadare il lago che si è formato nella piazza. Si sta facendo tardi, così Miriam prende una decisione estrema. Chiama un tuc-tuc che ci staziona davanti e gli chiede di portarci dall’altro lato della piazza. Il guidatore ci guarda un pò sorpreso, ma poi scoppia in una risata e ci fa cenno di entrare. Nel breve tragitto, tiene ad informarci che in città non pioveva da nove anni e che un acquazzone di quella portata era un vero evento e lui non ricordava di averlo mai visto. Felici di tanta fortuna, ci accomodiamo ad una fontanella ed iniziamo a scrostarci il fango dai piedi.
13° GIORNO: AMAR SAGAR – LODHRUVA – BADABAGH – GADI SAGAR La mattina prendiamo possesso delle nostre nuove camere nello splendido albergo che abbiamo potuto visionare la sera precedente. Ma non c’è tempo per rilassarsi, bisogna partire per le nostre escursioni giornaliere. Nel pomeriggio, poi, avremo un altro momento memorabile: la cammellata nel deserto! Intanto, però, dobbiamo sorbirci il solito tempio jainista ad Amar Sagar. Mentre gli altri entrano, faccio amicizia con una capretta nera dal ciuffo bianco ed un malandato cane, che sembrano inseparabili. Proseguiamo per Lodruva. Ennesimo tempio Jainista, ma stavolta davvero notevole con le sue splendide pareti finemente lavorate, simili a filigrana, e la suggestiva storia che l’accompagna. Al suo interno, infatti, si è rifugiato un cobra che in virtù della natura animalista dei seguaci jainisti, non può essere toccato, anzi, viene giornalmente sfamato. E’ raro riuscire a vederlo, ma sembra che sia segno di buona sorte. Noi non lo vediamo.
Prossima tappa Badabagh. Senza respiro. Una serie di cenotaffi reali posizionati in pieno deserto sono la nostra meta. Siamo gli unici a visitarli e dobbiamo tenere a bada una banda di ragazzini che ci si incollano alle calcagna. Sullo sfondo ci sono delle pale eoliche ed è il primo segno di modernità che vedo dall’abbandono di Delhi. E’ strano trovarlo nel posto più sperduto finora visitato. Il tour de force finisce a Gadi Sagar, rilassante laghetto circondato da tempietti e cenotaffi, dove una nostra compagna incontra … una collega di lavoro! Non ci si può credere! Entrambe non sapevano di aver programmato il medesimo viaggio, ma dopotutto l’India ha appena un miliardo di abitanti e le probabilità di incontrarsi non erano poi così esigue! L’episodio rafforza la mia convinzione che puoi anche nasconderti nell’angolo più sperduto della terra, ma qualcuno ti troverà sempre.
Una breve pausa per banane e Pepsi Cola, il mio pranzo quotidiano, e si riparte per Khuri. La località è la base di partenza per le escursioni in cammello sulle dune. Ed infatti i simpatici animali ci stanno già aspettando bardati di tutto punto. La cammellata, in realtà è una lunga passeggiata sballotati su dromedari al passo, tenuti per le redini dai loro proprietari. Niente di avventuroso, quindi, ma fa il paio con il giro a dorso di elefante: ‘sarà pure una stronzata, ma se non la faccio qui, quando la faccio più?’ Per spezzare la monotonia del viaggio e cercare di dimenticare il dolore al sedere che la dura sella sta iniziando a procurarmi, cerco di scambiare due chiacchiere con il mio cammelliere. Conosce solo poche parole di inglese, ma riesco comunque ad appurare alcune informazioni. Anzitutto il mio cammello si chiama Babaloo, e la cosa non mi sembra proprio basilare. Ci fermeremo su delle dune di sabbia ad ammirare il tramonto e questo è già più interessante. Il percorso a dorso di cammello durerà due ore all’andata e due ore al ritorno, e questo è decisamente allarmante! Dopo un’oretta, durante la quale alcuni nostri compagni hanno già deciso di scendere dall’animale, vediamo all’orizzonte delle nubi minacciose insistere proprio nella nostra direzione. I nostri guidatori cominciano a lanciarsi messaggi urlati finché il nostro Boss viene informato che c’è una tempesta di sabbia in arrivo e sarebbe prudente evitare la sceneggiata del tramonto sulle dune, fermandoci un pò prima presso dei bungalow che sono sul percorso. Accettiamo di buon grado il suggerimento e, aumentando un pò il passo, giungiamo ad una specie di strano “Club Méditerranée” nel deserto, composto da tanti bungalow con tetto di paglia.
