Ladakh: sul tetto del mondo
RELAZIONE DETTAGLIATA DOMENICA 14 AGOSTO VENEZIA – MILANO MALPENSA – NEW DELHI (Alitalia) Il ritrovo dei partecipanti al viaggio in Ladakh di AnM è a MILANO MALPENSA, c’è chi ci arriva in treno, chi parte direttamente da qui, chi arriva da Roma, chi invece da Venezia come me. Ci incontriamo al check-in, io parto da sola, mi sono lanciata: chi delle persone che conosco è interessata a passare le vacanze sull’Hymalaya? Risposta scontata… Pochi si conoscono già, tre coppie, ci sono poi quattro amici, tutti gli altri sono soli; cominciamo a chiacchierare, è una sensazione strana: ma io dovrò passare due settimane con questi sconosciuti? Dopo un po’ il ghiaccio è rotto… Il nostro volo parte regolarmente alle 10.20, destinazione DELHI, dove arriviamo alle 22.00 circa. L’aereo atterra, lungo il percorso che ci porta al nostro gate decine di indiani sono seduti a terra, al buio, sporchi e vestiti di stracci: delimitano quadrati di asfalto con bassi bordi di cemento o sabbia… L’India… Al nostro arrivo per prima cosa cambiamo un po’ di soldi in aeroporto ed Elisabetta ed io siamo elette controvoglia “cassiere del gruppo”. Incontriamo l’incaricato dell’agenzia di riferimento in loco, la State Express, che ci consegna i biglietti del volo per LEH, capoluogo della regione del Ladakh. Usciamo dall’aeroporto per cambiare terminal, siamo all’aria aperta: una folata di caldo insopportabile ci investe! Ci sono 45° e sono le 11.00 di sera, l’umidità è a mille, si fa quasi fatica a respirare, c’è subito un pulmino che ci aspetta, l’aria condizionata è ancora spenta, a bordo fa ancora più caldo che dietro al tubo di scappamento, l’autista accende l’aria e in cinque minuti la temperatura passa ad un livello accettabile. Sono stranita… Il viaggio da un terminal all’altro dura una mezz’oretta, questo aeroporto è una città con tanto di strade e quartieri, ma è tutto buio; ecco finalmente il settore della Jet Airwais, la compagnia aerea da cui abbiamo acquistato la tratta interna. Un volo interno in India! Ho paura, anzi sono terrorizzata, tra l’altro abbiamo appena saputo di un disastro aereo in Grecia…! Una signora indiana mi legge negli occhi e mi tranquillizza, mi dice che è un’ottima compagnia. Avrà ragione! Entriamo in aeroporto, è notte, è tutto chiuso, ci siamo solo noi e gli uomini delle pulizie, l’aria condizionata è a palla, ci saranno dieci gradi, bisogna coprirsi. Ecco, ci sono. Mi sto beccando una bronco polmonite che mi accompagnerà per tutto il viaggio e che mi infastidirà parecchio, soprattutto in quota dove c’è meno ossigeno.
LUNEDì 15 AGOSTO NEW DELHI – LEH (Jet Airways) Alle 5.40 del mattino, dopo un’attesa interminabile su divanetti unti e bisunti dell’aeroporto, tra indiani dormienti e una temperatura da giacca a vento, cominciamo a stringere conoscenza tra di noi: l’interminabile attesa ha anche i suoi vantaggi… Cominciano lunghe chiacchiere… Partiamo finalmente per LEH, dopo infiniti controlli e perquisizioni personali, dove arriviamo assonnati (è la seconda notte in bianco!) alle 6.55: siamo straniti e con una brutta sensazione di pressione alla testa: siamo a 3.500 metri di quota del resto! Ci accolgono nell’ordine: una strepitosa limpidissima giornata di sole accecante, un cielo blu cobalto, un’aria frizzante, gli autisti delle nostre jeep e un incaricato della Shangloo Travels, la nostra agenzia viaggi di riferimento, che ci portano subito all’Hotel Ri-Rab. Questo semplice e modesto alberghetto è situato nel sobborgo di CHANGSPA, un piccolo villaggio oramai annesso alla città, a 15 minuti a piedi dal centro: sarà per noi la base per tutta la nostra permanenza, diventerà la nostra “casa” e alla fine ci affezioneremo anche… Come tutte le sistemazioni (probabilmente a parte qualche raro hotel di “lusso”) soffre di alcune restrizioni: l’acqua calda, quando c’è, c’è solo dalle 17.00 alle 19.00 e la corrente elettrica, saltuariamente, c’è dalle 17.00 alle 23.00. Poi nulla più. Ci sentiamo comunque fortunati: le abitazioni private sono prive di acqua (che viene distribuita la mattina davanti alla moschea da un’autocisterna) e l’elettricità è un optional: solo chi può permettersi un generatore può utilizzarla costantemente solo alla sera. Ci viene offerto un the di benvenuto che beviamo assieme a Mehraj, il titolare dell’agenzia, che ci da alcune informazioni sul viaggio e con il quale Guido, il nostro capogruppo, comincia a parlare di programma e di prezzi. Prima della partenza dall’Italia si erano già messi in contatto più volte via e-mail e quindi Guido aveva già un’idea sul percorso da seguire e sui prezzi aggiornati delle auto a seconda delle zone da attraversare: infatti viaggiare in alcune costa più che in altre, a seconda delle condizioni delle strade. Il boss ci comunica che avremo a nostra disposizione 4 Toyota (4 persone in ogni mezzo più l’autista) e consiglia vivamente, per oggi, di prendercela comoda in modo da abituarci alla nuova condizione di altitudine . Ligia ai consigli di un esperto, dopo mezz’ora sono già in strada alla ricerca disperata di cibo… sono affamata, mi conosco e tra un po’ non ragionerò più!!! Trovo dopo qualche centinaio di metri una panetteria che vende delle buonissime brioches al cioccolato… Ma sono già sfinita e con un po’ di mal di testa… A stomaco pieno e dopo qualche ora di sonno e di riposo Elisabetta ed io ci concediamo una lenta passeggiata fino al centro città, dominata dalla mole del LEH PALACE, antica residenza della famiglia reale del Ladakh, ormai abbandonato e fatiscente. A fianco si staglia, sulla cima di una collina rocciosa, lo TSEMO GOMPA con il vicino forte: una fila di bandierine sospese nel vuoto e mosse dal vento attraversa il cielo blu fino a terminare sulla sommità dell’altura successiva… Rimaniamo incantate… sembra di essere in un film! Ci inoltriamo tra i vicoli sterrati della città vecchia, tra abitazioni basse e decadenti, alcune potrebbero sembrare disabitate, tutto è sporco e polveroso, trascurato. Ma in questo labirinto c’è la vita: un via vai di abitanti, rigorosamente nei loro costumi tradizionali, entrano ed escono da piccole porte e da botteghine che vendono di tutto, dal cibo agli abiti, all’oggettistica di utilità quotidiana. Non incrociamo nemmeno un turista e ci sembra di violare uno spazio privato, oltre al fatto che stiamo mangiando chili di sabbia e polvere che alziamo camminando: torniamo sulla via principale, asfaltata, che è un brulicare di turisti, molti dei quali sembrano essere residenti in loco per lunghi periodi di tempo, sembrano un po’ storditi, anzi sicuramente lo sono: un turismo direi “alternativo”, molto hippy. Camminiamo oltre la moschea, tra sfilze di negozi turistici tutti uguali: vendono pashmine di tutte le qualità, oggetti antichi ovviamente finti, oggettistica in ottone e metalli vari, collanine, braccialetti, anelli, gioielli vari, CD, abbigliamento grezzo e pesante, bandierine religiose, insomma molta paccottiglia e di bello poco niente. Che delusione! Lungo i marciapiedi donne sedute a terra espongono i loro ortaggi in gruppi molto ordinati, posati a terra sopra dei tessuti, e parlano fitto fitto tra di loro: hanno lineamenti quasi mongoli, la pelle è molto scura, rossastra, cotta dal sole, segnata dal freddo e da profonde rughe. Segno che in queste terre il clima e la vita sono molto rigidi. Arriviamo quasi fino alla porta d’ingresso della città, in costruzione, un specie di arco del trionfo “orientale” che in parte è già stato dipinto con colori molto vivaci e che una volta terminato sarà veramente molto chitch… Benvenuti a LEH!!! Giungiamo fino a una grande ruota della preghiera, c’è un monaco che parla a due bambini, ci fermiamo. Elisabetta si sente male, l’effetto dell’altitudine non perdona… Abbiamo esagerato! Mentre lei è piegata in due seduta su di uno stupa i rovina, cerco un taxi per tornare in albergo, lei non ce la fa nemmeno a stare in piedi, le cedono le gambe e ha una morsa che le comprime la testa. E’ veramente ora di smetterla… Chiedo al proprietario di una macchina parcheggiata nei pressi di portarci in albergo, non è un taxi, qui sembra non esistano, ma gentilmente ci accontenta… Prima di cena Guido passa nell’ufficio di Mehraj per pagare il conto dei trasporti di tutto il viaggio, ma non i pernottamenti che, abbiamo deciso di comune accordo, salderemo alla fine del tour. Ceniamo bene al Dreamland Restaurant che si trova vicino all’ufficio del boss: cibo indiano veramente eccezionale. Questa cucina è la mia passione: in questo viaggio non soffrirò la fame! MARTEDì 16 AGOSTO LEH – THAKTHOK GOMPA – CHEMRAY GOMPA – SHEY GOMPA – LEH Il primo giorno la sveglia è presto, alle 6.30, ma senza problemi particolari… diciamo che in questi letti durissimi, con queste coperte pesantissime che ti schiacciano, la luce che entra dalle finestre e i ragazzi dell’hotel che chiacchierano a voce alta sotto le finestre Elisabetta e io non abbiamo mai dormito: terza notte in bianco!!! Alle 7.30 siamo già in partenza per il monastero di THAKTHOK nel quale oggi si tiene un festival religioso. Arriviamo alle 9.30 dopo essere saliti un po’ di quota e, prima dell’inizio delle danze previsto per le 11.00 del mattino, ci dedichiamo a fotografare le genti sopraggiunte dalle vallate e dai villaggi circostanti. Soprattutto le donne sono vestite a festa: abiti addobbati con accessori colorati, la pelle scura, i capelli raccolti, sono belle e fiere. Si infastidiscono alla vista delle macchine fotografiche: non vogliono farsi fotografare, purtroppo e giustamente devo desistere… A dire la verità è veramente pieno di turisti, una vera folla si distribuisce sulle sedie in plastica disposte in più file intorno allo spiazzo davanti al tempio, molti, come noi, stanno in piedi per potersi spostare spesso. Io mi accomodo con alcuni compagni di viaggio sotto al porticato di fronte al tempio, di fianco alle postazioni occupate dai monaci. Seguiamo per alcune ore la serie di balli e rappresentazioni al suono dei tamburi e delle trombe tibetane. I danzatori indossano coloratissimi costumi, maschere demoniache, hanno copricapi molto particolari e complessi e si muovono con lentezza mimando i gesti di animali feroci o di combattimento tra forze del bene e del male. Naturalmente ci sfoghiamo con le macchine fotografiche… La successione dei balli è ripetitiva e lenta e in più non abbiamo le conoscenze della storia rappresentata per comprendere il significato dei passi e delle mosse dei monaci danzatori: decidiamo di abbandonare il campo, anche perché il tutto proseguirà fino alle 17.00… E poi sembra veramente allestito ad uso e consumo dei turisti! Come, ad esempio, le due maschere che girano tra il pubblico e “scelgono” con un lungo applauso chi deve fare loro un’offerta… Alle 13.00 pranziamo in un “ristorante” a fianco del tempio, quattro teli come muri ed un nylon come tetto: piatto unico, riso e verdure, spesa quasi zero. Decidiamo di visitare il monastero vero e proprio, soprattutto la parte vecchia: è il nostro primo monastero quello di THAKTHOK, costruito presso le grotte sacre nelle quali avrebbe meditato Padma-Sambhava. Il complesso presenta delle interessanti accesissime pitture murali ricche di particolari pittorici microscopici e tre grandi statue di divinità: Amitabha, Sakyamuni e Sambhara, ricoperte alla base da sciarpe in seta trasparente bianche o gialle, tipiche offerte tibetane, nonché antiche credenze in legno dipinte con colori rossi e dorati. Alla base delle immagini sacre sono posate in fila delle lampadine colorate che, chitch del chitch, si accendono stile luna park… Alcune donne pregano sedute a terra con le gambe incrociate. Che contrasto! Il fulcro del monastero è però rappresentato dal “tempio della grotta” nel cui soffitto vengono applicate le offerte dei fedeli a Padma-Sambhava. Paghiamo le 20 rupie d’ingresso, che pagheremo di prassi in tutti i monasteri che visiteremo. E’ bellissimo, è il primo, quello che più stupisce e che più incanta! Scendiamo la VALLE DI SAKTI e, visto che è presto, decidiamo di visitare il monastero di CHEMRAY, un vasto complesso architettonico che sorge su di un cucuzzolo roccioso ai margini di una distesa verdissima di campi coltivati ad orzo: la strada asfaltata li attraversa. Numerosi blocchi e contrafforti sono disposti sulla spoglia collina, mentre all’interno le cappelle contengono numerose maschere molto antiche e una grande statua di Guru Rimpoche, degli oggetti sono posti vicino ai vari Buddha nella cappella principale: ciotoline in ottone, sciarpe, bigliettini, banconote, statuine e altri di cui non comprendo la funzione, è quasi buio e c’è un gran silenzio. La vista dalle terrazze è di forte impatto: in basso gli appezzamenti di terreno sono nettamente separati tra loro da muri in pietra tondeggiati, ogni proprietà è coltivata con prodotti di diverso colore, dal giallo al verde intenso, appena più in alto, con un taglio netto, si