Senegal, Africa vera

i colori dell'Africa
Scritto da: Davide Landolfi
senegal, africa vera
Partenza il: 17/06/2011
Ritorno il: 28/06/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
18 Giugno 2011 L’arrivo Fra pochi minuti sono le 19, è appena scattato il segnale che permette di slacciarsi le cinture, sto sorvolando il cielo di Spagna, il volo da Madrid è decollato con più di mezz’ora di ritardo. Destinazione Africa, sono diretto in Senegal. Nel sedile accanto al mio Chiara, già compagna di viaggio a Cuba, dorme. E’ stata una lunga attesa, con la sveglia suonata alle 4 di questa mattina. Mentre il sole illumina la campagna sottostante, la mia mente è un sovrapporsi continuo di pensieri, ricordi, sensazioni, illusioni e speranze, non mi faccio mancare nulla. Sono rientrato da meno di una settimana dalla bella Ungheria, ma questo è il viaggio, è un’altra cosa, è la scoperta di una parte di mondo a me nuova, ancora sconosciuta. L’adrenalina si mischia alla stanchezza, che forse ancora non mi fa apprendere a fondo che fra qualche ora sarò in Africa, a Dakar. Africa vera. E son contento ci sia Chiara ad accompagnarmi in questa nuova avventura… H. 21.20 locali, metto finalmente piede sul suolo africano, accolto da una opprimente cappa di umidità. Chiara è stata parecchio male durante il volo a causa di un forte vuoto d’aria giusto dopo la cena servita a bordo; controllo passaporti e poi il più caotico e confusionario recupero bagagli a cui abbia mai preso parte. Gente che schiamazza, bagagli che non arrivano. Dopo una lunga attesa, con Chiara distrutta e semi sdraiata in un angolo a cura dei bagagli a mano, mi faccio largo vittorioso tra la folla vociante con le mie prede, gli zaini, e subito cambio una parte di euro in moneta locale (CFA), ricevendo in cambio dalla giovane addetta un mazzo cospicuo di vecchie banconote, senza alcuna ricevuta. Chiara è ancora debole dopo la nottataccia in volo, così, carico come un mulo, insieme usciamo dal piccolo aeroporto. Fuori la confusione è la stessa; tra i tanti tassisti, un uomo, lunga tunica celeste indosso, ha un cartello fatto a mano: “Davide e Chiara”, ci siamo, la Keure Diame, la guesthouse con cui mi ero messo in contatto dall’Italia, ci ha fatto venire a prendere. Il tratto di strada dall’aereoporto alla guesthouse mi regala il primo vero assaggio d’Africa: le strade, poco illuminate, sono affollate di gente, gente di tutte le età, che non si capisce bene cosa faccia, se non riempire i margini delle strade, visto che i marciapiedi sono per lo più assenti, e le auto, soprattutto vecchi taxi neri e gialli, che le schivano a colpi di clacson. Le case sembrano tutte mezze diroccate, un piano, due al massimo, danno l’impressione di essere state costruite senza essere mai state portate a termine; da qualche finestra ad altezza uomo intravedo, illuminata da improvvisati neon, pezzi di carne in vendita, mentre delle donne vendono bibite in vecchi e grandi bidoni arrugginiti. Mi sembra anche di udire il suono di percussioni provenire forte da un assembramento di gente poco distante. Dopo 20 minuti di auto in questa caotica giungla umana, sulla sinistra mi appare l’Oceano, che nel buio più folto, è riconoscibile solo dal bianco della schiuma delle sue onde che si infrangono sull’ampia distesa di sabbia, anche essa popolata di piccoli gruppi di persone. Siamo gli unici bianchi, e tutta questa diversità a primo impatto è disorientante. Quasi mi intimorisce ma allo stesso tempo mi eccita. Il Keure Diame è proprio qua, a due passi dall’Oceano, in una via di sabbia. Sembra l’unica piccola casa verniciata all’esterno e illuminata. Un ragazzo dai grandi occhi bianchi che risaltano nel buio, ci aspetta e ci porta alla semplice camera, al primo e unico piano di un piccolo patio che forma un quadrato. Chiara è cotta e già distesa sul letto, io un pò preoccupato per lei. E anche stanco, troppo stanco anche per una doccia che sarebbe doverosa, così mi concedo alla prima notte africana di questo viaggio. 19 Giugno Dakar – Palmarin Io e Chiara siamo seduti sulla soglia della Keure Diame, e ci sembra di essere stati catapultati in un documentario: davanti a noi, nella sabbiosa strada, passano donne dalle lunghe vesti tipiche, dai colori accesi e vivaci, indossati con eleganza e sobrietà, alcune coi loro piccoli legati a fascia dietro alla schiena, altre che trasportano grandi ceste in perfetto equilibrio sulla testa. Nessuna auto nè altro mezzo. All’incrocio della via alcuni giovani chiaccherano, passano bambini dagli sguardi curiosi che ci salutano, e alcune caprette. Di fronte a noi, all’ombra di una delle piccole case malconcie in calce bianca, due ragazze vendono lunghe baguette di pane. Da una delle case provengono i canti in coro dei bambini, forse è una scuola ma non è indicata e non si capisce. E’ Africa, ancora un pò disorientante ai miei occhi, mi incute curiosità e timore, anche se so, ne sono certo, che è solo questione di qualche minuto di ambientamento, solo ieri il mondo che mi appariva di fronte era completamente diverso. L’auto che ci deve venire a prendere è in ritardo, per fortuna chiamo, mettendo da subito alla prova il mio scarso francese al telefono. Non trovava la guesthouse, così lascio il numero della stessa per le dovute spiegazioni circa la strada da prendere. E così ci possiamo risedere sul gradino e continuare ad osservare, o meglio, vivere, il nostro reale documentario di vita quotidiana a Dakar…Ancora mezz’ora e arriva l’auto, una peugeot gialla guidata da un giovane. Anche con la luce del giorno Dakar si rivela caotica, affollata e disordinata. Sull’ampia spiaggia molti giovani giocano a calcio o fanno ginnastica, nelle strade invece, vecchie macchine, sgangherati taxi gialli e neri e mini pulmini colorati stracarichi di gente, perfino aggrappata alla parte posteriore. Gente, gente ovunque, ai bordi delle polverose strade, sotto i vecchi cavi che portano la poca corrente elettrica in città. Dakar è molto estesa, la strada si allarga, solo una volta usciti dai suoi sobborghi la natura prende il sopravvento: una natura strana, poco verde, anzi quasi nulla visto che il terreno è arido, ma ci sono enormi alberi di baobab ovunque, tanti come mai mi era capitato di vederne, neanche nella mia precedente e unica esperienza africana in Namibia. E ancora alberi di mango, grandi piante di bouganville coi fiori viola, bianchi e arancioni, che colorano i pochi piccoli villaggi che attraversiamo lungo la strada; piccoli bambini giocano a gruppetti, alcuni scalzi, coi