Facciamo appena in tempo a scendere dai cammelli, che veniamo investiti da una tormenta di sabbia vorticosa. Riparandoci gli occhi alla bell’e meglio, raggiungiamo con fatica il corpo centrale del complesso, dentro il quale ci sono un salottino ed un bancone bar.
Nel breve tempo in cui la porta rimane aperta per permetterci di entrare, il locale viene totalmente invaso dalla sabbia. Ripuliamo le poltroncine e, sputacchiando sabbia, ci accomodiamo per sorseggiare il provvidenziale thè che ci viene offerto. Passiamo quindi il tempo in attesa della fine di quello che nel frattempo è divenuto un tremendo temporale, confidando sulla resistenza del tetto di paglia sotto il quale siamo sistemati. Dopo una lunga attesa, stanchi e demotivati, ci ritiriamo ingloriosamente, abbandonando i cammelli e risalendo sul pullman (che il Boss ha provveduto a richiamare con un moderno telefonino) che ci attende parcheggiato su una strada dietro una duna a poche centinaia di metri da noi.
14° GIORNO: JAISALMER Questa mattina non dobbiamo rifare i bagagli, perché dormiremo ben due notti nello stesso albergo, e questo è un evento. Abbiamo poi, l’intera giornata libera per visitare la città di Jaisalmer, e questo è un altro evento. Io, Miriam ed altri compagni, ci dedichiamo all’esplorazione della città bassa con i suoi splendidi haveli., ma sulla strada vedo un internet point e comunico a Miriam l’intenzione di fermarmi un pò a leggere la mia posta elettronica. “Fammi sapere dove vi trovate, che vi raggiungo tra una mezz’oretta” “Ok” è la lapidaria e convinta risposta di mia moglie.
Dopo aver salito le immancabili scale che portano al primo piano, entro nell’Internet Point che, in realtà è un piccolo stanzino con tavolo rotondo nel centro, sul quale sono sistemati alcuni antidiluviani computer. Il mio schermo è tutto blu, ma poco male, devo solo leggere la posta.
Ben presto mi ritrovo madido di sudore e, dopo aver preso la scossa nel tentativo di inserire la mia pen drive nella porta usb, decido di uscire. Lancio un messaggio col telefonino chiedendo a Miriam dove si trova.
“Midtown” è l’enigmatica risposta.
“In quale parte del centro città?” chiedo di rimando, non riuscendo a capire perché mia moglie mi risponda in inglese.
La risposta mi arriva dopo una decina di minuti, durante i quali il caldo mi fa letteralmente gocciolare. Sono tentato dal rifugiarmi nel gabbiotto del bancomat, ma decido di non sfidare la fortuna e resisto alla tentazione. Finalmente arriva l’sms di risposta.
“Il locale con la terrazza al primo piano in fondo al viale” Stavolta l’indicazione appare chiara … Almeno a me. Mi avvio, quindi, lungo l’ampio viale che parte dalla piazza dove mi trovo. Vedo in lontananza l’insegna di un ristorante con una terrazza al primo piano e, mentre mi avvio per la strada assolata, mi pare anche di riconoscere qualcuno dei miei compagni di viaggio.
Il viale, totalmente scoperto, è più lungo di quello che sembra e, quando arrivo a destinazione sto boccheggiando. La camicia è da strizzare ed il termometro che appare sull’insegna di una farmacia, segna 51 gradi.