ergono aridissime montagne pietrose: sarà anche questo un paesaggio che si ripeterà, ma che non mi stancherà mai. Lasciamo questo monastero e giungiamo successivamente a quello di SHEY (15 km. Da Leh): eretto nel 1.430 come residenza estiva del re del Ladakh, sorge nei pressi di alcuni vecchi stupa, mani e chorten fatiscenti dominando una verdissima vallata con laghetto sottostante. Spiccano le centinaia di bandierine che si agitano al vento e si stagliano contro un cielo che finalmente, dopo una giornata incerta, è diventato blu. Intorno alla struttura perimetrale vi è una fila di piccole ruote della preghiera di colore rosso con decori in ottone. All’interno della cappella, con pareti affrescate da mille Buddha, è contenuta una bellissima statua del Buddha Sakyamuni in rame placcato oro alta 12 metri, ha le spalle ricoperte da drappi di tessuto gialli, sullo sfondo vi è un grande drappo di seta fuxia: fa molto effetto, è veramente possente! Il Buddha ha uno sguardo pacato e sereno, alla base del parapetto vi sono fiori di plastica e una fila di banconote perfettamente allineate… mi viene da sorridere. Un monaco seduto davanti alla statua ci guarda, sono curiosi i monaci: gli chiedo se posso usare il flash (è proibito in tutti gli interni dei monasteri) e lui acconsente, poi mi chiede da dove vengo: Italy ripete… e ride. Ripartiamo, cominciamo ad essere stanchi, il primo giorno a quota 3.500 e oltre si fa sentire… ma siamo stati promossi! Solo 2 o 3 di noi lamentano malesseri… Alle 17.30 arriviamo a LEH,al nostro hotel, come sempre ho fame e vado con Pierluigi alla solita panetteria: ci mangiamo quattro buonissime brioches miste e ci beviamo un the caldo… Ora sto meglio!!! Proviamo a telefonare in Italia, ma prendere la linea è impossibile: manca anche la corrente elettrica e il generatore non funziona. Torniamo in albergo e ci docciamo: mi lavo anche i capelli visto che nel frattempo la corrente è tornata, ma è molto debole e rimango ben un’ora e un quarto con il phon in mano… Andiamo a cena vicino all’hotel, in uno dei ristorantini all’aperto lungo la strada che scende in città: fa un freddo pazzesco, l’attesa è lunghissima, torno indietro a mettermi i calzettoni di lana e un altro maglione pesante: dopo un’ora e mezza dal nostro arrivo ci portano una cattiva e cara cena: un disastro! Brutto segnale, comincio a tossire… Unica cosa positiva un suggestivo gran falò, ma sono talmente intirizzita dal freddo, affamata e assonnata che decido, con Elisabetta, Simonetta, Eleonora ed altri, di andare verso il Ri-Rab: ci fermiamo nel baretto al piano superiore della panetteria, qui c’è “giro”: candele, musica, parecchia gente, l’atmosfera è carina e ci beviamo un… lassi! Poi decidiamo di finire questa folle serata… e di andare a dormire. Ho anche un gran mal di gola… Speriamo che non sia la quarta notte consecutiva in bianco! MERCOLEDì 17 AGOSTO LEH – SPITUK GOMPA – PHYANG GOMPA – LIKIR GOMPA – ALCHI GOMPA – LAMAYURU Ma come siamo mattinieri! Sveglia anche oggi alle 6.30 con grande raffreddore e partenza alle 7.30 per il tour dei monasteri nelle vicinanze di LEH. Cominciamo dal vicinissimo SPITUK GOMPA (8 km. Da Leh), risalente al XV secolo, situato proprio vicino all’aeroporto: ogni tanto atterra un aereo e ci passa così vicino, sfiorando con le ali la collina rocciosa del monastero, che ogni volta tratteniamo il fiato! La vista non è delle migliori: davanti a noi si susseguono a perdita d’occhio caserme, mezzi militari e montagne di fusti vuoti su una grande spianata di sabbia, sassi e rocce. Al contrario, sul retro, scorre il fiume Indo e il piccolo villaggio sorge tra una vegetazione rigogliosa fino al taglio netto con l’inizio di un pendio di terra che sale dolcemente fino alle montagne rocciose. Aspettiamo un po’ perché i monaci non sono ancora arrivati ad aprirci. Eccoli! Arrivano con un pulmino…! Attraverso una serie di stretti corridoi arriviamo al chiostro centrale da cui, tramite una serie di cortiletti e terrazze giungiamo fino ai cortili della sala dell’assemblea di culto il cui loggiato, sopra una ripida scala in cemento, è affrescato con immagini dei Lokapala, i protettori e guardiani dello spazio e con una rappresentazione della ruota della vita. All’interno, tra le panche dei monaci ricoperte da corsie rosso-arancio, colonne rosse, drappi di seta, tamburi, tangke e affreschi sgargianti vi è una statua di Buddha, sembra quella di SHEY, ma in miniatura. Varchiamo una piccola porta sul fondo ed entriamo in un ambiente buio: un monaco sta riempiendo con un boccale una serie di piccole ciotole in bronzo appoggiate su un basamento. Restiamo in silenzio a guardare. Un po’ alla volta gli occhi si abituano al buio… scorgiamo sempre più chiaramente una grande statua di Buddha seduto che si innalza sopra alle nostre teste. Accendiamo la torcia, amica utilissima in questo viaggio dove tutti gli affreschi sono realizzati in ambienti molto bui, e illuminiamo la figura sacra: sarà alta 6 metri, completamente placcata oro e rivestita da un drappo arancio: ai suoi lati vi sono due draghi e immagini di altre divinità. Che emozione! Entriamo in una cappella con una grande finestra affacciata sull’Indo: l’atmosfera è intensa, un monaco si siede con noi, ci guarda e ci sorride, poi medita tra colonne verniciate di rosso e dipinte a colori sgargianti, su un pavimento in… linoleum a disegni geometrici, davanti ad una bellissima vetrina in legno dipinto che contiene una serie di statue di piccoli Buddha dorati. Alle pareti sono appesi numerosi tangke e drappi in seta colorata, i pezzi di arredo sono molto belli, panchette, credenze, piccoli contenitori molto vecchi, tutti sui toni del giallo e del dorato, foto di monaci “importanti”, contenitori in lacca, manoscritti sacri, piume di pavone, oggetti sacri. Resterei qui ancora a lungo, in questo luogo di pace, ma purtroppo dobbiamo proseguire… Alle 9.00 siamo già al vicino monastero di PHYANG, risalente al XV secolo, con i suoi contrafforti in cemento e le sue abitazioni cubiche imbiancate a calce: su ogni tetto ci sono delle cataste di legna, ma non vi è ordine. Mentre sto varcando la soglia della prima sala, ahimè, Eleonora, già all’interno, solleva con una mano uno dei tessuti che ricoprono le statue delle varie divinità… Panico! Mi imbarazzo per questo gesto, anche se sicuramente è in buona fede e involontario, Eleonora non è certamente questo tipo di persona… Esco. Il monaco che ci accompagna si incazza nero, fa uscire tutto il gruppo e chiude il portale con un lucchetto… ma come, io non sono riuscita a vedere nulla!!! Provo una brutta sensazione: penso che a volte ci vorrebbe solo buon senso per non offendere un popolo nel profondo… Visitiamo poi varie sale affrescate disposte su diversi livelli, tutte contenenti statue e vetrine. Sostiamo nel cortile principale in attesa che vengano aperte due cappelle: solo il monaco di prima ha la chiave ed è impegnato con gli altri turisti, inoltre credo che non gli siamo del tutto simpatici… Ritento: riesco ad aggregarmi ad una famiglia appena arrivata, la porta della cappella viene riaperta e mi introduco nella sala del “misfatto”… ne vale la pena!!! Ricomincia l’attesa per l’apertura del grande portale: nel frattempo i monaci ci fanno entrare in cucina mentre sono indaffarati ai fornelli e alla pulizia delle stoviglie. Nel refettorio, con banchetti in legno relativamente nuovi dipinti con i soliti sgargianti colori, stanno terminando il pasto tre monaci anziani. Non sono infastiditi dalla nostra presenza, anzi ridono e mi invitano a sedermi vicino a loro. Mi indicano una grande foto appesa alla parete, “Lhasa…” mi dicono orgogliosi e sorridono, sono di una dolcezza disarmante. Avremmo bisogno di una guida per capire di più sulle complesse simbologie del Buddhismo e raramente i monaci parlano inglese. Questa è una cosa che ci mancherà per tutto il viaggio, il poter comprendere e conoscere il significato di quello che ci circonda e lo svolgimento della vita all’interno dei monasteri. Dobbiamo accontentarci di quello che vedono i nostri occhi e delle sensazioni ed emozioni che ci percorrono quando entriamo nelle sale di culto. E’ comunque già molto e mi sento fortunata ad essere qui. Lasciamo questo monastero e proseguiamo per quello di LIKIR (60 km. Da Leh), situato all’interno di un’arida ma suggestiva valletta dominata da un’enorme statua dorata di Buddha, regina del kitch e vanto dell’abate che l’ha costruita forse pensando di avvicinarsi alla modernità e al mito americano… Siamo accolti da un gruppo di bambini monaci che fanno rotolare sulla discesa delle bottiglie piene d’acqua… L’interno sorprende, non me lo aspettavo, davanti a un benvenuto così! Vi sono scale che giungono a terrazze su vari livelli: da qui si accede a diverse cappelle, ognuna con un ingresso riccamente affrescato con immagini sacre e ruote della vita in ottimo stato di conservazione: i colori sono molto brillanti, è difficile descriverli a parole. Prima di entrare ovviamente ci togliamo le scarpe, poi scavalchiamo la soglia rialzata di questa meravigliosa porta dipinta di un rosso fuoco, decorata con borchie metalliche e chiusa con pesanti lucchetti, i grandi maniglioni in ottone a cui sono legate strisce di seta e sciarpe come offerte, i telai scolpiti e dipinti, i tessuti colorati a fasce posti sopra la trave d’ingresso: al di là si apre la sala divisa in tre da rosse colonne laccate: una navata centrale e due laterali. Capitelli e travi sono dipinti con motivi floreali, a terra vi sono le panche dei monaci ricoperte di tappeti, sul fondo sono posti gli altari e il trono dell’abate che domina la sala circondata da pareti completamente affrescate, tra i tangke e le foto di monaci e del Dalai Lama, le ciotole, gli incensi e le offerte. Le sale dei monasteri sono tutte così, simili tra loro, ma ognuna in grado di dare un’emozione diversa, molto coinvolgente, intensa, unica. Ultima visita della giornata è ALCHI (67 km. Da Leh), luogo magico per l’unicità delle sue pitture. Il Gompa è situato in zona pianeggiante sulle rive dell’Indo che scorre impetuoso con le sue acque limacciose, tra alte montagne di roccia con pendii piatti illuminati a tratti dal sole, tutto intorno c’è molto verde. Il villaggio è animato, vi sono molti alberghetti, ristorantini e bancarelle di prodotti artigianali: ci vuole un leasing per comprare qualcosa di bruttino, come a LEH. Nonostante questo Cristiana e Stefania vi si tuffano a capofitto!!! Pranziamo molto bene in un ristorantino con un unico grande tavolo: è tutto molto buono, il riso, le verdure fatte in vari modi, il formaggio, l’unico inconveniente è un grande scarafaggio lesso… che Cristiana trova nel riso! Sto per vomitare e scappo fuori a prendere un po’ d’aria: sta piovigginando… Lasciamo le macchine nella piazzetta e scendiamo lungo un sentiero tra muri in pietra e bancarelle a non finire. Questo monastero è molto diverso dagli altri, venne costruito nell’XI secolo dal suo fondatore di ritorno dall’India: da qui le evidenti influenze indiane. Vi sono tre gruppi di templi: il primo con tre gigantesche statue di divinità, Avalokiteshvara, Maitreya e Manjushri completamente dipinte con colori brillanti, con soggetti storici dettagliatissimi, minuscoli santuari e miniature. Il secondo tempio, con un bellissimo portale ligneo sovrastato da una scultura, presenta statue di divinità: una centrale, Vairocana e quattro laterali che rappresentano i Buddha supremi; tutto intorno le pareti supportano pitture di divinità e i membri di una famiglia reale. Il terzo e il quarto hanno due porte di ingresso veramente infime, devo quasi inginocchiarmi per entrare, sormontate da sculture in legno: le pareti, affrescate con i colori della terra e verdi-azzurri, sono popolate da mille e più piccoli Buddha con particolari pittorici incredibili, di dimensioni infime, in stile Kashmiri; al centro, tra quattro essenziali colonne in legno, vi è un gruppo di statue raffiguranti i Buddha Supremi, ognuno che guarda nelle quattro direzioni cardinali. E’ un luogo veramente incredibile! Non è possibile fotografare, ma non mi do pace… dopo mezz’ora di attesa resto sola e scatto un paio di foto: forse faccio male…, ma mi piange il cuore non portare con me pitture così uniche! Terminata la visita partiamo per il lungo viaggio di trasferimento con destinazione LAMAYURU (125 km. Da Leh). Cominciamo ad essere stanchi, Elisabetta un pò dorme, Cristiana e Gabriele chiacchierano, la strada passa per zone molto impervie, si snoda lungo strapiombi di roccia e terra di centinaia di metri che cambiano forma a seconda dei fenomeni di erosione millenaria, dell’opera dei ghiacciai e degli agenti atmosferici: offre dei paesaggi tra i più belli ed incredibili di tutto il viaggio. Numerose sono le soste-foto al cambiare degli scenari caratterizzati dal mutare continuo dei colori, dal verde al rosa, dall’ocra al vinaccia, dal beige all’arancio.
