USA West Coast: avventure di e disavventure del nostro primo on the road

Tour classico della West Coast fra Los Angeles, Las Vegas, San Francisco e i grandi parchi di California, Arizona, Utah e Nevada
Scritto da: Isa&Titti
usa west coast: avventure di e disavventure del nostro primo on the road
Partenza il: 02/08/2015
Ritorno il: 23/08/2015
Viaggiatori: 2
Spesa: Fino a €250 €

Ci giravamo intorno da un anno ma vuoi per un motivo, vuoi per un altro, rimandavamo sempre. La “brutta bestia” che appena 6 mesi dopo il nostro rientro si sarebbe portata via mia madre purtroppo era un validissimo deterrente. “E se prenotiamo e poi le sue condizioni peggiorano? E se…” Al diavolo. Proprio mia madre dovrebbe insegnarmi che si vive una volta sola. Ad inizio dicembre prenotiamo il volo ed è fatta. Ora o mai più, non senza aver però stipulato un’assicurazione annullamento pronta a coprirci contro tutti gli accidenti possibili e immaginabili.

Essendo la nostra prima volta negli States, abbiamo scelto di iniziare con il classico tour della West Coast, toccando le città principali Los Angeles, Las Vegas e San Francisco e i grandi parchi di California, Arizona, Utah e Nevada. Per mesi abbiamo sfogliato i cataloghi dei tour operator per avere un’idea generale di “cosa” vedere, poi ci siamo affidati alle varie guide cartacee e online, ai forum e ai consigli di qualche amico che aveva già fatto viaggi simili. Alla fine ne è risultato l’itinerario che andremo a raccontarvi, un tour on the road di 3 settimane organizzato in totale autonomia toccando le seguenti tappe: Los Angeles – Joshua Tree – Grand Canyon – Page (Glen Canyon – Horseshoe Bend – Antelope Canyon) – Monument Valley – Moab (Canyonlands – Dead Horse Point – Arches) – Capitol Reef – Grand Staircase-Escalante – Bryce Canyon – Zion – Las Vegas – Death Valley – Bodie – Mono Lake – Yosemite – San Francisco – Pacific Coast – Sequoia & Kings Canyon – Los Angeles

E così dopo mesi di pianificazioni, ricerche e sogni ad occhi aperti, finalmente ci siamo!

2 agosto: Venezia – Los Angeles

La sveglia ci tira giù dal letto alle 3 di notte (e chi ha dormito?). Veloci ci prepariamo, carichiamo in auto i bagagli e… la zip della mia valigia si rompe. Nooo! È l’unica valigia che ho di queste dimensioni! Mica posso andare in prestito a casa dei miei a quest’ora! Ma no dài aspetta, non è rotta, forse la zip è solo uscita dalla corsia. Ecco, riapro, richiudo… OK, è a posto (fiu…). Tiziano prima di salire in macchina controlla che l’impianto di irrigazione sia impostato per partire in automatico. Funziona, a posto anche questo (sicuro Tiziano?).

E si parte in direzione Venezia. Il nostro volo VCE-FCO-LAX parte in orario, bene. Alla nostra prima esperienza di “turismo fai-da-te” abbiamo acquistato voli Alitalia con scali a Roma non proprio lunghissimi, nulla sapendo dei ritardi cronici di Alitalia e della loro straordinaria capacità di seminare i bagagli in giro per il mondo (e a Fiumicino in testa). L’accoppiata Alitalia-Fiumicino non prometteva nulla di buono, insomma, e io da mesi avevo l’incubo di perdere le coincidenze o peggio ancora le valigie! Ma per fortuna questo non sembra il caso, ci imbarchiamo in orario e partiamo. Ah sì? Passa un quarto d’ora, passa mezz’ora, tre quarti d’ora…Qualche passeggero inizia ad agitarsi e chiede informazioni allo stewart. “Non c’è nessun problema, siamo pronti al decollo, stiamo solo aspettando l’autorizzazione della torre di controllo. Deve prendere la coincidenza per Los Angeles? Ah, allora non si preoccupi, quello ci aspetta…” Ah meno male.

Partiamo con un’ora di ritardo (su un volo che durava appunto un’ora, no comment). Arriviamo a Roma tiratissimi e facciamo le corse per raggiungere l’altro terminal, sperando che i bagagli facciano altrettanto. Arriviamo al gate che stanno già imbarcando. Va be’, dài, è andata. Sull’aereo le ore non passano mai, il televisorino del mio posto è guasto (ma va? non mi capita mai…) e i pasti di Alitalia… meglio non commentare. Adesso abbiamo capito perché stava fallendo.

A LAX siamo accolti da una gigantografia di Obama (sti americani…) e approdiamo nella “immigration area”, dove ci accodiamo ad un serpentone chilometrico e dalla lentezza esasperante verso l’ “officer” di turno, un uomo di colore sovrappeso e dall’aria annoiata che evidentemente non vede l’ora di finire la giornata e andarsene a casa. E infatti ci sbriga le formalità abbastanza in fretta e senza neanche una domanda. Ma come? E io che mi ero preparata il mio bel discorsetto in inglese… Dopo ben due ore recuperiamo i bagagli già arrivati da un pezzo (evviva!) e andiamo alla ricerca della navetta che ci porterà verso la Budget a ritirare la nostra auto, una Hyundai Sonata Hybrid nuova fiammante. Wow! E adesso? Chi ha mai guidato un’auto con cambio automatico? E per di più elettrica?

Finalmente riusciamo a partire e ci immettiamo nel traffico caotico di LA, noi che viviamo in un paesino di 2000 anime in cui giriamo per lo più in bicicletta. Massì dài, in fin dei conti guidare con il cambio automatico non è poi così difficile, basta solo dimenticarsi di avere il piede sinistro. Anzi meglio ancora, legatevelo al sedile, così non cederete alla tentazione di pigiare quel pedale lì a sinistra, che non è la frizione, nooooo….. è il freno a mano! (anzi “a piede”!) E infatti… Arriviamo al primo semaforo e Tiziano dà un inchiodone pazzesco, l’auto addirittura si intraversa un po’. Avete presente Richard Gere in macchina con Julia Roberts in Pretty Woman? Ecco, uguale, non fosse stato per Richard Gere (va be’, dài, io di Julia ho almeno i capelli rossi). Ma cosa diavolo ci è venuto in mente? Chissà se ne usciremo vivi! Al semaforo successivo ci incanaliamo nella corsia di destra e ci fermiamo al rosso. Da dietro sentiamo strombazzare. Cos’abbiamo fatto ora? Ah sì, accidenti, negli Stati Uniti se al semaforo si prende la corsia di destra si deve girare anche col rosso, a meno che non sia espressamente vietato. Va be’, pazienza…

Arriviamo in qualche modo al nostro primo motel in zona Hollywood verso le 6 di sera (le 3 di notte per noi) e stramazziamo sul letto stremati senza neanche cenare. Tiziano però trova sullo smartphone alcune chiamate e messaggi un po’ inquietanti: “Ciao, sono la vicina, il vostro impianto di irrigazione sta andando ininterrottamente da stamattina. È normale?” “Eh? Ma non lo avevi controllato prima di partire?” “Sì, mi pareva tutto a posto…” Scopriremo l’indomani che l’impianto si era inceppato in posizione aperta sparando litri e litri di acqua sulle nostre povere piante per un giorno intero. La bolletta di qualche mese dopo ce lo avrebbe ricordato…

3 agosto: Los Angeles

La mattina dopo, complice il fuso orario, alle 4 siamo già svegli e pimpanti. Cerchiamo di tirare fino alle 6 e poi via per il nostro primo (e unico) giorno a LA. Questa città devo dire non ci ha fatto una grande impressione e probabilmente non la includeremmo in un altro futuro viaggio nella zona. La nostra visita tocca i punti principali e irrinunciabili: Santa Monica, Venice, Beverly Hills e Hollywood. Proprio il minimo sindacale, ma in un giorno non si può fare veramente di più. L’area complessiva di LA è estesa quanto l’Umbria, il traffico è notevole e i tempi di percorrenza lunghissimi anche per poche miglia, specie se in orario di punta. Insomma, ottimo per fare un po’ di pratica con il cambio automatico. Facciamo le prime esperienze sulle famose “freeway” americane a 6 corsie per ogni senso di marcia. Figo! Attenti solo a non sbagliare uscita, altrimenti poi sono cavoli! (navigatore caldamente raccomandato).

Santa Monica è la nostra prima tappa. Arriviamo alle 8 di mattina e non c’è neanche un’anima in giro. Facciamo la classica foto di rito sotto la scritta “Route 66 – End of the trail” e poi via a fare una passeggiata sulla spiaggia deserta. A noi che siamo abituati alle spiagge romagnole pare incredibile che uno spiaggione simile venga lasciato praticamente “intonso”, non ci sono strutture turistiche, solo qualche bar e il Luna Park. In Italia non avrebbero lasciato un solo centimetro di spazio libero. Ma gli americani non sono molto amanti della “vita da spiaggia”, ogni tanto vedi qualcuno che arriva, stende l’asciugamano, va a buttarsi subito in acqua (gelida!) e poi dopo essersi asciugato raccatta le sue cose e se ne va.

Per il resto a Santa Monica non c’è molto altro da fare, perciò decidiamo di spostarci a Venice. Adocchiamo il sentiero pedonale e ciclabile che collega le due cittadine costeggiando la spiaggia, ma giudichiamo che impiegheremmo troppo tempo a piedi, per cui riprendiamo la macchina. Venice è molto più carina, con i suoi ponti caratteristici a cui deve il nome e il lungomare pieno di localini e gente di tutti i tipi. Ammiriamo i bei murales che decorano gli edifici e passiamo un po’ di tempo divertendoci a guardare le acrobazie degli skateboarders nel parco dedicato sulla spiaggia. A proposito, sulla stessa spiaggia troverete anche una zona fitness all’aperto attrezzata di tutto punto dove avvenenti palestrati fanno sfoggio dei loro muscoli (siamo sulle spiagge californiane, ci sta).

Dopo pranzo ci concediamo una passeggiata su e giù per i ponti e poi via verso la prossima meta: Beverly Hills e Rodeo Drive. Qui il lusso la fa da padrone: ammiriamo le preziose vetrine delle boutique delle marche più prestigiose, i macchinoni più esagerati e dai colori improbabili, gli hotel esclusivi. È la famosa via in cui Pretty Woman si diverte a fare shopping nell’omonimo film. In fondo a Rodeo Drive raggiungiamo infatti il Beverly Wilshire, l’hotel in cui è stato girato il film. Proseguiamo la nostra visita verso Bel Air alla scoperta delle ville più fantasmagoriche dei vip, a dire la verità non molto visibili perché quasi sempre nascoste da siepi o mura gigantesche. Tiziano il temerario cerca addirittura di entrare nella proprietà di qualcuno per fare le foto del panorama di LA dall’alto della collina di Bel Air, ma viene “gentilmente” invitato ad allontanarsi da uno dei “gorilla” dei proprietari. Meglio che togliamo il disturbo, va’…

Il pomeriggio volge al termine quando arriviamo a Hollywood. Percorriamo a piedi tutta la Hollywood Boulevard seguendo le tracce delle stelle della Walk of Fame e incontrando i personaggi più incredibili: Edward Mani di Forbice, Batman, Biancaneve, Micky Mouse, personaggi che sembrano usciti da Guerre Stellari, insomma una “fauna” molto varia e colorata. Raggiungiamo infine il Chinese Theater con le impronte dei divi e concludiamo la giornata con un veloce pasto a base di salutare “street food”, il primo di una lunga serie, per la gioia della sottoscritta…

4 agosto: Joshua Tree – Williams

Finalmente comincia il nostro vero “on the road”! Ne abbiamo già abbastanza della caotica quanto poco attrattiva LA. Cerchiamo di partire presto in vista del traffico che sicuramente troveremo, ma per nostra fortuna è per lo più diretto verso la città mentre invece noi dobbiamo uscirne. Siamo talmente concentrati sulla guida che dimentichiamo di fermarci in qualche Wall Mart a fare scorta di viveri. Be’, dài, troveremo sicuramente qualcosa per strada una volta usciti dalla città… Peccato che negli States una volta lasciato un qualsiasi centro abitato, dalla grande metropoli al buco di 10 anime, poi ci si trovi praticamente in mezzo al nulla. Se imboccate una Interstate non pensate di potervi fermare, che ne so, in qualche autogrill, come siamo abituati noi in Italia, perché non ne troverete. Dovrete uscire, sperare di trovare un qualche paesino e sperare che il suddetto paesino abbia almeno un negozio di generi alimentari e un benzinaio. Perciò è buona norma espletare entrambe le necessità prima di mettersi in strada per lunghi tragitti.