Ovviamente il ristorante non ha niente a che vedere con il Midtown e quelle che mi sembravano facce conosciute, in realtà sono turisti tedeschi paonazzi per le decine di birre ammucchiate sui tavolini.
Sono disperato. Il solo pensiero di dover tornare indietro mi fa sentire male, così fermo un tuc-tuc e gli chiedo di portarmi al Midtown. L’autista mi dice che non mi conviene, perché il locale è appena dopo la piazza, così mi rimetto in marcia ripercorrendo di nuovo il viale assolato.
Mi inoltro lungo la strada in salita che porta alla fortezza, piena di negozi, gente e mucche.
Ad ogni passo vengo chiamato, tirato, toccato da ogni genere di venditori, mendicanti e bambini, e tutto ciò non fa che aumentare il mio nervosismo. Del locale, che secondo l’indicazione dell’autista, doveva essere dietro l’angolo, neanche l’ombra. Dopo venti minuti di cammino comincio a pensare di avere sbagliato strada e fermo un tizio per chiedergli informazioni. Questo mi risponde che manca poco e, giusto che c’è, ne approfitta per cercare di vendermi qualche cianfrusaglia. Finalmente, giunto sotto le mura della fortezza, esattamente alla fine della strada, vedo come un miraggio l’isegna del Midtown.
Salgo le scale e, quando arrivo sulla terrazza, sono distrutto e furioso. Tra lo sgomento generale, investo Miriam con una serie di improperi, quindi prendo la bottiglietta di Pepsi che ha sul tavolo, la bevo tutta d’un fiato e crollo stremato sulla sedia.
Gli zuccheri della bevanda tornano a far funzionare le mie cellule cerebrali e mi scuso con la compagnia per l’entrata pittoresca. Sono così sudato che sembro uscito da un bagno in piscina, ma vedo che anche i miei compagni non sono da meno e mi viene quasi da ridere.
Finalmente rilassato, mi guardo un po’ attorno. Il ristorante è situato su una piccola terrazza, come al solito lurida e sovraffollata, ma con una grande vista sulle mura della fortezza. Mentre bevo una seconda Pepsi, il Boss ci legge alcuni brani di un libro che parla della condizione della donna in India, dai quali traiamo conferma di quanto avevamo intuito in questi giorni.
Nei nostri peregrinaggi lungo le strade del Rajasthan, abbiamo potuto constatare che i lavori pesanti sembrano esclusivo appannaggio delle donne. Le vedi lavorare chine nei campi o sulle strade, cariche di pesi sovrumani. Non credo di avere mai visto una donna ferma ad oziare, cosa piuttosto frequente fra gli uomini, i quali sembrano occuparsi esclusivamente di commercio, attività nella quale peraltro non è che si impegnino più di tanto.
Nelle zone rurali, le donne non godono di nessun diritto e la loro nascita viene salutata come una sventura. E’ tradizione infatti che al momento del matrimonio debbano portare con sé una consistente dote che può indebitare le famiglie d’origine anche fino al fallimento. E se gli accordi matrimoniali non vengono rispettati, l’uxoricidio è cosa frequente e tollerata dalle forze dell’ordine. Non è un caso che il 90% di aborti in India riguarda feti di sesso femminile.
I muri delle fortezze che abbiamo visitato finora, sono pieni di orme di mani dipinte di rosso. Testimonianza del famigerato Sati, il suicidio rituale al quale venivano sottoposte le vedove alla dipartita del proprio coniuge.
Rinfrancato il fisico, ma non il morale, ci muoviamo alla volta della fortezza. Prima di riuscire ad entrarvi, veniamo intercettati da un nugolo di bambini in divisa scolastica. Stavolta le richieste sono di penne e quaderni. Superato lo sbarramento, varchiamo la gigantesca porta di ingresso che ci conduce, attraverso una strada in salita, alla piazza principale, sulla quale si affaccia il palazzo reale. La vista che si gode dalla sua terrazza è fenomenale e ci si rende conto della vastità del complesso. La fortezza, in realtà è una piccola cittadella, piena di vicoli, case, templi e palazzi, completamente circondata da possenti mura in arenaria. In virtù del colore, che si confonde con quello del deserto circostante, sembra un castello di sabbia.
