Yellowstone e Real America
L’avevamo promesso e rieccoci qua! Ancora una volta negli States, due anni dopo il nostro primo indimenticabile viaggio nella West Coast (vedere nostro diario). E che ci volete fare? È come una droga, una volta iniziato non si vorrebbe smettere più. La prima idea ci viene già due anni fa, addirittura sul volo di rientro dal nostro primo tour americano, mentre con il magone ripensiamo a tutte le meraviglie viste e a tutto quello che abbiamo dovuto tralasciare, un po’ per mancanza di tempo, un po’ perché troppo fuori rotta. Yellowstone è il primo grande assente. E così ci costruiamo un itinerario ad anello che ci gira intorno, scoprendo che ci sono un sacco di belle cose da vedere lì vicino! I paesaggi alpini del Grand Teton, il Colorful Colorado con le sue imponenti Rocky Mountains, il South Dakota con le Black Hills e i suoi “tatanka”… Eh sì, è la terra di indiani e cowboy, di pistoleri e saloon, di Cavallo Pazzo e il Generale Custer, di Buffalo Bill, Wild Bill Hickok, Calamity Jane… insomma, l’autentico Wild West del cinema americano. In una parola: la Real America.
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La nostra formula di viaggio è ancora una volta il tour on the road, rigorosamente fai da te, tanto ormai siamo (quasi) esperti! In tre settimane attraverseremo ben sei stati: Colorado, South Dakota, Wyoming, Montana, Idaho, Utah, per un totale di oltre 6700 km percorsi in auto e ben 270 a piedi. Ecco le tappe dell’itinerario:
Denver – Rocky Mountains – Black Hills – Badlands – Devils Tower – Little Bighorn Battlefield – Bighorn Canyon – Yellowstone – Grand Teton – Salt Lake City – Goblin Valley – Arches – Canyonlands – Mesa Verde – Durango – Great Sand Dunes – Colorado Springs – Denver
Stavolta il volo lo prenotiamo con British Airways con arrivo e partenza su Denver, con uno scalo a Londra un po’ lunghetto per la verità, ma diciamo che la convenienza della tariffa e l’affidabilità di British valevano il sacrificio. Per il volo ci muoviamo già a dicembre, mentre da gennaio iniziamo con le prenotazioni alberghiere e l’autonoleggio. Anche stavolta preferiamo prenotare tutto il possibile in anticipo. Agosto è alta stagione e il nostro itinerario è piuttosto serrato. Da tener d’occhio soprattutto la sistemazione a Yellowstone, specie se si vuole alloggiare all’interno del parco. Ci sono poche strutture e sono gestite dal concessionario Xanterra, quindi le prenotazioni vanno fatte esclusivamente dal loro sito e bisogna muoversi con molto anticipo, anche un anno prima. Infatti Yellowstone, oltre ad attirare turisti da ogni parte del mondo, è anche la meta preferita delle vacanze degli americani ed è letteralmente presa d’assalto, soprattutto d’estate. Non a caso è stato il parco più affollato che abbiamo visitato.
Allora abbiamo tutto? Biglietti aerei, assicurazione sanitaria, ESTA… Okay, in partenza!
6 agosto: Venezia – Denver
La convenienza economica e la vicinanza dell’aeroporto di Venezia ci costringono anche quest’anno alla levataccia delle 3.00 di notte. A questa si aggiungono le 5,5 ore di scalo a Londra per un totale di 18 ore di volo, scalo compreso. Quindi: sveglia ore 3.00, arrivo in motel ore 21.00 (cioè le 5.00 del giorno dopo, ora italiana) fanno un totale di 26 ore di viaggio. La cosa più massacrante dei viaggi sulla costa ovest degli USA sono proprio gli scali. Ma ahimè un volo diretto ancora non esiste, dovremo pazientare un altro po’.
Quel che è peggio è che all’arrivo, dopo attese e patemi d’animo non è mica finita qui, adesso arriva il bello: l’immigration! Ovvero l’estenuante trafila burocratica cui devono sottoporsi gli stranieri in arrivo agli aeroporti americani, almeno dal quel famigerato 11 settembre. Ma al DIA, l’aeroporto internazionale di Denver, scopriamo con sorpresa che è tutto automatizzato. Cioè la fila si fa sì, ma non dall’ufficiale doganale bensì ad una postazione computerizzata dove da solo ti fai la scansione del passaporto, quella delle impronte digitali e la foto. Infine consegni tutto all’ufficiale che ti liquida in breve tempo con le solite tre domande di rito (Viaggio di affari o di piacere? Dove andate? Quanto vi trattenete?). Fine. In un’oretta riusciamo a sbrigare tutto, ritiro dei bagagli compreso. Voto efficienza aeroporto di Denver: 10 e lode!
E un giudizio sul valore architettonico? Mah, non sono un’esperta, ma rimango un po’ perplessa dalla tensostruttura avveniristica che dovrebbe simulare le vette del Colorado (o qualcos’altro?). Ma quel che balza di più agli occhi sono i contributi artistici di dubbio gusto, primo fra tutti l’imponente Blue Mustang che accoglie i viaggiatori all’esterno dell’aeroporto, un inquietante cavallo rampante alto 10 metri, interamente blu cobalto e con gli occhi rossi fiammeggianti (qualcuno ci vede il Cavallo dell’Apocalisse, mah…). Ah, per la cronaca: il suo scultore, tale Luis Jiménez, rimase ucciso dal distacco di una parte del cavallo mentre vi stava lavorando… E che dire dei murales dal contenuto decisamente sinistro, a cominciare da quello che rappresenta un soldato nazista con la maschera antigas, un fucile in una mano e una scimitarra nell’altra, nell’atto di voler infilzare quella che sembra essere la colomba della pace, per finire con quello dal titolo In peace and harmony with nature che invece mostra cadaveri di animali e foreste in fiamme?
E dulcis in fundo, occhio alla criptica iscrizione posta sulla “pietra angolare” dell’edificio, la simbolica “prima pietra” su cui sarebbe stato costruito: “The time capsule beneath this stone contains messages and memorabilia to the people of Colorado in 2094” (?!) In effetti fra i teorici del cospirazionismo circolano strane voci di influssi massonici su questo aeroporto, il cosiddetto Tempio degli Illuminati, depositari del Nuovo Ordine Mondiale. Così si spiegherebbe la New World Airport Commission citata sulla pietra angolare, i simboli massonici del compasso e della squadra, gli oscuri murales che evocherebbero una futura apocalissi per “epurare” il mondo e instaurarvi il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale degli Illuminati… Mah, non so quanto ci sia di vero. In ogni caso, simbolismo massonico o meno, certo è che questo aeroporto è ben strano.
Bon, abbiamo sbrigato tutto, ci resta solo da ritirare l’auto. E qui iniziano le rogne. Non so perché ma un viaggio senza brutte sorprese a noi proprio non riesce. L’altr’anno l’incidente con il cervo, e ci è andata di lusso, devo ammetterlo, nessun addebito da parte della più che onesta Budget, alla quale bisognerebbe fare un monumento in confronto a questi scellerati della Thrifty/Dollar in cui siamo incappati stavolta. Arriviamo al desk e c’è una sola impiegata addetta esclusivamente ai clienti “premium”. Per gli altri poveri diavoli ci sono le postazioni automatizzate, cioè dei terminali da cui ti colleghi in videochiamata con un agente che lavora praticamente da casa, il quale si blocca dopo due minuti perché non può leggere elettronicamente una patente straniera e per di più cartacea. Ma va? Okay, abbiamo scherzato, ricominciamo da capo: ci rivolgiamo allora all’unica impiegata presente in ufficio, la quale ovviamente è super indaffarata (a fregare l’ennesimo cliente prima di noi…) e ci degna della sua attenzione dopo una buona mezz’ora. “Oh, the car is too small, you need a larger car!” What?? Abbiamo prenotato una Focus e siamo solo in due, qual è il problema? Ci fa vedere l’auto prevista dal terminale: un macinino! Niente a che vedere con una Focus. Insomma a farla breve praticamente ci estorce con i mezzi più subdoli un upgrade con un mostro di macchina, a dire il vero la più piccola disponibile, una Infiniti 3.0 di cilindrata che ci prosciugherà le finanze in benzina e non solo, dato che la cifra finale che ci preleveranno dalla carta di credito sarà molto superiore a quella pattuita. E non contenti ci addebiteranno anche un pieno di benzina che doveva essere gratis, per la modica cifra di quasi 10.00$ al gallone!
Basta, non aggiungo altro, ho ancora il nervoso, tanto più che mentre scrivo siamo ancora in trattative più o meno amichevoli con la Thrifty per farci riaccreditare almeno il pieno di benzina non dovuto. Vi dico solo una cosa: quando vi presentate a ritirare un’auto non accettate mai niente oltre a ciò che avete già prenotato e pagato, neanche se vi dicono che dovrete attraversare la catena dell’Himalaya, che troverete le strade più difficili e le condizioni meteorologiche più estreme. Non è vero niente. Negli Stati Uniti guidare è un piacere e le loro highways sono letteralmente autostrade, ampie e ben tenute, anche quando arrivano a oltre 4000 metri come in Colorado. E soprattutto leggete sempre tutto prima di firmare, anche se state per stramazzare a terra per la stanchezza del viaggio e del jet lag o se avete una coda di dieci persone alle spalle. È proprio su questo che contano per farvi capitolare. Quanto a noi: amen, abbiamo imparato la lezione per le prossime volte.