Questo primo giorno sarà dedicato al tratto più impegnativo della vacanza, un tappone di oltre 8oo km. per arrivare il più possibile vicino al Grand Canyon, e precisamente a Williams, ottimizzando così il programma dei giorni successivi. Ma intanto la nostra prossima meta è il Joshua Tree National Park. La I-10 che collega Los Angeles a Palm Springs ci offre lo spettacolo di distese di pale eoliche. Per il resto il panorama è pressoché desertico, mentre la temperatura sale sempre più a mano a mano che ci avviciniamo al Joshua Tree. Vi giungiamo verso le 10 ed entriamo dalla West Entrance che porta appunto il nome del parco, per poi fare un loop in auto attraverso il Park Boulevard fino all’uscita di Twentynine Palms.

Come descrivere il parco? Avete presente il cartone animato con Wile E. Coyote e Beep Beep? Ecco, un paesaggio desertico puntellato di piante grasse (i famosi “joshua tree” che danno appunto il nome al parco) e di conformazioni rocciose dalle forme più bizzarre, la più famosa delle quali è la Skull Rock, la roccia a forma di teschio. Ci fermiamo ai vari viewpoint per qualche foto e facciamo anche un breve trail alla Hidden Valley. Io decido anche di arrampicarmi su uno dei “joshua tree” a beneficio di una foto, con il risultato di piantarmi nelle mani delle fastidiosissime schegge che mi porterò per l’intera vacanza, sigh…

Verso l’una proseguiamo sulla CA-62 in direzione Williams. A dire la verità non ci eravamo bene informati su questo tratto di strada che avrebbe dovuto condurci sulla I-40. Mai avremmo pensato quindi di attraversare un autentico deserto. E voglio dire esattamente quello che ho scritto: D-E-S-E-R-T-O. Stiamo infatti percorrendo la parte sud del Mojave. Ora non so se abbiate idea di cosa significhi attraversare un deserto: 100 miglia di nulla assoluto, non un paese, non un’anima viva (forse qualche serpente ma abbiamo preferito non verificare), avremo incrociato sì e no due auto. Non c’è copertura cellulare, ogni tanto si trova una colonnina per le chiamate di emergenza a bordo strada (ah, consolante…). Oltretutto non abbiamo neanche fatto il pieno prima di ripartire dal parco e questa maledetta strada lunga, diritta, deserta non finisce mai, mentre la temperatura esterna continua a salire (113°F!). Io sono decisamente preoccupata. Se abbiamo un guasto alla macchina ci ritrovano qui fra una settimana fossilizzati! Finalmente sbuchiamo su un incrocio in mezzo al nulla dall’anonimo appellativo di Vidal Junction, un posto sperduto con solo un Mini-Mart, un distributore (alleluja!) e quello che sembra un posto di controllo per generi alimentari (in mezzo al deserto, boh…), l’ufficiale ci chiede addirittura se abbiamo “vegetables in the car”! Ci rifocilliamo, facciamo benzina (a proposito, il distributore modello “Far West” non accetta carte di credito, meno male che abbiamo qualche contante!) e proseguiamo sperando di raggiungere presto l’innesto con la I-40.

Arrivati finalmente sulla Interstate proseguiamo fino a Kingman e poi decidiamo di uscire per percorrere un tratto della mitica Historic Route 66 fino a Seligman. La strada leggendaria è costeggiata da numerosi stores, gas stations e cafés in stile vintage. Ci fermiamo allo “Hackberry General Store” per qualche foto: incredibile! Sembra proprio di essere nel film di animazione Cars! Ci sono perfino Doc Hudson Hornet e Cricchetto! Ma si è fatto tardi e dobbiamo proseguire. Arriviamo a Williams che è ormai ora di cena. È un tipico villaggio in stile western molto carino, famoso per essere la “Last town bypassed by I-40”. Queste cittadine ce l’hanno a morte con la Interstate che le ha tagliate fuori dalle rotte del turismo di massa (vedi il cartone animato di cui sopra), anche se poi a conti fatti gli affari li fanno comunque! Cena in una steakhouse e poi passeggiata per i negozietti. Adocchio un bel cappello da cowboy ma Tiziano mi fa desistere: “Ne troverai altri…” Fra qualche giorno lo rimpiangerò! E allora via in motel e subito a nanna, domani ci aspetta una meta lungamente agognata: il Grand Canyon!

5 agosto: Grand Canyon – Page

Oggi vogliamo trarre il massimo dalla giornata, dobbiamo visitare il Grand Canyon per poi arrivare a Page in serata, perciò sveglia alle 6 e fuori in cerca di un café per fare colazione! Ops, forse è un po’ presto, è ancora tutto chiuso, hi hi! Mentre aspettiamo che il café apra ci accorgiamo che il Wall Mart è già accessibile e ci fiondiamo per fare scorta di viveri. A proposito: indispensabile il frighetto in polistirolo per un viaggio on the road come questo. È una gran comodità, specie d’estate. Fate la spesa al mattino, riempite il frigo di ghiaccio che trovate sia nei Wall Mart che in tanti motel e avete con voi cibo e bibite fresche tutto il giorno.

Dopo colazione ci mettiamo in strada e, complice l’assoluto deserto dovuto all’orario antelucano, prendiamo la via principale di Williams contromano e per di più senza fermarci all’incrocio. E manco a dirlo, come per incanto ci sbuca davanti un’auto della polizia in senso contrario (ehm, quello giusto…) e ci blocca la strada. Porca paletta! Siamo anche senza cinture! Ci mettiamo le mani nei capelli: “Adesso ci sbattono dentro e buttano via la chiave”. Piccola ramanzina dell’agente piuttosto incavolato (e anche bello sveglio, a dispetto dell’orario), ci profondiamo in mille scuse e per fortuna finisce lì. Dire che ci è andata di lusso è un eufemismo. Non dimenticate mai che negli USA gli agenti si nascondono dietro ogni lampione, ogni cassonetto delle immondizie, ogni pagliaio, ogni filo d’erba, insomma qualunque infrazione commettiate non abbiate dubbi: vi beccheranno!

Durante il tragitto verso il Grand Canyon facciamo sosta a Bedrock City, il parco dedicato ai Flintstones, per qualche foto con Fred e Dino, sotto i cui artigli prendo una crognata pazzesca che mi lascerà un bel bernoccolo in testa per un bel po’ di giorni, giusto perché non mi bastavano gli aculei del Joshua Tree…

Ed eccoci finalmente al Grand Canyon National Park! Parcheggiamo e a piedi raggiungiamo il bordo del South Rim, la sponda del canyon più turistica e facilmente accessibile. Ma dov’è? Ancora non si vede? Sembra di non arrivare mai. Solo quando raggiungiamo il bordo del parapetto ci si spalanca davanti un’autentica meraviglia. Il paesaggio toglie letteralmente il fiato e l’emozione è indescrivibile. Per anni lo abbiamo visto in TV, al cinema, ne abbiamo letto sui libri, ma non ci sono parole o immagini che possano rendergli giustizia. Il Grand Canyon è effettivamente un miracolo della natura. Per un attimo mi perdo in quello spettacolo sconfinato, che mi evoca tanto gli “interminati spazi” e “sovrumani silenzi” e “profondissima quiete” di leopardiana memoria.

Il Grand Canyon risale al periodo precambriano e si è formato in seguito all’azione congiunta dell’erosione del fiume Colorado da un lato e del sollevamento tettonico del Colorado Plateau dall’altro. Il canyon è di una vastità incredibile e il fiume Colorado laggiù in fondo sembra veramente un esile serpentello, ma non lo è, credetemi! Il canyon, che si estende in lunghezza per circa 446 km., in alcuni punti è profondo fino a 1600 m. e la distanza fra il North e il South Rim può variare da alcune centinaia di metri a ben 27 km! Ci spostiamo da un viewpoint all’altro prima a piedi, poi con le navette gratuite dal Bright Angel fino allo Yaki Point, scattando freneticamente foto su foto, mentre simpatici scoiattoli per nulla intimiditi ci saltellano fra le gambe o si avvicinano per cercare qualcosa da mangiare. Verso metà pomeriggio riprendiamo l’auto per percorrere la Desert View Drive che ci porterà alla scoperta dei viewpoint della parte est fino a raggiungere il Desert View Point, il punto di osservazione più alto del South Rim, dove si erge una particolarissima torre di osservazione decorata al suo interno con murales raffiguranti leggende indiane, dalla cui sommità è possibile godere di uno straordinario panorama a 360°.

Lasciamo quindi il parco per proseguire verso nord in direzione Page. Prima di raggiungere il nostro motel facciamo però un’ultima tappa all’Horseshoe Bend, una stupefacente ansa creata dal fiume Colorado che si raggiunge con un trail di circa un km. su un terreno sabbioso a saliscendi impietosamente esposto ai cocenti raggi del sole, fino ad arrivare sul bordo di un precipizio di 300 m. che si getta nel fiume Colorado senza alcuna protezione. Vi ho spaventato eh? Un consiglio: se andate nella stagione estiva preferite magari il primo mattino o il tardo pomeriggio. Il caldo sarà meno soffocante e potrete ammirare gli splendidi colori che le luci di alba e tramonto conferiscono alle rocce e alle acque del fiume. In ogni caso non lasciatevi spaventare da me né tantomeno dal cartello all’inizio del percorso. Gli americani hanno l’abitudine di mettere prudenzialmente in guardia i turisti, ma spesso descrivono i trail come se si trattasse della scalata dell’Everest o dell’attraversamento del deserto del Sahara, forse a misura dell’americano medio generalmente poco atletico e magari anche in sovrappeso.

Si è fatto molto tardi e dobbiamo raggiungere il nostro motel, ma ci ripromettiamo di tornare il mattino dopo per ammirare il “Ferro di cavallo” con una luce diversa.

6 agosto: Horseshoe Bend – Antelope Canyon – Lake Powell

Oggi abbiamo in programma la visita dell’Antelope Canyon, ma abbiamo prenotato dall’Italia il tour delle 11.30 per godere della luce migliore, perciò abbiamo un po’ di tempo a disposizione per tornare all’Horseshoe Bend per altre foto, stavolta con il sole alle spalle.

Verso le 10 ci spostiamo verso l’Upper Antelope Canyon dove ci attende una lunga fila all’ingresso. Meno male che abbiamo prenotato! L’Antelope Canyon è in territorio Navajo ed è visitabile solo con i tour organizzati prenotabili in loco oppure online. La seconda opzione è preferibile se lo si vuole visitare nell’orario migliore (11.00 – 13.00), specialmente se in alta stagione. A quest’ora infatti i raggi del sole che filtrano dall’alto all’interno del canyon colpiscono perpendicolarmente le rocce di arenaria incendiandole di magnifici colori nelle tonalità del rosso e dell’arancio. L’Upper Antelope Canyon si raggiunge a bordo di fuoristrada che conducono i turisti fino all’ingresso, dopo di che una guida Navajo vi accompagna all’interno descrivendovi le varie conformazioni rocciose, la loro origine e dandovi qualche preziosa dritta per settare le vostre fotocamere e i vostri smartphone in modo da ottenere foto spettacolari.