Il caldo è tremendo e il gruppo, dopo due settimane di ritmi frenetici, comincia a risentire della stanchezza. Il primo a cedere è Daniele (quello dei pipistrelli), un ragazzo di 15 anni, in viaggio assieme al fratello ed al padre divorziato. Lui voleva andare ad Ibiza e dell’India non ne può proprio più. Dopo aver sopportato in silenzio finora, sbotta all’improvviso.
“Non ne posso più del caldo, della diarrea, delle mosche sempre in faccia, del sudore e dei templi Jainisti. Non ne posso più della merda di vacca sotto le scarpe, della puzza e … dell’India” e si ferma polemicamente sopra un muretto, rifiutandosi di procedere oltre.
Nel fondo dell’animo provo una certa solidarietà con il ragazzo e mi fermo con lui mentre gli altri entrano nell’ennesimo tempio.
Per ingannare l’attesa mi metto a contrattare l’acquisto di una piccola scultura della quale non ho assolutamente bisogno. E’ anche bruttina, rappresenta due mani giunte in preghiera che, una volta aperte, mostrano all’interno le figure di Shiva e Ganesh. E’ un grave errore, che pagherò caro nell’ora seguente, durante la quale il venditore mi seguirà passo per passo fino a quando, stremato, non cederò. Liberatomi del venditore asfissiante, un’altra figura decide di tenermi compagnia. Stavolta però non è del genere umano, ma animale. E’ una mucca, in realtà poco più di un vitello, con le corna appena abbozzate, che mi si mette alle calcagna colpendomi ripetutamente il fianco con il muso. Dapprima lo accarezzo sul collo pensando che voglia delle dimostrazioni di affetto (ho avuto un cane, ma mai una mucca!), ma poi, gli indigeni che mi vedono mi fanno ampi cenni di diniego dicendomi “Dangerous”, “It’s dangerous”. Non capisco perché la cosa possa essere pericolosa, ma per non sapere né leggere né scrivere, pongo fine alle mie attenzioni per l’animale, il quale però insiste nel seguirmi e continua a colpirmi ripetutamente il fianco. Dopo svariati minuti di questa tortura che, neanche a dirlo, fa sbellicare dalle risate i miei compagni, mi viene una illuminazione. Dentro lo zaino che porto sul fianco ho messo un panino con il prosciutto che ho sgraffignato la mattina a colazione. E’ lui che suscita l’interesse del mio amico quadrupede. Glielo lancio con tutta la carta (che ho visto essere molto apprezzata) e mi libero finalmente dell’ingombrante compagnia. Nei giorni successivi, quando il Boss verrà incornato da una vacca che si era fermata ad accarezzare, capirò anche il perché degli avvertimenti lanciatimi dagli indiani presenti.
Il resto del pomeriggio lo dedichiamo alla visita della città bassa, famosa per i suoi haveli. Splendidi palazzi, originariamente proprietà di ricchi mercanti, che fanno a gara per eleganza e ricchezza di decorazioni.
Le loro strutture a più piani, addossate le une alle altre, fanno apparire le strette ed intricate stradine su cui insistono, alla stregua di canyon urbani. Sensazione, questa, rafforzata dal colore giallastro dell’arenaria con cui sono costruite. Ancora più affascinanti sono i loro cortili interni, scrigni segreti di un’opulenza e una raffinatezza mai vista finora nel nostro viaggio. Durante il nostro affascinato peregrinare tra i maestosi palazzi di Jaisalmer, ci si avvicina un singolare signore, dall’aria distinta, con indosso un bel turbante arancione e dei grandi occhiali da sole stile ‘diva di Hollywood’. Ci dice che, dietro un modesto pagamento, ci mostrerà i baffi più lunghi del mondo. La cosa ci diverte, ma i suoi baffi, seppur imponenti, non ci sembrano particolarmente degni di attenzione. Il tizio, però, insiste, così gli esponiamo che prima ci deve far vedere i baffi e poi lo pagheremo. Lui acconsente e, con gesti lenti e studiati, comincia a srotolarsi i baffi da dietro le orecchie. Sulle prime ci tratteniamo a fatica dallo sbellicarci dalle risate, ma poi, man mano che l’operazione, lentamente, ma implacabilmente, prosegue, lo sbalordimento prende il posto dell’ilarità.