7 agosto: Rocky Mountain NP – Cheyenne
Quest’anno il nostro on the road inizia subito. Abbiamo infatti deciso di lasciare la visita di Denver all’ultimo giorno, avendo il volo di ritorno in serata. L’unico inconveniente è che così facendo non si ha tempo di recuperare il jet lag: se infatti può far comodo svegliarsi alle 4.00 per avere più tempo a disposizione il primo giorno, poi già nel tardo pomeriggio bisognerà inevitabilmente fare i conti con l’abbiocco. Tra l’altro oggi il meteo non ci è per niente di aiuto: piove a dirotto già dal mattino e noi abbiamo in programma nientemeno che la visita del Rocky Mountain National Park! Avevamo letto che se si vuole percorrere la panoramica Trail Ridge Road è indispensabile trovare una bella giornata di cielo sereno, altrimenti tutto quello che si vedrà da un’altezza di 3700 metri sarà solo foschia. E infatti…
Partiamo comunque verso le 6.00 da Longmont, dove abbiamo trascorso la prima notte, a poca distanza dall’entrata del parco. Il nostro programma iniziale prevedeva di visitare subito la zona del Bear Lake, dove fare un po’ di hiking evitando le ore centrali più affollate. Ma piove troppo e non riusciremmo neanche ad uscire dalla macchina. Decidiamo allora di invertire il programma e di fermarci prima ad Estes Park per visitare il famoso (o famigerato?) Stanley Hotel. Questo nome ai più forse non dice granché, ma gli appassionati di Stephen King sapranno senz’altro che qui l’autore è stato ospite per qualche tempo e che proprio da questi luoghi ha tratto ispirazione per l’ambientazione del thriller-horror Shining, dove l’hotel prenderà il nome di Overlook. La stanza 217 teatro di inquietanti vicende nel romanzo corrisponde alla stanza in cui ha alloggiato l’autore, tutt’oggi visitabile mediante tour guidati a pagamento. Noi preferiamo risparmiare le nostre risorse per qualcos’altro e ci limitiamo alla visita delle aree liberamente accessibili dell’hotel, la hall, il bar, e naturalmente gli esterni. Ehi! Ma dov’è il labirinto di siepi del film di Stanley Kubrick? A giudicare dall’altezza sembra sia stato piantato solo da poco, probabilmente a beneficio dei turisti!
Intanto il tempo non ne vuol sapere di migliorare. Entriamo nel Rocky Mountain National Park acquistando il pass annuale di 80.00$ come avevamo già fatto due anni fa. Anche quest’anno i parchi nazionali da visitare sono molti perciò ci conviene senz’altro. Prendiamo la Trail Ridge Road sotto l’acquazzone: fuori fa un freddo cane, ci sono 5°C alle 8.00 di mattina e anche le brevi soste nei punti panoramici non ci permettono di vedere granché, il panorama è immerso nelle nuvole e nella foschia. Dopo aver attraversato il punto più alto della strada a 3713 metri, giungiamo all’Alpine Visitor Center, dove decidiamo di fermarci un po’ nella speranza che smetta di piovere. La nostra pazienza per fortuna è ricompensata, ci rimettiamo in viaggio mentre spunta un pallido raggio di sole e poco dopo raggiungiamo il Continental Divide. Si tratta dello spartiacque del continente nordamericano, che divide il bacino dei corsi d’acqua che sfociano nell’Oceano Atlantico a est da quelli che confluiscono nel Pacifico a ovest. Corrisponde in pratica al crinale delle vette nordamericane che si estende da nord a sud, e infatti lo attraverseremo più di una volta nel corso del nostro tour, non soltanto sulle Rockies ma anche sulle montagne dello Yellowstone e del Grand Teton.
Incoraggiati da un’altra schiarita azzardiamo qualche breve trail, prima lungo un tratto del Colorado River, che qui è poco più che un ruscello (sgorga infatti proprio dalle Montagne Rocciose), poi più avanti per una visita all’Holzwarth Historic Site, ciò che resta di un antico ranch dei primi del ‘900. Avevamo letto che il parco era ricco di fauna selvatica ma finora ancora niente, probabilmente a causa del cattivo tempo. Poi finalmente proseguendo verso il Grand Lake iniziano i primi avvistamenti: branchi di elk o cervi wapiti e poi uno stupendo esemplare di cervo maschio dall’enorme palco di corna ramificate sul ciglio della strada. Le auto ovviamente cominciano a fermarsi un po’ a casaccio per scattare foto e devono intervenire i ranger a far scorrere il traffico. Facciamo così la conoscenza di un simpatico ranger con il quale scambiamo quattro chiacchiere, scoprendo guarda caso che ha origini italiane. Da qui in avanti susciteremo sempre tanta sorpresa negli americani quando alla classica domanda “Where are you from?” si sentiranno rispondere “Italy!” Questa zona infatti è molto poco battuta dal turismo internazionale (e soprattutto da quello italiano) rispetto ad esempio alla California o all’Arizona che abbiamo visitato due anni fa. Con l’unica eccezione di Yellowstone e la zona di Moab, per il resto è rarissimo incontrare italiani, e se devo dirla tutta non è che la cosa ci sia poi tanto dispiaciuta…
Arrivati al Grand Lake verso mezzogiorno, dove finalmente riusciamo a toglierci un po’ di strati di roba di dosso (visti gli sbalzi termici l’abbigliamento a cipolla sarà un must per almeno tre quarti della vacanza), la nostra meta sono le Adams Falls, delle suggestive cascate che raggiungiamo percorrendo un breve e facile trail. Ma la tregua meteo dura poco, il cielo si sta di nuovo rannuvolando, meglio tornare alla macchina e cercare un posto in cui pranzare. Sul Grand Lake troviamo un’area picnic dove consumiamo i nostri panini presi al mattino in un groceries, come sarà la prassi per le prossime tre settimane.
Intanto il cielo si è fatto veramente plumbeo, si è alzato un forte vento e si sentono anche dei tuoni minacciosi in avvicinamento. Non facciamo neanche in tempo a risalire in macchina che si scatena il putiferio. Prima qualche sporadico gocciolone, poi d’improvviso uno scroscio di pioggia torrenziale, la visibilità si riduce a zero e siamo costretti a fermarci in una piazzola di sosta già presa d’assalto da numerose auto. A questo punto vien giù una grandinata coi fiocchi che manco da noi in Pianura Padana a ferragosto. Solo che qui siamo a 3000 metri! In un attimo la carreggiata è completamente bianca, uno penserebbe più a una nevicata vista l’altitudine! Eh, ma non è mica finita qui. Poco dopo la grandinata si trasformerà in nevischio e poi ancora in pioggia leggera e infine spunterà un altro raggio di sole. Praticamente in una giornata siamo passati dalla pioggia alla nebbia al sole alla grandine al nevischio alla pioggia e poi ancora al sole, con oscillazioni termiche dai 5 ai 20°C nell’arco di poche ore. E il guaio è che ci dovremo fare l’abitudine perché buona parte della vacanza sarà ad alta quota e questi repentini mutamenti climatici saranno la regola. Ergo: abbiamo decisamente sbagliato la valigia! Sarebbe stata meglio qualche felpa in più e qualche pantaloncino corto in meno. Ma va be’, adotteremo la tecnica “a cipolla” e in qualche modo sopravvivremo.
L’ennesima schiarita ci porta di nuovo in prossimità del Bear Lake. Riusciamo stavolta a fare il trail intorno al lago come da programma? Proviamoci: un passo, due passi, tre passi… e pioggia. Okay, ci arrendiamo. Accantoniamo anche lo Sprague Lake e il Bierstadt Lake, tanto con questa pioggia è inutile. Così verso le 4.00 decidiamo di lasciare il parco in direzione di Cheyenne, dove trascorreremo la notte. Dal Colorado passiamo quindi in Wyoming, il nostro secondo stato. Cosa c’è in Wyoming? Esattamente quello che si vede nei film: il NULLA. Distese di praterie a perdita d’occhio, e poi ancora praterie e infine praterie. E se si è fortunati ogni tanto qualche sperduto ranch. Il panorama è talmente piatto e monotono che non ci accorgiamo nemmeno di aver attraversato il confine di stato. Mannaggia, la foto del cartello del Wyoming! Ce la siamo persa. (Ehm, facciamo collezione delle insegne di tutti gli stati che attraversiamo. È puerile, lo so, non ditelo in giro…). Ma poco male, nel corso del viaggio usciremo e rientreremo in Wyoming tante di quelle volte che i cartelli ci stancheremo di vederli.
Ed eccoci a Cheyenne, la capitale dell’Old West nonché del Wyoming! Davvero? Ma è tutta qua?! Be’, in effetti è la degna capitale di uno stato diciamo… a scarsa densità di popolazione. Complice la temperatura polare la passeggiata a Cheyenne è alquanto rapida e direi anche piuttosto deludente. Sarà che la città si ravviva solo durante i Cheyenne Frontier Days, il festival che rievoca l’epopea della frontiera e del Far West che si è concluso la settimana prima del nostro arrivo. Fatto sta che troviamo una città pressoché deserta, non ci sono non dico turisti, ma neanche tanti locali in giro per le strade, fatichiamo perfino a trovare un posto in cui mangiare un boccone. Uniche note folcloristiche sono i Big Boots, gli enormi stivaloni variopinti da cowboy simbolo della città, che troneggiano qua e là sulla Cheyenne Depot Plaza e davanti al Cheyenne Depot Museum, e il famoso store della Wrangler dove volendo si potrebbe fare qualche buon acquisto. Peccato che sia già tutto chiuso alle 7.00 di sera… Perfino il Wyoming State Capitol ci appare desolato, ingabbiato così com’è nelle armature dei lavori di restauro. Okay, non ci resta che rientrare mestamente in motel, tanto più che l’abbiocco da jet lag sta avendo la meglio su di noi.
8 agosto: Black Hills (Wind Cave NP – Custer SP)
Oggi giornata di trasferimento verso le Black Hills, in South Dakota. Ma prima di lasciare Cheyenne facciamo sosta all’Holliday Park per vedere il Big Boy Steam Engine 4004 della Union Pacific, una delle locomotive a vapore più grandi del mondo, ormai in disuso dagli anni ’60. La nostra prossima tappa è Fort Laramie National Historic Site, il primo avamposto militare insediato nel Wyoming nel 1834, dove si trovano ancora ben conservate molte delle strutture originali del forte, dal dormitorio con le brande ben fatte, alla mensa dei soldati apparecchiata di tutto punto, alle abitazioni degli ufficiali complete di arredi e suppellettili d’epoca, al bar del forte con tanto di biliardo e carte da gioco sui tavoli, per finire con la prigione (mamma mia che tanfo, dobbiamo scappare!) e le scuderie che oggi ospitano i cavalli dell’NPS. Il forte naturalmente è stato ricostruito e restaurato, ma è così ben tenuto che sembra ancora vivo e reale a tutti gli effetti. Ogni tanto addirittura i visitatori vengono sorpresi dallo squillo delle trombe dell’adunata e ci si aspetta sempre che da un momento all’altro faccia il suo ingresso nel cortile una parata di soldati a cavallo.