Con un biglietto d’ingresso separato si accede al Lower Antelope Canyon, gestito da tour operator diversi dal precedente. Ricordate che i parchi Navajo hanno una gestione autonoma e non possono usufruire del pass dei parchi nazionali (NPS). Il Lower Antelope Canyon è meno affollato del precedente ma secondo me ancora più bello. Il canyon non si sviluppa orizzontalmente come l’Upper, che è in fondo come una galleria superficiale aperta nella parte superiore, ma penetra in profondità nel terreno ed è raggiungibile per mezzo di scalette metalliche che scendono e poi risalgono più volte. È più lungo dell’Upper e le rocce hanno forme più particolari (divertente ad esempio il profilo di Joker). Inoltre proprio per la profondità non necessita di essere visitato nelle ore centrali per godere dei giochi di luce.

Concludiamo la giornata con una visita al Glen Canyon e al Lake Powell, il lago artificiale sul fiume Colorado creato dalla Glen Canyon Dam. Purtroppo non c’è tempo per una gita sul lago, avremmo voluto vedere il famoso Rainbow Arch ma sarà per un altro viaggio. Per il momento ci accontentiamo di una puntatina sulla spiaggia della Wahweap Marina dove rimpiangiamo di non aver messo il costume. La giornata è stata torrida e le file sotto il sole cocente parecchio stancanti e ora non disdegneremmo un bel tuffo, anche se i nuvoloni all’orizzonte non promettono nulla di buono. Dopo un po’ decidiamo quindi che per oggi ne abbiamo avuto abbastanza e ci dirigiamo in motel. La serata la trascorriamo in un ristorante messicano dove ci godiamo una delle migliori cene della vacanza.

7 agosto: Monument Valley – Canyonlands (The Needles) – Moab

Oggi levataccia alle 5 per recuperare l’ora di fuso che perderemo poi nello Utah. Ma la sveglia più efficace ce la dà un temporalone che si scatena proprio a quell’ora (i nuvoloni della sera prima…) e che non è certo il preludio migliore per la visita del Monument Valley Navajo Tribal Park in programma oggi. Ci avviamo sotto l’acquazzone sperando che il tempo migliori. La nostra berlina non è l’ideale con questo tempo e con il terreno accidentato del parco. Male che vada opteremo per i tour organizzati dai Navajo in 4×4. Ma per fortuna già poco fuori Page smette di piovere e sembra schiarirsi un po’.

Il panorama cambia rapidamente e si cominciano a vedere qua e là i primi accenni dei monoliti in arenaria rossa che saranno poi la caratteristica peculiare della Monument Valley. Attraversiamo il confine con lo Utah, il nostro terzo stato dopo California e Arizona, e giungiamo all’ingresso del parco. Il tour si snoda su uno sterrato piuttosto dissestato e parecchio polveroso che si presta molto bene ad un fuoristrada, ma non è il massimo per una berlina di grosse dimensioni come lo sono la maggior parte delle auto americane. Attenzione quindi a non fare danni perché i Navajo declinano ogni responsabilità e non verranno in vostro soccorso se vi impantanate. Tutto questo ovviamente a beneficio dei tour da loro organizzati e non proprio economici…

Gestione Navajo a parte, la Monument Valley, scenario di tanti film western visti da bambini, quando i nostri eroi si chiamavo John Wayne e Clint Eastwood, è veramente l’icona del West USA per eccellenza, è “La Meta” da visitare assolutamente almeno una volta nella vita, è insomma un sogno che finalmente si avvera. Qui John Ford ha ambientato molti dei suoi film, dando anche il nome ad uno dei viewpoint, il “John Ford’s Point Overlook”, dove troverete invariabilmente un indiano a cavallo a rievocare l’atmosfera western convincendovi magari a regalargli qualche dollaro per una foto. Se c’è una cosa che i nativi d’America hanno imparato bene dai colonizzatori d’oltreoceano è il senso degli affari!

Dopo il tour, un pranzo veloce e una visitina al negozio di souvenir Navajo (dove mi faccio sfilare un centinaio di dollari per due quadri di sedicente “handcraft” nativa, incorreggibile turista pecorona che non sono altro…), lasciamo la Monument Valley in direzione Moab, non senza una sosta sulla UT-163 per guardarci alle spalle e immortalare il panorama reso famoso dal film Forrest Gump, quando il protagonista decide improvvisamente di interrompere la sua corsa con le parole “Sono un po’ stanchino…” Siamo a Mexican Hat, come ci annuncia la bizzarra roccia dalla forma appunto di un cappello messicano che si intravede dalla strada.

Con una piccola deviazione andiamo a visitare velocemente il Goosenecks State Park, dove ammiriamo le anse formate dal fiume San Juan. Proseguiamo per un altro centinaio di miglia verso la parte sud del Canyonlands National Park, denominata The Needles per la caratteristica forma puntuta delle rocce. Questo parco è semplicemente sensazionale. Prima di tutto è immenso: pensate che ha una superficie di più di 1300 km. quadrati e le due parti (nord e sud) non sono collegate fra di loro da una strada percorribile, ma per raggiungere l’una o l’altra bisogna letteralmente “circumnavigare” l’intero parco per più di 100 miglia. La UT-211 che porta verso il Visitor Center per terminare poi al Big Spring Canyon Overlook è piuttosto lunga ma anche molto panoramica: durante il tragitto incontriamo il Newspaper Rock State Historical Monument, una parete rocciosa decorata da graffiti risalenti a circa 2000 anni fa attribuibili ad antiche tribù di nativi americani. La strada panoramica continua per diverse miglia fra guglie e pinnacoli sormontati da singolari “cappelli”. A differenza della parte nord (Island in the Sky) da cui si gode del panorama da una posizione sopraelevata, qui a The Needles si percorre il parco dal fondo del canyon, il paesaggio è aspro e solitario e i percorsi che si staccano dalla via principale si prestano meglio ad un 4×4. Per questo raggiunto il Big Spring Canyon Overlook facciamo solo una breve sosta per qualche foto e poi decidiamo di tornare sui nostri passi: si è fatto tardi e ci separano da Moab altre due ore di strada.

8 agosto: Dead Horse Point – Canyonlands (Island in the Sky) – Arches

Oggi ci aspetta una giornata campale, che ricorderemo come una delle più intense ma anche entusiasmanti dell’intera vacanza. In un solo giorno visiteremo infatti ben tre parchi, percorrendo la bellezza di 20 km. a piedi sotto una canicola infernale. A dire il vero le previsioni meteo gentilmente forniteci dalla receptionist dell’hotel la sera prima non erano per nulla incoraggianti e infatti la giornata si apre con un cielo piuttosto grigio. Per questo non ci siamo nemmeno vestiti tanto leggeri (vai a fidarti della receptionist…) e soprattutto io non ho quel benedetto cappello da cowboy che avrei voluto comprare a Williams (errore imperdonabile!).

Per cominciare ci dirigiamo al Dead Horse Point State Park all’estremità nord-orientale di Canyonlands, un parco statale indipendente e quindi escluso dal pass dell’NPS. E qui ci rendiamo conto di essere su un altro pianeta: arriviamo all’ingresso molto presto, prima del consueto orario di apertura, e non troviamo nessuno a cui pagare i biglietto. Che si fa? Semplice: si mettono i 10 dollari in una busta su cui si scrive la targa della propria auto e la data della visita e si infila tutto in una specie di buca per le lettere. Rimaniamo basiti: ma veramente un metodo del genere funziona negli USA?! In Italia andrebbero in fallimento subito! Ha ha! Addirittura non avendo ben capito come funziona passiamo diritti senza pagare, sperando che al ritorno ci sia qualcuno alla guardiola, ma invece ancora niente. E siccome non vogliamo fare la figura dei soliti italiani furboni chiediamo aiuto ad un turista americano che molto gentilmente ci spiega come fare e ci cambia anche una banconota da 20 dollari. Primo assaggio dell’eccezionale gentilezza e disponibilità degli americani con gli stranieri, nonché della loro onestà (proprio come noi italiani, insomma…).

Il parco non è molto grande e si visita velocemente. Il piatto forte è il cosiddetto Dead Horse Point Canyon Overlook da cui si ammira il Gooseneck, una scenografica ansa di rocce rossastre che si tuffano nelle acque verdi del fiume Colorado. Si racconta che questo luogo fosse un tempo utilizzato come “recinto” per i cavalli selvaggi, che venivano spinti su quest’ansa a strapiombo sul fiume e poi rinchiusi con delle ramaglie a formare appunto un recinto naturale. Una volta pare che i cowboys per qualche misterioso motivo abbiano “dimenticato” i cavalli imprigionati in quest’ansa senz’acqua, i quali morirono di sete con la vista delle acque del Colorado nel baratro sotto di loro. Da qui il nome appunto di Dead Horse Point. In questo luogo è stata anche girata la scena finale di Thelma & Louise in cui le due protagoniste si gettano con l’auto nel canyon sottostante.

La nostra seconda tappa è la parte nord di Canyonlands, denominata Island in the Sky, la parte più facilmente accessibile del parco. Questa zona ci ricorda tanto la “Terra di Mezzo” del Signore degli Anelli, una vasta distesa desolata e inospitale di aspre rocce e oscuri anfratti da cui ci si aspetta sempre possa sbucare da un momento all’altro qualche orco inferocito. Percorriamo la strada panoramica fermandoci ai vari viewpoint e concedendoci qualche trail: visitiamo così l’Upheaval Dome, un cratere del diametro di 5 km. che sembra essere stato lasciato da un antico meteorite in era giurassica, mentre secondo altre teorie potrebbe trattarsi semplicemente di depositi di sale affiorati in superficie in seguito a qualche particolare fenomeno geologico. Proseguiamo alla scoperta di altri sentieri e viewpont: il Green River Overlook, il Buck Canyon Overlook e infine il Grand View Point Overlook, dove termina la strada e si diparte un bel sentiero che conduce fin sul bordo dello strapiombo da cui si può ammirare il punto di confluenza dei due fiumi che hanno dato origine al canyon: il Colorado e il Green River. Tiziano mi indica una roccia su cui andare a fare una foto con il panorama del canyon alle spalle. Vado, mi posiziono, “cheese”… fatto! Soltanto dopo mi accorgerò che sotto i miei piedi c’era il vuoto, mi trovavo sopra uno spuntone di roccia praticamente sospeso su uno strapiombo di 1000 piedi!

Nel pomeriggio rientriamo a Moab per visitare il terzo e ultimo parco, l’Arches National Park. È un parco non vastissimo ma semplicemente stupefacente per l’elevato numero di archi naturali di arenaria (circa 2000) che per un miracolo della natura si sono concentrati tutti in questa zona. Vi è una strada asfaltata che percorre gran parte del parco ma molte zone sono sterrate e quindi raggiungibili solo in 4×4 o a piedi, con camminate neanche tanto brevi totalmente esposte al sole. Gli archi più facilmente accessibili sono lo splendido Double Arch e le vicine Windows con il Turret Arch. Altri splendidi archi come il Sand Dune Arch, il Tunnel Arch o il Pine Tree Arch sono raggiungibili con brevi trail che si dipartono dalla strada principale, ma tenete sempre presente che il caldo, specie nella stagione estiva, è notevole in questo parco e i trail possono essere sfiancanti. Ricordate soprattutto di portare con voi abbondanti scorte d’acqua perché all’interno del parco non ci sono punti di ristoro. L’unica fontanella del parco, collocata al Devils Garden Trailhead, è costantemente presa d’assalto dai turisti e anche noi corriamo a tuffarvi sotto la testa di ritorno dal trail, dove purtroppo per mancanza di tempo e di energie riusciamo ad ammirare solo lo splendido Landscape Arch, che con la sua sottile campata di oltre 88 m. risulta essere l’arco naturale più lungo del mondo.