Arriviamo a LAMAYURU che è già buio: ciò non ci vieta di capire che il luogo è sorprendente e magico. Ci sistemiamo nell’unico albergo del villaggio, a ridosso del monastero, dalla finestra della nostra camera vediamo perfino il cortile interno! Il bagno però è in comune, in più l’acqua calda non esiste, anzi neanche quella fredda per un bel po’… Appena il rubinetto gocciola un poco mi ci infilo sotto, terribilissimo, è veramente gelata!!! Almeno tra molte peripezie riesco a lavarmi. Meno male! Qui incontriamo un altro gruppo di AnM e ci gustiamo una buona cena.
GIOVEDì 18 AGOSTO LAMAYURU GOMPA – DHA-HANU (CAMP) Sveglia all’alba: ho deciso, con qualcuno del gruppo, di andare al monastero ad assistere alla puja mattutina che inizia alle 7.00. Non capiamo bene dove si svolga, ma sentiamo delle voci provenire non lontano dal monastero: un gruppo di bambini monaci è seduto a terra lungo il pendio, ognuno prega per conto proprio ripetendo ad alta voce dei versi. Fanno tenerezza. La porta principale è chiusa, non c’è nessuno, giriamo un paio di volte intorno in cerca di un ingresso secondario, nulla. Facciamo silenzio e percepiamo un suono di tamburo, poi una campana. Bussiamo alla porta. Ci apre un ragazzino con la sua tunica bordeaux e la casacca gialla, ci invita ad entrare nella cappella principale, ma non c’è nessuno. Ci conduce ad una porticina sul fondo, entriamo, sono un po’ imbarazzata perché cala il silenzio: c’è un solo monaco anziano, stava pregando, ci invita a sedere a terra, sul vecchissimo legno a quadroni. Cerchiamo di stare zitti, anche se qualcuno, come sempre, non sa dosare il tono di voce. Marino viene ripreso perché si appoggia con la schiena ad un’antica credenza… Il monaco riprende la preghiera con tono costante ed apparentemente inespressivo, ogni tanto suona il tamburo e la campana, assistito da un monaco di una decina d’anni. Vi è un gran profumo d’incenso: chiudo gli occhi e ascolto queste parole per me incomprensibili, ma di intensa emozione. Mi sento in pace. Il bambino fa cadere a terra un incenso che si rompe: l’anziano mi fa cenno di raccoglierlo e mi chiede se si è rotto. Imbarazzata gli dico di sì, lui continua a recitare i suoi versi. Il piccolo monaco, nel frattempo uscito, rientra dalla porta e… si prende una bella lavata di capo per il malefatto… Tutto il mondo è paese! Al termine ringraziamo e salutiamo: sono quasi le 8.00. Camminiamo a valle, due passi, fino al tempietto dove i piccoli monaci vanno a scuola: c’è una lezione in corso… alcuni dei piccoli scolari, intorno ai cinque anni, si lanciano palline di carta, si tirano la tonaca, sghignazzano… i maestri noncuranti, tre o quattro, stanno tenendo un discorso… Del resto i bambini sono bambini, ovunque! Torniamo in albergo a fare colazione. Poi ci disperdiamo a visitare il villaggio sopra il monastero: Elisabetta ed io saliamo lungo lo stretto sentiero in ghiaia, si scivola, bisogna stare attenti. Non facciamo molta strada, saliamo un poco di quota, fino alle prime abitazioni: l’altitudine si fa sentire, siamo a 4.500 metri e mi manca il respiro, mi fanno male le orecchie. L’aria è frizzantina, incontriamo Simonetta, Eleonora e Stefania, le altre ragazze del gruppo, poi arrivano anche Ombretta e Cristiana: tutte le donne sono riunite… manca solo Carla, ma starà scarpinando in un piccolo trekking! Ci fermiamo, è una grande giornata di sole che illumina oramai tutto il monastero, il cielo è blu cobalto, senza nuvole, il panorama è mozzafiato, montagne altissime erose dalla neve e dal vento, canaloni, rocce, la strada che scende e porta alla parte bassa del paese e, in fondo, la vallata verde smeraldo coltivata a grano. Scendiamo e torniamo al monastero: vogliamo visitarlo. Elevato a cavallo tra il 1.200, sorge su uno sperone di roccia in una posizione spettacolare: entriamo dall’ingresso principale e saliamo i gradini del portico affrescato con le figure dei quattro guardiani. Varchiamo la porta della sala di culto, dove siamo già stati qualche ora prima, divisa in tre navate e completamente decorata da pitture e tangke dai vivacissimi colori, in una vetrina sono conservate statue di divinità. La luce entra intensa dalle finestre, tra due di queste un monaco è seduto sopra ad un tappeto rialzato, davanti vi è una fila di banchi rossi: tutti gli arredi sono di questo colore. Sta pregando a voce alta, la sua è quasi una nenia. C’è silenzio assoluto, nonostante all’interno ci sia qualche turista. Mi siedo sul suo stesso tappeto, ma non vicino, mi fermo ad ascoltarlo, non me ne andrei più. Dopo un po’ Elisabetta mi fa cenno che dobbiamo andare, abbiamo ancora poco tempo, quindi saliamo per una stretta scala al piano superiore: c’è una piccola sala, un monaco apre il grosso lucchetto e spalanca il piccolo portale: l’interno è un tesoro! La cappella è vecchia e la struttura, così come il pavimento, sono in legno scuro. I capitelli sono dipinti prevalentemente in oro, poi in rosso, blu e verde con motivi floreali. Sul fondo vi sono alcuni piccoli chorten. Noto subito un tamburo molto bello con due teste di drago sulla struttura: il monaco si accorge che mi piace e mi invita a fotografarlo, ma la stanza è buia: lui è molto carino e non vuole che io rimanga delusa, prende il tamburo e lo porta davanti alla finestra: lo posa sopra uno sgabello, così lo inquadro meglio. Lo sgabello non è molto stabile e… improvvisamente una gamba si piega… preso al volo!! Si mette a ridere… io anche, ma per poco… Alle 11.00 partiamo per raggiungere il campo tendato in cui passeremo la notte, nei presi di DHA-HANU, ma al punto di controllo dei documenti ci dicono che la strada è chiusa: un mezzo militare è precipitato nella scarpata ed è finito nel fiume Indo. Decidiamo di pranzare al sacco in attesa che venga riaperto il passaggio. Con alcuni compagni di viaggio mi fermo dal gommista per sostituire una ruota, mentre il resto del gruppo va nella vicina KHALSI, più che villaggio una postazione militare, a fare la spesa per un pranzo al sacco. Che libidine… Mi lecco già i baffi all’idea di un pasto così succulento! Mentre attendiamo l’arrivo degli altri, cominciamo a scherzare con due sikh, autisti di un colorato camion: Eleonora ed io non troviamo niente di meglio da fare che salire sul tetto per una foto… I due ci guardano divertiti, ma forse penseranno che ci divertiamo veramente con poco… Finalmente si parte, ma poco dopo comincio a stare male, ho un gran caldo, anche se lo sento solo io, un gran mal di testa e nausea, forse l’altitudine. Penso di avere la febbre. Mentre il gruppo mangia sotto alcuni alberi io resto in macchina e, mezza inebetita, mi addormento. Sto veramente a pezzi: prendo varie medicine, il mio pranzo… E pensare che ridevo di quello al sacco! Si riparte, si tenta di proseguire, ma al controllo dei documenti nessun militare sa dirci se la strada sarà riaperta entro qualche ora oppure no. Percorriamo qualche chilometro, poi l’alt. Non ci sono molti mezzi incolonnati, pochi infatti sono stati fatti passare. Scendiamo dalla macchina, tutti guardano giù dalla scarpata. Il camion militare è in fondo, semidistrutto, vicinissimo alle forti correnti delle acque dell’Indo. Ci dicono che l’autista è morto. I militari attaccano il mezzo ad un altro camion con un cavo d’acciaio. Non riescono a tirarlo su, ci sono delle pietre nel suo percorso. Dopo un paio d’ore di manovre e, per noi, di attesa, la maggior parte del gruppo decide di partire a piedi verso il campo tendato vicino a DHA-HANU: ma si sono ammattiti? Io ovviamente mi rifiuto: sto un po’ meglio, ma di camminare ore proprio non se ne parla! Con me restano Carla, Giovanni, Eleonora e Pierluigi. Dopo un altro paio d’ore scarse la strada viene riaperta e possiamo così percorrere i 20 km. Rimanenti: per la strada carichiamo i coraggiosi marciatori e in un’ora raggiungiamo il camp. Le tende sono delle canadesi abbastanza grandi a due posti, ci si può stare in piedi, anche Elisabetta che è alta quasi 1 metro e 90 ci sta. Ma c’è un gran puzzo di cipolle, come mai? Mi guardo intorno, proprio dietro ve ne è un campo intero… Che meraviglia! Riusciamo perfino a farci una doccia con acqua tiepida: meglio di così! Il camp è gestito da alcuni ragazzi giovani molto gentili: ci offrono dapprima il the con i biscotti, poi ci preparano una buona cena. Non fa per niente freddo, siamo in fondo ad una valle, dopo cena ci raduniamo attorno ad un falò, tra le tende, con una grande luna e una stellata indescrivibile. VENERDì 19 AGOSTO DHA-HANU – RIDZONG GOMPA – JULICHEN GOMPA – LEH Sveglia alle 7.00, colazione e partenza alle 8.00 per DHA-HANU: ci accompagna uno dei ragazzi del camp. Parcheggiamo le jeep alla partenza di uno stretto sentiero che attraversa campi coltivati e fioriti, ruscelli, piantagioni di albicocchi: camminiamo circa un quarto d’ora, per me la salita è faticosa, per l’altitudine e soprattutto per la mia riluttanza a praticare sport… Giungiamo alle prime case abbandonate, dopo un po’ al paese vero e proprio, anzi per la verità è un piccolo villaggio. Tutte le abitazioni sono in pietra, perfettamente squadrate come le case che finora abbiamo sempre visto, ma non sono imbiancate a calce: hanno i balconi costruiti con piccole travi di legno e decorati con piante verdi, non c’è una strada, solo il sentiero che continua. Ogni tanto è interrotto da massi o radici di alberi: incontriamo i primi abitanti che ci guardano incuriositi e ci salutano tutti con grandi sorrisi: jule! Contraccambiamo. Sono tutti componenti dell’antica etnia indo-iraniana dei Brokpa, che nonostante viva in zone di religione islamica, ha mantenuto tradizioni e credenze buddiste. Le donne indossano delle tuniche e altre vesti colorate, portano lunghe trecce tipo rasta e dei copricapi con lunghe strisce di tessuto colorato adornati di fiori freschi. A dire la verità alcune hanno lievi baffi e barba, diciamo che sarebbero un po’… mascoline per i nostri canoni! Ci sono molti bambini che ci spiano dalle finestre e dalle porte delle case. Incrociamo uomini con immensi fasci di erba e frasche sulle spalle, altri intenti a costruire non si capisce bene cosa, la comunità è piccola ma attiva, alcune donne si lavano o lavano pentole al ruscello. Il ragazzo del camp che, guarda caso, è il maestro della scuola, ci invita dapprima a visitare la sua casa: saliamo per una scala buia e arriviamo quasi direttamente in cucina dove sua moglie, una giovane ragazza molto carina, è intenta a riordinare le stoviglie. Le ripone sopra ai piani di una credenza, con molto ordine, tutte ben allineate: sembra molto fiera del suo regno… Seguiamo alcuni bambini in divisa: chiediamo loro dov’è la scuola, visto che alle 10.00 cominciano le lezioni. Iniziamo la scalata di una lunga serie di gradini in cemento, lentamente arriviamo in cima alla collina che domina il paese: l’edificio basso sorge lì, in fondo ad uno spiazzo. I bambini sono molto incuriositi da noi e quando arriviamo ci battono le mani, urlano “Big teacher, big teacher” spalleggiati ovviamente da Carla e Giovanni… E da chi se no! Ce ne sono di tutte le età e sono tutti in divisa: pantaloni grigi e camicia azzurra. Gli abiti sono sporchi e consunti, fanno veramente tenerezza questi piccoli scolari; i tre più piccoli hanno abiti normali e un’aria dispersa, osservano attentamente quello che fanno i più grandi e cercano di copiare. Il maestro li fa disporre in quattro file, dai più piccoli ai più grandi, cominciano a pregare, poi recitano dei versi, forse sono poesie, forse no, poi cantano varie canzoni, alla fine intonano anche “Nella vecchia fattoria”: non ci posso credere! Poi l’insegnante passa in rassegna i loro quaderni, uno ad uno. Sono bellissimi questi piccoli, direi commoventi con le loro vocine e il loro sguardo un po’ malinconico e un po’ felice. Rimaniamo fino alla fine, quando entrano in classe: è il momento di andarcene, sono le 11.00 e ripercorriamo il sentiero in mezzo agli orti e agli albicocchi, che abbandona questo mondo isolato e ci riporta alle auto sulla strada principale. La percorriamo a ritroso, ripassiamo per KHALSI e ci fermiamo a mangiare in uno dei ristorantini sulla strada principale, in mezzo a un traffico e ad uno smog pazzeschi: il posto è veramente spartano, inizialmente tiro un po’ su il naso, ma non ci sono alternative. Sorpresa: per due soldi mangiamo uno dei pasti più buoni del viaggio, i fagioli neri in salsa di pomodoro piccante sono eccezionali, e poi c’è la birra! Proseguiamo per il monastero di RIDZONG, dove arriviamo alle 15.00. Questo gompa sorge in una posizione spettacolare poiché è contenuto