copertoni delle auto, e tanta immondizia sparsa un pò dappertutto, tanto che su alcuni rami degli alberi sembra di vedere dei corvi, invece altro non sono che brandelli di sacchetti di plastica portati lì dal vento. E’ quasi mezzogiorno, arriviamo a Mbour; breve sosta in un piccolo supermarket pieno soprattutto di prodotti importati dall’occidente, fuori tantissimi giovani si accalcano tra le impalcature di una moschea in costruzione: “lavorano gratis, per la fede. Non percepiscono alcun salario” ci dice Pepe, l’autista. Mbour è una cittadina piuttosto estesa, ci sono le insegne di qualche ristorante locale, in giro carretti di legno carichi di gente e merci, trainati da cavalli o piccoli e semplici calessi trainati da somari. E’ l’Africa dei racconti, con gente non contaminata dall’occidente nonostante i bambini e i ragazzi indossino le maglie dei calciatori famosi, così come a Dakar. E ancora bancarelle colme di frutta, e poco distante di pesce lasciato ad essicare al sole, dall’odore fortissimo. La strada prosegue, superata la cittadina di Joal devia verso l’interno lasciando la costa e diventando una larga pista di terra battuta rossa, un pò sconnessa, e circondata da aree paludose e rifiuti. Man mano sempre più nel nulla, in una zona arida dove si aggirano tra i baobab mucche dalle lunghe corna, in cerca di sterpaglie. Arriviamo, una piroga colorata indica l’arrivo al Niassam Lodge. Il posto che chiunque sognerebbe per una luna di miele: 3 palafitte di legno costruite sugli enormi tronchi di altrettanti baobab e qualche capanna a forma circolare dal tetto a cono in paglia, direttamente nella grande laguna del Delta del fiume Sinè Saloum, tutte discretamente separate tra loro; al centro la grande capanna ristorante e una piccola e graziosa piscina tra palme, alberi di carrube dai fiori rossi e bouganville. E’ incredibile come ancora tutto sia cambiato se ripenso a Dakar poche ore fa…Attraversiamo con gli zaini la passerella di assi di legno che porta alla nostra camera, la “Lagune”, subito alle spalle di un grande baobab sulla penisoletta affacciata sulla laguna stessa. Tutta in legno, bellissima, con un panorama mozzafiato nonostante il sole si sia nascosto nel frattempo. L’unico rumore che si sente è il suono del cinguettio degli uccellini, una calma surreale, un piccolo Eden in terra dove la tranquillità regna sovrana… Il villaggio di Palmarin, ovvero l’insieme dei 4 piccoli villaggi che lo formano, non deve essere distante da qui, così come l’Oceano sul quale affaccia. Ci incamminiamo lungo l’arida pista di terra, circondata da qualche pozza di salina dalle acque torbide e colorate. La terra è rossa, fa molto caldo. Incrociamo un ragazzo che comincia a parlarci proponendosi perfino interessato a lavorare per noi in Italia, forse non ci ha inquadrato bene o forse immagina e sogna un paese che non c’è…La poca gente che incroci (qui non è Dakar…) e che attacca a parlare lo fa però sempre in modo gentile e sorridente. Arriviamo quasi a bordo Oceano dopo più di 20 minuti di cammino: tra alcune piccole casette in calce, nelle vie di sabbia e polvere, alcuni bambini incuriositi ci si avvicinano chiedendo di essere fotografati. Iniziamo così a fotografarli e farli rivedere nei monitor delle nostre macchine, sono contentissimi, per loro è un gioco e non ci mollano più. Gioco al quale arrivano a partecipare anche dei ragazzini poco più grandi che stanno giocando a calcio sulla sabbia a piedi nudi con un pallone…da basket, di cui mi rendo conto solo quando provo anche io a dare un calcio…un male! Però una volta conscio del pallone, un rigore me lo concedo! Chiara è circondata, è un continuo scattare, un ragazzo ci lascia perfino il suo nome e cognome da mettere sulla foto; tutti si presentano, ti chiedono il nome e poi la foto. Andrebbero avanti ore così, ma noi lentamente dobbiamo tornare al lodge prima che tramonti il sole, e abbiamo un pò di strada da fare nel nulla… In laguna si è nel frattempo leggermente alzata la marea, non c’è un cielo spettacolare essendo un pò coperto, ma la poca luce che filtra dona delle colorazioni argento e blu sulle acque da brividi, accentuando il contrasto dei profili delle capanne e dei rami dei baobab all’orizzonte. Alla capanna ristorante il bizzarro Gianpierre, uno dei proprietari francesi dell’area, ci chiede aiuto nella traduzione in italiano del testo della canzone “voulez vous coucher avec moi ce soir”; ci scherziamo un pò su con lui e con il simpatico ragazzo senegalese responsabile dell’area ristorante. Si fa buio, la passerella di legno che porta alla chambre Lagune viene illuminata da alcune vecchie lanterne poste lungo le assi di legno dal personale. Ricca cena e poi quattro chiacchere con che ci ha preso in simpatia, sorseggiando del gustoso rum al frutto della passione, uno dei vari gusti fra quelli fatti in casa ed esposti sin grandi bottiglioni sul banco di legno del bar: cocco, baobab, bissap, cannella, banana, ginger…ce ne è per tutti i palati. 20 Giugno Palmarin Svegliarsi al mattino grazie ad un gruppo di pellicani che sta facendo rumore con le calme acque della laguna proprio a pochi centimetri dalla porta rialzata della propria capanna, interrompendo così un silenzio surreale, è qualcosa che non capita proprio tutti i giorni, così come non capita di saziarsi con una colazione servita a bordo laguna, sul piccolo tavolino in legno della capanna, fatta di pane, tè ed ottime marmellate fatte in casa di baobab, bissap e mango. C’è il sole, e si fa sentire forte sulla pelle fin d’ora. Stamattina voliamo. Voliamo a bordo di un piccolo ULM, un aereo ad elica simile ad un aliante, guidato dall’esperto Friedric, che viene a prenderci direttamente sulla spiaggia della laguna di fronte al ristorante. Un volo di 20 minuti a testa, visto che su non c’è spazio, prima Chiara e poi io…Chiara torna con un sorriso che parla da solo, tocca a me: Mi incastro nel piccolo abitacolo aperto, cintura a bretella allacciata, gambe posizionate, cuffia anti rumore indossata; il pilota comincia la sua rincorsa sulla sabbia, sempre più veloce fino allo stacco da terra, adrenalinico, emozionante. Ma ancora più emozionante è lo spettacolare panorama sottostante, qualcosa di unico e mai visto prima. Volo a qualche centinaio di metri dal suolo, sotto di me decine e decine di tonde pozze, ognuna dal colore intenso e diverso, blu, ocra, giallo, rosso, azzurro…sono le saline del Saloum, con il corso d’acqua azzurro intenso che sfocia nell’Oceano formando uno spettacolare delta, fatto di una serie di morbide curve d’acqua nel deserto. E ancora le acque blu dell’Atlantico che bagnano le coste della sabbiosa Palmarin, l’area del Niassam vista dall’alto, con la nostra capanna sulla laguna che ricorda gli atolli maldiviani; mi sembra di vivere le immagini dall’alto dei grandi fotografi che ho ammirato nei libri della White Star. Anzi, non sembra, le sto proprio vivendo e fotografando anche io. E continuo a scattare, quasi volendo sporgermi oltre il consentito dalla stretta bretella. Non ho mai fatto così tanti scatti in un lasso di tempo così breve, ma è un’esperienza unica e forse irripetibile che non posso farmi sfuggire. Riatterriamo sulla spiaggia, io felice come un bambino, e anche sollevato visto che stamattina aveva ceduto in camera la cinghia della macchina fotografica, facendole fare un bel tonfo, ma sembrerebbe tutto a posto!