Quando lo srotolamento è terminato, stentiamo a crederci. I baffi sono così lunghi che il tizio non riesce a tenderli neanche con le braccia totalmente distese. “Non è possibile. Si è fatto le extension!” protesta Miriam. Diamo il nostro obolo (stavolta pienamente meritato) al signore il quale, soddisfatto, riarrotola il tutto in vista del prossimo gruppo di turisti. Concludiamo la serata in un ristorante che sulla guida viene descritto come pizzeria, una vera rarità, ma che all’atto pratico, di autentiche pizze ne deve aver viste ben poche. Qui incontriamo nuovamente il nostro ‘gruppo ombra’, intento come sempre a litigare, ma la vera tortura della serata è la mancanza di sedie. Vi sono solo cuscini su cui sedersi, cosa che io odio dal profondo del cuore (a riguardo si veda il racconto “Pechino val bene una messa”).
15° GIORNO: JAISALMER – BIKANER Si dice che la notte porti consiglio, ma a me la notte, forse complice la pizza della sera precedente, porta solo un riacutizzarsi del malore che, in un modo o nell’altro, non mi ha mai abbandonato del tutto. Per fortuna il viaggio volge al termine, ma restano ancora delle insidiose tappe. Questa di oggi è una di quelle. Trecento chilometri senza soste fino a Bikaner.
Praticamente tutta la giornata in pullman.
Arriviamo nella città di Bikaner nel primo pomeriggio, giusto in tempo per ‘sparaci’ una fortezza, l’ultima, fortunatamente, della serie. Non sono in condizioni fisiche per apprezzare un granché, anche se la storia del suo Maharaja è interessante. Eroe di guerra inglese, con le sue truppe cammellate, durante la prima guerra mondiale, prese parte ai trattati di Versailles del 1919. Il forte ospita la stanza senza dubbio più curiosa vista finora. E’ interamente dipinta con nuvole, pioggia e fulmini e veniva mostrata ai bambini piccoli per far loro conoscere questi fenomeni atmosferici decisamente rari nella zona.
Usciti dal forte, ci ripariamo dall’immancabile pioggia entrando in una lurida bettola nei paraggi. Il menù non mi consente alcuna scelta gastronomica, ma ne approfitto per fare due chiacchiere con un ragazzino piuttosto loquace, il quale intrattiene il nostro tavolo raccontandoci aneddoti di vita quotidiana. Siamo colpiti dall’atteggiamento disinvolto del ragazzo, a tal punto, che caschiamo nella trappola come dei polli. Eppure dovremmo aver acquisito una certa esperienza ! Il tizio, infatti, ci dà appuntamento davanti al nostro albergo, affermando che ci farà da guida nella visita della città.
Dopo aver preso possesso delle nostre camere, infatti, ce lo ritroviamo puntuale davanti all’hotel, ma … Accompagnato da una flotta di guidatori di tuc-tuc, che ci presenta come suoi parenti.
I mezzi sono un pò troppi ed in queste cose il Boss è inflessibile. Mai più di quattro rickshaw per i 17 componenti del gruppo! Inizia così una lite furibonda per decidere chi saranno i quattro fortunati.
Una volta accordatisi fra di loro, la discussione si sposta al nostro Boss per decidere l’importo della corsa. Dopo una estenuante trattativa, i quattro guidatori non sono assolutamente soddisfatti di quanto proposto loro, quindi si intromettono gli autisti scartati che dicono di accontentarsi della cifra. Ricomincia così la lite fra i guidatori.