in una nicchia di roccia nella montagna e la sua struttura si innalza ripidamente verso l’alto. I colori sono molto belli: gli edifici sono bianchissimi di calce, tutte le finestre e i cornicioni dei tetti hanno fasce di rami di ginepro accuratamente sovrapposti e ben dipinti di un rosso-vinato e tessuti di colore giallo-oro sventolano sopra le finestre superiori. Pennoni con bandiere e bidoni in latta dipinti, caratteristica di tutti i monasteri, si allungano verso il cielo blu. Lasciata sulla destra una grande e variopinta ruota della preghiera con un tetto coloratissimo a motivi floreali, passiamo sotto una grande bandiera di “welcome” e giungiamo al primo edificio: un monaco ci offre il the di benvenuto e ci fa un po’ di domande su di noi. Cominciamo la faticosa salita verso i vari edifici del complesso, costruito su molti livelli. L’interno delle cappelle non è molto differente da altre già viste, la cosa bella di questo luogo sicuramente è l’insieme della struttura e i suoi colori. Varchiamo una piccola porta, Stefania, Pierluigi ed io, è la stanza di in monaco anziano, è molto piccola ed angusta, in fondo alla parete c’è un letto basso, lui vi è seduto sopra a gambe incrociate e ha davanti un panchetto con dei libri ed un incenso. Prega. Ci invita ad entrare e ci fa accomodare a terra, vuole che io mi sieda di fianco a lui, così faccio. Ci offre il famoso latte salato di yack in una piccola ciotolina decorata: è un po’ denso, un po’ salato, sa di burro, non è di certo buono, ma ha un sapore particolare. Non so dire se mi piace, ma lui è così felice per questo regalo… Continua a pregare, rimaniamo in silenzio ad occhi chiusi, c’è una pace immensa… Anche questa volta purtroppo dobbiamo andare, penso che a volte in questo viaggio si corra un po’ troppo… ma devo adeguarmi, del resto la scelta di parteciparvi è stata mia. Scendo per la lunga scalinata fino alle macchine, ripartiamo, ma ci fermiamo subito dopo: siamo già al monastero femminile di JULICHEN dove c’è una scuola per monache provenienti anche da zone molto lontane, possono tornare a casa soltanto ogni due anni. E’ un posto un po’ triste, direi essenziale. Ci sono solo due monache anziane con i capelli quasi rasati e grigi che, nella tipica veste bordeaux, appena ci vedono sospendono la loro attività di essiccazione di albicocche e si siedono su delle assi in legno: giocano con due gattini e non vogliono essere fotografate. Il cortile è molto disordinato e sporco, il monastero non mi dà l’idea di pace, ma di malinconia. Visitiamo una cappella, ma è nuova, arredata con mobili che sembrano plastificati, la solita atmosfera non si percepisce neanche lontanamente. Esco subito. Con pochi del gruppo arriviamo alla classe, dove poco meno di una decina di bambine con i capelli rasati sta seguendo una lezione di matematica. Su pochi fogli di quaderno scrivono le tabelline dall’1 al 10: mi siedo di fianco a una di loro, si gira e mi guarda, mi accorgo che fa un errore, 9×3=24, glielo indico. Inizialmente sembra non fidarsi, ma anche Pierluigi insiste, allora un po’ titubante corregge, 27, poi ci sorride… la maestra ci guarda, ma non la riprende. Decidiamo di ripartire, abbiamo ancora parecchia strada da fare fino a LEH. Vi arriviamo alle 19.00, finalmente siamo al Ri-Rab, ci sembra di essere tornati a casa! Prendiamo le stanze, che a forza dell’abitudine sembrano anche più carine, doccia e poi cena al ristorante Tibetan Kitchen: dicono sia il migliore della città, infatti per trovare posto abbiamo prenotato due giorni fa, merita veramente e ci mangiamo un’ottima cena, io come sempre indiana. In generale nei ristoranti di Leh ci sono tre menu: indiano, tibetano e cinese. Qualcuno propone la pizza, ma è un’esperienza che consiglio solo a chi è alla… disperazione! A me è capitato… SABATO 20 AGOSTO LEH – KHARDUNG LA (5.606 MT.) – NUBRA VALLEY: HUNDER GOMPA – DESKIT GOMPA – SUMUR (CAMP) Oggi ci aspetta un tragitto personalmente temuto: l’attraversamento del KHARDUNG LA (5.606 MT.), il passo carrozzabile più alto del mondo, per raggiungere la NUBRA VALLEY. Sono preoccupata perché l’altitudine è molto elevata e, dato il mio possente fisico sportivo, non so come reagirò… Partiamo in una limpida giornata di sole: la strada esce a nord di LEH e attraversa per un pò villaggi tra coltivazioni a terrazza di un verde brillante e abitazioni di contadini nella vallata punteggiata qua e là da qualche albero di pioppo. Poi si comincia a salire e la vegetazione cambia, il paesaggio si fa brullo fino a diventare sassi e roccia. La strada si addentra nella valle e sale velocemente di quota, non incontriamo molti mezzi di trasporto, ogni tanto superiamo qualche camion o qualche macchina. Cominciamo una serie di sorpassi direi un po’ rischiosi… Panico! Sotto di noi si apre il burrone… Proprio per questo motivo ho studiato con molta cura la scelta dell’autista di oggi: ho voluto assolutamente il migliore, non certamente Gasolio, il peggiore dei nostri drivers, non so come si chiami, ma è il più mite, tranquillo e sorridente e in più gli piace ascoltare musica! Il panorama è veramente affascinante, oltre LEH si vede all’orizzonte una catena montuosa con le cime più alte ricoperte di neve, saranno circa quota 8.000, la vetta si avvicina, cominciamo ad incontrare chiazze di neve… grigia per lo smog! Ci fermiamo più di qualche volta per fare foto, Carla e Giovanni mi fanno ridere con i loro dialoghi, lei vuole avere sempre ragione, lui ogni volta deve soccombere, ma lo fanno in modo simpatico… Ogni sosta respirare è più difficile, ogni movimento pesa molto. Arriviamo sul passo del KHARDUNG LA alle 12.00: fa freddo, ma non freddissimo, siamo in giacca a vento. Il luogo è abbastanza squallido, ma proprio per questo affascinante: una fila di mezzi è in attesa, qualcuno a motore acceso (e posso assicurare che nessuno usa benzina verde…), di ottenere il permesso per transitare e scendere nella vallata opposta. I camion Tata sono bellissimi, con la cabina decorata da disegni e bandierine di tutti i colori, scritte, festoni argentati e dorati (a dire la verità un po’ natalizi), foto di monaci e del Dalai Lama, ognuno diverso dall’altro, e poi corriere stracariche di bagagli, jeep e camion militari, furgoncini. Di donne neanche l’ombra, la maggior parte sono militari e vogliono fare una foto con noi… Simonetta ed io li accontentiamo subito! Uno di loro fa la guardia a una casetta di cemento al cui interno sono contenute statue di Buddha e oggetti sacri, altri parlano tra loro, complottano, qualcuno guarda verso l’orizzonte. A parte qualche cartello arrecante il nome del luogo, vi è un grande spiazzo, bidoni d’olio depositati e impilati qua e là, un accampamento militare, un casottino che funge da bagno e nient’altro. Un po’ più in alto vi è un tempietto straripante di bandierine colorate di preghiera, tendenti al grigio-smog, che proseguono per qualche decina di metri sulla roccia. Voglio arrivare lì! Scendo dalla macchina, faccio tre passi e sono già sfinita, manca veramente l’ossigeno, ogni movimento costa un’incredibile perdita di energie, di fatica, faccio cinquanta metri e ho il fiatone. Cerco di salire al piccolo tempio, ma non ce la faccio proprio… mi gira la testa e non respiro, in più rimango sospesa tra due sassi e non riesco né a proseguire né a tornare indietro: che imbranata! Il panorama è sensazionale, cime altissime e ghiacciai svettano all’orizzonte: è la catena del Karakorum, i famosi 9.000! Risalgo in macchina, ho bisogno di riposarmi , mi godo questo strano posto, ancora pochi minuti perché alle 13.00 si parte, possiamo transitare. Scendiamo dall’altro versante percorrendo una strada per lunghi tratti sterrata e strettissima, fortunatamente non incrociamo nessuno, sì, perché il transito del passo per metà giornata è aperto solo in una direzione, per l’altra metà nell’altra. La strada fa un po’ paura, soprattutto perché i nostri autisti superano al limite del precipizio ogni mezzo più lento, ogni tanto vediamo in vari punti del pendio resti di mezzi usciti di strada e sfasciati sulle rocce, carchi sparsi a fondo valle, un pulmino distrutto. Il nostro autista ci dice che qualche anno fa ci sono morti 10 turisti tedeschi, sono usciti di strada… Incoraggiante! Ad un certo punto incontriamo i primi yak, o forse non lo sono, sono solo un incrocio: ci fermiamo per fotografarli, gli andiamo incoscientemente vicino, Giovanni vuole a tutti i costi scattare un primo piano, grida “yakyakyakyak!!!”, ma non viene capito… sono dei bestioni enormi, tutti neri con il pelo mosso, qualcuno ha il mantello anche bianco e hanno delle grandi corna, ci fissano, non sono molto rassicuranti… Io francamente mantengo la distanza di sicurezza! Scendiamo ancora di quota ed arriviamo ad una zona di accampamenti militari, vi sono molti mezzi fermi lungo la strada, ed anche due “ristorantini” se così si possono chiamare. Ci beviamo del the speziato con biscotti seduti sotto ad un tendone. Ci sono anche altri turisti, è l’unico luogo di ristoro in ore di marcia, il tavolo è sporco, in legno rovinato, al centro vi è un barattolo di latta con della terra dentro. Sono piantati dei chitchissimi fiori in plastica fuxia, rossi e gialli, un capello penzola dal vaso…, arriva un monaco e si siede con noi, è contento. Ripartiamo, arriviamo ad un punto panoramico:la NUBRA VALLEY si apre davanti ai nostri occhi, il paesaggio è strabiliante. Tra montagne altissime che scendono a picco si apre una valle perfettamente piatta, con il fondo in sabbia che in alcuni tratti si trasforma in dune. Vi scorrono il fiume Nubra e il fiume Shyok che proprio qui si uniscono e diventano un unico corso d’acqua di colore marroncino, identico a quello della sabbia. Laddove vi passano dei ruscelli, improvvisamente sboccia la vegetazione, tratti di verde intenso sorgono all’improvviso, coltivazioni di cerali e piantagioni di frutta, fitte piccole foreste, villaggi che sembrano delle miniature, casette cubiche tutte bianche. Ci fermiamo lungo la strada, anche perché Gasolio guida talmente male che ha rischiato già due incidenti frontali con camion e Guido è costretto a dirgliene quattro! Il minimo visto che Elisabetta e gli altri occupanti della jeep se la sono fatta addosso (per modo di dire) dallo spavento! Dopo un consulto tra i quattro autisti, che chissà quante ce ne stanno dicendo dietro, arriviamo al villaggio di KHALSAR, a 3.500 metri di quota, ci fermiamo per il pranzo anche perché siamo proprio affamati. Vi sono dei negozietti che vendono jeans e pantaloni militari, vediamo dei soldati sikh con gli scarponi da sci ai piedi… ci chiediamo se vivono veramente sulle nevi in attesa di chissà quale battaglia sul vicino confine Pakistano e che cosa ci stanno a fare, cosa aspettano e per quanto tempo. Dopo pranzo percorriamo la valle fino al monastero di HUNDER che in realtà non è proprio niente di che, anzi in confronto ai precedenti non mi dice proprio niente. Vi sostiamo mezz’oretta: siamo al confine, vi è un ponte, oltre a questo nessuno può proseguire, qui all’evenienza si combatte. Sì proprio l’assurda e infinita guerra di confine tra India e Pakistan. E’ pieno di soldati, di caserme, di accampamenti militari. Dopo una breve sosta alle piccole dune di sabbia per vedere quattro sparuti cammelli bactriani dal pelo lungo, andiamo a visitare il monastero di DESKIT, molto suggestivo. Sorge all’interno di una valletta rocciosa, su di uno spuntone, ha 350 anni ed è il più grande e antico gompa della NUBRA VALLEY. Alla base della salita vi sono molti bambini monaci: stanno dipingendo la cancellata di un nuovo edificio e… Giovanni fa ovviamente amicizia con loro! Il monastero sorge su vari livelli e per raggiungerli si salgono una serie di ripide scale: poco sopra vi è la cappella principale, molto buia con i suoi interni di colore rosso. Fuori dal portale un restauratore nordeuropeo con i capelli ricci e rossi sta restaurando un affresco. Saliamo al livello superiore, vi è un piccolo spiazzo con al centro un alberello: si entra in un’altra sala, ai lati dell’ingresso vi sono altri vivaci affreschi dall’aria abbastanza recente. E’ il panorama al tramonto che fa grande questo luogo: le terrazze ordinate, un monaco che suona la conchiglia, il silenzio assoluto, i pinnacoli in ottone adornati con tessuti arancio vivo, il contrasto del verde della vallata attraversata dal fiume ai suoi piedi, la roccia e i precipizi alle spalle, l’illimitatezza degli spazi. Riprendiamo il cammino, torniamo indietro di alcuni chilometri e prendiamo la direzione di SUMUR, lungo il fiume Nubra, luogo in