… Relax, assoluto relax ai bordi della piccola piscina del lodge tutta per noi, tra chiacchere, confidenze e racconti. Passiamo così, io e Chiara, le ore più calde prima di incamminarci come ieri verso Palmarin, col sole che allenta un pò il suo picchiare duro sulla nostra pelle. Arriviamo dopo 20 minuti alla larga pista in terra rossa battuta, e qui veniamo avvicinati da David, 22 anni, di professione, a suo dire, calciatore e guida turistica. David chiacchera, chiacchera tanto, come tutti i senegalesi. Si offre di accompagnarci lui allo Yokam, la guesthouse dove vorremmo pernottare da domani, non certo per andarcene dal paradisiaco e tranquillo lodge di Niassam, ma puramente per motivi economici. Dalla strada, dove di rado passa qualche macchina o piccolo camion, ma più spesso qualche cane randagio, ci addentriamo verso la lunga spiaggia, deserta e piena di alche secche. In mare, a poche decine di metri dalla riva, un vecchio e arrugginito relitto di una nave, spezzato in due. “Cinq minute…”, ma i 5 minuti di David si trasformano in 10, poi 15, poi 20…minuti di cammino sotto il sole che lentamente comincia la sua discesa verso il mare. Lui se la ride, e in fondo, seppur sempre più faticosamente, noi anche. La macchina fotografica comincia a darmi problemi: “Errore 99” ad ogni scatto che spesso non fa…speriamo in bene anche se non è certo un buon segno. Arriviamo, finalmente, allo Yokam, un gruppo di capanne in calce rossa col tetto a cono in paglia, niente di neanche lontanamente paragonabile al Niassam come già sapevamo. Il giovane proprietario, un ragazzo minuto e sorridente con un bizzarro cappellino di lana in testa, ce ne mostra alcune. Il luogo è deserto, affacciato sulla spiaggia che però, come il lungo tratto fin qui attraversato, è sporca e frequentata solo da qualche solitario ragazzo che si allena a correre o a fare ginnastica. Ma abbiamo già deciso, ci concederemo un’ultima notte da re al Niassam, si vive una volta sola, e così riserviamo la capanna ma per dopodomani, cioè l’ultimo giorno che passeremo qui nella zona di Palmarin. Siamo stanchi, abbiamo camminato per chilometri oggi, per di più in gran parte sulla sabbia; tornare a piedi al lodge prima che venga buio è ormai impossibile, David ci troverà un passaggio in calesse, ma prima ci tiene a portarci al suo piccolo villaggio, stavolta davvero non distante dallo Yokam. In pochi minuti di cammino in un arido nulla, eccoci arrivati: piccole abitazioni di mattoni rivestiti di calce bianca, sembrano incompiute, qualcuna con pezzi di lamiera come tetto, le strette vie tutte di sabbia, pozzi circolari dai quali donne dalle lunghe vesti colorate tirano su i secchi dell’acqua. Davide ci porta alla piccola casa della madre, una signora robusta e allegra, la quale ci accoglie come ospiti d’onore, facendoci accomodare all’aperto nello spiazzo di sabbia antistante, su due vecchie e sgangherate poltrone, attorno ad altre persone del villaggio intente a passare il tempo chiaccherando. Siamo indubbiamente al centro dell’attenzione, una cosa insolita, soprattutto per i bambini che, dapprima un pò impauriti e poi divertiti dal “gioco” delle fotografie, ci circondano in breve tempo. Purtroppo la caduta della macchina di stamattina ha lasciato il segno, continua a darmi problemi, scatta e non scatta facendomi perdere scatti, non ci voleva, la cosa mi da rabbia seppur notevolmente mitigata dentro dall’incredibile situazione e dal luogo che sto vivendo. Qui è l’Africa, Africa vera. La mamma di David ci offre del vino di Palmarin, una specie di liquore di colore bianco, dal sapore acido imbevibile, fatto artigianalmente col succo ricavato dalle foglie di palma. Una delle signore anziane che è lì con noi evidentemente deve averne bevuta una certa quantità a giudicare dalle parole sconnesse che pronuncia e dai ripetuti saluti in inglese che continua a farci senza però mai andarsene sul serio. Intorno a noi qualche maialino vaga per le sabbiose stradine del paese. Il sole nel frattempo è calato ed è già buio. Trattiamo con un amico di David, vestito vagamente da rapper americano, fino a concordare un prezzo per farci riportare al Niassam in calesse, ovvero un carretto in legno su due ruote trainato da un cavallo; viene anche David con noi. Salutiamo, promettendo di tornare fra due giorni quando pernotteremo qua vicino, montiamo su e partiamo. Nel prezzo concordato c’è perfino il supplemento notturno, furbi questi senegalesi. La dritta e polverosa strada è completamente al buio, tanto che l’amico di David al passaggio in senso opposto di un camion, usa la luce del display del suo telefonino per farsi vedere; telefonino usato anche come autoradio per farci ascoltare le canzoni di Rihanna e Bob Marley, paradossale circostanza qua nel nulla più totale. Arriviamo al Niassam che è quasi tardi per la cena, ma è stata una giornata piena ed intensa, la cui degna conclusione non poteva che essere sotto un tappeto di stelle tanto fitto da togliere il fiato, e da far luccicare gli occhi, nel silenzio totale della laguna. Una volta nella nostra capanna di legno, la buonanotte ce la offre invece una insolita luna rossa che illumina come un faro all’orizzonte. 