È quasi sera, rimarrebbe da percorrere il trail di circa 3 miglia che porta al Delicate Arch, l’arco più bello simbolo del parco e dello stato dello Utah, ma siamo devastati dalla fatica e abbrustoliti dalle camminate sotto il solleone e con immenso rammarico dobbiamo accontentarci di ammirare l’arco dal viewpoint. Ci ripromettiamo però di tornare presto in un futuro viaggio per completare la visita; questo parco merita tutto il tempo necessario per essere goduto appieno. Ci dirigiamo quindi verso l’uscita passando ancora una volta davanti a bizzarre conformazioni rocciose come il Balanced Rock, il Great Wall, i Three Gossips e diamo infine l’arrivederci al parco stanchi ma appagati.

9 agosto: Capitol Reef – Grand Staircase-Escalante – Bryce Canyon

Da Moab si può raggiungere il Bryce Canyon attraverso la I-70, una comoda Interstate che però non offre molto dal punto di vista paesaggistico. In alternativa si può percorrere una stupenda strada panoramica che attraversa più a sud i parchi di Capitol Reef e Grand Staircase-Escalante, snodandosi piuttosto solitaria fra rocce dai mille colori e dalle forme più bizzarre, che diventano poi verdi foreste di conifere popolate di fauna selvatica a mano a mano che ci si avvicina al Bryce Canyon. È la famosa Scenic Byway (UT-24 + UT-12) di cui abbiamo letto meraviglie nei vari forum durante la pianificazione del nostro viaggio e che consigliamo vivamente di percorrere come abbiamo fatto noi, se avete un po’ di tempo. Con una breve deviazione è possibile raggiungere anche la Goblin Valley, che noi purtroppo abbiamo dovuto saltare per mancanza di tempo ma che abbiamo già inserito nella lista delle mete imperdibili del nostro prossimo viaggio.

Arriviamo al Bryce Canyon National Park all’ora di pranzo. Nonostante l’orario fa piuttosto freschino: il parco infatti si trova ad un’altitudine compresa fra i 2400 e i 2800 m. e il meteo può fare bruschi cambiamenti anche in piena estate, costringendovi a passare rapidamente dalle maniche corte alla felpa. A dispetto del nome il Bryce Canyon non è per nulla un canyon, nel senso che non c’è traccia di un fiume a cui debba la sua formazione come nel caso del Grand Canyon. Il Bryce sembra infatti essere una conca in cui si sono depositati i sedimenti di antichi laghi e corsi d’acqua risalenti a circa 55 milioni di anni fa che sono poi affiorati in superficie dando origine al Colorado Plateau. In seguito l’attività di erosione di vento, acqua e ghiaccio ha creato gli stupendi e particolarissimi pinnacoli noti con l’appellativo di “hoodoos” o “camini delle fate” che sono la caratteristica peculiare del Bryce Canyon.

Il parco non è grandissimo e si può percorrere in auto come abbiamo fatto noi o con il bus navetta gratuito. È attraversato da un’unica strada che termina in fondo al parco in corrispondenza dello spettacolare Rainbow Point, un vasto anfiteatro naturale in cui ammiriamo una coloratissima distesa di pinnacoli di un bell’arancio vivo. I colori delle rocce sono messi ancora più in risalto dal contrasto con il verde intenso delle foreste di conifere in cui è immerso il parco. Dai vari viewpoint si possono ammirare in tutto 14 anfiteatri di diversi colori, dal bianco all’arancio al rosso vivo, che si incendiano in modo particolare all’alba e al tramonto a seconda dell’orientamento dell’anfiteatro rispetto alla luce solare. Ecco quindi che il Sunset Point sarà ancora più splendente nel tardo pomeriggio, mentre il Sunrise Point dà il meglio di sé alle prime luce del mattino.

Oltre agli “hoodos” si possono ammirare altre bellissime sculture naturali create dall’azione di vento e acqua, come ad esempio il Natural Bridge, un arco in arenaria che ricorda quelli più famosi di Arches National Park, o l’Agua Canyon dove troverete un pinnacolo che ricorda il profilo di una testa umana, o il Mossy Cave con una strana roccia a forma di tartaruga. La testa purtroppo non c’è più, erosa dagli agenti atmosferici qualche anno fa, e questo ci dà la misura di quanto queste rocce siano fragili e in continua trasformazione. Dai vari viewpoint si dipartono poi dei trail che scendono giù alla base degli anfiteatri permettendovi di vedere gli “hoodos” da vicino. I più famosi sono il Navajo Loop e il Queens Garden Trail che noi percorriamo per un tratto finché non cominciano ad allungarsi le ombre della sera.

10 agosto: Zion – Las Vegas

Il giorno dopo rientriamo brevemente al Bryce Canyon per godere del Sunrise Point alla luce dell’alba. Nella quiete del mattino e senza la ressa di turisti il parco è ancora più bello, incontriamo un sacco di animaletti (varie specie di uccelli, scoiattoli e chipmunks) che corrono velocissimi fra i nostri piedi, mentre un gruppetto di turisti mattinieri scende giù nel canyon a cavallo accompagnato da una guida.

Lasciamo quindi il Bryce in direzione Las Vegas, ma non percorriamo la più veloce I-15, bensì la US-89 che porta allo Zion National Park. Questo parco, attraversato dal Virgin River, è uno spettacolo di rocce multicolori, strapiombi vertiginosi, corsi d’acqua che a volte incrociano i sentieri e che bisogna letteralmente guadare. All’interno del parco non è consentito circolare in auto, che va lasciata al Visitor Center a Springdale, dopo di che sono a disposizione le navette gratuite per raggiungere i vari viewpoint e trailhead lungo la Zion Canyon Scenic Drive. Il parco richiederebbe almeno una giornata intera ma noi purtroppo oggi siamo molto tirati, per cui con rammarico dobbiamo limitarci a percorrerlo esternamente in auto attraverso la panoramica UT-9, che si distingue per il colore rosso mattone dell’asfalto, quasi a richiamare quello delle rocce circostanti.

Proseguiamo quindi in direzione Las Vegas, la “sin city” nel cuore del Deserto del Mojave, dove contiamo di rilassarci un paio di giorni fra lusso, ozi e stravizi (e come no!). La prima cosa che notiamo avvicinandoci alla città sulla I-15 è il caldo infernale. Facciamo sosta sulla Interstate per la foto di rito sotto il “Nevada Sign” che demarca il confine di stato, ma siamo costretti a scappare rapidamente in auto in cerca del ristoro dell’aria condizionata. Be’, in fondo è l’una, è normale no? Proseguiamo e dopo un po’ finalmente scorgiamo da lontano la città come immersa nella nebbia: smog o piuttosto calura? Incredibile, una metropoli nel bel mezzo del nulla, un’autentica cattedrale nel deserto.

Non ci dirigiamo subito in centro ma proseguiamo in direzione sud-est verso il Lake Mead, il bacino artificiale sul fiume Colorado creato dall’imponente Hoover Dam, che all’epoca della sua realizzazione negli anni ’30 era la più grande degli Stati Uniti e che costituisce una riserva d’acqua e di energia elettrica per buona parte degli stati del south-west. La diga si trova proprio sul confine fra Nevada e Arizona. Salendo sulla sommità è possibile percorrerla in tutta la sua lunghezza “saltando” da uno stato all’altro dalla torretta ovest (in Nevada) alla torretta est (in Arizona), tra l’altro contraddistinte da due diversi fusi orari. Da notare che la diga, per la sua importanza, è un obiettivo militare estremamente sensibile, per cui per accedervi è necessario passare attraverso il metal detector proprio come negli aeroporti. La vista a strapiombo dalla sommità della diga è vertiginosa e c’è un vento notevole nonostante il sole picchi impietosamente (meno male che ora ho il mio cappello da cowboy acquistato al Bryce!). È questo il primo assaggio del tipico clima desertico, come ci ricordano i 114°F indicati dalla nostra auto quando andiamo a recuperarla in parcheggio.

Proseguiamo verso il centro città alla ricerca del nostro hotel, l’Excalibur, all’inizio della strip. Dopo esserci ingarbugliati fra le highways e aver sbagliato strada 3-4 volte finalmente arriviamo all’hotel, che per fortuna ha un bel parcheggio grande. Meno male, almeno questo problema è risolto. Entriamo nella hall e… aiuto! È enorme! Pieno di slot machines, lì per lì non sappiamo dove andare e chiediamo informazioni un po’ spaesati alla concièrge, che ci indica il banco della reception… chilometrico! E pieno di gente che aspetta in fila il proprio turno per fare il check-in. Ci assegnano la stanza nella Tower 2, e anche qui chilometri a piedi per raggiungerla fra slot machines, roulettes e tavoli da gioco di tutti i tipi. A dire il vero rispetto agli altri hotel che vedremo più tardi L’Excalibur non regge il confronto, le stanze sono un po’ vecchiotte e avrebbero bisogno di una rinfrescata, ma lo avevamo scelto per la convenienza oltre che per la posizione. In effetti gli hotel a Las Vegas in genere sono piuttosto economici ma presto capiamo il perché: Las Vegas è un’enorme macchina mangia-soldi, quello che si risparmia sul costo della stanza se lo riprendono moltiplicato per 100 su tutto il resto, perché sappiate che qui qualsiasi cosa costa, e costa tanto!

Stremati dal caldo e dalla fatica (siamo quasi a metà vacanza) decidiamo di andare a fare una puntatina in piscina, dove passiamo il resto del pomeriggio a rilassarci un po’. Stasera usciremo per cena e farà sicuramente più fresco. Sì sì, credici… Usciamo e veniamo subito travolti da uno scintillio di luci, colori, musica a tutto volume e… caldo! Un caldo asfissiante, come avessimo puntato addosso un phon, quasi quasi era meglio il sole a picco delle due di pomeriggio. E quel che è peggio è che per non farti attraversare le strade trafficate (e soprattutto per farti passare davanti a boutiques, ristoranti e tavoli da gioco…) a Las Vegas ti fanno fare quasi dei percorsi obbligati che attraversano i vari hotel come se fossero un tutt’uno, con il risultato di continue botte di aria condizionata seguite da saune ben poco rigeneranti non appena ti azzardi a uscire all’aperto. Ma tant’è. Ammiriamo alcuni scintillanti hotel famosi per essere fedeli riproduzioni in scala ridotta di alcune delle più belle città del mondo, come il New York New York con i suoi grattacieli e la Statua della Libertà, il Paris che all’interno riproduce le pittoresche vie della città con tanto di negozi, bistro, lampioncini e addirittura il cielo e le nuvole dipinti sul soffitto, il Caesars Palace che richiama l’architettura dell’antico Impero Romano, fino ad arrivare al fantasmagorico Bellagio, omaggio all’affascinante cittadina sul Lago di Como e come senz’altro ricorderete set del film Ocean’s Eleven, dove ci uniamo alla folla già numerosissima in attesa dello spettacolo delle fontane.

Per stasera decidiamo che basta, la strip è ancora lunga e abbiamo tutto il giorno successivo per visitarla.

11 agosto: Las Vegas

Oggi dedichiamo la mattinata a visitare qualche altro hotel e outlet. Vista l’esperienza della sera precedente (chilometri e chilometri a piedi con un caldo soffocante), decidiamo di fare il pass giornaliero della Monorail, che è appunto una monorotaia sopraelevata che scorre dietro ai grandi hotel parallelamente alla strip. Ritorniamo al Bellagio per visitarlo all’interno, con i suoi grandi saloni lussuosi e i marmi raffinati. Passiamo ancora una volta al Paris con i suoi romantici vicoletti e la sua atmosfera magica: questo è di gran lunga l’hotel che abbiamo preferito e dove, con il senno di poi, ci sarebbe piaciuto alloggiare. Entriamo infine a visitare il Venice e il Palazzo, con altre meravigliose riproduzioni in scala ridotta delle icone architettoniche della nostra Venezia.