Nota curiosa: la schiera di Harley Davidson che troviamo in parcheggio quando riprendiamo la macchina per lasciare il forte. È solo un assaggio di quel che vedremo fra poco in South Dakota, dato che ogni anno nelle Black Hills nella prima quindicina di agosto si tiene lo Sturgis Motorcycle Rally, cioè nientemeno che il motoraduno più grande del mondo. E noi ce lo becchiamo in pieno, con annessi e connessi. Gli americani lo considerano una vera e propria calamità e infatti in questo periodo dell’anno evitano accuratamente le Black Hills. Noi a dire il vero non ne siamo stati disturbati più di tanto, i centauri americani non hanno niente a che vedere con certi cliché che si vedono nei film, sono molto educati e rispettosi del codice della strada e hanno anzi aggiunto una nota di colore al nostro viaggio. L’unico vero inconveniente è la difficoltà di trovare alloggio e il costo esagerato degli hotel, che può anche triplicare in questo periodo, come abbiamo potuto ben constatare in fase di prenotazione.
Comunque sia, entriamo finalmente nel nostro terzo stato (altra foto per la nostra collezione!). Stavolta ci accorgiamo bene di aver attraversato il confine, perché poco dopo il paesaggio cambia radicalmente e le vaste praterie brulle del Wyoming lasciano il posto alle morbide colline lussureggianti del South Dakota. Ci piace già. E fra poco ci piacerà ancor di più! La nostra prima tappa veloce è Hot Springs per depositare le valigie in motel, poi proseguiamo subito verso le Black Hills, le “Colline Nere” sacre agli indiani, così chiamate in lingua lakota perché i boschi che le ricoprono da lontano le fanno sembrare nere. È questa infatti la terra dei Sioux, quelli di Cavallo Pazzo e di Toro Seduto. Ricorderete il film di Kevin Costner Balla coi lupi. Ebbene le vicende narrate sono proprio quelle dei Sioux Lakota e il film è stato girato proprio qui, fra le Black Hills e il Wyoming.
Diciamo subito che questi luoghi sono di una bellezza unica e valgono da soli il viaggio: le Black Hills sono ora sconfinate praterie su cui pascolano branchi di animali selvatici a perdita d’occhio (bisonti, cervi, elk, mule deer, pronghorn, bighorn sheep, cani della prateria e i simpaticissimi burros, gli asinelli selvatici), ora diventano impervie montagne ricoperte di folta vegetazione, ora rocce colorate dalle forme più strane, ora suggestivi scorci panoramici, laghetti, torrenti, cascate, insomma una varietà incredibile di paesaggi e di fauna. Se volete vedere la riserva più numerosa di bisonti del Nordamerica e ammirare questi bestioni da vicino (ma proprio da vicino!) è qui che dovete venire.
Quest’oggi abbiamo a disposizione solo il pomeriggio e lo dedichiamo prima di tutto al Wind Cave National Park. Questo parco dell’NPS è a ingresso libero, si pagano solo i tour guidati alle grotte per le quali è principalmente rinomato il parco. Noi però tralasciamo le grotte, che pur nella loro particolarità non sono paragonabili a quelle che conosciamo noi con le classiche conformazioni di stalattiti e stalagmiti. Facciamo invece qualche breve trail che ci permette di ammirare bei panorami e fare qualche incontro ravvicinato con la fauna locale: già qui infatti si incontrano le prime mandrie di bisonti e soprattutto numerosissime colonie di cani della prateria, simpatici roditori simili a marmotte molto curiosi e socievoli, che sbucano dalle loro tane al passaggio dei turisti sperando in qualche leccornia.
Nel tardo pomeriggio poi entriamo finalmente al Custer State Park, la punta di diamante delle Black Hills. Questo a differenza del Wind Cave è un parco statale, il che significa che non si può usufruire del pass dell’NPS ma bisogna pagare un ingresso separato, nello specifico 20.00$ a macchina, valido per una settimana. Qui percorriamo subito il Wildlife Loop, una strada panoramica ad anello che attraversa la zona in cui si concentra il maggior numero di animali. L’orario (il tardo pomeriggio) dovrebbe essere proprio il più favorevole per gli avvistamenti e infatti è un tripudio di fauna variegata, nonostante anche quest’oggi il meteo non sia proprio dalla nostra. Ma il sovrano indiscusso è lui, il bisonte americano o “buffalo”, un bestione lanoso dall’aria un po’ minacciosa che può arrivare a pesare anche una tonnellata, e che è bene quindi tenere a dovuta distanza. La cosa più stupefacente è che vuoi per il numero, vuoi per la stazza, questi animali dominano in maniera assoluta e incontrastata l’ambiente in cui vivono, per cui spesso ve li troverete a occupare con la loro mole tutta la carreggiata, incuranti delle auto che fanno la fila dietro il loro enorme sedere o che passano loro di fianco rischiando una bella scornata alla carrozzeria. Quindi se vi trovate da queste parti bloccati in mezzo a una mandria di bisonti, armatevi di pazienza e preparatevi ad aspettare, perché qui i padroni sono loro!
Il Custer State Park ospita attualmente circa 1450 esemplari di bisonti e come vi dicevo è la riserva più cospicua del Nordamerica e una delle più grandi del mondo. E in effetti nemmeno allo Yellowstone, che viene comunemente considerato “il Serengeti d’America”, abbiamo visto un così gran numero di animali, e così da vicino, come qui al Custer. Certo non era così agli inizi del ‘900. Leggevamo che i bisonti erano stati quasi totalmente sterminati dai colonizzatori europei non soltanto per la passione della caccia, ma anche allo scopo ben poco nobile di “affamare” i nativi americani e decimare anche loro, relegando poi i superstiti nelle riserve. Solo l’intervento di alcune personalità illuminate, come il presidente Theodor Roosevelt e il “padre” del Custer State Park Peter Norbeck, hanno impedito l’estinzione totale dei bisonti, invertendo la tendenza e ripopolando pian piano queste terre.
Ma proseguiamo perché ci sono altre meraviglie da scoprire. Eccolo qua: il burro, il simpatico asinello selvatico vera mascotte del parco, anche lui protagonista di qualche “invasione di carreggiata”, ma solo per intrufolare il muso nel finestrino della vostra macchina alla ricerca di qualche bocconcino (mi raccomando, tenete a portata di mano le carote!). È veramente uno spasso vedere come si radunano attorno alle auto in un vero e proprio assalto, e non se ne vanno e le inseguono finché non ottengono quello che vogliono. E attenzione perché se non trovano la meritata carota potrebbero decidere di assaggiare il vostro cappello! Intanto si sta facendo buio e decidiamo di tornare a Hot Springs per la cena. Continueremo la visita delle Black Hills domani.
Che dire di Hot Springs? Impressioni contrastanti. È una città termale, porta d’accesso meridionale alle Black Hills, ma forse per questo rimane un po’ ai margini della zona dei parchi ed è quindi meno turistica e animata. Degna di nota è l’architettura in arenaria rossa e la suggestiva cascatella all’ingresso della città. Ospita anche il Mammoth Site, un museo realizzato su un sito paleontologico che conserva resti di mammut. A noi però oggi rimane tempo solo per la cena, un hamburger veloce nell’unico locale aperto (una micro birreria) trovato a fatica sulla via principale, quando già i pochi altri stavano per chiudere. Da ricordare sempre che almeno in questa parte degli Stati Uniti si cena prestissimo e che i locali chiudono già alle 9.00 di sera. Eviterete così di dover andare a letto a pancia vuota, cosa che abbiamo rischiato più volte…
9 agosto: Black Hills (Custer SP – Crazy Horse Memorial – Mt Rushmore)
Di primo mattino ripercorriamo il Wildlife Loop, nuovamente alla ricerca di fauna selvatica: anche l’alba è un momento buono per gli avvistamenti e infatti siamo presto ricompensati della levataccia. Fra pronghorn, mule deer e le immancabili invasioni di carreggiata di mandrie di bisonti, burros e non ultimi i bikers (ricorderete il motoraduno), le soste si moltiplicano a dismisura e le ore passano in fretta, e noi ancora dobbiamo percorrere altri suggestivi scenic drives: è la volta della Needles Highway, 14 miglia spettacolari tra foreste, prati, laghi suggestivi, strettissimi tunnel e singolari rocce di granito. La strada prende infatti il nome dai pinnacoli a forma di aghi appuntiti che si stagliano verso il cielo lungo il percorso per culminare nel Needle’s Eye, una stretta roccia appuntita con una fessura verticale che ricorda proprio la cruna di un ago. Altro must da visitare è il Sylvan Lake, un grazioso laghetto circondato da rocce di granito che merita una bella passeggiata. Ma si sa, le passeggiate mettono appetito… Ehi, ma c’è un barbecue in riva al lago! Approfittiamone subito allora e gustiamoci un buonissimo buffalo burger con patatine. Con buona pace del povero “buffalo”…
Lasciata la Needles Highway deviamo verso sud in direzione del Crazy Horse Memorial, il colossale monumento scolpito nella roccia dallo scultore Korczak Ziolkowski in memoria del leader Sioux Cavallo Pazzo, quello che con Toro Seduto prese parte alla battaglia di Little Bighorn contro l’esercito del Generale Custer. La scultura, iniziata nel 1948 e ancora in costruzione, una volta terminata sarà la più grande opera mai scolpita nella roccia, e fu voluta dai nativi americani non solo per commemorare il grande capo indiano ma anche in risposta alla “provocazione” rappresentata dal monumento ai presidenti sul Monte Rushmore. La scultura, alta 172 metri e larga 195, è veramente mastodontica e si vede benissimo anche dall’esterno del memoriale. Per darvi un’idea, le teste dei presidenti sul Monte Rushmore, che sono alte “solo” 18 metri, viste da vicino sembrano comunque mostruose, figuriamoci quindi il Crazy Horse!