21 Giugno Palmarin Anche questa mattina i pellicani non hanno mancato il loro ritrovo ai piedi della capanna. capanna che oggi lasciamo, in quanto già prenotata, e non da noi che solo ieri abbiamo deciso di regalarci un’altra notte qua nel silenzioso ma costoso paradiso del Niassam. Ci trasferiamo poche decine di metri più in là alla chambre “Robinson”, una palafitta in legno costruita su un baobab, con la camera da letto in alto a cui si accede da una scalinata, poco sotto una terrazza vista laguna tra i rami del baobab, con amaca e tavolo per la colazione, e il bagno in basso, con parte della parete costituita dall’enorme tronco del baobab, proprio a lato della doccia. Anche questa una sistemazione da mille e una notte. Oggi giornata di ozio, di dolce vita africana passata a chiaccherare ai bordi o dentro o dentro alla piccola piscina. Ozio, bagni e chiacchere, una parentesi di vacanza all’interno di un viaggio che non mi capitava da tempo, forse da troppo tempo. Anche oggi alla piscina ci siamo solo noi due e un gruppetto di piccoli uccellini colorati che di tanto in tanto viene a bere a bordo acqua. Le bouganville e i fiori rossi degli alberi di carrube intorno aiutano a creare davvero un’atmosfera da piccolo Eden. Passano così le ore, col sole che nel pomeriggio lascia il posto a qualche nube portata da un fresco venticello, che allieta tanto noi quanto il cane femmina che vive qua al lodge, e che ha passato l’intera giornata a dormire all’ombra di una panca. Mi sono fatto procurare tramite il gentilissimo………….. i barattoli di marmellata di baobab e di bissap, da portare in Italia. Scende la notte, è l’ultima ricca cena ai tavoli all’aperto del ristorante a bordo laguna, gli ultimi sorsi di rum…e le mie ultime illusioni che si spengono fra i rami di un baobab africano… 22 Giugno Palmarin Non c’è per fortuna un rigido check out, il gentile Pierre, proprietario del Lodge, ci fa lasciare gli zaini nella capanna usata come reception, e così, fino alle 16, ain attesa che Davide e il suo amico ci vengano a prendere come da accordi, ci rilassiamo in piscina come ieri. Con Chiara tutto ok, non così con la mia macchina fotografica. La caduta di due giorni fa ha lasciato il segno, scatta una foto ogni 10, è un continuo spegnere e riaccendere, e così diventa complicato cogliere momenti ed emozioni con uno scatto. Per fortuna a tratti funziona, però è un pò frustrante. E per fortuna che Chiara ha un ottima Canon ed è diventata molto brava a fare le foto! Sarò zen, non posso farci nulla nè darmi colpe, mai me lo sarei immaginato che potesse succedermi in un viaggio, evidentemente è destino africano, visto che nella mia precedente ed unica esperienza in questo continente (in Namibia) mi era successo un incidente simile… Arrivano le 16 ed arriva anche Davide, ma da solo. Ci carichiamo in spalla gli zaini e lasciamo il Niassam e la laguna; facciamo qualche decina di metri a piedi per arrivare al mezzo e…scopriamo la sorpresa: un asse di legno che non sarà più di 1,5 metri per 1,5 metri montato su due piccole ruote e trainato da un piccolo asinello! Siamo in tre più i bagagli, non invidio certo il povero animale, che sarà pure abituato come insiste a dirci Davide, ma…Con suo dispiacere montiamo su, Davide fa “guidare” Chiara. Attraversiamo il primo tratto che dallo Niassam porta all’ampia strada in terra rossa tra le saline oggi particolarmente affollate da donne e bambini che coprono i cumuli di sale con teli o stoffe. Fra non molto inizierà la stagione delle piogge. Siamo sulla strada sterrata, i cani randagi a passeggio sono più veloci di noi, e i bimbi che ci incrociano, divertiti, ci salutano: “ toubap, toubap!”, e noi contraccambiamo in egual modo, capendo solo poi, grazie a Davide, che toubap in lingua locale è un modo per indicare noi di pelle bianca! Il viaggio su questo primordiale calesse è un’avventura, una di quelle che ti fa davvero realizzare dove sei. Il mio osso sacro è messo a dura prova, ma è divertente. Ogni rara volta che passa un’auto o un camion, ci riempiamo di polvere e terra. Un’ora e mezza così, un’ora e mezza di lunga e tortuosa strada su un carretto trainato dal povero e sfinito asinello, e finalmente siamo allo Yokam, l’accampamento di capanne colo ocra con al centro il grande ristorante dal tetto in paglia, lungo la spiaggia piena di alghe di Palmarin. Anche oggi appare deserto. Il tempo di sistemarci nella nostra piccola abitazione con bagno, e torniamo con Davide sul carretto, stavolta meno carico, per arrivare al suo vicino villaggio, nello spazio all’aperto fuori da casa di sua mamma. Le stesse persone di due giorni fa, la stessa atmosfera conviviale, semplice, allegra e soprattutto autentica. Qualche adulto prova a scambiare con noi qualche parola in francese, qualcuno in spagnolo. Poi arrivano loro, i bambini, i più curiosi della nostra presenza e della nostra diversità. Tutto accade fuori dalle case, la vita si svolge qua, all’aperto, come un punto di ritrovo dell’intera comunità. Mi chiedo se e quanti bianchi siano mai in questo piccolo villaggio di sabbia e calce, con pesci messi ad essicare sui muretti bianchi che delimitano le case. Da noi in Italia invece ci sono i cocci di bottiglie rotte…Un villaggio dove i bambini, spesso scalzi, si avvicinano curiosi a chi è diverso da loro, anche solo per il divertimento di farsi fare una foto. E dove l’unico mezzo di trasporto è qualche asinello legato all’ombra dei pochi alberi presenti. Questa è l’Africa, col suo calore umano che non può non contagiare. David tira fuori uno jambè, il tipico tamburo in legno, pelle e corde, e a turno lui, Chiara e qualche ragazzino si divertono a suonarlo. C’è anche l’anziana ubriaca dell’altra sera che, nelle medesime condizioni etiliche, improvvisa una suggestiva danza africana. Ormai è sera, ringraziamo uno ad uno i nostri amici per la compagnia e per averci regalato questa esperienza breve ma autentica. David ci riaccompagna stavolta a piedi allo Yokam. Ancora prima che lo ringraziassimo noi con una mancia e un paio di regali per lui e per i bimbi del villaggio, è lui a spiazzarci regalando a me suo bracciale e a Chiara la sua collana di conchiglie: “in Senegal si usa così” ci dice. L’abbraccio con lui è di quelli veri, sentiti… Cena nella grande capanna e poi doccia doverosa dopo tutta la polvere di oggi, ma al buio, la corrente elettrica è andata via. Per fortuna ho la mia inseparabile e utile torcetta a dinamo. Stanotte niente grilli o uccellini, ma il suono perpetuo delle onde dell’Oceano a pochi metri da noi… 23 Giugno Palmarin – Mbour Lasciamo la zona di Palmarin. Pepe, lo stesso autista che ci aveva portato al Niassam il primo giorno, è tornato a prenderci come da accoprdi, con la sua peugeot gialla. Anche David è passato stamattina a salutarci allo Yokam. Partiamo. Tappa veloce al baobab sacro, enorme, di oltre 800 anni, circondato da un gruppetto di insistenti venditori di artigianato in legno; prime estenuanti contrattazioni. Riprendiamo la strada sterrata fino alla cittadina di