Il pomeriggio lo trascorriamo ancora in piscina, non senza aver prima schiacciato un pisolino ristoratore, il primo dall’inizio della nostra vacanza. Abbiamo ancora molti giorni e molte miglia davanti e dobbiamo cercare di ricaricare un po’ le pile. Andiamo a dare un’occhiata a quel che offre il ristorante del nostro hotel, ma scoraggiati dalla cifre non proprio “amichevoli” decidiamo che può andar bene anche il fast food. Le nostre tasche sicuramente ringrazieranno, anche se il nostro fegato probabilmente molto meno… Dopo cena usciamo per l’ultima passeggiata lungo la strip e per concludere facciamo un salto sullo Stratosphere per goderci le luci della città dall’alto.

Certo è di sera che la città si trasforma e dà il meglio di sé, ovviamente per chi ama luci, colori, musica, divertimento e soprattutto lui: il gioco. Noi che non abbiamo più l’età per le discoteche e nessun interesse in comune con gli amanti dei tavoli verdi non ci siamo fatti troppo sedurre da questa città, dove più che il relax abbiamo trovato una fonte di stress. L’impressione finale che ne abbiamo avuto è quella di una città artificiale, finta, un grande Luna Park per adulti mai cresciuti. E pensare che qualche mese fa avevamo pensato addirittura di sposarci qui! Adesso proprio non mi ci vedrei vestita da Pocahontas a sposarmi con Buffalo Bill con una cerimonia flash presenziata da Elvis Presley! Un po’ troppo kitch per i nostri gusti. E allora via da questa città infernale! Domani ci aspetta una delle mete più attese di tutto il viaggio.

12 agosto: Death Valley

Oggi ci attende un’altra giornata impegnativa, per cui ci lasciamo Las Vegas alle spalle di buon’ora, non senza però una doverosa ultima foto sotto il “Las Vegas sign”, l’insegna emblema della città. Ebbene sì, visto che a Las Vegas non abbiamo sofferto abbastanza il caldo, oggi passeremo l’intera giornata in un’autentica fornace, che si rivelerà però uno dei parchi più stupefacenti che abbiamo visitato. È la Death Valley, il luogo più caldo del pianeta. Qui nel 1913 è stata infatti raggiunta la considerevole temperatura di 134°F (57°C), per l’appunto la più alta temperatura mai registrata sulla terra.

Avendo un’intera giornata a disposizione vogliamo visitarla in lungo e in largo, e per non farci mancare niente ci infiliamo subito una bella deviazione sulla US-95 per andare a sbirciare, seppur da lontano, la zona di accesso all’inquietante base militare nota come “Area 51”. Purtroppo non possiamo andare oltre, gli avvisi “No trespassing” e le telecamere di sorveglianza, per non parlare di un’auto dello sceriffo di guardia all’imbocco della via, sono tutt’altro che incoraggianti e non ci resta che proseguire per la nostra strada, direzione Beatty. Da qui prendiamo la CA-190 che ci porta a Stovepipe Wells, dove visitiamo la prima attrazione del parco, lo Scotty’s Castle. Incredibile: siamo nel bel mezzo del deserto, il luogo più arido e inospitale che si possa immaginare, e cosa ci troviamo? Un autentico castello. E non un sinistro maniero, ma proprio una bella villa in stile coloniale spagnolo molto elegante e finemente arredata, realizzata nei primi anni ’20 del secolo scorso. La villa-castello in realtà non apparteneva allo Scotty (Walter Scott) cui deve il nome, il quale pensate era un truffatore che convinse un milionario, un certo Albert Mussey Johnson, ad andare ad investire nella sue ipotetica miniera d’oro nella Death Valley, miniera che in realtà non esisteva affatto. Scoperta la truffa, dopo il disappunto iniziale Johnson strinse amicizia con Scott e più tardi decise con la moglie di costruire nella zona una casa per le vacanze. Fu così che iniziò la costruzione della villa, che è oggi nota con il nome di Scotty’s Castle poiché fu Scott a prenderne in mano la gestione alla morte dei proprietari.

Riprendiamo la visita dirigendoci verso l’Ubehebe Crater, un cratere vulcanico del diametro di circa un km. situato nella parte nord della Death Valley. E qui abbiamo il primo assaggio dello strano clima della valle: sul bordo del cratere il vento è fortissimo, non riusciamo quasi a mantenere l’equilibrio e scattare foto è un’impresa. Incredibile come una zona così sferzata dal vento possa essere tanto rovente. Riprendiamo l’auto in direzione Furnace Creek, fra aride colline rocciose dai mille colori, grigio, ocra, rosa, mentre la temperatura esterna sale sempre più: 114°F, 115°F…

Arriviamo a Furnace Creek verso l’una (proprio l’orario migliore!) e scesi dall’auto veniamo subito investiti da un’ondata di calore pazzesco. Sembra impossibile ma all’esterno il caldo è talmente tanto che anche all’ombra sembra di stare al sole. Al Furnace Creek Ranch dove passeremo la notte la nostra stanza non è ancora pronta. Entriamo allora al Visitor Center e poi allo store adiacente all’hotel, non tanto perché interessati ai souvenir ma piuttosto per godere di un po’ di refrigerio. A quanto pare anche altri hanno avuto la stessa idea perché è pieno di gente, verrebbe da pensare che offra merce molto a buon mercato se non si guardassero i cartellini dei prezzi. Qui è tutto molto caro, è praticamente l’unico hotel di Furnace Creek e ovviamente ne approfittano.

Dobbiamo attendere un paio d’ore prima che ci venga assegnata la stanza, così ne approfittiamo per un panino e l’ennesima spola fra lo store e la hall dell’hotel in cerca del refrigerio dell’aria condizionata. Ci mettiamo in moto per la visita alla parte centrale della Death Valley che sono quasi le 4 del pomeriggio e il computer di bordo della nostra auto segna 120°F! (vi facilito il compito: 49°C). Subito ci vengono in mente tutte le raccomandazioni lette sulla guida: bere tanta acqua, averne scorte anche per il radiatore, spegnere ogni tanto l’aria condizionata per non forzare il motore, rimanere all’interno dell’auto in caso si rimanga in panne… Non voglio neanche pensarci! Oltre al fatto che probabilmente non ci sarà copertura cellulare. Aiuto! Ma vediamo subito che le strade sono molto frequentate, evidentemente anche gli altri turisti come noi pensano sia meglio fare il tour nel tardo pomeriggio per soffrire un po’ meno il caldo.

Ci fermiamo al Golden Canyon pensando di poter fare un breve trail, ma già il cartello all’inizio del percorso è poco invitante: “STOP. Extreme Heat Danger. Walking after 10 AM not recommended”. E infatti… percorriamo qualche metro all’interno del canyon, che di primo mattino sarebbe stato di certo molto bello, ma non c’è niente da fare, il sole picchia inesorabile sulle nostre teste nonostante il cappello e non riusciamo a resistere a lungo fuori dall’auto.

Il nostro tour prosegue verso il Devil’s Golf Course, il campo da golf del diavolo (il nome dice già tutto), per poi incontrare Badwater Basin, una depressione che con i suoi 85,5 m. sotto il livello del mare rappresenta il punto più basso degli Stati Uniti. La superficie che un tempo ospitava un lago è ora ricoperta da uno strato di sale che le conferisce un caratteristico colore bianco abbagliante. Sembra quasi di camminare sulla neve, ma è un manto nevoso piuttosto rovente!

Ritorniamo verso Furnace Creek attraversando la Artist’s Drive, una bellissima strada panoramica a senso unico che si snoda sinuosa e con qualche saliscendi fra stupefacenti rocce dai mille colori, fino ad arrivare ad un punto di sosta proprio di fronte all’Artist’s Palette, un’incredibile tavolozza di colori frutto delle innumerevoli attività vulcaniche di queste zone. Deviamo quindi verso destra sulla CA-190 e arriviamo allo Zabriskie Point, con il suo paesaggio lunare fatto di increspature rocciose nelle tonalità del bianco, del grigio e del color sabbia dorato. Il pomeriggio sta volgendo al termine e sappiamo che c’è un punto da cui si gode una vista mozzafiato sullo spettacolo della Death Valley: è Dante’s View, uno scorcio di incantevole “Inferno” dantesco dalla sommità del punto più alto del parco, dove attendiamo che il tramonto incendi la valle sottostante dei suoi incredibili colori.

Rientriamo in stanza molto tardi e con una sola idea in testa: una bella doccia rinfrescante. E scopriamo invece che a Furnace Creek l’acqua è “naturalmente” calda, cioè non c’è verso di fare una doccia non dico fredda, ma almeno tiepida, l’acqua esce invariabilmente sempre bollente, sigh… OK, rinfrescante doccia bollente fatta e subito a nanna. A dire la verità volevamo dormire nella Death Valley per poter contemplare il cielo stellato che, a quanto si dice, qui è più bello che altrove, ma chi se lo ricorda? Siamo troppo distrutti, vedremo il cielo stellato in qualche altro deserto. Prima di dormire però meglio approfittare del WiFi per dare un’occhiata alla posta, è da un paio di giorni che non la controlliamo e in mezzo al deserto certo non c’è copertura. E qui comincia il capitolo “disavventure”…

Apro la posta e trovo una mail di un hotel che dice di averci disdetto la prenotazione perché la nostra carta di credito non funziona. Eh? Che fesserie sono queste? La carta di credito l’abbiamo usata anche oggi e funzionava benissimo. E l’hotel è quello dove dobbiamo dormire… domani sera! Ed è quello di Lee Vining, all’entrata est del Parco di Yosemite, dove ci saranno sì e no tre strutture turistiche in croce, che a metà agosto saranno certamente full. E ora che si fa? Provo a telefonare… mannaggia non c’è copertura. Ovvio, siamo in mezzo al deserto. Tra l’altro è quasi mezzanotte. Non mi resta che aspettare domattina e chiamare dal telefono pubblico dell’hotel. Guardo Tiziano che dorme già come un ghiro. Decido di non svegliarlo, meglio che si riposi, domani sera potrebbe dover dormire sotto il cielo stellato che non abbiamo visto stasera!

13 agosto: Mono Lake – Bodie Ghost Town – Lee Vining

Mi sveglio alle 6 con un solo pensiero in testa: andare a telefonare all’hotel e dirgliene quattro. Chiamo e mi risponde un call center: ecco spiegato l’inghippo, le prenotazioni dell’hotel sono gestite da un’agenzia, qualche operatore poco attento avrà certamente digitato un numero della carta sbagliato e avrà cancellato la prenotazione di default, tanto a loro che gliene importa! Spiego l’accaduto all’operatrice che mi dice che la mia carta è “invalid”. Insisto che la carta invece funziona benissimo e che se mi avessero almeno chiamato avrei potuto fornirgliene un’altra. Mi risponde che loro per prassi non telefonano a nessuno. Ah, bravi! E voi cancellate una prenotazione così, senza avvisare le persone che magari vengono dall’altra parte del mondo?! Mi dice che se voglio posso riprenotare. E quanto costa? Di più naturalmente. Comincio a scaldarmi… L’operatrice imperturbabile mi risponde che purtroppo la nostra stanza originaria non è più disponibile e quella nuova costa di più. Non voglio stare tanto a discutere alle 7 di mattina in mezzo al deserto, tanto più che si tratta del pernottamento di stasera, dove vado a trovarla un’altra sistemazione allo Yosemite in alta stagione? Accetto di riprenotare e do nuovamente le coordinate della carta di credito (la stessa ovviamente). Toh! Funziona perfettamente. Mi balena l’idea che sia tutta un po’ una truffa per tirare su col prezzo ma decido di soprassedere. Abbiamo perso anche troppo tempo e oggi ci aspetta un altro bel tappone di 500 km.