Tutto ciò non costituisce certo una buona premessa per l’andamento del’escursione che, infatti, si interrompe quando arriviamo in centro, perché i presunti parenti del ragazzino ci fanno smontare dai mezzi dicendo che se vogliamo continuare dobbiamo versare loro altre rupie.
Questo improvviso voltafaccia, fa uscire dai gangheri Stefania, che riattacca a litigare furiosamente con tutti. Nel frattempo io sono giunto al limite della mia sopportazione. Sto male, e quanto ho visto della città durante il tragitto in rickshaw, ne fa di gran lunga il posto peggiore fin qui affrontato.
Corsi d’acqua che renderebbero letale anche una semplice abluzione. Montagne di spazzatura che fanno di Napoli nei giorni della crisi rifiuti, un amena località di villeggiatura. La puzza è tale che ho continui conati di vomito.
Informo Miriam che voglio tornare in albergo e lei si dichiara lieta di accompagnarmi.
Lasciamo i nostri compagni impantanati nella discussione e facciamo ritorno nell’oasi di pace e pulizia del nostro bell’hotel. Dopo alcune sfortunate scelte, proprio in questa città grigia ed insignificante, troviamo la sorpresa di un albergo di lusso.
Miriam si fa ammaliare dal servizio massaggi ayurvedici e, mentre una giovane indiana in sari la fa tornare in vita sotto le sue sapienti mani, faccio una navigata in internet ed ordino una cena cinese in camera per la cena. In effetti dovrei rimanere a digiuno perché sto veramente male, ma non tocco cibo da giorni e non ho più forze. Male che va vomiterò tutto stanotte, ma almeno mi farò una cena decente.
E la cena, consumata su morbidi divani, sotto un baldacchino coperto da colorati tendaggi è degna di un Maharaja.
La notte, come previsto, vomito tutto. Ma chi se ne frega!
16° GIORNO: BIKANER – DESHNOK – MANDAWA Oggi è il gran giorno.
Quello che la metà di noi ha atteso con ansia e l’altra metà temuto fortemente.
Siamo diretti a Deshnoke per la visita al tempio di Shri Karni Mata.
Il Tempio topi! La tradizione vuole che i bambini morti si tramutino in topi che per questo sono accolti, venerati e nutriti dai monaci del tempio.
La difficoltà della visita sta nel fatto che centinaia di questi ‘simpatici’ animaletti circolano totalmente liberi all’interno del tempio, nel quale si entra rigorosamente senza scarpe! Fortunatamente non si tratta delle nostre gigantesche pantegane cittadine, ma di piccoli e, presi singolarmente, graziosi topolini. Il ribrezzo atavico per questi animali, però, provoca un senso di disagio immediato appena messo piede all’interno del recinto sacro.
Al fine di evitare rischi di leptospirosi fulminanti (sono già troppo impegnato con i malesseri presenti, per dovermi preoccupare di quelli futuri), oltre ad indossare le solite calze, ci dotiamo di una rudimentale, ma efficace, copertura di buste di plastica che ci fanno sembrare tutti dei membri del RIS in perlustrazione sulla scena del crimine.
I primi ‘ospiti’ che incontriamo sono riuniti a dissetarsi attorno a delle ciotole colme di latte. Sembrano indifferenti al nostro passaggio, così, rinfrancati, ci addentriamo nello stretto passaggio che gira attorno al tempio.
Varcatone la soglia, però, veniamo accolti da una preoccupante oscurità che ci impedisce di capire da quale direzione potrebbe giungere il pericolo. C’è una fortissima puzza di escrementi e urina e, procedendo in fila indiana, rischiariamo l’ambiente con continui colpi di flash. Questa specie di avanzamento ‘stroboscopico’ ci fa scoprire che gli animali sono ovunque, ma forse a causa dell’ora antelucana, sembrano semiaddormentati. Raccolti fra loro in ammassi informi di svariate decine di esemplari, non sembra abbiano intenzione di relazionarsi con i visitatori.