Joal, siamo di nuovo lungo la costa atlantica, che ci appare dapprima come un’immensa e piatta discarica a cielo aperto, qualche baracca di lamiera e tavoli, tantissimi lunghi tavoli dove viene lasciato il pesce ad essicare. L’odore è forte, in cielo volteggiano decine di gabbiani. Arriviamo ad ritrovare la strada asfaltata che attraversa la cittadina, animata di genete da entrambi i lati. Ora Pepe può premere sull’ accelleratore; incrociamo solo qualche vecchio camion e magre vacche che vagano nell’arido terreno circostante, intervallato di rado da qualche minuscolo villaggio con capanne dal tetto in paglia, i maiali legati all’ombra degli alberi di mango e i bambini scalzi che giocano. Sono passate quasi tre ore, ecco Mbour, dalle dimensioni più grandi dei villaggi precedenti e dalla solita immancabile confusione di persone ed odori. Qualche negozio locale, qualche baracchino in lamiera o in legno che vende carne e tanta frutta. La guesthouse Ndaali con la quale mi ero messo in contatto dall’Italia, è un pò fuori dal centro, accanto al sontuoso Tama Lodge che ricorda un pò le sembianze della moschea di fango di Timbuctu. Ndaali invece è piccola, nascosta tra le piante che ricreano una piccola selva all’entrata, colorata e graziosa, col bar ristorante all’aperto, bei tavolini in legno e morbide poltrone all’ombra delle palme, la parte antistante alla spiaggia con le sdraio e le pareti decorate da vivaci murales in tema africano e le sempre presenti bouganville fiorite. La nostra, più che una camera, è una vera e propria piccola abitazione su due piani, arredata con gusto, il bagno, armadietti e soggiorno e, sopra, il letto sotto al tetto di paglia intrecciata che forma un semi cono. Davvero un bel posto, decisamente oltre le mie aspettative. Abitato poi da jeky, un pacifico e bel cagnone e da qualche micio. La spiaggia che si affaccia davanti non è certo quella sporca di Palmarin, bensì è pulita, grande e frequentata, ci sono perfino due ragazze “toubap” che prendono il sole. Sole che picchia, ma che sfidiamo per una lunga passeggiata sulla riva. Impossibile però rimanere da soli, qui la località è più “turistica” seppur sembriamo gli unici bianchi a parte le due ragazze. Ma tant’è che ci si appiccicano a parlare a parlare diversi tizi, sembra di girare con la scorta. Cortesi ma insistenti. C’è il ragazzo vestito all’occidentale che ci vuole fare da guida, l’uomo che ci fa leggere un foglio scritto a mano dove è scritto che haincontrato Gesù in sogno e che ci prega molto discretamente di portarlo con noi in Italia perchè vuole sposare una donna bianca, e la donna che vuol venderci qualcosa (riuscendoci) mentre cammina accanto a noi col suo piccolo neonato legato in fascia sulla schiena, il quale non fa un lamento nonostante il sole e le mosche che gli si posano in continuazione sul volto. E poi ancora donne sorridenti,ci fermano per vendere bracciali e pareo portati in grandi ceste sulle loro teste. Un pò assillante, non eravamo pronti forse dopo la tranquillità di Palmarin. Abdullaj, il giovane ragazzino che lavora presso Ndaali, si offre di accompagnarci prima del tramonto al grande mercato del pesce che si svolge sulla spiaggia di Mbour, un pò distante da qui. Qui taxi veri non ce ne sono, chiunque abbia un’ auto è un potenziale tassista. Con Abdullaj e Chiara ci incamminiamo fino a trovare un’auto scassatissima guidata da un ragazzo col suo amico a fianco. Saliamo a bordo, il tettuccio è semi sfondato e la parte in fodera me la sento appoggiare sulla testa. C’è anche una ragazza locale a bordo, siamo in sei! Pochi minuti e siamo in centro a Mbour. La confusione è totale, c’è tantissima gente, e un mercato di vestiti e altri generi che arriva fin sull’ampia spiaggia; ma è proprio qui, sulla spiaggia, che si apre un nuovo mondo: una moltitudine di persone, tante, tantissime; donne stese a terra che puliscono ed accumulano il pesce, di ogni specie e grandezza, che, appena pescato, viene scaricato freneticamente in grandi bacinelle direttamente dalle numerose e variopinte piroghe di legno che si accalcano sulla riva. In acqua, oltre alle barche, decine di ragazzini aiutano nelle operazioni di scarico. La frenesia è totale, quasi intimidisce. Girare per la spiaggia tra la folla è quasi un’impresa, in un continuo via vai, mai vista una cosa simile. Lo shock emozionale mi riporta con i ricordi alla prima volta a Varanasi, sul Gange, in India. Anche allora la stessa sensazione di sentirsi estraneo, diverso, catapultato in una realtà difficile in cui immedesimarsi, forse inospitale, ma allo stesso tempo affascinante. Alcune donne non sembrano gradire la nostra intralciante presenza a giudicare dai loro sguardi. Ma non riesco a fare foto, stavolta la macchina non ne vuole sapere, frustrante in un’occasione del genere…E’ un mix di colori, di odori forti e nauseabondi, e di rumori e voci che si accavallano ai versi dei tanti gabbiani che volteggiano in cielo sopra alle piroghe. Seguiamo da vicino Abdullaj e un altro ragazzo del posto che si è auto assunto come scorta-guida. Il luogo ha in sè anche l’aspetto tetro di un’enorme mattatoio a cielo aperto, mai viste così tante specie di pesce tutte insieme, la maggior parte destinate al mercato africano ed asiatico soprattutto. Il fascino del luogo fa a pugni con la tristezza per la mattanza, ma la confusione non da spazio a troppi pensieri ora. Usciamo, a fatica, da questo pezzo di mondo, per ritrovarci stretti tra le bancarelle del mercato, fino a contrattare all’infinito; e mi ritrovo così con un nuovo jambè per la mia casa. Ritorniamo sempre con un passaggio in auto, allo Ndaali, giusto in tempo per goderci il tramonto sulla spiaggia, decisamente più tranquilla in questo tratto di costa, abitata solo da noi, qualche cane randagio e qualche ragazzo che allena il proprio fisico correndo o facendo lotta libera, lo sport nazionale, diffusissimo. E un pallone, che in spiaggia, fra i giovani, non manca mai… 24 Giugno Mbour Mbour al mattino appare meno caotica mentre facciamo quattro passi nella strada sterrata fino al bancomat: qualche autista passa il tempo a lavare la sua auto e un pò di gente fa la coda per entrare nel piccolo ospedale locale. Ancora nessuno ci si è appicciccato addosso per parlare. Ma dura giusto il tempo di rientrare e stendere i nostri teli sull’ampia e semi deserta spiaggia; in pochi minuti un ragazzo, jeans ed occhiali da sole, viene a proporci i suoi quadri, seguito a breve da altri, per le solite chiacchere non sempre però finalizzate al semplice piacere