cui è situato il nuovissimo campo tendato Kaygar Camp dove passeremo la notte. Sorpresa! Il camp è aperto soltanto da 10 giorni, le tende sono molto grandi e belle, direi nuove, ci si starebbe comodamente in quattro, ma sono da due. Un lusso! Oltre ai letti ci sono pure dei tavolini d’appoggio, a terra vi è una grande stuoia, insomma direi bene. I bagni sono vicino all’ingresso del camp, sono delle piccole tende in fila, ognuna con una doccia o con un wc. All’esterno si trovano i lavandini, sono in acciaio, molto di design! Il ristorante è costituito da una grande tenda arancione, il cuoco dev’essere esperto perchè la cena è molto buona, mangiamo perfino il dolce. Poi ci ritiriamo a dormire, non fa neanche molto freddo: al di là di ogni mia pessimistica previsione! Non rimpiango nemmeno il nostro Ri-Rab Hotel! DOMENICA 21 AGOSTO SUMUR – NUBRA VALLEY – KHARDUNG LA (5.606 MT.) – LEH Sveglia con calma oggi, finalmente. La partenza è fissata per le 11.00 perché tanto al passo prima delle 13.00 non si può transitare. Facciamo più o meno tutti insieme colazione all’aperto anche se in effetti fa freschino: ci scaldiamo al sole… Il gruppo decide di andare in visita ad un monastero abbandonato a circa 20 minuti di cammino, ma io sono stanca di gompa, anche perché questo non è nemmeno menzionato nelle guide. Con Elisabetta, Pierluigi e Gabriele decidiamo di rimanere al camp stravaccati su comodissime sedie in plastica…: dall’inizio del viaggio non c’è mai stato un momento di pausa e non ci sembra vero! Io e Betta, che nostro malgrado siamo le cassiere del gruppo, dobbiamo anche aggiornare la cassa e ne approfittiamo… Alle 11.00 il gruppo rientra e subito dobbiamo partire per tornare a LEH. Sempre per fare arrivare le 13.00, sostiamo durante il tragitto nel medesimo villaggio militare dell’andata, medesimo “ristorante” deluxe: ci mangiamo una noodles soup squisita e ci beviamo un altro the speziato ad un prezzo irrisorio: 300 rupie per tutto il gruppo, mentre accanto a noi un cane si beve di gusto l’olio di una scatoletta di tonno di Pierluigi…
La strada sterrata percorsa in salita è ancora peggiore, si sale molto lentamente: giungiamo nuovamente al KHARDUNG LA, oggi è domenica ed il passo è deserto a parte gli immancabili mezzi militari ed un eroico ciclista europeo con la sua mountain bike. Scendiamo dalle jeep solo per la foto di gruppo: oggi fa veramente freddo, il cielo è coperto e sta cominciando a nevicare: ma chi ce lo fa fare? Ripartiamo immediatamente. A mano a mano che scendiamo la temperatura cresce e compare il sole: arriviamo a LEH che ci sono 30 gradi, incredibile! Il mio stato di salute va a nozze con questi sbalzi climatici, sono allo stremo. Guido va in agenzia da Mehraj poiché abbiamo deciso che, durante gli ultimi tre giorni di viaggio in cui saremo a DELHI, andremo fino ad AGRA per poter vedere il tanto decantato Taj Mahal, con estensione a FATEHPUR SIKRI: riesce a parlare con Sanjeev che ci organizzerà la permanenza. Siamo infatti preoccupati per i 45° che in questi giorni ci sono nella capitale e vogliamo assicurarci un pulmino ed un hotel con l’aria condizionata.
Cena al Tibetan Kitchen, ma sto così male che non riesco a respirare e stare seduta diritta, voglio andare a dormire prima possibile! LUNEDì 22 AGOSTO LEH – HEMIS GOMPA – THIKSEY GOMPA – STOK PALACE – LEH: TSEMO GOMPA Oggi abbiamo in programma la visita di altri monasteri della valle dell’Indo non lontani da LEH, sono gli ultimi di questo viaggio, i più importanti e in assoluto i più gettonati dal turismo. Alle 8.30 partiamo dal Ri-Rab e dopo un’ora di jeep siamo all’HEMIS GOMPA (43 km. Da Leh), fondato all’inizio del XVII secolo e situato in fondo ad una verde valletta coltivata a grano, tra cui la strada si snoda con ampi tornanti. Giunti al villaggio, composto da una cinquantina di case, parcheggiamo davanti a questo grande parallelepipedo bianco con finestre e poggioli in legno marrone-bordeaux e saliamo una larga scala in pietra sulla destra: passiamo sotto ad un portale ed entriamo. Veramente grandioso! Questo monastero è maestoso, mi posso solo lontanamente immaginare come può essere nei giorni di svolgimento del Festival, pieno di gente e di colori!!! Ci troviamo in mezzo al grande chiostro con quattro pennoni in fila al centro: a destra si innalza la grande facciata del convento, mentre lungo gli altri due lati si erge un porticato a due ordini, quello inferiore è ornato da dipinti di maestri del 17° secolo. Già dalla facciata è facile comprendere che è un luogo esagerato, di colori, atmosfera e religiosità… Simonetta avanza tra i gradini e le colonne, con la sua macchina fotografica, scatta, non si perde un particolare, qui ci si può veramente scatenare! Ovviamente nemmeno io perdo l’occasione!!! La prima scalinata sulla destra conduce al vestibolo del primo tempio, le colonne e il timpano sono dipinti con motivi floreali e un volto sacro, il blu cobalto è il colore preponderante, gli affreschi sulle pareti sotto al piccolo porticato sono meravigliosi, coloratissimi e perfettamente conservati, il portale è aperto: ci togliamo le scarpe e varchiamo la soglia. All’interno vi sono dei monaci intenti a riordinare gli oggetti sacri, lo spazio è grande, le colonne dipinte in marrone, file di panche coperte da tappeti sulle tonalità del rosso, banchetti con libri delle preghiere aperti, un tamburo: il loggiato del secondo livello è circondato da una collezione di tangke sovrapposti a un unico drappo di tessuto giallo. Grandioso! Imponente! Magico! Tutto intorno le pareti sono affrescate con scene religiose minuziose di particolari e colori brillanti e definiti, blu, verde, giallo e ovviamente rosso. Usciamo da questo tempio e, in fondo al cortile, saliamo la seconda scalinata con colonne dai timpani dipinti in modo chiassoso e, ai lati, oltre due ruote della preghiera, vi è un bellissimo affresco della ruota della vita. Entriamo nel dukang pagpa: la sala è più buia della precedente, ma più la osserviamo più ci accorgiamo che è straordinaria. Siamo invitati da un monaco giovane a sederci vicino a lui, ci fa mille domande su di noi, vuole conoscerci. Come al solito io non capisco una mazza d’inglese e mi limito ad ascoltare… come mi sento stupida!!! Al centro della sala, posto tra quattro grezze colonne in legno dipinte di rosso, vi è uno stupendo chorten d’argento preceduto da un grande Buddha in rame dorato, seduto e coperto da una veste in seta arancio e motivi floreali: alla base una fila di sciarpe in seta, lampadine multicolori, piccole ciotole in ottone e un vasetto di fiori in plastica completano il quadro… direi immancabili! Sulla destra è posizionato un gruppo di statue in rame dorato, argento e legno di diverse grandezze, mentre lungo la parete vi è una splendida biblioteca in legno rosso, verde brillante e disegni dorati, all’interno della quale sono contenuti diversi libri antichi di preghiera ricoperti da tessuti arancio, giallo e senape e vi sono cuciti piccoli pezzi di tessuto multicolore ricamato: sono veramente preziosi, li fisso a lungo, sono magici e non riesco a staccarmi…! L’atmosfera di questo tempio è intensa, passerei ad HEMIS una giornata intera. Saliamo ai piani superiori tra corridoi e strette scale, pianerottoli che si affacciano sulle balconate del chiostro finchè arriviamo sul tetto, come sempre a diversi livelli con i grandi pennacchi in latta colorata e ottone che brillano al sole: la vista sul villaggio è ariosa, l’aria è secca e frizzante, ne approfitto per un gran fresco respiro! La visita dura fino alle 11.00, mi arrabbio, mi mancano da vedere ancora un paio di sale, le vedo velocemente perché il gruppo sembra si sia iscritto ad una gara di velocità ed è già in strada che aspetta. E quando arriviamo, ci guarda anche male… siamo i soliti ritardatari, io, Pierluigi, Gabriele, Stefano, Gaetano e Simonetta! Partiamo per il monastero di THIKSEY (20 km. Da Leh), costruito nel XV secolo, è un gompa tra i più ricchi del Ladakh e sorge sulla sommità di una collina di roccia che degrada verso il basso fino ad un campo di girasoli e fiori rosa: veramente pittoresco! Poco dopo l’entrata si arriva ad una cappella nuova di zecca e, francamente non ne comprendo il motivo, ma il gruppo sembra particolarmente rapito del luogo… Ne approfitto per guadagnare tempo ed entro nel complesso principale: all’ingresso vi è una grande ruota della preghiera ed un bambino monaco la fa girare, ci si aggrappa e ci gioca. La fa ruotare anche in senso antiorario, quindi opposto, e si prende le sue da un monaco adulto… Elisabetta ed io sorridiamo, fa tenerezza. Il chiostro del convento ha, sulla sinistra, un portico completamente affrescato con immagini sacre dai colori giallo, beige, marrone e blu cobalto, mentre sulla destra, proprio di fianco all’ingresso, parte una scalinata in cemento che arriva al tempio dedicato a Maitreya nel cui interno, suddiviso in tre piani, troneggia una colossale statua di Buddha alta 14 metri. Questo ambiente è relativamente recente ed è molto luminoso per la presenza di parecchie finestre: gli affreschi alle pareti sono molto brillanti, così come le decorazioni sul copricapo e sull’abito della statua. Nonostante questo il fascino non si perde. Lascio questo tempio, scendo le scale e attraverso il chiostro: vedo Pierluigi che sbuca da una stretta scala e mi fa cenno di seguirlo sulle terrazze superiori… Cosa ci sarà? Arrivata sul tetto dopo una lunga sfacchinata, fortunatamente il gruppo deve ancora arrivare, c’è solo un monaco che sta tracciando un disegno per comporre un mandala. Vi sono due piccoli porticati molto vecchi con colonne e timpani dipinti sempre con colori vivaci, ma oramai consunti. Quello di destra, con porta e finestrelle bordate di nero, è chiuso, ma da fuori sembra parlare da solo della sua storia, non capiamo se è stato annerito da un principio di incendio o se è solo il tempo che passa… Il tempietto di sinistra ha l’interno buio: vi entriamo abbassando la testa e ci sediamo su di un pavimento in legno pluricentenario: piano piano gli occhi si abituano, non è poi così buio, arriva anche Simonetta: siamo rapiti dall’atmosfera di questo piccolo tempio dedicato a Maitreya: sulla parete di fondo color senape vi è una statua del Buddha futuro al centro, seduto su di un basamento affrescato, mentre ai due lati vi sono due raffigurazioni di Tsongkapa seduto a gambe incrociate. Questa piccola sala è un vero tesoro: sulle pareti laterali vi sono una raccolta di libri delle preghiere, accuratamente avvolti in drappi arancioni e schedati con enormi e orribili etichette di carta bianca, e una formidabile serie di piccoli buddha in oro, ognuno diverso dall’altro, vestiti con drappi anch’essi arancio. Sono bellissimi, li osservo una ad uno, la forma dei volti, degli occhi, sembra ci guardino. A dirla tutta me ne porterei via uno! E’ veramente uno dei luoghi più toccanti del viaggio, l’atmosfera, il senso di pace, di autentica spiritualità… Rimaniamo per un bel po’ in silenzio, poi mi viene il dubbio che forse è tardi, come sempre! Esco, mi rimetto le scarpe, guardo per l’ultima volta la cappella e scendo le scale. Mi fermo nel dukang, in fondo al vestibolo vi è una grande ruota della vita, poi i re guardiani: ancora una volta sono affreschi bellissimi, conservati molto bene. Varco la soglia, sulle pareti sono dipinte una serie di divinità terrificanti, mille gambe e braccia, nove volti, undici teste… Tutta la sala è circondata da statue e tangke, altre statue di Buddha si trovano nel piccolo oratorio posteriore: sono tutte dorate, decorate e ricoperte da drappi in seta, il riflesso delle lampadine sulle superfici è abbagliante, sono in mezzo ad un tesoro! E’ tardissimo, esco dal monastero. Spero non mi abbiano lasciato a THIKSEY!!! All’ingresso il gruppo ci sta aspettando, arrivo insieme a Gabriele, Stefano e Gaetano, manca solo Pierluigi: i commenti del gruppo “vedi tutto molto in fretta e vai” sono un po’ pesanti: sto veramente cominciando a scocciarmi! Fortunatamente è l’ultimo giorno che trascorriamo nei monasteri, solo uno in più e sarebbe successo un macello… conoscendomi! Dopo la sosta pranzo andiamo al palazzo reale di STOK (17 km. Da Leh) costruito come residenza dei regnanti del Ladakh, tanto decantato nelle guide, ma francamente un vero orrore. Il premio di migliore schifezza lo vince l’edificio costruito subito prima, dove si lasciano le jeep. All’interno ci sono degli operai che stanno imbiancando tutto quello che trovano davanti al pennello: c’è puzza di vernice, sembra una baita montana tirolese tirata a nuovo, non c’è