Mia moglie, che ha compiuto tutto il percorso con gli occhi chiusi appoggiandosi alle mie spalle, mi chiede allarmata. “E’ finita? Siamo usciti?” Le rispondo di si, ma proprio nel momento in cui riapre gli occhi, un topolino si stacca dallo stipite della porta sul quale era allocato e cade davanti ai suoi piedi. Il risultato è una fuga di entrambi, non si sa chi più spaventato, verso direzioni opposte. Considerata la nausea che mi accompagna dalla mattina, credo di aver fatto a sufficienza il mio dovere e me ne torno sul pullman, non prima di aver posto fine alla gloriosa carriera delle mie calze in un bidone per la spazzatura. A causa di un buco nelle buste di plastica, si sono inzuppate e, visto ciò che c’era all’interno del tempio, mi trattengo dal bruciarle solo per la difficoltà dell’operazione.
A Deshnoke ho esaurito le mie ultime risorse fisiche, così il resto della giornata lo passerò affaciato al finestrino del pullman. A Fathepur rinuncio alla visita della città e restano con me Mariella, al suo decimo giorno di febbre alta, e Filippo, il padre dei due giovani fratelli, che trova più interessante passare il tempo a giocare con i bambini del posto, cosa che, peraltro, ha fatto fin dal primo giorno del viaggio.
La sua specialità sono ingenui giochi di prestigio che però suscitano nella popolazione locale un entusiamo incontenibile. Come sempre, infatti, bastano pochi minuti ed i dieci bambini iniziali diventano un centinaio di persone che si accalcano le une sulle altre per vedere meglio. I volti estasiati dei bimbi e le risate divertite degli adulti sono quasi commoventi. La semplicità della gente è tale, che due giochetti di prestigio fatti alla buona, si trasformano in un grande spettacolo di cabaret. Approfittando della distrazione generale, scendo a fare due passi nei paraggi. La città, che un tempo doveva essere magnifica, è dominata dalla presenza degli haveli riccamente decorati da colorati affreschi sulle pareti esterne.
Neanche a dirlo, sono tutti in rovina. I dipinti, scoloriti dal tempo, cadono letteralmente a pezzi ed in molti casi sono stati addirittura coperti con manifesti pubblicitari. La cosa, che all’inizio del viaggio mi avrebbe indignato, ora non mi colpisce più di tanto. Al ritorno dall’esplorazione, Miriam mi racconta di avere visitato un magnifico haveli ristrutturato da una artista francese, il cui intento era quello di mostrare alle autorità locali come, con degli interventi mirati, si sarebbe potuto far tornare la città allo splendore di un tempo. Dopo anni di battaglie, però, nulla era cambiato e dalle suddette autorità locali, non si era avuto alcun segno di vita, se non quello di inserire la visita alla casa negli itinerari turistici.
Così ora, mentre il resto delle abitazioni continuano la loro lenta agonia, il bel palazzo della francese rimane ad imperituro ricordo di quello che poteva essere ma che non sarà.
A metà pomeriggio giungiamo in quella che dovrà essere la nostra ultima residenza notturna. Il castello di Mandawa.
Se mai finale di vacanza voleva essere ad effetto, questo lo è senza alcun dubbio.
Il castello è un’oasi di lusso nello squallore del paese circostante. Viste le mie condizioni fisiche, devo dire che la cosa non mi disturba affatto e, mentre i nostri compagni si affrettano per prepararsi ad uscire in perlustrazione, io mi distendo su un lettino a bordo piscina da dove, nelle ore seguenti, assisterò allo spettacolo delle liti continue dei componenti del “gruppo ombra” che ci ha raggiunti in quest’ultima tappa.