Dato il costo non proprio trascurabile dell’ingresso (22.00$ a macchina) saremmo tentati di non entrare, tanto più che per andare fin sotto al monumento bisognerebbe poi prendere lo shuttle che ovviamente non è gratis. Ma ci diciamo: ormai siamo qui, in fondo è per una buona causa… Se si può chiamare “buona causa” disintegrare una montagna a colpi di dinamite per la gloria di un (seppur onorabilissimo) capo indiano. Insomma, tira e molla ci decidiamo a entrare e constatiamo che effettivamente non è che si vada poi tanto oltre, il monumento si vede sempre da lontano, però almeno si può visitare il Visitor Center, il museo, lo studio e la casa dello scultore. Ci risparmiamo invece i 4.00$ a testa dello shuttle, abbiamo già sufficientemente sostenuto la “causa”.
Dopo una sosta a Custer, una bella cittadina in stile western che troviamo letteralmente presa d’assalto dai bikers di Sturgis, ci concediamo una breve passeggiata in riva allo Stockade Lake, quindi ci avviamo verso l’imbocco del terzo imperdibile scenic drive delle Black Hills, la Iron Mountain Road. Questa è un’altra stupenda strada panoramica con stretti tunnel e tornanti da capogiro: ad un certo punto la strada passa addirittura su sé stessa, non so se mi spiego. Molto divertente ma anche piuttosto pericoloso, soprattutto visto il traffico impressionante di bikers. E infatti poco dopo siamo fermi: c’è una moto rovesciata giù per la scarpata e sembra che i passeggeri siano conciati anche piuttosto male. Ma miracolo dell’organizzazione americana, nonostante le strade strette e impervie in un attimo arrivano ranger, ambulanza e addirittura i vigili del fuoco (be’, di questi proprio non c’era bisogno).
La spiegazione di tutto questo traffico è semplice: la Iron Mountain Road porta nientemeno che al Mount Rushmore National Memorial, il santuario del patriottismo americano, meta obbligata di ogni cittadino che si rispetti e da cui evidentemente nemmeno gli irriverenti bikers possono esimersi. E infatti questo è stato in assoluto il luogo in cui ne abbiamo incontrati di più e in cui la loro presenza ha iniziato a diventare un pochino ingombrante. Ma in nome del patriottismo glielo possiamo concedere. Il Monte Rushmore si scorge già da lontano sulla Iron Mountain Road, dove è d’obbligo la foto all’imbocco dell’ultimo tunnel a incorniciare le teste dei presidenti (mettete in conto l’inevitabile ingorgo di traffico…).
Il Monte Rushmore è a ingresso libero ma… sorpresa! Si pagano 10.00$ di parcheggio. Praticamente un ingresso. Però è valido un anno, quindi da bravi cittadini americani potrete andare al Monte Rushmore anche tutti i giorni. Contenti? E che ci vogliamo fare… Bisogna dire però che gli americani sono dei maestri nel presentare le cose: riuscirebbero a rendere attraente anche una foglia secca su un ramo stecchito. Diciamo che si arrangiano con quello che hanno. In questo caso: un monumento incompiuto, che molto probabilmente rimarrà tale per sempre, e ancora una volta ricavato demolendo una montagna. Ma vuoi mettere la coreografia? Già il viale d’ingresso è un tripudio di bandiere multicolori (gli emblemi dei 56 stati e territori USA), per non parlare della grande terrazza panoramica davanti ai faccioni dei presidenti: George Washington, Thomas Jefferson, Theodor Roosevelt e Abraham Lincoln, scelti dallo scultore Gutzon Borglum come coloro che hanno lasciato l’impronta più significativa nei primi 130 anni di storia statunitense. E poi c’è il Presidential Trail, il percorso a scale metalliche che passa alla base del monte proprio sotto ai presidenti (attenzione: 422 gradini!), il Visitor Center e lo studio dello scultore con il modellino originale dell’opera. Ehi, ma è a mezzo busto! Infatti così era il progetto originario iniziato nel 1927, ma a quanto pare alla morte dell’artista nel 1941 si chiusero i rubinetti dei finanziamenti e così l’opera rimase incompiuta.
Mentre usciamo scopriamo che all’interno del memoriale c’è anche un bel ristorante self-service e una gelateria che non sembra niente male, almeno a giudicare dalle dimensioni dei gelati. E allora ci viene in mente che avevamo in programma di tornare dopo cena per la Evening Lighting Ceremony, ma a questo punto perché non cenare qui? Detto, fatto. A quanto pare in molti hanno avuto la nostra stessa idea perché il ristorante è quasi pieno, meglio affrettarsi altrimenti rischiamo di fare tardi per la cerimonia. A questo punto non ci resta che assaggiare il gelato, non aspettavamo altro! Due palline 5.00$. Però, mica poco. Sì ma questi non sono gelati “umani”, saranno almeno due etti di roba! E per fortuna che non abbiamo messo anche granella e salse varie! E siccome non riusciamo ad arrivare in fondo decidiamo di andarceli a mangiare con calma sulle gradinate dell’anfiteatro dove si terrà la cerimonia. Sì, ma che freddo! Ho felpa e k-way e sto tremando. E certo il gelato non aiuta. Se solo iniziassero lo spettacolo… Ah ecco, finalmente!
Si spengono le luci (ormai è sera) e si accendono i riflettori a illuminare solo i volti dei presidenti, mentre in sottofondo si diffonde la musica e sullo schermo gigante iniziano a scorrere immagini di vita e di storia americana. Molto suggestivo. La cerimonia in sè poi non è niente di particolare, si tratta sostanzialmente di un monologo tenuto da un ranger che spiega la genesi del monumento e le motivazioni per cui gli americani dovrebbero visitarlo (almeno una volta nella vita, come la Mecca per i musulmani!): perché gli Stati Uniti sono un popolo di “braveheart”, un popolo grande che si è fatto da sè, fino a diventare la più grande democrazia del mondo, la più grande economia del mondo, la più grande potenza politica e militare del mondo, fautori della libertà e della pace universale. E qui per poco non casco dalla gradinata. Pace?? Ho capito bene? Devo essermi persa qualcosa. Certo che un po’ di modestia… Avessimo noi italiani tutto questo orgoglio nazionale chissà dove saremmo arrivati! La cerimonia si conclude poi con l’ammaina bandiera, mentre tutto il pubblico in piedi, mano sul cuore, ne accompagna l’uscita intonando l’inno nazionale. Sigh, a stento trattengo la commozione. E dopo questo bagno di patriottismo a stelle e strisce, mentre ormai sono sull’orlo dell’assideramento e il gelato mi si è fermato sullo stomaco, ci avviamo verso l’uscita con lo spirito risollevato.
10 agosto: Badlands National Park
Oggi teniamo particolarmente d’occhio il meteo. Abbiamo infatti in programma la visita al Badlands National Park, circa un centinaio di miglia a sud-est delle Black Hills. Questo parco dà il meglio di sè con il bel tempo e il cielo terso, che ne esaltano le particolarissime striature colorate delle rocce. Sarebbe un vero peccato se piovesse anche oggi. Tutto sommato però ci va discretamente: cielo a pecorelle, qualche bel raggio di sole per le foto e qualche nuvoletta per avere un po’ di sollievo dalla calura. Sì, perché almeno qui finalmente riusciremo a passare una giornata senza patire il freddo, anzi! Quasi ci sembra di essere tornati al nostro viaggio di due anni fa nei parchi della West Coast, con le loro rocce multicolori e il paesaggio desertico. E infatti il nome Badlands significa letteralmente “bad lands” o “mauvaises terres” come le chiamarono i primi colonizzatori francesi a indicare appunto una zona remota e desolata.
Il parco, oltre che per la particolarità delle sue striature colorate, è notevole anche per la fauna straordinaria e abbondante: il bighorn sheep qui è nel suo elemento naturale e ne vedremo molti, solitari e immobili come statue sulle rocce impervie o accovacciati in branchi a godere del sole e della pace di queste lande desolate. Sono poi di casa e in gran numero i cani della prateria, che sbucano curiosi dalle loro tane emettendo ogni tanto il loro caratteristico verso, quel fischio acuto che assomiglia a quello delle nostre marmotte e che è tanto più accentuato quanto più i turisti cercano di avvicinarsi, quasi vogliano lanciare un segnale di avvertimento ai loro simili. E poi ogni tanto (anzi spesso!) vi troverete di fronte questo cartello: “BEWARE: RATTLESNAKES!” Già, serpenti a sonagli, a quanto pare numerosi da queste parti, anche se noi purtroppo (o per fortuna…) non ne abbiamo incontrato neanche uno.
La mattina la dedichiamo ai trail vicino al Ben Reifel Visitor Center. Imperdibile è il Notch Trail, un percorso di 1,5 miglia piuttosto avventuroso, sia per qualche tratto esposto, ma soprattutto per via di una parete di roccia che bisogna scalare salendo una ripida scala a pioli. Il cartello all’imbocco del trail lo descrive come “moderate to strenuous” con un tempo di percorrenza di 1,5-2 ore. Noi lo abbiamo fatto in 40 minuti, soste e foto comprese, e non siamo Reinhold Messner. Ci vien sempre da ridere della cautela esagerata degli americani quanto alle difficoltà dei percorsi, ma ormai ci siamo abituati. La scala, che a prima vista dà effettivamente le vertigini, poi in realtà si rivela più semplice di quel che sembra e anzi molto divertente. Abbiamo visto una comitiva di Amish che la affrontavano con relativa facilità, nonostante le sottanone lunghe delle donne, i pantaloni lunghi scuri degli uomini e le calzature non proprio adattissime. E se ci sono riusciti loro… A proposito, abbiamo incontrato spesso Amish fra i turisti in questa parte degli Stati Uniti. E noi che credevamo che vivessero fuori dal mondo. Ma non erano loro che rifiutavano il progresso, l’elettricità, le automobili? E allora come mai questi se ne andavano in giro in monovolume? E con al collo una fotocamera che non mi pareva proprio dell’Ottocento? Mah…
Il pomeriggio percorriamo la Badlands Loop Road facendo sosta ai viewpoint. Riusciamo a vedere anche uno stupendo esemplare di bighorn sheep dalle enormi corna ricurve sul ciglio della strada, immobile come una statua e incurante dei turisti di passaggio. Verso metà pomeriggio abbiamo completato il loop e decidiamo di tornare all’ingresso di nord-est dove al mattino avevamo adocchiato un’altra interessante attrazione: il Minuteman Missile National Historic Site, un sito militare risalente al periodo della Guerra Fredda, costituito da un Visitor Center e da due siti di lancio per missili nucleari, Delta 01 e Delta 09. Quest’ultimo ora non contiene più missili e può essere visitato in autonomia, anche se ci si deve fermare alla recinzione esterna. Il Delta 01 invece ospita ancora un missile nucleare perfettamente operativo e può essere visitato solo mediante tour guidati.