di conversare, come invece a Palmarin. Insomma, impossibile rimanere in tranquillità da soli, ma almeno riusciamo a concederci i nostri primi bagni nell’Oceano. Dopo qualche ora battiamo in ritirata sulle sdraio della piccola e “protetta” zona antistante il Ndaali. Anche qui si affacciano “clandestinamente” delle ragazzine con ancora indosso la pettorina verde della scuola dalla quale sono appena uscite. Sono incuriosite soprattutto da Chiara e dai suoi tatuaggi, ma son simpatiche e finalmente facciamo quattro chiacchere piacevoli e qualche foto senza altri fini… Con Abdullaj e su suggerimento di Chiara, affittiamo una jeep 4×4 da safari con autista, semiaperta dietro, per andare alla riserva naturale di Bandia. Sono un pò titubante perchè temo il classico parco-zoo e qui soprattutto in Africa sarebbe triste la cosa, speriamo bene. Percorriamo i 15 km di strada asfaltata in direzione Dakar, col vento che ormai sta trasformando i nostri capelli in dred! Arriviamo all’ingresso, con noi sale (d’obbligo) a bordo una guida ranger locale. La riserva, a differenza di quanto temevo, è grandissima, ettari ed ettari di terra, acacie e baobab a perdita d’occhio. vaghiamo lungo il labirinto di piste sterrate per quasi mezz’ora senza avvistare nulla, tanto che il ranger scende ad analizzare lo stato di alcune impronte sul terreno per capire che direzione prendere. Poi ecco i primi bufali che in gruppo si riposano all’ombra degli alberi. E’ un continuo procedere cambiando e ricambiando strada; la cosa buffa è che per andare dritto, l’autista continua a girare il volante a destra e sinistra…mah! Eccoli finalmente: prima una coppia di struzzi, maschio e femmina, poi gli impala e via via un pò tutti. Le giraffe, tante, con tanti piccoli, e ancora le zebre e le scimmie che, alla vista dell’auto, recuperano i loro piccoli e li allontanano tenendoseli aggrappati al ventre. Tutti liberi ovviamente. Avvistiamo e riavvistiamo, e anche la mia macchina riesce a fare qualche scatto per fortuna. la guida, cosa insolita, ci fa perfino scendere per le foto a pochi passi dalle giraffe che ci osservano curiose a debita distanza. Ma ancora più insolito e un pò incosciente è quando ci fa scendere a motore spento a pochi passi da una coppia di rinoceronti…incosciente ma emozionante. Passiamo tre ore a cercare animali, e siamo alla fine fortunato ad avvistare tutte le specie presenti in questa grande riserva naturale. Chiudiamo la nostra parentesi di safari allo stagno dove vivono, stavolta recintati, i coccodrilli. Bella la riserva di Bandia, molto più estesa di quanto potessi immaginare. Chiara è contentissima di aver visto per la prima volta gli animali in quello che è il loro habitat naturale e soprattutto in una certa libertà. Torniamo alla spiaggia. Qualche acquisto nella baracca di legno di fronte al Ndaali, sulla spiaggia stessa, con la simpatica e gentile Nicolette che ci fa davvero dei buoni prezzi. Lei ha la mia età e ben 8 figli. Intanto la spiaggia si anima di lottatori e regazzi che si allenano. 25 Giugno Mbour – Ile de Gorèe Improvvisa ed inaspettata, una tempesta breve ma intensa con forte vento che colora il cielo quasi di rosso terra; così Mbour ci da il suo saluto. Paco, un ragazzo del posto con cui ieri avevo concordato un prezzo equo per il trasporto a Dakar, è già qui fuori che ci aspetta. La tempesta passa, piove, carichiamo gli zaini e partiamo. A bordo Paco mi scrocca una chiamata dal cellulare, mentre gocciola pioggia dal tettuccio sulla testa di Chiara. This is Africa. Facciamo il viaggio accompagnati da musica reagge. Man mano che la pioggia cala di intensità, spunta gente ai bordi della strada, lungo i piccoli villaggi con i bimbi che giocano a piedi nudi nel fango e improvvisate file di baracche dove le donne vendono, divisi in piccole bacinelle, i mango sui loro tavoli di legno. Ce ne sono tantissimi, si vede che è la stagione migliore e del raccolto. La lunga e dritta statale asfaltata a doppio senso è trafficata da vecchi camion maliani e pulmini carichi di tutto, gente compresa. Due grossi camion, a poca distanza l’uno dall’altro, si sono rovesciati sulla carreggiata forse a causa del forte vento, con tutto il loro carico di pesce e la gente dei villaggi vicini accorre a piedi munita di grandi bacinelle di plastica per fare il pieno inaspettato di cibo. La pioggia sta quasi cessando del tutto, siamo a Refisque, l’ultima cittadina prima della capitale, crocevia delle strade che da qui partono in direzione nord e sud. Le strade di Refisque sono allagate, c’è una lunga fila di camion fermi e fango ovunque. Paco prova a fare la strada interna alla cittadina, fra buche, carretti e gente che si dà da fare per ripulire dal fango sia le strade che le abitazioni. Le bancarelle del mercato poi non aiutano certo a fare defluire il traffico, completamente congestionato. Usciti dalla cittadina le cose migliorano. Arriviamo al porto di Dakar dal quale partono i traghetti per l’isola di Gorèe solo alle 12.30, oltre tre ore per compiere i 65 km di strada per di più asfaltata che ci separano da Mbour. Qui al molo c’è tanta gente, soprattutto bambini, sembrano colonie, scuole o qualcosa di simile. Ci dicono che non ci sono abbastanza biglietti e che bisogna aspettare il prossimo traghetto, così iniziamo una lunga attesa sui divanetti di un ambiguo e malandato lounge bar lì accanto, dalla cui finestra vedo il molo e le enormi navi container ormeggiate al porto. Sono quasi le 14, decido che è il caso di provare , fuori la coda non accenna a diminuire, la gente continua ad arrivare. Siamo davanti al grande cancello nero in metallo per l’ingresso dei bagagli, c’è ressa ma non quanta appena a fianco per l’ingresso normale. Un pò pressati e a fatica riusciamo ad entrare, ci fanno lasciare gli zaini sul molo e ci dicono di riuscire e fare la coda a fianco per l’ingresso pedonale. Non c’è verso a spiegargli che la cosa non ha senso e che non ci han dato nessuna ricevuta per i bagagli. E’ così. Fuori è un delirio, la disorganizzazione è totale così come la ressa che si crea ogni qualvolta l’addetto apre la piccola porta (per di più sull’esterno!) per fare entrare gruppi di persone. E’ in quel momento che si scatena la confusione, ognuno cerca di farsi largo con la forza, a spintoni e gomitate, incurante di donne o bambini. Riesco, schiacciato e trasportato, ad entrare, Chiara no. Penso di aver imprecato con l’addetto in tutte le lingue che conosco, e di aver perso non poco la pazienza, per fortuna alla tornata successiva Chiara è