Il finale è, come suol dirsi, con il botto. Veniamo lusingati con lussi inauditi e per cena, uno splendido buffet, che verrà consumato a lume di candela, viene allestito nel lussureggiante giardino della residenza. Non posso toccare praticamente nulla, ma la mia vista apprezza.
L’atmosfera è rilassata e tutti mangiano a quattro palmenti, mentre vengono massacrati dalle zanzare (specie animale che non avevamo ancora incontrato finora in quantità così massiccia).
Uno spettacolino di finte danze tradizionali ci allieta il dopo cena, quando accogliamo nel nostro tavolo un gruppetto di reduci del “gruppo ombra” che, a quanto pare, non ne possono più di litigi e discussioni.
Il nostro lato gossipparo viene alla luce con prepotenza e riusciamo finalemte a saperne qualcosa di più. Sembra che il motivo del contendere sia più che altro di natura “mondana”. Una parte del gruppo, composta da una comitiva di amici, pensava di aver prenotato un viaggio tra i lussi della fantasmagorica India dei maharaja. Attrezzatisi con abiti da sera e mise inadeguate, una volta venuti a contatto con l’amara realtà, avevano praticato un ostruzionismo che non era stato molto gradito dal resto del gruppo, per lo più composto da vecchi lupi di Avventure del Mondo.
17° GIORNO: MANDAWA – DELHI Il viaggio verso Delhi è un penoso percorso di 500 chilometri lungo strade assolate, polverose e trafficate.
Siamo veramente provati e non c’è molta voglia di parlare. Non si sentono neanche i gemiti tipici di quando sfioriamo per pochi centimetri i camion proveniente dall’opposta carreggiata. Forse siamo consapevoli della sfacchinata che ci attende e non vogliamo sprecare energie.
Il nostro aereo parte in tarda serata, quindi, una volta arrivati a Delhi, ci sarà appena il tempo di cenare e dovremo recarci immediatamente in aeroporto.
Abbiamo ancora qualche soldo che, grazie al Boss, nostro oculato amministratore, ci è avanzato dalla cassa comune, così decidiamo di utilizzarne una parte per concederci una cena finale. Il resto, una bella sommetta, lo daremo come mancia ai nostri autisti. Il ristorante prescelto si trova a New Delhi, nella zona dei grandi alberghi e, a poche ore dalla nostra partenza, finalmente abbiamo il discutibile privilegio di vedere dei palazzi che superino i quattro piani. Il ristorante, che la guida indica come tra i migliori della zona, in realtà risulta deludente, o almeno è quello che sembra a me che ho maturato una certa idiosincrasia per la cucina locale.
Ebbene si. In India, parafrasando un famoso film di qualche anno fa, ho mangiato … male! Ma male, male, male ! Ho provato tutto, ma quasi nulla mi è piaciuto e, cosa ancor peggiore, quasi tutto mi ha fatto male.
Un altro trasferimento in pullman e ci buttiamo nella bolgia dell’aeroporto, dove salutiamo Raghu e Papi. Quest’ultimo, alla vista della busta con la mancia, si apre nel primo sorriso di tutto il viaggio.
CONCLUSIONI Non dimenticherò tanto facilmente l’India, anche perché laggiù ho lasciato un pezzo di me. 10 chili, per l’esattezza. Quelli che ho perso in 18 giorni di digiuni, caldo feroce e malesseri vari. Al mio ritorno a casa perfino mia madre ha stentato a riconoscermi ed il mio ricordo dell’India si è protratto per un altro mese ancora, quello che mi ci è voluto per guarire definitivamente dalla più grave gastroenterite mai presa in vita mia. Ma sarei ingeneroso se riducessi il viaggio solo a questo.
L’India è un vero e proprio shock dei sensi. Traumatico, ma anche salutare. Tutto è forte, tutto è eccessivo. E’ il posto, più di ogni altro visitato, dove mi sono reso conto che al mondo c’è qualcosa di diverso. Può piacere o non piacere, ma non lascia indifferenti. Ed ogni volta che prendo i bagagli per un nuovo viaggio, ne sento ancora la puzza.