La nostra giornata si conclude con una sosta a Wall, tipica cittadina dall’architettura Old West come tante altre della zona, celebre soprattutto per il suo Wall Drug Store, un enorme centro commerciale in stile western dove si può trovare qualsiasi tipo di cianfrusaglia, a dire il vero più un’attrazione turistica che un negozio. La sosta a Wall non ci porta via più di mezz’ora e per noi è tranquillamente evitabile se non avete tutto questo tempo. Molto più carina è invece Keystone, la città in cui facciamo rientro e dove abbiamo trascorso le nostre due notti nelle Black Hills. Sempre in stile western, è anch’essa presa d’assalto dall’immancabile orda di bikers di Sturgis che si dividono fra qui e Custer, e complice la vicinanza del monte Rushmore è veramente molto turistica e viva e vi farà trascorrere una piacevole serata fra negozi, ristoranti e le immancabili birrerie.
11 agosto: Sturgis – Deadwood – Spearfish – Devils Tower – Buffalo – Sheridan
Stamattina visitiamo la parte nord delle Black Hills prima di lasciarcele definitivamente alle spalle. La prima tappa obbligata è Sturgis: eh be’, dopo essere stati letteralmente assediati da motociclisti per due giorni dobbiamo andare a curiosare anche a casa loro. Cosa ci sarà di tanto interessante da richiamare ogni anno bolidi su due ruote da ogni parte del mondo? In realtà niente di che. Sarà che sono le 8.00 del mattino ma noi tutto questo movimento non lo abbiamo trovato. Abbiamo incontrato molti più bikers in giro per le Black Hills che qui. In effetti questo è il loro quartier generale, è qui che si organizzano le attività della giornata, i ritrovi, le escursioni, ma poi durante il giorno ognuno se ne va un po’ in giro dove gli pare. Per i bikers il motoraduno di Sturgis è anche un po’ un pretesto per fare i turisti fra questi luoghi meravigliosi, e come dargli torto? Comunque sia a Sturgis qualcosa di interessante c’è: sfilze di moto parcheggiate dalle forme e dai colori più eccentrici, store che vendono ogni genere di articoli per centauri, dalle magliette ai giubbotti in pelle agli stivali, fino addirittura ai ricambi e agli accessori per moto. Un’altra cosa curiosa di Sturgis è la Walk of Fame dei motociclisti, una porzione di marciapiede dove invece delle stelle del cinema di Hollywood ci sono i nomi di qualche biker straordinario, purtroppo, ahimè, passato a miglior vita…
La nostra prossima tappa è Deadwood, altra icona western resa celebre da uno dei suoi più illustri cittadini: il pistolero Wild Bill Hickok, personaggio leggendario del Far West insieme a Buffalo Bill e a Calamity Jane, che trovò la morte nel 1876 per mano di Jack McCall mentre giocava a poker al Saloon no.10 di Deadwood, tuttora esistente e visitabile. Al momento dell’uccisione Wild Bill aveva in mano una coppia di otto e una di assi, di fiori e di picche, combinazione che passò poi alla storia come “la mano del morto”. Altra curiosità a proposito di Deadwood è The Midnight Star, il locale con annesso casinò di proprietà di Kevin Costner, che (colmo della sorpresa!) mentre scrivo scopro aver chiuso i battenti a fine agosto di quest’anno, proprio pochi giorni dopo il nostro rientro in Italia.
Il nostro viaggio prosegue lungo lo Spearfish Canyon, uno stupendo scenic drive stretto fra pareti di roccia colorate costeggiate da torrenti e cascatelle. Questa strada ci riconduce in Wyoming (eccolo qua il cartello del confine di stato che ci eravamo persi!) dove ci dirigiamo subito verso una meta decisamente impressionante: il Devils Tower National Monument. Lì per lì magari il nome non vi dice niente, ma se vi nomino Incontri ravvicinati del terzo tipo? Non siete appassionati di film di fantascienza… Okay, allora si tratta di quello stranissimo monolite a forma di cono tronco con delle fenditure verticali che nel film di Steven Spielberg è teatro di incontri alieni. È talmente fuori dal comune che uno penserebbe ad una costruzione artificiale fatta ad arte in un set di Hollywood. E invece è una montagna realmente esistente e si trova proprio qui al confine fra South Dakota e Wyoming.
Il nome “Devils Tower” ovviamente le è stato dato dai colonizzatori europei, perché invece gli indiani Lakota (per i quali la montagna non ha nulla di sinistro ma anzi è sacra) la chiamavano “Bear Lodge”. Si narra infatti che mentre un gruppo di bambine stavano giocando furono sorprese da un branco di enormi orsi. Per cercare di mettersi in salvo le bambine salirono su una roccia e pregarono il Grande Spirito di proteggerle. Il Grande Spirito sollevò la roccia verso il cielo per impedire agli orsi di assalire le bambine e gli orsi, nel tentativo di raggiungerle, si arrampicarono sulla roccia lasciandovi i segni profondi delle loro unghie. Quando poi le bambine raggiunsero il cielo furono tramutate nelle Pleiadi. Esistono anche altre versioni più cruente della leggenda dove le bambine non fanno proprio una bella fine, ma ve le risparmio. La spiegazione scientifica (o meglio una delle tante) vuole invece che si tratti di una formazione rocciosa di origine vulcanica la cui superficie sedimentaria esterna più tenera è stata erosa nel tempo dagli agenti atmosferici, mentre il nucleo più duro costituito da un’intrusione lavica cristallizzata si è mantenuto intatto.
Comunque sia, quello strano monolite che emerge all’orizzonte in stridente contrasto con le verdi colline circostanti è effettivamente un po’ inquietante. Oltretutto (guarda caso) noi ci arriviamo proprio mentre si sta avvicinando un temporale e d’un tratto sotto un cielo color del piombo ci appare questa visione spettrale con sopra un enorme nuvolone nero. Neanche il tempo di parcheggiare che le nuvole minacciose si trasformano in un vero e proprio diluvio, con tanto di tuoni e lampi a illuminare quel luogo demoniaco. Ci scuseranno gli indiani Lakota, ma almeno in quel frangente mai il nome “Devils Tower” fu più appropriato. Per fortuna l’acquazzone è di breve durata e poco dopo possiamo partire per il trail attorno alla montagna come da programma. La “torre” vista dalla base è ancor più singolare. Si vedono le striature, le “unghiate” dell’orso che a tratti sono interrotte dall’erosione, come se un parallelepipedo verticale si fosse staccato di netto e quel che ne resta fosse rimasto sospeso, almeno finché gli agenti atmosferici e la gravità non avranno la meglio. La Devils Tower è anche meta abituale di molti climbers, e anche noi ne vediamo alcuni che si divertono a scalare le pareti verticali scanalate, un hobby come un altro per loro, ma purtroppo anche un’ennesima mancanza di rispetto nei confronti dei nativi per i quali, come dicevo, la montagna è sacra.
Il nostro tour prosegue in direzione di Buffalo, altra cittadina stile Old West cui dedichiamo solo una breve sosta, per continuare poi per Sheridan dove trascorreremo la notte.
12 agosto: Little Bighorn Battlefield – Bighorn Canyon – Cody
Ed eccoci a varcare un altro confine di stato, anche se solo per poco: è la volta del Montana, dove abbiamo in programma la visita al Little Bighorn Battlefield National Monument, il celeberrimo campo di battaglia dove il 25 giugno 1876 si scontrarono il 7° Cavalleria guidato dal Generale Custer e una coalizione di Sioux Lakota, Cheyenne e Arapaho per il controllo delle terre delle Black Hills. L’esito di quella battaglia è passato alla storia ed è tristemente noto a tutti: fu una disfatta per l’esercito americano e decretò la morte del suo condottiero. Ma come giustamente ebbe a notare un capo tribù: “Quando un esercito dei bianchi combatte gli indiani e vince, questa è considerata una grande vittoria, ma se sono i bianchi ad essere sconfitti, allora è chiamata massacro”. E infatti Little Bighorn è oggi un luogo sacro sia per i bianchi che per i nativi ma per i motivi opposti: per i nativi è simbolo di riscatto e autodeterminazione, per i bianchi è il memoriale del loro brutale massacro da parte degli “hostile Indians”. Ma quegli indiani ostili non volevano che difendere la propria terra: “Noi non abbiamo chiesto a voi uomini bianchi di venire qui. Il Grande Spirito ci diede questa terra perché ne facessimo la nostra casa. Voi avevate la vostra. Non abbiamo interferito con voi.” (Cavallo Pazzo).
Little Bighorn non è posto per il turista mordi-e-fuggi: è un luogo della memoria che va visitato in punta di piedi e con estremo rispetto, nella quiete e nel silenzio assoluto che, come le anime dei caduti, sembrano aleggiare sulle brulle colline del Montana. Non aspettatevi particolari attrazioni turistiche: a parte il Visitor Center con relativo museo, tutto quello che troverete sarà una distesa di colline verdeggianti solcate dal Little Bighorn River, sulle quali è tracciato il percorso che accompagna le varie fasi della battaglia illustrate da cartelli esplicativi, lapidi e monumenti, che culminano nel memoriale del Last Stand, il luogo dell’ultimo assedio e della disfatta finale, fino ad arrivare al Custer National Cemetery, luogo di riposo dei soldati statunitensi caduti in battaglia.
E dopo questa breve parentesi di storia americana rientriamo in Wyoming e ci dirigiamo verso ovest, attraversando la selvaggia e rigogliosa Bighorn National Forest tramite le panoramiche US-14 e US-14 ALT, che fra tornanti e vette oltre i 2700 metri ci condurranno alla Bighorn Canyon National Recreation Area. Il canyon è formato dallo sbarramento del Bighorn River ad opera della Yellowtail Dam, che ha dato luogo alla formazione del Bighorn Lake. Le anse sinuose che caratterizzano il canyon e il colore rossastro delle pareti di roccia ricordano molto il Dead Horse Point che abbiamo visitato due anni fa nello Utah. Un’altra particolarità di questa zona è la presenza di alcuni ranch storici visitabili su prenotazione.