dentro, incazzata e tesa come una corda di violino. Sarà che è sabato, sarà che è pieno di scolaresche locali in gita, ma il molo me lo immaginavo decisamente diverso. Altra coda, stavolta umana, per il controllo biglietti, e poi, alla rinfusa tutti a salire sul grande traghetto. I nostri bagagli sono lì, sul molo quasi abbandonati; li recuperiamo e saliamo su anche noi, rimanendo a poppa, io seduto a terra tra gli zaini, alcuni jambè, scatoloni e altra mercanzia di ogni tipo, mentre il traghetto si riempie di persone. “Max 350 passengers” recita un cartello, così come un altro posto davanti alla porta di una sala motori, completamente ostruita da scatole e bagagli con la scritta “lasciare libero il passaggio”! Partiamo, non piove più ma il cielo è rimasto grigio e il mare un pò mosso. Dopo 20 minuti di navigazione arriviamo alla piccola isola di Gorèe. Anche la discesa è un pò confusa, qualche spintone e nessuna asse o passerella ma solo un paio di poliziotti che aiutano a saltare il vuoto tra il traghetto e il molo stesso. Ci appare subito davanti la piccola spiaggia affollata all’inverosimile da bambini che fanno il bagno e che sembrano tante formichine in frenetico movimento; attorno la cornice di vecchie casette coloniali color ocra e giallo. A piedi, carichi come muli e provati, attraversiamo la spiaggetta fino ad arrivare al Hostellerie de Chavalier de Boufflers: non hanno camere ma ci fanno accompagnare da una signora fino alla vicina Rue de la Pointe, una stretta via di terra, dove ad angolo c’è un piccolo appartamento, color rosso con una porta a tapparello di ingresso color verde smeraldo, dentro un’ampia camera un pò buia con due pareti in pietra e due in calce bianca, e un bagno diviso in due, da una parte doccia e lavandino e dall’altra, al buio, il water separao dalla camera solo da una corta tenda gialla. Siamo cotti ma troviamo la forza, dopo una doccia rigenerante, di buttarci tra i piccoli vicoli dell’isola, fatti un pò in terra e un pò acciottolati. Non esistono macchine nè altri mezzi di trasporto su tutta l’isola, che è talmente piccola da girarsi comodamente a piedi. C’è un piccolo mercato artigianale, uno spiazzo con un campo da calcio e diversi semplici locali – ristorante all’aperto lungo la costa. L’isola oggi è invasa da bambini, il sabato evidentemente non è la giornata migliore per godersela. Entriamo alla Maison des Esclaves, simbolo da sempre degli orrori della schiavitù. E’ una costruzione olandese risalente al 1776, color ocra, con una doppia e celebre scalinata a semicerchio che porta al piano superiore dove oggi alcuni attrezzi e pannelli, aiutano a ripercorrere gli inenarrabili orrori perpretati dall’uomo bianco nei secoli scorsi. In 4 secoli da qui sono transitati oltre 15 milioni si uomini, donne e bambini, catturati e ridotti in schiavitù, prima di essere venduti e da qui trasportati come merci nelle americhe. Al piano terra ci sono le buie stanze dove questi venivano ammassati in attesa del trasporto, separati per sesso ed età. Affacciarsi e e vedere giù il mare che si infrange sugli scogli mi fa un certo effetto; il museo è piccolo e in sè non è un granchè, ma è il luogo che fa riflettere. Usciamo e continuiamo a perlustrare a casaccio i vicoli dell’isola, fino ad arrivare su alle rovine di un castello, davvero rovine visto che neanche ci accorgiamo di essere arrivati. In cima alla salita della piccola collina, un vecchio doppio cannone da contraerea risalente alla Seconda Guerra Mondiale, un insignificante monumento e i quadri di tanti di ogni forma e colore realizzati da artisti locali, alcuni dei quali bizzarri e originali, fatti con tappi di bottiglia, sabbia o vecchi oggetti riciclati. Torniamo alla piccola spiaggia a fianco al molo, 40 metri per 10 invasi da bambini e adolescenti locali che si divertono ammassandosi in acqua; e 4 vecchie piroghe in legno dai colori mezzi cancellati dal tempo arenate sulla sabbia. E’ qui davanti, seduti sulle sedie di plastica al tavolino del Nono bar (una minuscola baracca affacciata sulla spiaggia), mentre sorseggiamo una Fanta, che osserviamo questo film reale. Un pò di scolaresche nel frattempo riempiono poco alla volta il traghetto di rientro per Dakar, l’isola lentamente si svuota e arriva il buio, buio vero e totale in quanto su tutta l’isola stanotte non c’è elettricità, che qui, come nel resto del Paese, va e viene. Senza torcia sarebbe impossibile girare, eppure qualche locale, rimane a giocare a calcio nel piccolo lembo di sabbia ormai deserto. Da non lontano siamo attratti dal suono dei jambè: un gruppo di giovani sta suonando su uno spiazzo a fianco al campo da calcio, la gente è disposta a cerchio, e a turno, alcune ragazze si scatenano al centro in danze tribali dai ritmi frenetici, illuminate dalla luce di qualche falò. Peccato solo che lo spettacolo sia al termine. E’ ora della cena, sulla terrazza dell’ Hostellerie de Chavelier de Boufflers, a lume di vecchia lanterna marinara che attrae tanti, troppi insetti. C’è ancora il tempo e la voglia in un’isola finalmente tranquilla, di una rinfrescante fanta al nostro baretto Nono, prima di rientrare nella nostra casetta accompagnati nei bui vicoli dalla provvidenziale torcetta, e di addormentarci ascoltando in cuffia le vecchie sigle dei cartoni animati della nostra infanzia. 26 Giugno Ile de Gorèe – Dakar Ieri è stata la giornata più faticosa dal punto di vista fisico dell’intero viaggio, soprattutto la ressa al molo di Dakar ci ha messo a dura a prova. Oggi qui a Gorèe c’è ancora qualche scolaresca, ma il grosso ha lasciato l’isola già ieri, e Gorèe appare più tranquilla. Qualcuno perfino saluta fra i vicoli di case a due piani di epoca coloniale, coi balconi in legno e dai colori vivaci ma scrostati e usurati dal tempo. L’ambiente è molto diverso da quello dei luoghi fin qui attraversati. Dopo una veloce colazione fai da te (stavolta non era compresa nel costo della camera) e una doccia, facciamo due passi fino al piccolo Musèe de la Femme, dedicato al ruolo delle donne in Senegal nel corso dei secoli: qualche costume e attrezzo d’epoca delle varie etnie e dei pannelli in francese. Poi al mercato artigianale. Non abbiamo più niente da vedere qua, così torniamo alla nostra casetta, recuperiamo gli zaini, e attendiamo l’arrivo del traghetto per Dakar seduti a sorseggiare qualcosa di fresco al solito tavolino del Nono, riparati dal sole grazie ad un ombrellone. Eccolo il traghetto, arriva: ci mettiamo in coda con altra gente, molti locali, sotto il sole. Stavolta niente ressa, il