sapore, non c’è storia. Il museo è veramente triste, vi è qualche bel pezzo, ma il top viene raggiunto dalla serie di animali imbalsamati e impagliati in modo un po’ naif… Sembrano dei mostri spaziali! Orrore! Non vedo l’ora di andarmene. Che tristezza! Tutti concordi nel giudizio ce ne scappiamo velocemente. Torniamo relativamente presto a LEH e alcuni di noi tra cui io, non ancora stanchi, ci facciamo portare dai nostri autisti allo TSEMO GOMPA, costruito nel 1.430, che domina la città e tutta la campagna circostante con la sua lunga fila di bandierine colorate che taglia il cielo blu. Il simbolo di LEH! Mi piace questo posto, l’aria è fresca, il panorama è fantastico, si ode un battito di tamburi provenire dalla città. Cosa sarà? All’interno del piccolo tempio, che troviamo aperto, è custodita una grande statua di Buddha alta una decina di metri, dorata, con una veste rossa e verde. Poco sotto vi è il LEH PALACE, che non visitiamo, poichè versa in cattive condizioni ed è pericolante: francamente penso che sia più bello dall’esterno, il suo stato gli conferisce un’aria di mistero. Torniamo in albergo, dobbiamo preparare i bagagli: domani si parte per la zona dei laghi e sarà una giornata dura e pesante. Anche perché oramai ho il colera che non accenna a passare, devo assolutamente tornare in farmacia!!! MARTEDì 23 AGOSTO LEH – TSOMORIRI LAKE – KORZOK (CAMP) Partenza alle 7.00 per TSOMORIRI; la strada è lunga, ci fermiamo in un paesino in cui ci vengono controllati i documenti ed i permessi, una malandata corriera carica di locali stipati al suo interno parte poco prima di noi, vi sono dei negozietti che vendono biscotti e patatine, facciamo rifornimento di cibo per il pranzo anche se in realtà queste patatine indiane al gusto di cipolla, peperoncino e curry fanno veramente schifo e per digerirle ci vogliono due giorni… Ci danno il permesso di passare e imbocchiamo una strada difficile, piena di tornanti, tra rocce, corsi d’acqua, e salendo di quota, vaste praterie verdi delimitate da colline lisce o rocciose, villaggetti sparsi qua e là: le case non sono più tirate a calce, sono in pietra e tutte molto basse, ad un livello. Qui d’inverno nevica molto. A pranzo ci fermiamo in un prato di fianco ad un ruscello: tra cani e capre mangiamo quello che abbiamo comperato la mattina, è un pranzo nature: al sole fa caldo, ma appena una nuvola lo copre, fa veramente freddo. Dall’altra parte della strada vi sono cinque o sei case in pietra. È un piccolo villaggetto autosufficiente: dietro alle case ci sono i campi coltivati, un signore anziano è al lavoro. Dalla strada arrivano altri due uomini con il tradizionale abito color vinaccia: ci guardano dubbiosi, poi entrano in casa e chiudono la porta. Non vediamo donne. Proseguiamo e lungo la strada aumentano i prati verdi, in mezzo qualcosa si muove: guardiamo bene… ma sono marmotte! Una, due, tre, dieci, di più, sono tantissime! Prendono il sole, sono molto attive dopo il letargo invernale, ma hanno paura di noi e scappano lontano dalla strada. Lungo i pendii delle dolci colline, cha hanno preso il posto delle impervie montagne, vediamo qualche tenda di pastori nomadi: sono i Khampa, d’estate spostano le loro greggi di capre, mucche o yak da un pascolo all’altro, vivono in grandi tende mobili, mentre d’inverno si stabiliscono in capanne di mattoni. Un po’ alla volta la strada peggiora, giungiamo al passo di NAMSHANG LA dove, a 4.750 metri di altitudine, al sole ci sono 33°! La strada ora è in condizioni pessime e si procede con lentezza su di una pista sterrata. Dalla cima di una collina scorgiamo un lago: siamo arrivati! Non è vero, è solo il THADSANG KARU LAKE, dobbiamo portare ancora pazienza… Almeno il paesaggio è meraviglioso, quasi piatto e di colore tendente al giallo senape, la terra è brulla, c’è poca vegetazione, si vedono montagne con la cima innevata, ma sono poco più in alto di noi, l’aria è rarefatta, c’è un silenzio irreale. Ci fermiamo qua e là per scattare delle foto, ogni tanto incontriamo mucchi di pietre ricoperti di coloratissime bandierine della preghiera, muoversi torna ad essere faticoso, come qualche giorno fa. Procediamo per la pista, dobbiamo andare piano, la jeep sobbalza, cominciamo ad essere tutti stanchi di stare in macchina, anche se per questi luoghi ne vale la pena. Finalmente alle 16.00 giungiamo allo TSO MORIRI, il posto è spettacolare, le acque del lago prendono i colori delle colline circostanti, vicino alla riva l’acqua è addirittura viola e Marino, da buon genovese, in tenuta da spiaggia come ogni giorno, ne approfitta per entrare in acqua fino al polpaccio: credo sia veramente gelida, ma questo non sembra affare suo… Mi fa ridere Marino. Il lago, a oltre 4.000 metri di quota, misura 128 km. Per 8 di larghezza ed è circondato da dolci colline dorate: il cielo comincia ad annuvolarsi e ho dei brividi di freddo. C’è molto vento. Arriviamo al campo tendato subito oltre il villaggio di KORZOK, dopo aver esibito nuovamente i documenti, il nostro è l’ultimo di una serie di tende piantate a zone.
Il villaggio è piccolo, sulla riva del lago, non vi sono strutture turistiche, qui si dorme solo in tenda e non vi è possibilità di tornare a LEH in giornata. Prendiamo possesso delle nostre “abitazioni”, sono abbastanza grandi, ma vecchie. Le cerniere sono rotte ed entrano spifferi ovunque: la tenda si muove per il vento, mi vesto con tutto quello che ho, maglione di lana, pile, giacca a vento ed esco. Fa già freddo nonostante sia solo pomeriggio, il gruppo quasi al completo decide di fare una passeggiata in riva al lago, io propenderei per camminare all’interno della valle, voglio raggiungere il villaggio di nomadi ad un’ora e poco più di cammino dal camp, ma nessuno vuole venire. Parto da sola, ma comincia a fare un po’ buio, incrocio ogni tanto uno o due uomini che scendono da chissà dove, cammino per tre quarti d’ora, ansimo perché manca l’ossigeno, sono stanca e spossata non mi sento tranquilla in questa valle desolata da sola, l’accampamento non si vede, superata una curva in fondo ce n’è un’altra e poi un’altra ancora. A malincuore decido di tornare, sono dispiaciuta. Decido con Pierluigi, rimasto al camp, di arrivare a piedi fino alla riva del lago, piano piano poiché manca il respiro, mi volto, il villaggio di KORZOK sembra un presepe, tutto in pietra con le sue casette basse, il suo monastero bianco, qualche fiammella accesa, donne nomadi con i loro abiti colorati e le teste ricoperte da foulard, il prato davanti e vicino l’acqua, vorrei andare a visitarlo, ma è troppo tardi. Torniamo in fretta perchè sta facendo buio, lavarsi è impossibile, l’acqua è gelata, lo faccio un po’ a pezzi, per il resto con salviettine umidificate, tremo dal freddo. Simonetta sta molto male, ceniamo nella tenda-ristorante alle 21.00 perchè prima è il turno di un altro gruppo di AnM e tutti insieme non ci si sta. Mangiamo malissimo, ci hanno preparato perfino la pizza, ma la pasta è stata cotta al vapore ed è… cruda! Apprezziamo lo sforzo. Il vento si alza, andiamo a dormire presto, mi metto maglietta, due maglio di lana, un pile, la giacca vento, due coperte di lana sotto, sul materasso, entro nel mio sacco a pelo-bozzolo da ghiacciaio, ne metto sopra un altro, ci aggiungo una grossa coperta, ma tremo di freddo tutta la notte. Comincio ad incazzarmi, mi sembra un incubo. Ma ne vale la pena? Domani mattina presto si riparte già! MERCOLEDì 24 AGOSTO KORZOK – TSOKAR LAKE – TANGLANG LA (5.360 MT.) – LEH Alle 8.00 si parte da KORZOK per il duro viaggio di ritorno ed è veramente duro perché ho le ossa ghiacciate e doloranti dalla notte insonne, una tosse ed un raffreddore che non smettono più, la strada non esiste e per parecchi chilometri è solo una pista che, talvolta, si disperde in distese di terra e sassi e diventa invisibile ai nostri occhi. Dobbiamo procedere molto lentamente tra dolci colline d’alta quota e distese piatte ed infinite in tutte le tonalità del beige. Grandioso: dopo un paio d’ore su per giù arriviamo alla strada sterrata: almeno così l’andatura un po’ aumenta…! Giungiamo ad un villaggio con poche case bianche e basse, i tetti come sempre piani, ma questa volta spogli, muri in pietre piatte ammucchiate le une sulle altre, una grandissima scuola vuota, ci fermiamo poiché non vediamo più dietro di noi le ultime due jeep della fila: siamo fuori dal mondo… L’aria è rarefatta, c’è un silenzio surreale, il villaggio sembra disabitato: non resisto alla tentazione e comincio a camminare tra le case, le porte e le finestre sono chiuse, ma vedo muoversi da lontano un paio di persone, poi qualcun’altra, stanno all’interno delle loro abitazioni, qualcuno seduto a terra nel cortile, si accorgono di me e mi guardano. Poi continuano ad aggiustare una moto. Si chiederanno chi sono e cosa voglio da loro… Torno giù, verso lo sterrato e mi fermo: ogni tanto passa qualcuno, delle ragazzine, una donna, un vecchio, ma sono molto riservati, chiusi. Le due macchine non si vedono. Dopo mezz’ora, persa ogni speranza di un ritardo per qualche foto alle marmotte, mentre stiamo decidendo di tornare indietro, ecco che ne scorgiamo una, poi anche l’altra: che sfortuna! Un mezzo ha bucato… meno male che i nostri autisti sono attrezzati! Proseguiamo e attraversiamo praterie, distese di niente, vediamo mandrie di yak, pecore con i loro pastori, qualche cane, ecco i nomadi, sì, ce ne sono in queste vallate: una tenda, due, tre, poi sparuti gruppetti in lontananza, sono nere o bianche, accanto vi è il recinto in pietra per gli animali. Fermiamo le macchine e da una tenda sbuca una testa di bambina tutta spettinata, poi una donna, poi altre due, corrono verso di noi, vogliono venderci delle pietre, anche loro!, ce ne andiamo… Poco più avanti una giovane donna con tre bambini piccoli, bellissimi, con lineamenti mongoli, una meravigliosa collana in corallo e turchese e un gran sorriso ci saluta e si lascia fotografare. E’ discreta, sicuramente noi lo siamo di meno! Dopo qualche ora di tormento più di qualcuno comincia a lamentarsi… non se ne può più di pista sterrata!!! Giungiamo al lago TSOKAR, è molto particolare poiché vicino all’acqua il terreno circostante è ricoperto da una polvere bianca impalpabile, forse soda. Camminiamo fino alla riva, saranno trecento metri, li percorro da sola, c’è un silenzio immenso, il mio passo è lento, respiro a fatica, spesso mi fermo e mi guardo intorno in un’atmosfera priva di qualsiasi suono e mi chiedo: dove sono? in che posto pazzesco sono arrivata… Sorpresa! I ragazzi del camp in cui abbiamo trascorso la notte malefica ci hanno preparato un… cestino a testa: un toast con pomodoro e formaggio (che mi sembra eccezionale… sarà la fame), biscotti, cioccolata, un uovo e succo di frutta… Diamo inizio ad un pic-nic ad alta quota! Terminata la sosta per un bel po’ percorriamo la Rupsu Valley, restiamo in macchina parecchie ore, siamo stanchi, io e Cristiana chiacchieriamo assai, ma il tempo non passa lo stesso, la strada sembra non finire mai, sale di quota, percorre vallate mozzafiato di una bellezza rara. Finalmente, meraviglia delle meraviglie, comincia la strada asfaltata e giungiamo al TANGLANG LA (5.360 MT.), il secondo passo carrozzabile più alto del mondo; tira un vento gelido, scendiamo dalle macchine per pochi secondi, la maggior parte di noi nemmeno si muove, chi dorme, chi sta male, chi non ne può più… giusto il tempo di una foto, ma oggi non abbiamo voglia più nemmeno di quella. Scesi dal passo la strada migliora e ci concediamo una sosta-the in un villaggio, ne approfittiamo per ringraziare e salutare Gasolio e gli altri tre autisti, lasciamo loro una bella mancia: alle 17.00 siamo finalmente a LEH, dopo un giorno intero di macchina, l’ultimo. Torniamo all’hotel Ri-Rab, dobbiamo preparare i bagagli veri, domani mattina all’alba abbiamo l’aereo. Vado con Giudo all’agenzia Shangloo Travels, dobbiamo saldare il conto: facciamo veramente presto perché abbiamo bisogno di farci una doccia e di riposarci almeno mezz’ora… Meno male che alle 21.00 siamo seduti al Tibetan Kitchen per l’ultima cena ladakha: siamo entusiasti del nostro viaggio, ma siamo anche parecchio provati. Mi incazzo notevolmente, e non sono l’unica, quando con candore Guido ammette che nel pacchetto dell’agenzia erano comprese varie puje del mattino, ma senza consultarci ha deciso per tutti che non ci interessava… Non ho veramente parole!!! Devo mordermi la lingua, ma mi costringo a stare buona. Anche se questa volta… Da domani comincerà una mini-vacanza molto diversa, ma forse per questo siamo pieni di entusiasmo.