Ci rimettiamo in marcia in direzione ovest quando ormai l’ora di pranzo è passata da un pezzo e lo stomaco brontola disperatamente: troppo caldo il Bighorn Canyon per il picnic, dobbiamo pazientare ancora un po’. Ah, ecco finalmente un parco con tanto di tavoli e barbecue! La passione degli americani per i picnic non si smentisce mai. I nostri vicini di tavolo si stanno preparando la grigliata, beati loro, noi invece dobbiamo accontentarci dei nostri panini e insalatine confezionate prese al Walmart. Evidentemente la nostra aria mesta deve aver mosso a compassione i vicini, perché dopo un po’ li vediamo arrivare con in mano un paio di belle birre. Sempre splendidi gli americani, bisogna ammetterlo. Credo sia la loro natura di pionieri che li rende così socievoli, ma forse anche la vastità del territorio e la scarsa densità di popolazione, almeno qui nell’ovest, che li hanno abituati a socializzare perché potrebbero sempre aver bisogno del prossimo, vuoi per un aiuto in caso di necessità o vuoi semplicemente per avere un po’ di compagnia. Noi che viviamo in zone più urbanizzate purtroppo abbiamo perso questa capacità di approccio verso gli altri e tendiamo più a isolarci. Altro buon motivo per riscoprire la genuinità del “selvaggio west”.
A metà pomeriggio raggiungiamo la nostra prossima tappa: è Cody, la città western che deve la sua fondazione e il suo nome al mitico William Frederick Cody, alias Buffalo Bill, cacciatore, esploratore, soldato nella guerra di secessione americana, ma anche attore e impresario teatrale. A lui si deve la creazione del Buffalo Bill Wild West Show, uno spettacolo circense che portava in scena rappresentazioni western e a cui presero parte altri leggendari personaggi dell’epoca come Wild Bill e Calamity Jane. E noi qui stanotte alloggiamo nientemeno che nell’hotel da lui fondato, The Irma. Davanti a questo storico hotel ogni giorno alle 18.00 va in scena lo spettacolo della sparatoria nello stile tipico del Wild West Show e noi non ce lo vogliamo perdere. La storia è quella classica del baro dalla pistola facile, del ladro di banche, della vecchia baldracca da night club, dello sceriffo che si fa gabbare dai briganti, e si conclude con il prevedibile finale in cui tutti uccidono tutti. E anche qui a fine rappresentazione non può mancare il patriottico inno americano (e due…).
Ma per la serata abbiamo in programma uno spettacolo ancor più emozionante: Cody è infatti la capitale mondiale del rodeo e nei mesi estivi ogni sera viene rappresentato il Cody Nite Rodeo, uno spettacolo tipicamente western in cui i cowboy si esibiscono in spericolate prodezze. I biglietti d’ingresso costano 20.00$ e si trovano non solo allo stadio ma in tutti i principali hotel e negozi del centro. Noi abbiamo già in mano i nostri e un’ora prima dello spettacolo siamo già seduti sulle tribune proprio sopra ai cancelli da cui escono i cowboy. Lo spettacolo si apre con il giro a cavallo della porta-bandiera mentre una voce intona l’inno nazionale (di nuovo…). Poi si scatenano le esibizioni: prima è la volta dei domatori di cavalli selvaggi che fanno a gara a chi sta più in sella, poi tocca alla presa al lazo dei vitellini, poi tutti i bambini presenti vengono invitati a scendere dalle gradinate per una gara di presa del nastro attaccato alla coda di un vitellino. I vari numeri sono intercalati dagli sketch di un clown che coinvolge nei suoi scherzi anche il pubblico.
Lo spettacolo continua con le corse a cavallo fra i barili per culminare nella tanto attesa cavalcata del toro: peccato che gli impavidi cowboy vengano tutti disarcionati dopo pochi secondi rischiando anche qualche bella scornata, anche se ho il sospetto che questi tori siano ben addestrati: l’ultimo addirittura alla fine dello spettacolo fa volare il barile al centro dello stadio con una disinvoltura da attore fin troppo consumato. Prima di uscire per chi vuol provare il brivido c’è “Mongo the Bull”, un enorme toro bianco in un recinto che, se dell’umore giusto, per 10.00$ potrebbe permettervi di salirgli in groppa. Tirando le somme, non andremmo a vedere un rodeo ogni sera ma diciamo che è pur sempre un’esperienza.
13 agosto: Yellowstone (Yellowstone Lake – Hayden Valley – Mud Volcano – Grand Canyon)
Presto, presto, sono le 6.00, giù dal letto! Siamo arrivati al clou della vacanza: stiamo per trascorrere tre giorni allo Yellowstone National Park! È da un anno che aspettiamo e ora finalmente ci siamo! Mamma mia che agitazione… Allora, le valigie sono già in macchina, navigatore impostato, piccola sosta per rifornire il frigo e via! Yellowstone, arriviamooo!!!
La via che conduce all’entrata est del parco è la Buffalo Bill Cody Scenic Byway, una volta definita da Theodor Roosevelt “le 50 miglia più scenografiche d’America”. Be’, in effetti non è niente male, ma per la miseria il maltempo ci perseguita! Anche oggi piove… La strada attraversa il Buffalo Bill State Park, dove per prima cosa incontriamo la Buffalo Bill Dam, un’imponente diga sullo Shoshone River incastonato fra le strette pareti di roccia a strapiombo. Peccato che è ancora prestissimo e l’accesso alla diga è chiuso, dobbiamo accontentarci della vista del Buffalo Bill Reservoir, il bacino creato dallo sbarramento della diga. La panoramica poi prosegue lungo la Wapiti Valley, ricca di fauna. Ed ecco che collezioniamo anche uno stupendo moose, un alce americano che scorgiamo poco distante fra la boscaglia. Proseguiamo costeggiando lo Shoshone River fra rocce bizzarre dalla forma di torri rossastre e pinnacoli: sono le Absaroka Mountains. Finalmente ecco lo “Yellowstone Sign”, il cartello che indica l’ingresso al parco: classica foto di rito (anzi più d’una!) e si prosegue. Superato il Pahaska Tepee, il lodge storico costruito da Buffalo Bill, la strada comincia a salire verso il Sylvan Pass e il Sylvan Lake: siamo già a 2600 metri e quasi non ce ne accorgiamo. Ed eccoci in vista delle prime fumarole dello Yellowstone Lake, l’enorme caldera di questo supervulcano che è appunto Yellowstone. Una breve sosta al Fishing Bridge e poi un’occhiata veloce al Lake Hotel, lo storico resort in stile neoclassico in riva al lago. Poi ci avviamo verso nord.
Il più antico parco nazionale degli Stati Uniti e, a quanto pare, del mondo (istituito nel 1872) ha un’estensione paragonabile a quella dell’Umbria e la strada principale a forma di otto che lo attraversa, il Grand Loop, è lunga ben 142 miglia e divide il parco in due anelli. Solo per percorrere l’intero loop in auto con i rigidi limiti di velocità e il traffico della stagione estiva ci può volere anche un giorno, figuriamoci per visitare il parco. Noi in tre giorni abbiamo fatto le corse, e anche se siamo riusciti a vedere praticamente tutto ci siamo stati veramente stretti. Ma non è solo l’estensione, è la straordinarietà dei fenomeni naturali che si concentrano qui a rendere unico questo parco. Yellowstone è la fusione inconcepibile degli opposti, il luogo dove inferno e paradiso si incontrano. Ogni manifestazione della natura elevata all’ennesima potenza trova qui la sua espressione. Abbiamo cercato di immaginarci tante volte come sarebbero stati questi luoghi prima di visitarli, ma quello che abbiamo trovato supera ogni aspettativa. Adesso che cerco di descriverlo mi rendo conto che mille parole e mille discorsi non riuscirebbero a rendergli giustizia. Yellowstone è uno spettacolo unico che solo l’esperienza diretta può far comprendere appieno. Però però però… qualcosa vi devo pur raccontare di questi tre giorni! E allora mettetevi comodi perché ho idea che qui la mia capacità di sintesi andrà a farsi benedire!
Lasciato lo Yellowstone Lake in direzione nord incontriamo la prima “ribollente” attrazione del parco: Mud Volcano. Questo, come dice il nome, è proprio un vulcano di fango, una depressione di pozze fumanti e gorgoglianti dal forte odore di zolfo che ci fa storcere un po’ il naso (ma ci faremo presto l’abitudine), mentre invece non sembra minimamente infastidire l’enorme bisonte pacificamente sdraiato lì vicino, anche se a guardarlo meglio sembra talmente vecchio e malandato che forse se ne sta lì perché non può proprio alzarsi! Attraversiamo poi la Hayden Valley praticamente deserta: mezzogiorno non è proprio l’orario ideale per gli avvistamenti di animali, ci torneremo più tardi. Ma intanto lungo lo Yellowstone River c’è una bella picnic area, meglio approfittarne per rifocillarci un po’ perché il programma del pomeriggio prevede delle belle scarpinate! Ci stiamo infatti dirigendo verso una delle zone più spettacolari del parco: il Grand Canyon of the Yellowstone. Questo canyon, che nel nome ricorda il più famoso Grand Canyon dell’Arizona, non ha nulla da invidiargli quanto a scenografia e magnificenza, pur essendo in realtà molto diverso. Il canyon è stato scavato dallo Yellowstone River, che defluisce dal Lake Yellowstone e scorre verso nord formando delle imponenti cascate tra verdi foreste di conifere e rocce colorate nelle varie sfumature del rosa, dell’arancio e naturalmente del giallo. Ed è proprio il giallo, il colore predominante di queste rocce, a dare il nome al parco (“yellow stone”).