traghetto è semivuoto, tanto che ci sediamo comodamente sulle panchine di prua, per sfruttare un pò il vento della navigazione e alleviare così un pò il calore. Sono le 12.30 quando partiamo e le sagome delle colorate case coloniali di Gorèe a poco a poco si perdono all’orizzonte… Siamo nuovamente a Dakar, in un taxi il cui autista continua a perdersi per alzare il prezzo concordato della corsa, ma non funziona, siamo ormai esperti e decisi. Eccoci al Keure Diame, la guesthouse della nostra prima notte in Senegal. Tutto finisce da dove era cominciato…ci accoglie il giovane Ibra, il tuttofare della guesthouse. E’ ancora presto, lasciamo i bagagli nella stessa camera di 10 giorni fa e ci concediamo il pomeriggio in spiaggia: una distesa di sabbia immensa, per nulla attrezzata, selvaggia, sembra quasi il deserto che finisce in mare. Qualche rifiuto, ma soprattutto tanta gente, quasi tutta verso riva. Nessuno ha stuoie o asciugamani, solo noi, gli unici bianchi presenti. Qualcuno ci guarda a distanza un pò incuriosito ma con discrezione, qui non c’è l’abitudine ad avere la presenza di turisti stranieri. Nessuno infatti si avventura almeno qua, in questo lungo tratto di spiaggia a nord della città nel quartiere di Yoff, per questo forse non ci si appiccica nessuno come a Mbour, per chiaccherare o vendere qualcosa. Tanti bambini si divertono a giocare in acqua, e anche io, come loro, mi diverto tra le alte onde dell’Oceano, in un lungo e bellissimo bagno nelle sue acque pulite. E’ domenica, la spiaggia si affolla sempre di più, Chiara è l’unica donna in bikini, e la cosa le crea giustamente un pò di imbarazzo per entrare in acqua. Le ragazze locali infatti fanno tutte il bagno vestite. Si sta bene però qui in spiaggia a Dakar, probabilmente i primi giorni non ci saremmo mai avventurati fin qua da soli, oggi invece ci sentiamo perfettamente ambientati ed integrati. Ora dopo ora il litorale si riempie sempre di più mentre nel tratto lontano dall’acqua, gruppi di giovani improvvisano sulla sabbia tornei di lotta libera. Torniamo a fare due passi attraverso le sabbiose vie del quartiere, fra le case e le baracche, qualche auto e i bambini che a piccoli gruppi ci chiedono di farsi fotografare, sembrano divertirsi un mondo. La mia macchina scatta e non scatta ma va bene così, la gioia e la semplicità nei sorrisi di questi bimbi è appagante e fa pensare… 27 Giugno Dakar E’ trascorsa l’ultima notte qui a Dakar, sono riuscito finalmente a chiudere gli zaini, è tutto pronto o quasi, ma abbiamo ancora questa giornata da sfruttare al meglio. Mar è lo stesso omone che la prima notte ci ha recuperati in aeroporto, al nostro arrivo, ed è lui, chiamato da Ibra, che col suo taxi ci porta a fare un giro per il centro della città. Dai finestrini dell’auto, la grande spiaggia sembra quasi deserta stamattina, c’è un tizio che ci porta le sue capre, e soliti gruppi di giovani che si allenano. Nel centro di Dakar non c’è molto da vedere, dopo una sosta un pò problematica ad un bancomat, ci fermiamo a bordo strada giusto per due foto da lontano alla grande moschea coi suoi quattro minareti bianchi dalle cupole verdi (nella quale non possiamo entrare), poi una veloce sosta nei pressi dell’ insignificante e ultra presidiato Palazzo Presidenziale. Anche Place de L’Independance non è nulla di chè, caotica di traffico e di persone che appena scendiamo per prelevare in un bancomat ci si appiccicano per venderci di tutto. Scortati provvidenzialmente da Mar, scendiamo al Marchè Kermel. Siamo gli unici due turisti bianchi in questo labirintico e caotico mercato di banchi che vendono di tutto, dalle sculture in legno agli jambè, dai coloratissimi abiti ai pareo, braccialetti, collane, maglie delle squadre di calcio di mezzo mondo…Finiamo, tra le varie contrattazioni di rito, nell’essere portati in una sorta di buio deposito per le ultime compere all’ultima contrattazione! Torniamo, in attesa di sera, a passare le ultime ore nuovamente in spiaggia. Decisamente meno gente di ieri, Chiara ne approfitta per il bagno, e io pure. E’ piacevole stare qui a bordo Oceano a contemplare un pezzo di vita di questa strana città, che non ha nulla di particolarmente bello ma che allo stesso tempo non so perchè, mi attrae. Qualcuno seduto sulla sabbia osserva il mare, chissà a cosa pensa, chissà quali mondi reali o non fantastica o sogna. Non lontano si vedono decollare in cielo gli aerei, fra qualche ora toccherà a noi. Un’ultima cena anticipata al Keure Diame, con una gustosa insalata di pomodori e cipolle, un’ omelette e l’immancabile frutta. Un ultimo saluto alle gentili ragazze della guesthouse e ad Ibra che ci rinnova l’invito a tornare ospiti da lui nella sua terra di origine, la Casamance, nel sud del Paese, e siamo di nuovo nel vecchio taxi di Mar, direzione aeroporto. Il sole sta lentamente tramontando sulla spiaggia, ora più popolata di qualche ora fa. Gente ovunque, pulmini carichi, immondizia, baracche, palme e piccole ville, venditori di schede telefoniche lungo la strada…sembrano così scorrermi davanti agli occhi i titoli di coda di un film vero ed intenso, cominciato sul gradino della porta dello Keure Diame quando con Chiara la prima mattina osservavamo la gente e non ci sembrava vero…Il sole va a nascondersi dietro i bassi profili delle case e mi assale un magone che non mi aspettavo. L’Africa ti entra nel cuore, non è solo un modo di dire. Soprattutto quando è Africa vera, come qui nella nostra esperienza in Senegal. Sono stati giorni speciali, ricchi di emozioni di ogni tipo, intensi e indimenticabili. Una fetta di mondo che ancora non conoscevo e dove lascio un altro pezzo di cuore. Sono triste ed orgoglioso di averla vissuta questa esperienza. La “teranga” senegalese, ovvero la tradizionale ospitalità di questo popolo, mi è entrata nel cuore. Ospitalità fatta di piccole cose, di piccoli gesti che, senza un motivo particolare, si trasformano in grandi emozioni… Fuori dall’ aeroporto cambiamo, su consiglio di Mar, gli ultimi CFA rimasti in Euro al mercato nero con un tizio munito di calcolatrice che sale a bordo con noi per non farsi vedere. L’ aeroporto di Dakar nella zona partenze è molto più tranquillo rispetto all’arrivo, i controlli sono rapidi e l’attesa lunga come sempre. E’ mezzanotte ora italiana, le 22 locali quando salgo i gradini della scaletta che mi porta sul volo Iberia 3723 con destinazione Madrid, lasciando con una tristezza soffocata nel cuore la calorosa terra africana…


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