Riprendiamo quindi la CA-190 verso ovest in direzione Lee Vining, incontrando sul nostro percorso il Devil’s Cornfield, le dune di sabbia di Mesquite Flat e lasciando infine la Death Valley a Panamint Springs, dove ci attende a salutarci un coyote solitario e probabilmente anche molto affamato, che rapidamente si allontana deluso quando si accorge che non abbiamo leccornie per lui. Proseguiamo quindi sulla CA-190 fino a Lone Pine, dove ci innestiamo sulla US-395 che costeggiando la Sierra Nevada e la Inyo Forest ci condurrà fino a Mammoth Lakes e poi a Lee Vining sul Mono Lake. È questo un lago alcalino di origine vulcanica, contraddistinto dalle sue stranissime formazioni sedimentarie che gli conferiscono un aspetto un po’ spettrale. Nonostante le apparenze è invece un ecosistema molto vitale che ospita numerose varietà di uccelli.

La nostra prossima tappa è Bodie. Si tratta di una delle numerose “ghost town” presenti in California, antiche città minerarie insediate durante il periodo della corsa all’oro di fine ‘800, che sono state poi abbandonate una volta esaurite le miniere. Questa però è famosa perché è straordinariamente ben conservata, tanto da essere stata dichiarata State Historic Park nel 1962. La città si trova a circa 35 miglia a nord di Lee Vining e l’ultimo tratto di 17 miglia è uno sterrato piuttosto sinuoso, ma se avete un po’ di tempo vale veramente la pena di visitare questo posto unico, dove il tempo sembra essersi fermato agli anni ’30 del secolo scorso. Ci sono abitazioni molto ben conservate, il municipio, la chiesa, la scuola, il tribunale e anche un museo molto interessante che ospita tra l’altro delle stupende carrozze d’epoca e perfino un carro funebre!

Rientriamo a Lee Vining per prendere possesso di quella sudatissima stanza al Lake View Lodge (ve lo dico, giusto in caso aveste in mente di prenotare qui) e poi usciamo per cena. Rientrando scorgiamo un avviso di avvistamento orsi nella zona. Ops! Ci guardiamo in giro nell’oscurità e affrettiamo il passo verso il nostro bungalow. Non vorremmo fare brutti incontri. Il bungalow è un po’ defilato in un vicoletto piuttosto buio sul retro del Lodge. Meno male che almeno la stanza è molto grande e c’è un bel bagno. Peccato che di notte mi sembrerà sempre di sentire dei rumori strani provenire da fuori e ripenserò a quell’avviso sugli orsi… Meglio provare a dormire, và. Gli orsi speriamo di vederli nel parco domani.

14 agosto: Yosemite National Park

Il mattino di buon’ora prendiamo la vicina CA-120 che ci permetterà di attraversare il Tioga Pass ed entrare allo Yosemite National Park. Il passo si trova ad un’altitudine di oltre 3000 m. ma incredibilmente non sembra di salire così tanto, la pendenza della strada è quasi impercettibile, come succede su molte strade di montagna americane. Continuiamo sulla Tioga Road costeggiando i Tuolumne Meadows e il Tenaya Lake, fino ad arrivare al bivio con la Big Oak Flat Road che ci porterà poi nel cuore della Yosemite Valley. Sappiamo che purtroppo non potremo ammirare le famose sequoie giganti del Mariposa Grove, chiuso per lavori fino al 2017, per cui facciamo la nostra prima tappa al Tuolumne Grove of Giant Sequoias, dove una discesa piuttosto ripida ci porterà ad ammirarne altre, anche se meno maestose.

Scendiamo quindi nella Yosemite Valley solcata dall’idilliaco Merced River, dove veniamo subito accolti dall’imponenza del massiccio granitico simbolo del parco, El Capitan. Proseguiamo fino al Visitor Center nel cuore della valle dove parcheggiamo e ci dirigiamo verso le Yosemite Falls, le stupende cascate per le quali è famoso il parco. Peccato che il periodo ideale per ammirarle sia la primavera, quando si sciolgono i ghiacci e la loro portata d’acqua è maggiore. Ora, in piena estate, sono ridotte ad un rivoletto che scende dalla sommità delle rocce e perciò sono meno spettacolari. Vale comunque la pena di percorrere uno dei trail e arrivare almeno alla base delle cascate inferiori, le Lower Yosemite Falls, come abbiamo fatto noi. Una particolarità che abbiamo notato è che nei parchi americani i sentieri fra le montagne sono spesso lastricati. Gli americani sono infatti molto attenti al fattore “accessibilità”, ne troverete spesso menzione anche visitando i siti dell’NPS. Questo agevola notevolmente il turista, tanto che a volte certi percorsi sono accessibili perfino ai bambini sui passeggini, anche se forse toglie un po’ di naturalezza ai luoghi.

Nel pomeriggio andiamo a visitare il Mirror Lake, che ci offre uno scorcio della stranissima roccia granitica a semicupola nota appunto con l’appellativo di Half Dome. Ai margini dei sentieri scorgiamo molta fauna selvatica che si nasconde fra la vegetazione, cerbiatti, scoiattoli, chipmunks… e anche una trappola per orsi! Nessuna traccia invece del nostro amico Yoghi in carne e ossa. Nel tardo pomeriggio riprendiamo l’auto per raggiungere il nostro motel a Mariposa, fuori dall’entrata ovest del parco. Il motel è molto spartano, forse il livello più basso raggiunto nella nostra vacanza: c’è un bagno minuscolo, non ci sono piani di appoggio per le valigie né attaccapanni nell’armadio, ma come sempre le strutture turistiche a ridosso dei parchi sono costose e non sempre all’altezza delle aspettative e per non dover fare troppe miglia avanti e indietro abbiamo dovuto adeguarci. Mariposa comunque è un paesino carino e pieno di localini e buoni ristoranti e anche qui consumiamo un’altra ottima cena a base di carne (se solo non mettessero tutte quelle salse), interrompendo finalmente l’infilata di fast food per la quale il nostro fegato stava cominciando a gridare vendetta (non so se si capisce che la cucina americana non è stata fra le note più apprezzate di questa vacanza…).

15 agosto: Yosemite National Park

Oggi completiamo la visita del parco salendo innanzitutto al Glacier Point, il punto panoramico più alto del parco situato a circa 2200 m., che si può raggiungere sia attraverso diversi percorsi a piedi che in auto lungo la Glacier Point Road. Da questo punto panoramico si gode di una vista superba su tutta la Yosemite Valley, con scorci suggestivi dell’Half Dome, della Vernal Fall e della Nevada Fall, altre due stupende cascate che scorgiamo nitidamente nonostante la scarsità d’acqua e la foschia del cielo. Dal Glacier Point si dipartono poi diversi trail e anche noi scegliamo di percorrerne uno in discesa, finché non ci accorgiamo che si tratta del famoso Four Mile Trail che inizia a fondovalle, ma nel frattempo si è fatto mezzogiorno e il pensiero di dover poi risalire le 4,8 miglia del trail ci fa desistere, per cui ritorniamo sui nostri passi.

Riprendiamo l’auto e lasciata la Glacier Point Road deviamo verso sud in direzione Wawona. Questa è la zona in cui inizialmente avevamo pianificato di visitare il Mariposa Grove of Giant Sequoias, che ora constatiamo essere effettivamente chiuso per lavori come previsto. Purtroppo quando abbiamo appreso della chiusura era troppo tardi per modificare le prenotazioni e così abbiamo preferito mantenere inalterato il nostro programma. A Wawona diamo un’occhiata al Visitor Center e ammiriamo l’elegante Wawona Hotel, un hotel storico risalente all’epoca vittoriana. Nelle vicinanze visitiamo poi il Pioner Yosemite Historic Center, un piccolo museo all’aperto che raccoglie edifici storici appositamente trasferiti qui da varie zone di Yosemite. Suggestivo il ponte in legno su uno dei numerosi ruscelli del parco, attraversato di tanto in tanto da una carrozza che porta a spasso i turisti.

Non sapendo come impegnare il resto del pomeriggio, ci avventuriamo inizialmente su un sentiero tra i boschi che però non ci entusiasma troppo. OK, lo ammetto, la colpevole sono io. Diciamo che non ho particolare simpatia per i serpenti (per poco non ne pestiamo uno!) e che il fatto di essere praticamente i soli a passeggiare per questo bosco mi mette una certa ansia e continuo a guardarmi in giro per accertarmi che non ci siano orsi. Per farla breve, rompo così tanto le scatole che decidiamo di rientrare in motel prima del previsto per riposarci un po’ in vista del viaggio verso San Francisco del giorno dopo. Si rivelerà un errore fatale.

Stiamo percorrendo la CA-140 in direzione Mariposa e complice la quiete dei luoghi, l’assenza di traffico e diciamo pure la stanchezza, mi accorgo che ogni tanto “mi cala la palpebra”. Ora non so se anche a Tiziano stia succedendo la stessa cosa, fatto sta che ad un certo punto sento un botto tremendo, improvvisamente sono sveglissima, apro gli occhi e mi ritrovo coperta di schegge di vetro con il parabrezza davanti al mio naso completamente disintegrato. In seguito Tiziano mi racconterà di aver visto “volare” una “cosa marrone” davanti alla macchina. L’auto dietro di noi si ferma e ci dice che la “cosa marrone volante” era un cervo, come effettivamente testimoniano i numerosi pelli attaccati a quel che resta del parabrezza. Evidentemente lo sventurato cervo dev’essere balzato sulla strada dalla boscaglia e trovatosi improvvisamente davanti l’ostacolo dell’auto deve aver cercato di saltarla, atterrando invece fra il tetto e il parabrezza.

Passato lo shock iniziale ci rendiamo conto che non possiamo guidare in queste condizioni ma dobbiamo chiamare il carro attrezzi. Porca p…upazza! Mi viene in mente che quando abbiamo ritirato l’auto al desk della Budget non abbiamo voluto fare la roadsafe! Ci spelleranno vivi! Chiamo il numero di emergenza fornito dalla Budget e non senza fatica fra il rumore del traffico e l’agitazione riesco a spiegare all’operatrice dove siamo e cos’è successo. Attendiamo pazienti il carro attrezzi ma siamo in buona compagnia: gli americani sono molto “helpful” e molte auto si fermano a chiederci se abbiamo bisogno di aiuto, un gruppetto di attempate signore comincia addirittura a chiacchierare e a farci domande sull’Italia. Dopo un po’ vediamo passare la camionetta dello sceriffo di Mariposa che rallenta e poi fa dietro front. Aia, ci siamo… Sappiamo che negli Stati Uniti investire animali selvatici è punito severamente, ci mancava solo questa… Invece lo sceriffo si ferma, ci chiede se stiamo bene e se abbiamo già chiamato i soccorsi, poi saluta e se ne va. Fiu…

Dopo ben due ore arriva il carro attrezzi… senza auto sostitutiva! L’operatrice al telefono aveva proprio capito la situazione. E così ci tocca salire anche noi sul carro attrezzi insieme alla nostra auto incidentata per raggiungere il più vicino autonoleggio Budget… all’aeroporto di Fresno! Una cosa come 100 miglia di strada. Meno male che il nostro simpatico “soccorritore” ci viene gentilmente in aiuto spiegando al desk dell’autonoleggio che oltre ad aver atteso due ore i soccorsi abbiamo dovuto anche sorbirci 100 miglia di strada perché loro non ci hanno portato l’auto sostitutiva, impietosendo così l’impiegato quel tanto da non addebitarci il carro attrezzi che non era compreso nella nostra assicurazione. Non finiremo mai di ringraziarlo.