Le due sponde del canyon, il North Rim e il South Rim, sono percorse da vari trail che permettono di vedere da vicino le cascate. L’unico inconveniente è che quest’anno ci sono dei lavori in corso in tutta la zona del canyon che ne limitano notevolmente le visite. Il South Rim purtroppo è quasi tutto off-limits, quindi addio alla tanto sospirata passeggiata lungo i 300 gradini di scale metalliche dell’Uncle Tom’s Trail che conducono alla base delle cascate. Qui in realtà stanno solamente rifacendo il parcheggio del trailhead, ma grazie ai soliti furboni che cercano di intrufolarsi a tutti i costi anche dove non si può l’NPS ha pensato bene di chiudere tutto il South Rim. L’unica zona accessibile è Artist Point, che ovviamente è così strapieno che parcheggiare è un’impresa. Ma noi abbiamo pazienza… e infatti poco dopo riusciamo ad infilarci nel primo parcheggio libero e a percorrere almeno una parte del trail: i viewpoint sulle cascate sono comunque molti e uno più spettacolare dell’altro, non c’è pericolo di rimanere delusi! Il fiume argentato incassato fra le pareti di roccia multicolori è uno spettacolo da cartolina, a volte sembra quasi irreale, un quadro d’autore della talentuosa Madre Natura.
Il North Rim non è da meno. Anche questo è in parte interdetto ai turisti per via dei lavori, ma tutto sommato rimane ancora in gran parte godibile. Solo l’ultima parte in corrispondenza dell’Inspiration Point è chiusa ma tutti gli altri viewpoint sono visitabili. Sentieri su e giù, scale e scalette si moltiplicano anche qui a dismisura, ma ora non dobbiamo più fare i conti solo con la fatica: ci si mette anche la pioggia! Scrosci a intermittenza per tutto il pomeriggio, alcuni lievi e di breve durata, altri veri e propri acquazzoni. Siamo infangati fin sopra le orecchie e nonostante felpa e k-way l’umidità ci penetra fin nelle ossa. Ad un certo punto quando gli scrosci si trasformano in pioggia torrenziale siamo costretti a ripiegare in macchina. Per oggi mi sa che con i trail abbiamo chiuso, tanto più che uno di noi due (e non sono io) ha praticamente distrutto le scarpe da tennis… Forse è meglio se andiamo a depositare le valigie al Canyon Lodge, sperando che nel frattempo il tempo migliori, ma niente da fare. Allora riprendiamo l’auto e ritorniamo verso la Hayden Valley che avevamo tralasciato al mattino, ma anche adesso, sarà per il maltempo, sarà per l’orario, di animali neanche l’ombra. Okay, ci arrendiamo. Torniamo in hotel a toglierci un po’ di fango di dosso e a riposarci.
14 agosto: Yellowstone (Lamar Valley – Mammoth – Norris – Old Faithful)
Oggi sveglia a orario antelucano (già, perché invece gli altri giorni?) e via in direzione Lamar Valley per un safari in autonomia nel “Serengeti” di Yellowstone, dove dovrebbe trovarsi la più alta concentrazione di animali del parco. E anche oggi… ve lo devo dire? Piove. Uffaaa, che iella però… Avevamo sentito parlare di possibili temporali pomeridiani allo Yellowstone in agosto, ma qui è un continuo. E fosse solo per la pioggia, ma il fatto è che le temperature sono polari, in genere al mattino presto non ci sono più di 4-5°C. Poi di solito la temperatura sale durante il giorno, fino ad arrivare anche a 20-25°C, il che significa che ci si deve vestire a strati e tenere in auto mezzo guardaroba per ogni evenienza. E vabbè… Intanto alle 7.00 di mattina il Dunraven Pass a 2700 metri è immerso nella foschia e nell’umidità. L’incredibile è che mentre noi siamo ingolfati in felpe e impermeabili vedi gente che se ne va tranquillamente in giro in maniche corte e shorts! Per fortuna gli animali pascolano anche sotto la pioggia e lungo il Lamar River ce ne sono veramente tanti, soprattutto mandrie di bisonti e, a quanto si dice, lupi. Di questi finora non c’è traccia, ma i bisonti! È una sosta continua per scattare foto, con questi bestioni che attraversano la strada pacifici creando ingorghi di traffico. Addirittura ce n’è uno enorme che marcia indisturbato esattamente in centro alla carreggiata e non ne vuol sapere di spostarsi. Inutile dire che il clacson non lo scompone nemmeno. Non resta che aspettare…
Percorso un buon tratto della US-212 verso l’entrata nord-est del parco decidiamo di tornare indietro verso Tower Junction. Ad un certo punto brusca frenata: un lupo che ci attraversa la strada, evviva! Collezionato anche questo. Oltrepassata Tower Junction facciamo una breve sosta per vedere il Petrified Tree, un antico albero fossile, quindi proseguiamo fra laghetti e cascatelle fino a Mammoth Hot Springs, l’area termale cui dedicheremo la mattinata. Ma prima facciamo una piccola deviazione verso l’entrata nord del parco per ammirare il Roosevelt Arch, la monumentale porta d’accesso fatta costruire dal presidente Theodor Roosevelt. E qui altro piccolo sconfinamento, perché l’ingresso nord è appunto in Montana. Qualche foto sotto l’arco e poi si rientra nel parco in direzione Mammoth Hot Springs.
La cosa straordinaria di Yellowstone è che ogni zona è diversa dalle altre e ha una sua particolarità. Questa è caratterizzata dalle sue scenografiche e variopinte terrazze di travertino, delle collinette dalla cui sommità sgorgano sorgenti calde che scorrendo lungo le pendici lasciano al loro passaggio dei depositi calcarei. Questi, unitamente all’azione di batteri e microrganismi, conferiscono alle rocce un’incredibile varietà di sfumature, dal bianco candido, al grigio, al rosa, al giallo, all’arancio intenso. Le terrazze assumono ora l’aspetto di fumanti colate di roccia multicolore, ora di un grigio paesaggio lunare costellato di tronchi d’albero fossilizzati, ora sembrano piscine digradanti d’acqua cristallina, ora candide cascate ghiacciate. A Mammoth ha anche sede Fort Yellowstone, il forte storico insediato nel 1886 dall’esercito americano a protezione e tutela del parco. Dopo l’istituzione dell’NPS quest’ultimo subentrò all’esercito e il forte ne divenne il quartier generale; i suoi edifici sono tuttora utilizzati come uffici amministrativi e dimora del personale dell’NPS, mentre lo stesso Visitor Center occupa una delle strutture dell’antico forte.
Dopo un veloce picnic sulle panchine del forte proseguiamo in direzione sud verso Norris. Questo tratto di strada sapevamo essere interessato dai lavori in corso, e infatti poco dopo siamo fermi davanti ad una ranger con in mano il cartello dello stop che ci annuncia 15 minuti di attesa. Ora da noi generalmente quando c’è un cantiere stradale il traffico è regolato a sensi unici alternati con dei semafori. Be’ qui non è così: abbiamo incontrato parecchi lavori stradali e di semafori mai neanche l’ombra. Prima di ogni cantiere si trova un operaio che maneggia la paletta dello stop per bloccare una corsia di marcia. Dall’altra parte viene avanti la fila di veicoli provenienti dal senso opposto guidata da una “pilot car”, che giunta all’inizio del cantiere fa inversione e si mette alla guida dell’altra fila di macchine. E così avanti e indietro. Un po’ macchinoso e dispendioso, ma evidentemente hanno tempo e risorse.
Se Mammoth ci ha entusiasmato la nostra prossima destinazione è ancor più impressionante: è Norris Geyser Basin, l’area geotermica più calda di Yellowstone, una vasta depressione interamente ricoperta di piscine colorate fumanti, geyser che eruttano continui getti di vapore, fumarole dal pungente odore sulfureo, pozze di fango ribollenti e borbottanti. Insomma, se fossimo i primi esploratori del parco penseremmo di essere capitati in un girone dell’inferno. E proprio le piscine come ad esempio la Emerald Spring, dall’acqua più cristallina o di un bel colore turchese, che farebbero venir voglia di farci un bel tuffo, sono in realtà quelle più bollenti, dove apparentemente niente potrebbe sopravvivere. E invece esistono specie di microorganismi e batteri che proprio in questi ambienti acidi ad elevatissime temperature trovano il loro ambiente ideale. Il bacino si divide in due zone: il Porcelain Basin, una vasta area aperta in cui si condensa un gran numero di fenomeni geotermici, e il Back Basin immerso nella foresta e con fenomeni più isolati. Il protagonista assoluto dell’area è lo Steamboat Geyser, il geyser attivo più alto del mondo i cui getti di acqua e vapore, assolutamente “unpredictable”, possono superare i 90 metri d’altezza. Vedere un’eruzione di questa portata non è cosa da tutti i giorni, perché hanno una frequenza che varia da qualche giorno ad alcuni anni, ma il geyser dà sempre spettacolo con piccole eruzioni minori e continue di 3-5 metri d’altezza, quasi fosse il camino di una “steamboat” (da cui appunto il nome).
È quasi sera e dovremmo raggiungere la zona dell’Old Faithful dove alloggeremo due notti, ma vorremmo approfittare dell’orario per visitare in tutta calma e senza la ressa di turisti la star indiscussa di Yellowstone: la Grand Prismatic Spring nel Midway Geyser Basin. Si tratta della sorgente geotermica più grande degli Stati Uniti (113 metri di diametro), ma questo non la renderebbe straordinaria se non fosse per l’incredibile arcobaleno di colori che la contraddistingue, dovuto alla varietà di batteri pigmentati che vivono nelle sue acque: a seconda della temperatura dell’acqua nelle diverse stagioni dell’anno prevalgono determinate specie di microorganismi da cui dipendono le varie colorazioni, dal blu all’azzurro al verde al giallo all’arancio al ruggine, in un digradare di sfumature che si irradiano dal centro ai bordi del grande “occhio” iridescente.
La sorgente può essere visitata tramite apposite passerelle, ma date le dimensioni la visione d’insieme è possibile solo dall’alto. E per questo non c’è posto migliore della collinetta a lato della piscina, la cui sommità è raggiungibile tramite il Fairy Falls Trail. Questo però fino a poco tempo fa non era un sentiero ufficiale ma un percorso “segreto” che veniva utilizzato dai turisti a loro rischio e pericolo. L’NPS ha allora deciso di renderlo agibile, costruendo anche un parcheggio e un overlook sulla collinetta. Per questo motivo il trail è stato chiuso per lavori per oltre un anno e non c’era alcuna possibilità di ammirare la Grand Prismatic dall’alto. Noi stavamo per rassegnarci quando invece pochi giorni prima della partenza… sorpresa! Hanno riaperto il trail! E così eccoci quassù a goderci l’incredibile caleidoscopio di colori, uno spettacolo mozzafiato perfino con il maltempo.