GIOVEDì 25 AGOSTO LEH – NEW DELHI (Indian Airlines) – AGRA: TAJ MAHAL Alle 6.30 siamo già sulle jeep, per l’ultima volta, per raggiungere l’aeroporto: abbiamo l’aereo per DELHI e fortunatamente non ci sono problemi metereologici, oggi i voli sono regolari. I controlli sono lunghi e molto accurati, ognuno di noi deve riconoscere il proprio bagaglio posato sull’asfalto della pista dopo il check-in, indicandolo ad un soldato. Saliamo su di un pulmino scassato che ci porta all’aereo, ma… nel bel mezzo della corsa, stop improvviso!!! Sobbalziamo tutti! Che disdetta, stavamo attraversando la pista proprio quando stava decollando un aereo… Contrattempi indiani… Decolliamo, sono riuscita ad avere un posto vicino al finestrino! Ma, sfortuna delle sfortune, oggi è… nuvolo, niente panoramica sulla catena Himalayana! L’arrivo a DELHI, come da previsione, è uno shock: ci sono circa 40°, il 100% di umidità e un caos micidiale. Le montagne ovattate, l’aria secca, le distese silenziose e la temperatura fresca sembrano lontane anni luce… Troviamo il bus finto-nuovo della State Express, che abbiamo riservato, che ci aspetta proprio davanti all’aeroporto, carichiamo i bagagli e saliamo di corsa perché sappiamo che c’è l’aria condizionata. Ma è ancora spenta… caldo mortale, goccioliamo… Partiamo subito per Agra, l’autista guida all’impazzata perché rischiamo di arrivare troppo tardi al TAJ MAHAL, sembra che dopo le 17.00 non si entri più! Intanto Guido discute molto animatamente al telefono con Sanjeev che vuole fare il furbo: ci ha cambiato l’albergo di questa notte e non vuole scontarci il prezzo nonostante la categoria sia inferiore… Il viaggio è divertente, sembra di essere al cinema: nonostante abbia ore di sonno arretrato non riesco a dormire, tanto meno a staccare gli occhi dal finestrino. La proiezione prevede: traffico spaventoso (anche contromano), tuc tuc con dieci persone aggrappate, biciclette con tre metri di carico sul portapacchi, un divano a tre posti con un tizio seduto sopra e legato non so come alla sella di una bici, gente a piedi, gente che dorme per terra, gente che dorme su letti messi lì, ai lati della strada, bambini in divisa che vanno a scuola, mercati di frutta, mucche con corna giganti, vacche indiane, cani, un orso bruno, due scimmie, donne con sari coloratissimi, altarini con offerte, ceste di fiori, cartelloni dipinti di film e pubblicità giganti di cellulari, clacson strombazzanti, smog ai massimi livelli, l’India… Alle 16.00, dopo aver corso un bel po’, arriviamo direttamente al TAJ MAHAL. Il pacchetto prevede: biglietto d’ingresso da 750 rupie, una bottiglietta d’acqua, un paio di babbucce azzurre… Il gruppo decide di prendere una guida. Io e Pierluigi ovviamente ci dissociamo sia perché, come al solito, io non capisco l’inglese, sia perché vogliamo goderci questo luogo con i nostri tempi e per i fatti nostri, senza stare per forza nel gregge ammassati davanti a un’arco decorato. All’ingresso ci perquisiscono minuziosamente dentro una tenda: è obbligatorio depositare i telefonini e le torce che dovevano servire, secondo i nostri piani, a vedere i giochi di luce e di trasparenza delle pietre preziose e dei marmi delle decorazioni. Abbiamo tre ore di tempo, fino alla chiusura delle 19.30, per gironzolare nell’area di questo magico mausoleo moghul, emblema dell’India, costruito dall’imperatore Shah Jahan in onore della sua seconda moglie morta di parto nel 1.631. Varchiamo il maestoso portale in arenaria rossa sul lato sud del cortile, decorato con versi del Corano in arabo, sotto l’arco di accesso si comincia a vedere un’architettura bianca, usciamo dall’altra parte e… è lui, il TAJ MAHAL! E’ grandioso, sinceramente me lo aspettavo più “normale”, più freddo, invece è vivo, suggestivo, perfetto. Davanti al mausoleo vi sono grandi giardini decorativi e un canale d’acqua centrale che riflette la sua immagine, ovunque vi è un brulicare di gente, turisti occidentali e indiani, i primi in pantaloncini e maglietta (orrore), i secondi con sari e turbanti coloratissimi, sono veramente eleganti (loro). L’edificio centrale ci cattura con le sue grandi arcate, la base in marmo con i minareti angolari, la grande cupola centrale e quattro piccole laterali. Entriamo, c’è molta gente, ci facciamo strada fino ai pannelli in marmo intagliato e decorato con pietre semipreziose colorate. All’esterno l’aria si tinge di rosa, comincia il tramonto, ci sediamo per terra sul marmo bianco del terrazzo nel retro a fianco del fiume che scorre lento, assieme ad altre decine di persone, non mi stanco mai di guardare le donne indiane con i loro gioielli, truccate e sorridenti, sono affascinanti e misteriose. Oramai tutto si è tinto di rosa, il sole è una palla di fuoco, piano piano scende. Ci incamminiamo lungo i giardini con il resto del gruppo, ma continuiamo a girarci verso questo monumento straordinario che si allontana, nessuno di noi se ne vuole staccare, ma è oramai buio, si intravede appena. Il pullman ci aspetta, ma bambini e venditori ambulanti ci tendono un agguato, ci assalgono con paccottiglia varia, ci si stringe il cuore, ma sono veramente troppi e molto insistenti. Dormiamo all’hotel Deedar, di livello buono, ma a cena gli animi del gruppo si scaldano è vi è una discussione abbastanza accesa tra Guido e Simonetta che francamente, come più di qualcuno di noi, è stanca di subire i bruschi modi del nostro capogruppo, sicuramente poco coinvolgente e assoluto nell’imporre le sue scelte senza consultare nessuno. Nel frattempo il pavimento del ristorante trema… meraviglia delle meraviglie, ma è girevole!!! Francamente sembra di essere in aereo e nessuno sembra apprezzare questo esempio di progresso e tecnologia… L’albergo è in ristrutturazione, diciamo che gli ultimi piani sono un cantiere, e all’una di notte il trapano comincia a funzionare… esco in maglietta incazzata nera e urlo non so che cosa in inglese contro un addetto alle pulizie: per non conoscere la lingua mi faccio capire! Dopo qualche secondo smettono. Almeno quattro ore riesco a dormire, visto che dopodomani sarò già in ufficio e visto che il raffreddore sta cominciando a darmi tregua… VENERDì 26 AGOSTO AGRA – FATEHPUR SIKRI – AGRA: RED FORT – NEW DELHI Partenza alle 8.30 per la visita della città fantasma di FATEHPUR SIKRI, distante circa 40 km. Da AGRA. Si boccheggia già la mattina presto e appena arrivati siamo assaliti da una nutrita schiera di venditori ambulanti, sempre più appiccicosi e insistenti, anzi oramai insopportabili!. Sono esageratamente troppi… Entriamo nel complesso di questa città fortificata abbandonata, capitale dell’impero moghul dal 1.571 al 1.585: gli edifici sono in arenaria rossa, ma francamente sono spogli ed essenziali, niente se paragonati a quelli visti nel vicino Rajasthan, in più fa un caldo infernale, c’è un’umidità incredibile e il sole non ha pietà di noi. Non vedo l’ora di andarmene. Ci dirigiamo poi alla JAMA MASJID, la moschea di FATEHPUR SIKRI, con il suo ingresso imponente di 54 metri, sempre in arenaria rossa con citazioni Coraniche: è venerdì, giorno di preghiera, ed è affollata di gente, uomini vestiti di bianco, donne dagli abiti coloratissimi, bambini vestiti a festa affollano i portici perimetrali e la spianata. Camminiamo fino alla splendida dargah in marmo bianco, con magnifici pannelli traforati: si dice che a questo luogo facciano visita le donne che nono riescono ad avere figli… Come sempre c’è qualcuno del gruppo che tiene il tempo e, pare, siamo in ritardassimo sulla tabella di marcia, forse taglieremo troppo tardi la linea del traguardo oggi, quindi giriamo velocemente i tacchi sotto ai porticati perimetrali: la pietra tende all’arancio, i sari delle donne sono rossi, fuxia, rosa, gialli: è una festa di colori… ma via veloci, il pullman è impaziente di ripartire! O lo sono solo gli occupanti? Alle 13.00 siamo nuovamente ad AGRA all’hotel Deedar dove preleviamo Guido che è rimasto in città, veniamo letteralmente scaricati davanti al RED FORT che abbiamo ben 40 minuti di tempo per visitare, compreso il pranzo per quei viziati che hanno fame… Sì, io sono viziata e a pranzo mangio perfino un po’ di riso bianco con patate e una banana. Simonetta, Eleonora e Stefania, viziate anche loro, acquistano solo un po’ di frutta, Pierluigi ed io ci fermiamo sotto un tendone giallo dove ci saranno 45° gradi: ci sono dei tavoli con delle panche e ci accomodiamo, è un po’ “rustico”, ma ci diverte, qui fanno da mangiare dietro ad un banco, in pochi minuti diventiamo l’attrazione del giorno, indiani di varie età si siedono intorno a noi, ci guardano, ridono, commentano, ma cosa abbiamo di tanto strano se non una famedi leone??? Mangiamo bene, anche se è parecchio piccante, il caldo aumenta… Via di corsa, ci restano ben 20 minuti per visitare l’AGRA FORT, corriamo, corriamo, e moriamo di caldo. Lo visitiamo tutto, di corsa, il gruppo è già ben avanti, lo raggiungiamo anche, per fortuna che scatto più di qualche foto, almeno ho un ricordo, perché la mia memoria in questo momento non ne ha. Le grosse mura perimetrali alte 20 metri, le alte torri ai lati del corridoio vicino all’ingresso, le bianche arcate in marmo bianco intarsiato della sala delle udienze pubbliche, il bianco accecante della piccola moschea interna, i palazzi in arenaria rossa con le colonne decorate da mille disegni e intarsi, le donne immancabili ovunque, con le vesti multicolori, in fretta, in fretta… vedere, vedere, siamo già in ritardo di venti minuti all’appuntamento con il gregge. Ce ne freghiamo, ci fermiamo un minuto sulla terrazza sul fiume, con vista TAJ MAHAL, e poi via, in ritardo di mezz’ora. Arriviamo al pullman, sono tutti più o meno incazzati per il nostro ritardo: ma cosa hanno visto? Un sacco di cose… ho qualche dubbio… Ma il significato di questa corsa? Arrivare in albergo a DELHI un po’ prima per farsi la doccia… in questo momento giuro mai più, mai più con un viaggio organizzato! Fortunatamente domani è l’ultimo giorno ed è libero: un altro ancora e penso che discuterei con qualcuno… Alle 16.00 partiamo per DELHI dove arriviamo alle 20.00 e… sorpresa… l’albergo in cui ci hanno depositato non ha camere libere!!! Ci dicono che dobbiamo spostarci in un altro hotel della zona, sicuramente con 20 chili sulle spalle e 45° fuori! La cosa ci fa alquanto incavolare e Guido cerca al telefono il solito Sanjeev che però non si fa trovare. Quando minaccia di non pagare l’altro