L’autonoleggio dell’aeroporto di Fresno è meno fornito di quello di Los Angeles e cercano di appiopparci una VW Jetta con la spia “Service” accesa. Il meccanico minimizza dicendo che avrebbe effettivamente bisogno di fare il tagliando ma che può percorrere ancora parecchie miglia e che non c’è pericolo per la sicurezza. Lì per lì ci facciamo convincere ma poi mentre eravamo già per strada ci accorgiamo che manca anche la porta USB. Eh no! Passi il cambio dell’olio (!) ma la porta USB è vitale! Come facciamo con gli smarphone, il tablet, il navigatore e compagnia bella? Quando si dice essere schiavi della tecnologia. Insomma, facciamo dietro front e insistiamo per farci cambiare l’auto. Altro tempo perso. Alla fine ci consegnano una Toyota Corolla che sembra a posto e veniamo letteralmente cacciati dall’impiegato che ci tira dietro anche un adattatore accendisigari-USB al grido di “Non voglio più vedervi!”

Oltre al danno la beffa, si direbbe. Ci rifacciamo le 100 miglia verso Mariposa e rientriamo in motel all’una di notte e senza cena. E domani ci aspetta il viaggio di trasferimento a San Francisco. Bella giornata, insomma. Be’, se non altro abbiamo la macchina nuova.

16 agosto: San Francisco

Raggiungiamo San Francisco verso le 11, accedendo però non dall’Oakland Bay Bridge, ma dal Richmond-San Rafael che ci condurrà al pittoresco villaggio di pescatori di Sausalito. In questo modo sfruttiamo l’auto che poi lasceremo ferma al parcheggio del motel per i 3 giorni della nostra permanenza a San Francisco. Piccola curiosità: tutti i ponti di San Francisco sono a pedaggio che però si paga solo “inbound”, cioè in ingresso alla città, mentre non si paga nulla in uscita.

A Sausalito abbiamo già un assaggio delle caratteristiche case in stile vittoriano e dai colori pastello che saranno la particolarità di “Frisco” (così i suoi abitanti chiamano confidenzialmente la città). Passeggiamo fra le vie del villaggio ammirando i bei negozi, mentre sul molo vediamo un gruppo di pescatori impegnati a trarre a riva una piccola razza. Proprio sul lungomare notiamo inquietanti “Earthquake Warning” affissi alle pareti che mettono in guardia sulla sicurezza di certi edifici evidentemente non antisismici. Ah, interessante… In effetti ci troviamo in una delle zone più sismiche del mondo, speriamo non capiti qualcosa proprio ora!

Decidiamo di entrare a San Francisco attraversando il famosissimo Golden Gate Bridge. Attenzione: il pedaggio di questo ponte non si paga al casello ma solo online con carta di credito. Si può pagare sia prima del passaggio che entro le 24 ore successive, inserendo nel sito la targa della propria auto e l’ora del transito. Di solito il clima a San Francisco è piuttosto inclemente, può fare parecchio freddo anche d’estate e la baia è costantemente immersa nella nebbia e battuta dal vento, ma noi oggi siamo fortunati, è una bella giornata di sole (a dire la verità l’unica dei 3 giorni trascorsi qui) e il Golden Gate si vede bene in tutta la sua maestosità. Parcheggiamo sulla collina a destra del ponte dal lato di Sausalito e da lì raggiungiamo a piedi il ponte e lo percorriamo per un tratto. Nonostante la giornata di sole il vento comunque tira eccome! Infine attraversiamo il ponte in auto e raggiungiamo il nostro motel in Lombard Street, molto comodo per la vicinanza alla zona turistica di Fisherman’s Wharf.

A piedi percorriamo poi la celeberrima Lombard Street, “The crookedest street in the world”, una ripidissima e scenografica via dagli stretti tornanti ornata di aiuole fiorite, che le auto percorrono praticamente a passo d’uomo per la sua tortuosità e pendenza. I saliscendi delle strade sono infatti la caratteristica peculiare di San Francisco (e le nostre povere gambe lo impareranno presto!). Addirittura ci sono strade così ripide che è consentito parcheggiare solo perpendicolarmente alla strada o a spina di pesce, proprio per evitare pericolosi “slittamenti” delle auto verso il lato in discesa. Per risparmiare le gambe è quindi vivamente consigliato servirsi dei mezzi pubblici, che a San Francisco sono numerosi e di tutti i tipi: dalla turistica Cable Car, agli autobus, ai tram, alla metro. Insomma, lasciate pure l’auto in parcheggio se il vostro motel ne è provvisto, anche perché il traffico e i sensi unici vi farebbero perdere un sacco di tempo e i parcheggi pubblici sono pochi e carissimi.

Sempre a piedi ci spostiamo verso il Fisherman’s Wharf, la parte più turistica della città, dove ci accoglie la bizzarra scultura raffigurante un enorme granchio simbolo del Pier 39, il famoso molo pieno di ristoranti, cafés e negozi. Qui troverete il “Bubba Gump Shrimp Co.”, la celeberrima catena di ristoranti nata sulla scia del film Forrest Gump, con davanti la famosa panchina su cui Forrest raccontava la sua storia ai passanti con tanto di scatola di cioccolatini. Un’altra imperdibile attrazione del Pier 39 sono i leoni marini, che troverete pacificamente spaparanzati sul pontile a divertire i turisti con le loro buffe gag. Per concludere la giornata andiamo a vedere la “Cable Car Turnaround” al capolinea di Hyde Street, la rotazione manuale di questo antico mezzo di trasporto risalente alla fine dell’800, di cui ora rimangono solamente tre linee a scopo prevalentemente turistico. Attraversiamo quindi Ghirardelli Square, rinomata per i suoi gelati e la fabbrica di cioccolato, e infine raggiungiamo il nostro motel.

17 agosto: San Francisco

Sono circa le 7 di mattina e ci stiamo preparando per uscire quando sentiamo una scossa piuttosto nitida. Non sarà mica il terremoto? Ma va’… arriviamo noi e c’è il terremoto? Ebbene sì, magnitudo 4.0. Ovviamente qui nessuno si scompone minimamente, ci sono abituati, chissà quante scosse al giorno ci saranno!

Sopravvissuti anche a questo, usciamo per la nostra seconda giornata a San Francisco. Prevedendo di usare molto i mezzi, oggi facciamo il pass di 3 giorni della Muni (la società che gestisce i trasporti pubblici) e in autobus raggiungiamo il Golden Gate Park, un enorme polmone verde di 4 km. quadrati situato nel lato ovest della città. Qui ci sono stupendi giardini botanici e aiuole fiorite e poi laghetti pieni di ninfee, cascatelle e numerosissimi sentieri che si possono percorrere a piedi o in bicicletta. Approfittando di una coincidenza fortunata di giorni e orari, riusciamo anche ad entrare gratis al Japanese Tea Garden che solitamente è a pagamento, e ci rilassiamo un po’ passeggiando fra colorate pagode giapponesi e stagni pieni di giganteschi pesci rossi.

Dopo il Golden Gate Park è la volta del quartiere di Haight-Asbury, la culla del movimento “hippie” nato proprio qui negli anni ’60. Rimaniamo affascinati dalle vie piene di ordinate villette a schiera in stile vittoriano e dai colori pastello, che troveremo un po’ ovunque in città e che raggiungeranno il culmine ad Alamo Square con le “Painted Ladies”, sette pittoresche ville a schiera variamente colorate che fanno da cornice ad un lato della piazza.

Nel pomeriggio ci spostiamo con i mezzi verso Union Square, altro importante polo turistico fulcro della città con le sue boutiques, gli hotel di lusso, i teatri e le gallerie d’arte. Da qui raggiungiamo a piedi il coloratissimo quartiere di Chinatown, che ospita la comunità cinese più numerosa del mondo al di fuori del territorio asiatico. Al quartiere si accede attraverso la scenografica “Dragon Gate” o “Chinatown Gate”, un’imponente porta nel tipico stile architettonico cinese che si apre su una delle tante vie piene di negozi, ristoranti, banche e pittoreschi edifici dai caratteristici tetti a pagoda, adornati degli immancabili lampioncini rossi o con le tradizionali effigie del dragone.

Prendiamo la Cable Car e percorriamo il Financial District fino ad arrivare all’Embarcadero, il porto di San Francisco da cui partono i traghetti per Sausalito, Alcatraz e altre mete della baia. Qui visitiamo il Ferry Building, un edificio che ospita negozi, ristoranti e anche un mercato di generi alimentari. La serata la trascorriamo al Fisherman’s Wharf, dove ci gustiamo una buonissima cena di pesce prima che il freddo pungente ci faccia scappare in motel.

18 agosto: San Francisco

Oggi torniamo all’Embarcadero ma per un motivo molto particolare: dobbiamo prendere il traghetto per la crociera ad Alcatraz che abbiamo prenotato online mesi fa. Vi è un solo tour operator autorizzato a questo tipo di crociera, “Alcatraz Cruises”, sul cui sito potete prenotare la crociera fino a tre mesi prima, cosa vivamente raccomandata in alta stagione. L’alternativa è quella di presentarsi al botteghino la mattina molto presto e sperare che si liberi qualche posto, ma andando ad agosto noi abbiamo preferito non rischiare. Giunti a “The Rock” troverete i rangers dell’NPS che vi guideranno in un breve tour raccontandovi la storia della fortezza-prigione, oppure potete optare per un audio-tour in completa autonomia con le cuffie che vi daranno in dotazione e che sono incluse nel prezzo del biglietto.

Alcatraz è un luogo vagamente inquietante ma estremamente affascinante. L’isola-fortezza costantemente immersa nella nebbia, la sensazione di un luogo remoto e abbandonato, perfino le colonie di uccelli che sono ora gli unici abitanti dell’isola danno un aspetto piuttosto spettrale al luogo. All’interno i vestiti ancora ordinatamente riposti sugli scaffali e le file di docce comuni fanno una certa tristezza e danno l’impressione che le anime dei detenuti aleggino ancora in questi luoghi. È incredibile entrare nelle celle, che a volte conservano oggetti ipoteticamente appartenuti ai detenuti come libri, schizzi, pennelli da pittore, e pensare che lì sono stati rinchiusi celeberrimi criminali come Alphonse “Scarface” Capone, meglio noto come Al Capone, che in questo carcere svilupperà poi una forma di demenza provocata dalla sifilide contratta in età giovanile. E che dire del rocambolesco tentativo di evasione del 1962 reso poi famoso dal film con Clint Eastwood Fuga da Alcatraz, dove un gruppo di detenuti riuscì a fuggire dal carcere di massima sicurezza scavando una galleria nella parete di una delle celle con un semplice cucchiaio?

C’è poi anche chi ha fatto la propria fortuna qui ad Alcatraz. È il caso dell’ex-detenuto William G. Baker, trasferito qui per tre anni dopo tre tentativi di evasione da altri carceri americani, che oggi alla veneranda età di 80 e passa anni ha trovato il modo di sfruttare economicamente il proprio passato di carcerato diventando addirittura scrittore e trascorrendo il proprio tempo qui ad Alcatraz come una sorta di attrazione turistica. Una bella carriera dal tempo in cui fabbricava assegni falsi!

Dopo una breve visita al museo e un video sulla storia di Alcatraz rientriamo per pranzo al Pier 33. Il pomeriggio lo trascorriamo prima con la visita a Telegraph Hill e alla Coit Tower, poi al quartiere italiano di North Beach, noto anche come punto di riferimento della “Beat Generation” degli anni ’50. Qui per un po’ ci sentiamo a casa fra pizzerie, gelaterie e il vociferare di simpatici accenti napoletani. Un gestore di una pizzeria appena ci vede ci chiede “Siete italiani?” prima ancora di sentirci parlare. Si vede così tanto?!

Ci rimane ancora gran parte del pomeriggio e decidiamo di salire a Twin Peaks per ammirare dal punto più alto il panorama della città e della baia di San Francisco. Fra Cable Car, autobus e metro finalmente arriviamo sulla collina, per poi proseguire per un tratto a piedi fin sulla sommità. Il panorama come previsto è immerso nella foschia. E che vento! Non riusciamo quasi a mantenere l’equilibrio. Ma si sta facendo tardi e decidiamo di ritornare verso il centro, con una breve visita a Castro, il quartiere della comunità gay, come annunciano le caratteristiche bandiere arcobaleno. Trascorriamo la serata in una pizzeria gestita da cinesi (sigh…) in cui gustiamo tutto sommato una discreta pizza.

19 agosto: Pacific Coast

Ed è arrivato il momento di lasciare questa splendida città. Carichiamo i bagagli e via! Purtroppo stavolta dobbiamo attraversare il centro per uscire dalla città e l’orario non è proprio dei migliori: la mattina fra le 7 e le 8 il traffico è tremendo a San Francisco e fra semafori, sensi unici, lavori in corso che ci costringono a continue deviazioni, impieghiamo ben due ore ad uscire dalla città.

Finalmente ci immettiamo sulla US-101. Nostra prima tappa: Mountain View, per dare una sbirciatina al “Googleplex”, la sede della Google. Bei giardini ordinati, bar, campo da beach volley, file di allegre Google bikes tutte uguali degli stessi colori del logo… Dovrebbe essere proprio bello lavorare qui. Una foto vicino alla simpatica mascotte di Android e si prosegue verso Cupertino per una breve sosta allo “One Infinite Loop”, sede dell’Apple Campus.

Riprendiamo quindi la US-101 in direzione Monterey, ma sappiamo che qui in zona c’è il circuito di Laguna Seca, come non fare una veloce puntatina? Hai visto mai che ci troviamo Valentino Rossi! Eh no, purtroppo “The Doctor” in questo momento si trova dall’altra parte del mondo… Ci troviamo invece dei bolidi di Ferrari che si allenano in pista. Peccato non riuscire a vedere il famoso “cavatappi”, la strada è sbarrata e non possiamo andare oltre. Pazienza, proseguiamo verso Monterey e da qui prendiamo la 17-Mile Drive, una scenografica strada a pedaggio che va da Pacific Grove a Pebble Beach seguendo la costa del Pacifico fra stupende ville e campi da golf. Lungo la strada è possibile fermarsi nelle numerose piazzole di sosta per scattare foto dai vari punti panoramici, primo fra tutti quello del Lone Cypress Tree, l’albero simbolo ufficiale di Pebble Beach cresciuto su un promontorio a strapiombo sull’oceano.

Proseguendo lungo la costa troviamo poi la cittadina di Carmel-by-the-Sea, famosa per la ricchezza culturale e artistica dei suoi abitanti. Pensate che fra i suoi residenti famosi del passato annovera diversi artisti e attori come Doris Day, Kim Novak, Jennifer Aniston, Brad Pitt e non ultimo Clint Eastwood che fu anche sindaco della città dal 1986 al 1988.

Il nostro viaggio prosegue lungo la mitica Highway 1, la strada costiera che ci permetterà di ammirare il panorama della costa del Pacifico, caratterizzata da selvagge scogliere a picco battute dalle impetuose onde dell’oceano. È questa la zona di Big Sur, famosa, oltre che per i suoi panorami spettacolari (primo fra tutti lo scenografico Bixby Bridge), anche per la presenza di simpatiche colonie di leoni marini spiaggiati. La nostra ultima tappa odierna è Morro Bay con la sua bizzarra Morro Rock, un isolotto roccioso situato poco distante dalla costa. Qui ci fermiamo per la notte. La nostra vacanza è ormai agli sgoccioli e domani ci aspetta la visita al nostro ultimo parco.

20 agosto: Sequoia & Kings Canyon National Parks

Abbandoniamo la costa e ci dirigiamo verso l’entroterra su una strada piuttosto solitaria che si snoda fra ranch, vigneti e frutteti. La nostra meta è Three Rivers, da cui accederemo ai Sequoia and Kings Canyon National Parks. Si tratta in realtà di due parchi contigui gestiti come un’unica entità, situati nella parte meridionale della Sierra Nevada, il Sequoia a sud e il Kings Canyon a nord. La strada che attraversa i due parchi, la Generals Highway, è piuttosto ripida e piena di tornanti e richiede una certa attenzione alla guida. Ricordatevi soprattutto di non tenere costantemente il piede sul freno, una tentazione piuttosto forte per chi non è abituato a guidare con il cambio automatico. Siamo infatti a più di 2000 metri d’altezza, anche se dalla temperatura non si direbbe, e proprio qui si trova il monte più alto degli Stati Uniti contigui, il Mount Whitney con i suoi 4421 m.

Dopo una breve sosta al Visitor Center, la nostra prima tappa è la Giant Forest, dove si trovano alcuni degli alberi più grandi del mondo come volume di legno. Fra questi spicca The Sentinel, 78 m. di altezza, 24 m. di circonferenza, ma soprattutto “lui”, il General Sherman Tree, che con i suoi 84 m. di altezza, 31 m. di circonferenza e 10 m. di diametro rappresenta l’essere vivente più grande del pianeta in termini di volume. Pensate che il ramo più grande misura oltre 2 m. di diametro! Questo gigante pare aver visto anche un bel po’ di storia: si stima infatti possa avere fra i 2300 e i 2700 anni! Le sequoie più imponenti sono recintate e non è possibile avvicinarsi troppo, ma anche ad una certa distanza le dimensioni sono notevoli. È possibile comunque vedere da vicino la sezione di un tronco di sequoia del diametro di circa 3 m. Come mi sento piccola in confronto! Più avanti troviamo addirittura il tronco cavo di una sequoia caduta che si può attraversare a piedi in tutta la sua lunghezza.

Proseguendo verso nord lasciamo il Sequoia National Park ed entriamo nel contiguo Kings Canyon National Park, dove raggiungiamo il Grant Grove per incontrare un altro gigante: il General Grant Tree, quasi 82 m. di altezza, 33 di circonferenza e 10 di diametro. Vorremmo proseguire all’interno del parco ma ad un certo punto troviamo la strada sbarrata: chiediamo informazioni ai rangers che ci dicono che non si può andare oltre perché è scoppiato un incendio. Alziamo lo sguardo ed effettivamente oltre le cime delle sequoie scorgiamo un enorme nuvolone bianco con all’interno dei bagliori infuocati. Un incendio! Ci mancava anche questa. Dopo l’incidente con il cervo e il terremoto… Non è che siamo noi che portiamo un po’ iella?! E così siamo costretti a fare dietro front, ripercorrendo tutta la Generals Highway fino all’uscita di Three Rivers dove ci attende il nostro motel.

21 agosto: Los Angeles

E così oggi rientriamo a Los Angeles, dove si chiude il nostro fantastico tour iniziato 3 settimane fa. Sembra solo ieri, anche se la stanchezza e le miglia sul computer di bordo ci raccontano un’altra storia. Ma non è ancora finita, il nostro volo di rientro è solo domani e noi abbiamo un’altra giornata da trascorrere a LA. Ma cosa visitare ancora? Non siamo particolarmente attratti dai parchi tematici del genere Universal Studios o Disneyland. Ma sappiamo che c’è un’altra meta turistica molto particolare e decisamente interessante: il Griffith Observatory, un osservatorio astronomico situato sul Mount Hollywood, da cui tra l’altro si gode di una splendida vista della città e del famoso Hollywood Sign.

All’interno è possibile visitare un museo scientifico con ingresso gratuito, dove vengono illustrate le origini dell’universo, i movimenti degli astri, il fenomeno delle maree, quello delle stagioni e altre curiosità. Particolarmente interessante e alquanto scenografica è la riproduzione del pendolo di Foucault. Il pendolo è alto quasi 8 m. e dall’estremità del cavo pende una sfera di 28 kg. libera di oscillare in ogni direzione. L’esperimento servirebbe a dimostrare la rotazione terrestre, un concetto per la verità un po’ complicato. Se anche voi come noi non ne venite a capo, il personale del Griffith in prossimità dell’attrazione sarà lieto di spiegarvi l’arcano.

Un’ulteriore attrazione a pagamento è il Samuel Oschin Planetarium, una sala cinematografica attrezzata con sistemi di proiezione laser di ultima generazione che consentono di riprodurre immagini sull’enorme cupola sovrastante illustrando vari argomenti di interesse astronomico e scientifico, dalle origini dell’universo, alle esplorazioni spaziali, alla ricerca dell’acqua nel cosmo e così via. Da ultimo saliamo sul tetto dell’osservatorio dove si trova il potentissimo telescopio Zeiss da 12 pollici, dal quale dopo il calar del sole il pubblico può divertirsi ad osservare le stelle. Altri telescopi più piccoli sono posizionati in più punti della piazza antistante l’osservatorio.

Visto che il nostro motel di stasera si trova in zona LAX, decidiamo di avvicinarci andando a trascorrere il resto del pomeriggio sulla spiaggia a rilassarci un po’. Guarda caso però troviamo un traffico infernale che ci farà percorrere le 20 miglia scarse fino a Venice in ben due ore! Quando arriviamo sulla spiaggia sono le 17.30, giusto il tempo di schiacciare un pisolino prima che il fastidioso vento dell’oceano ci faccia scappare in motel.

22 agosto: Los Angeles – Venezia

E purtroppo è arrivato il giorno della partenza. Diamo una lavata all’auto che riportiamo poi alla Budget, dove per fortuna constatiamo che l’incidente con il cervo non ha lasciato conseguenze sulla nostra carta di credito, dopo di che la navetta ci accompagna all’aeroporto per il volo di rientro. Per la cronaca: grazie ad Alitalia anche questo volo atterrerà a Roma in ritardo mostruoso, costringendoci a corse folli per prendere la coincidenza, e anche stavolta mi capiterà un posto a sedere con il monitor guasto (per favore non ridete…).

E così dopo 21 giorni, 6400 km. percorsi in auto e ben 220 km. a piedi, dobbiamo dire addio a questo paese straordinario. Certo è stata una bella impresa, la fatica continuerà a farsi sentire per giorni dopo il nostro rientro, ma non appena l’aereo si stacca dal suolo statunitense ne abbiamo già nostalgia e sappiamo che presto, molto presto, pianificheremo un altro stupefacente viaggio alla scoperta di un altro pezzo di questo grande paese dagli scenari unici.

Non so quanti di voi siano riusciti a leggere fin qui, le cose che avremmo ancora da raccontarvi sono talmente tante, ma non vorremmo esaurire voi prima di aver esaurito gli argomenti. Speriamo solo di avervi trasmesso un po’ di curiosità e di voglia di viaggiare. Gli Stati Uniti sono tutto quello che il cinema, la TV, i libri ci hanno sempre raccontato e che è ormai entrato a far parte dell’immaginario collettivo, ma sono anche molto di più. Sono innanzitutto un popolo cordiale, rispettoso ed estremamente disponibile verso il prossimo. Ogni volta ci stupivamo quando qualche americano si avvicinava spontaneamente per offrirci aiuto se ci vedeva a consultare una cartina o un orario degli autobus. Questa è una delle tante cose che noi italiani dovremmo imparare, così come la valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale in cui gli americani sono maestri, e l’organizzazione perfetta dei parchi ne è una dimostrazione evidente. Certo magari dovrebbero imparare da noi l’arte della buona cucina, ma d’altra parte avremo qualcosa da insegnare anche noi, no?

E allora che altro dire? Arrivederci al prossimo viaggio e al prossimo diario. Goodbye States, we’ll be back soon!

Isabella & Tiziano

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