hotel prenotato e di trovarne uno per conto nostro, il referente si fa vivo e… se ne prende quattro: improvvisamente le 8 stanze saltano fuori… Ceniamo nel ristorante dell’hotel, sul tetto, all’aperto e senza aria condizionata: ci cuciniamo, non vola una mosca, umidità a mille, caldo fottuto nonostante siano quasi le 10.00. Subito dopo cena voliamo a nanna, abbiamo la tv in camera e ci godiamo qualche video musicale indiano… balletti a gogò! SABATO 27 AGOSTO OLD DELHI: RED FORT – CHANDNI CHOWK – JAMA MASJID Oggi è il nostro ultimo giorno di viaggio, infatti sto quasi guarendo, la giornata è libera: nonostante questo ci troviamo tutti insieme a colazione, poi qualcuno cerca di organizzare gruppetti per inoltrarci nella scoperta della città… Viste le esperienze di ieri io e Pierluigi ci guardiamo e in due secondi ci catapultiamo fuori dall’albergo con la scusa di cercare un taxi… saltiamo sopra al primo tuc tuc che passa e… via! Che traditori! Questa è una fuga vera, senza gregge al seguito! Siamo sfreccianti verso il RED FORT con questo trabiccolo a tre ruote in un traffico infernale, è la mia seconda volta a DELHI. Passiamo in mezzo alla vita frastornata dell’immensa metropoli immersi in un caldo insopportabile, quasi non si respira, l’India in estate è una vera follia, ma ogni cosa attira la mia curiosità. Scendiamo al grande incrocio al termine della CHANDNI CHOWK, la via principale di OLD DELHI , proprio sul piazzale dell’ingresso del Forte Rosso, iniziato nel 1.638 all’apice del potere moghul, circondato da imponenti mura in arenaria rossa. Aspiranti guide ci perseguitano qua e là, ma noi imperterriti passiamo tra i negozietti artigianali del Chata Chowk, oltre la Lahore Gate, i venditori ci chiamano, ma noi niente, via dritti! Il complesso è abbastanza vasto: visitiamo la Sala delle Udienze Pubbliche con l’alcova dell’imperatore rivestita in pannelli di marmo tempestati da pietre preziose, la Sala delle Udienze Private con le sue arcate sempre in marmo bianco con decori in pietre semipreziose e specchietti, la Moti Masjid, piccola bianca moschea e altri edifici minori. Il tutto è interessante, ma francamente mi aspettavo di più, all’interno c’è un’atmosfera un po’ così, forse un po’ triste, un po’ spoglia. Facendo un paragone, il Forte di AGRA è più spettacolare… Fa parecchio caldo, anzi, si comincia veramente a boccheggiare. Usciamo dal RED FORT e attraversiamo l’incrocio antistante: dobbiamo stare attentissimi se non vogliamo essere travolti da qualche rickshaw, tuc tuc, auto o pullman o ancora più essere asfissiati dal gas che galleggia nell’aria… Cominciamo a percorrere la CHANDNI CHOWK, terribilmente congestionata e inquinata, tutti suonano il clacson, mille rumori, voci, insomma un gran casino. Sulla sinistra vi sono i banchi di fiori, sono bellissimi, hanno dei colori eccezionalmente accesi, dall’arancio al fuxia, degli uomini seduti a terra li infilano in uno spago, ne fanno collane, verranno utilizzate come offerte religiose nei templi, in questa zona ce ne sono parecchi. Proseguiamo lungo la strada, tra negozi di tutti i tipi e venditori di involtini di pasta ripieni di verdure, fino che arriviamo ad un tempio sikh. Per entrare bisogna togliersi le scarpe, dobbiamo camminare scalzi sotto ad un porticato direi un pò sul lercio, beh, ma come si fa a non addentrarsi? Ci lanciamo, per purificarci i piedi entriamo in una bassissima vasca in marmo bianco, con spruzzi leggeri d’acqua che la attraversano, poi ci fanno coprire il capo con una bandana colorata bordata in pizzo dorato… sembriamo appena usciti da una disco di Ibiza più che in entrata ad un tempio! Saliamo la scala e giungiamo in una grande sala: è un ambiente strano, vi è un immenso tappeto persiano, dove i fedeli sono seduti in preghiera, tutto intorno vi è un loggiato in marmo bianco lavorato e lampade, dall’alto scendono a pioggia numerosi ventilatori a pala, ma sono spenti. Sull’altare in marmo, circondato da una balaustra dorata, ci sono tre sikh che suonano strumenti musicali e cantano, come in un concerto rock, ogni tanto si fermano e uno di loro proclama dei versi, ovviamente incomprensibili, o tiene un discorso. Al centro sono depositate numerose collane di fiori davanti ad un trono d’oro, dietro vi è una scala che scende fino ad una tomba ricoperta da un velluto viola, tutti fanno offerte. Dal soffitto pendono un lampadario in cristalli swarovski e un grande rettangolo in seta fuxia con drappi di tessuto che scendono lungo tutto il perimetro: non saprei descrivere le sensazioni, sembra di essere a metà tra una cerimonia religiosa, una festa e un comizio. Siamo gli unici turisti, ma sembriamo non dare fastidio, io però non mi sento completamente a mio agio. Ci soffermiamo una buona mezz’ora, lo scenario non cambia mai, muta solamente l’afflusso di fedeli, sempre costante ma mai numeroso. All’uscita ci fanno togliere la bandana e ci danno una pastella marrone da mangiare, io non mi fido, ho paura di effetti collaterali… Decidiamo di svoltare in una via laterale subito a sinistra: è la strada degli orafi e degli argentieri, vi sono botteghe una di seguito all’altra, tutti i negozi sono aperti sulla strada e mi da l’idea che siano un ritrovo per gli uomini che stanno a gruppi all’interno di questi spazi, seduti per terra o sopra dei grandi cuscini a chiacchierare. Tralicci della corrente volanti, lungo le case e per aria sopra la strada, cartelli con nomi di negozi, scritte su tessuti, sopra le nostre teste c’è veramente un gran caos e camminando bisogna stare attenti a non farsi arrotare da un ciclo-rickshaw! Una viuzza laterale mi colpisce, si vendono solo ghirlande di fiori in plastica e addobbi religiosi, è tutto giallo, arancio, rosso, fuxia e tanto dorato, di un kitch fuori misura, è un luogo carico di atmosfera, è l’India vera! Donne e uomini camminano frettolosi, si fanno tutti gli affari loro, ci guardano strano, oltre a noi non c’è nessun bianco, per tutto il quartiere. Inforchiamo altre stradine, alcune attraversate da festoni argentati e palline colorate, come da noi a Natale, troviamo incantatori di serpenti con i loro cobra, venditori di frutta e verdura che spingono i loro sgangherati carri, operai al lavoro, nicchie murali con altarini sacri con offerte, tutto questo finchè arriviamo ad uno degli ingressi della JAMA MASJID, la principale moschea di OLD DELHI. E’ proprio come me la ricordavo, possente e maestosa, grandiosa. Indossiamo dei camici, affittati più a scopo di lucro che per utilità effettiva visto che qualche musulmano entra in canottiera… Pierluigi, con un grembiule fiorito con rouches sulle maniche a sbuffo, sembra la nonna di cappuccetto rosso… La moschea, in arenaria rossa e marmo bianco, ha tre grandi portali, torri angolari, tre grandi cupole bianche e due minareti alti 40 metri. Il cortile è immenso, può contenere 25.000 fedeli: uomini vestiti con lunghi camici bianchi, altri in abiti normali, qualche donna in sari, camminano o si siedono a terra, vicino alla grande vasca centrale. Vorremmo salire sul minareto, ma gli uomini mi spogliano con gli occhi, tutti ci fissano, arriva un ragazzino che ci dice che dobbiamo coprirci di più e vuole affittarci un altro grembiule da indossare, ma siamo coperti a sufficienza! Ci sentiamo a disagio, sì direi diversi, improvvisamente non vediamo l’ora di uscire! Come ci siamo sentiti a nostro agio nei templi buddisti, indu e sikh, così è stato spiacevole entrare in un luogo di culto musulmano, io vado sempre a sensazione in questi posti, e non mi sbaglio facilmente. Tutto il quartiere è abitato da islamici, tutti mi guardano insistentemente, mi sento denudata, è una brutta sensazione, non è uno sguardo curioso, è altro. Prendiamo subito un tuc-tuc e ci facciamo portare nel quartiere di PAHARGANJ per un po’ di shopping, ma oggi tutti i negozi sono chiusi, è il compleanno di Krishna… Siamo nelle mani del nostro autista, può portarci dove vuole, siamo sfiniti, non sappiamo dove andare anche perché entro una certa ora dobbiamo essere in albergo. Ci porta dapprima in un negozio, poi ad una grandissima festa indu: sarebbe interessantissimo entrare nel tempio, ci sono migliaia di persone, è una festa di colori e di musica, ma gli innumerevoli controlli dei militari ci fanno perdere un sacco di tempo e purtroppo siamo costretti a farci riportare in albergo. Sono davvero cotta, al limite delle mie forze. Fuori è oramai buio, anche se fa sempre un caldo fottuto.
Ci incontriamo con gli altri del gruppo e ci raccontiamo le rispettive giornate, poi a turno ci facciamo una doccia in una stanza che abbiamo tenuto con questo scopo: dobbiamo vestirci per il viaggio di ritorno e preparare i bagagli definitivi. Andiamo a cena, la nostra ultima, al vicino ristorante vegetariano Suruchi con cucina tipica del sud dell’India, molto buona ma molto piccante.
Rientrati in albergo abbiamo giusto il tempo di caricare i bagagli sul nostro bus ed andare all’aeroporto dove arriviamo alle 23.30: sarà per la stanchezza, ma non credo solo per questo, nessuno parla. Facciamo il check–in divisi in tre gruppi a seconda delle nostre destinazioni finali: Milano, Roma o Venezia. Il volo Alitalia parte alle 2.35, da un lato è bello salire in aereo e sentirsi dire “buona sera, Repubblica, Corriere, o…”, dall’altro è il confine netto tra un altro mondo e il nostro, la fine di questo viaggio. DOMENICA 28 AGOSTO NEW DELHI – MILANO MALPENSA – VENEZIA (Alitalia) Arriviamo a Milano Malpensa alle 8.00 del mattino, un viaggio relativamente breve, sono arruffata, non ho chiuso occhio tutta la notte. E’ giunto il fatidico momento, saluti e addii generali, le nostre strade forzatamente si dividono… Il volo per Venezia è ovviamente in ritardo di due ore, non ci voleva proprio! Guido le impegna ronfando su una panchina, io giro per tutte le boutiques e i bar, il tempo non passa mai, mi attacco al cellulare per i primi contatti con il mio mondo, e visto che ci sono, non vedo l’ora di arrivare a casa e di andare a dormire, domani… si lavora. Che incubo! Sono proprio in forma! Quel che si dice riposata dopo una vacanza… Finalmente ci chiamano, l’equipaggio del nostro aereo, che non c’era, è arrivato da Roma or ora. Boh… Alitalia. Si parte.
P.S. Un saluto, comunque, a tutti i compagni di viaggio (in ordine alfabetico): Carla, Cristiana, Eleonora, Elisabetta, Emanuele, Gabriele, Gaetano, Giovanni, Guido, Marino, Ombretta, Pierluigi, Simonetta, Stefania e Stefano.