Si è fatto tardi e non ci resta che raggiungere il nostro hotel, l’Old Faithful Lodge nell’omonima zona dei geyser, che come il Canyon Lodge abbiamo prenotato dal sito di Xanterra ben 7 mesi prima, fissando in un primo momento le uniche stanze disponibili e continuando poi a tartassare il sito nei mesi successivi per cercare di trovare di meglio (e soprattutto di meno caro!). E la nostra perseveranza è stata premiata. Gli hotel all’interno del parco saranno anche un po’ cari (ma neanche poi tanto in confronto ad esempio a West Yellowstone), ma sono semplicemente favolosi, specie qui nella zona dell’Old Faithful. Fra tutti spicca ovviamente il lussuosissimo Old Faithful Inn, con le massicce travi in legno a sostenere l’altissimo soffitto, l’imponente camino in pietra nella hall, la sfarzosa sala da pranzo con ennesimo camino su cui troneggiano enormi lampadari. Solo che 300.00$ a notte per noi erano effettivamente un po’ tantini, così abbiamo ripiegato sul più modesto Old Faithful Lodge, con una reception che conserva lo stesso stile rustico nella struttura in pietra e le travi in legno, mentre le stanze sono delle semplici cabins di dimensioni contenute e con un arredamento essenziale.
Tenete presente che tutti i lodge all’interno del parco sono assolutamente privi di qualsiasi dotazione tecnologica, quindi niente TV, né Wi-Fi, ma quel che è peggio: niente copertura cellulare! Sarete totalmente isolati dal resto del mondo per tutta la durata del vostro soggiorno. Questa è una scelta voluta dal concessionario Xanterra per conservare la naturalezza del parco e farvi sentire completamente immersi nella quiete dei luoghi. Be’, se riuscite a sopravvivere per qualche giorno senza telefonare o collegarvi a Internet vi garantisco che il sacrificio sarà abbondantemente ripagato. Volete mettere uscire dalla stanza e trovarvi davanti un’eruzione del geyser più famoso del parco? L’Old Faithful Geyser, il “vecchio fedele” che da milioni di anni erutta regolarmente circa ogni 90 minuti, si trova proprio al centro del villaggio, con tutti i lodge a fargli da contorno. Solo uscendo a cena la prima sera abbiamo assistito a ben due spettacolari eruzioni. E volete mettere potervi godere le attrazioni il mattino presto o la sera tardi, quando la ressa di turisti giornalieri se n’è andata e potete gustarvi il parco in santa pace? Vi assicuro che non ha prezzo. Per non parlare degli spostamenti, molto più brevi e agevoli se si è già all’interno del parco. Insomma, noi lo rifaremmo. L’importante è prenotare mooolto ma mooolto in anticipo.
15 agosto: Yellowstone (Lower, Middle & Upper Geyser Basin)
Finalmente ferragosto ci regala un raggio di sole! E per fortuna, perché oggi avremo da sgambettare parecchio: ci aspetta l’intera zona dei geyser. Ma prima risaliamo verso Norris per visitare una parte del parco che abbiamo tralasciato ieri: si tratta delle Artists Paintpots, un’area dove si alternano pozze di fango ribollente e altre di un intenso colore turchese. Superato (o per meglio dire: “saltato”…) il Monument Geyser Basin e la Beryl Spring giungiamo alle Gibbon Falls sull’omonimo fiume. Oltrepassiamo Madison Junction e facciamo una breve deviazione lungo il Firehole Canyon Drive, una via panoramica fra strette pareti di roccia, torrenti e cascatelle. E pian piano ci riavviciniamo alla zona dei geyser: la prima area geotermica che incontriamo è il Lower Geyser Basin, il più vasto bacino dei geyser di Yellowstone (ben 11 miglia quadrate). Proprio per la sua estensione è praticamente impossibile visitarlo tutto, anche perché non tutti i fenomeni geotermici sono facilmente raggiungibili.
La zona di più facile accesso è quella delle Fountain Paint Pots, dove spicca la Celestine Pool, altra piscina dalle ribollenti acque turchesi, ahimè tristemente nota anche per aver mietuto qualche vittima. Eh sì, sembra incredibile ma c’è chi dimentica che a dispetto delle apparenze si tratta pur sempre di sorgenti termali con temperature prossime all’ebollizione, e gli incidenti purtroppo a volte capitano. C’è poi la Silex Spring, una bellissima sorgente di un blu intenso, il Red Spouter, un geyser di roccia rossastra, il Clepsydra Geyser, così chiamato perché un tempo eruttava con la regolarità di un orologio, mentre ora si trova in una fase di eruzioni praticamente continue. Sull’altro lato della strada imbocchiamo una via a senso unico, il Firehole Lake Drive, che ci conduce nella zona del Great Fountain Geyser, un geyser spettacolare che erutta getti di acqua e vapore ogni 8-12 ore. E poi c’è ancora la coloratissima Firehole Spring, una sorgente cristallina circondata da un inferno di striature rossastre, il White Dome Geyser che sembra un enorme profiterole fumante… e potrei andare avanti all’infinito.
Ma c’è ancora molto da vedere e così poco tempo, mannaggia… Ci spostiamo rapidamente verso il Midway Geyser Basin, il bacino geotermico intermedio dove ieri abbiamo visto solo la Grand Prismatic Spring dall’alto. Oggi invece visitiamo l’area dal basso, dalle passerelle fra le sorgenti. Questa zona ospita poche sorgenti termali, ma di notevoli dimensioni ed estremamente scenografiche. Già dal parcheggio la visione d’insieme è stupefacente. Il bacino è situato al di là del Firehole River che si attraversa a piedi tramite un ponticello di legno. Dalle sorgenti termali del bacino fuoriescono rivoli d’acqua acida bollente che lasciando scie rossastre sulle rocce si riversano in cascatelle nel fiume sottostante. La prima enorme piscina colorata che incontriamo è l’Excelsior Geyser Crater, un cratere dormiente dalle acque verdi-azzurre. Più avanti ecco la Turquoise Pool dalle trasparenti acque turchesi. Poi incontriamo Lei, la Grand Prismatic Spring, regina incontrastata di Yellowstone. Le dimensioni dal basso sono notevoli, impossibile catturarne una visione completa, specie con i vapori che emana. Tutto quello che riusciamo a scorgere dalle passerelle è il riverbero multicolore dei suoi cerchi concentrici, dai cui bordi si dipartono lingue di fuoco rossastre che vanno a gettarsi nel Firehole River.
Ma non contenti riprendiamo l’auto e torniamo all’imbocco del Fairy Falls Trail dove siamo stati ieri sera per godere di nuovo di questa meraviglia dall’alto. Oggi la giornata è magnifica e il sentiero è frequentatissimo. Quando raggiungiamo l’overlook sulla collinetta è quasi mezzogiorno ed è super affollato di turisti che si accalcano contro la balaustra per catturare qualche scatto. Sono soprattutto cinesi e giapponesi, assatanati di fotografia che per giorni hanno letteralmente preso d’assalto il parco complicandoci non poco la vita. Il fatto è che non si accontentano di un paio di foto come tutti gli altri turisti, ma si piantano in un posto e cominciano a tirar fuori tutto l’armamentario di cavalletti, fotocamere e teleobiettivi di tutte le dimensioni. E poi stanno lì e provano e studiano tutte le varie angolazioni, e prima dal lato destro e poi da quello sinistro, e prima più zoom e poi meno zoom, e prima la foto di gruppo e poi il primo piano… Impossibile godersi il panorama in santa pace. E stategli alla larga perché altrimenti vi sequestrano e per mezz’ora dovrete fargli anche da fotografi! Insomma al terzo giorno non ne possiamo veramente più! E così ci decidiamo infine a lasciare l’overlook, cercando di imprimerci nella memoria quelle immagini spettacolari prima di tornare alla macchina.
Nostra prossima e ultima tappa del giorno: l’Upper Geyser Basin, che in sole due miglia ospita la più elevata concentrazione di fenomeni geotermici del parco. Pare che circa un quarto dei geyser di tutto il mondo si trovino qui. E allora gambe in spalla perché il tempo stringe! Partendo da nord incontriamo prima il Biscuit Basin, in cui spicca la straordinaria Sapphire Pool (il nome dice già tutto). Il breve loop sulle passerelle ci fa ammirare tra l’altro anche l’Avoca Spring, una sorgente verde acqua contornata da un’aura color topazio, e la Black Opal Pool dalle sfumature opalescenti. Dalla mappa vediamo che al di là del Firehole River c’è un trail non pavimentato lungo il quale sembrano esserci molte altre attrazioni. Peccato che attraversata la strada non troviamo l’imbocco del sentiero ma in compenso tanti simpatici “bear warning”. Allora rientriamo nel Biscuit Basin perché anche da lì sembra esserci un trail che conduce alla zona dell’Old Faithful. Ma anche qui si tratta di un percorso non tracciato disseminato di segnali di allerta tipo: “Do not walk alone” (e infatti noi siamo “alone”), “Make noise” (mah, potremmo cantare ma non so se gli orsi apprezzerebbero…), “Carry bear spray” (ehm, “bear spray” non pervenuto…). Ma in fin dei conti direi che è meglio prendere la macchina!
Saggia decisione vista anche la distanza, solo che la zona dell’Old Faithful è full che più full non si può, decisamente il luogo più affollato del parco, ettepareva… Ma noi abbiamo un asso nella manica! Andiamo a parcheggiare nientemeno che davanti alla nostra cabin all’Old Faithful Lodge. Che cu… ehm, che fortuna! Questo è uno dei vantaggi di alloggiare dentro al parco, he he! Ah, dimenticavo, lungo il tragitto verso l’Old Faithful ci fermiamo brevemente anche in un’altra sezione dell’Upper Geyser Basin, il Black Sand Basin, dove ammiriamo tra l’altro la pittoresca Emerald Pool, l’arcobaleno di colori della Rainbow Pool e il Sunset Lake, sorgenti geotermiche una più bella dell’altra, mentre tutt’intorno si estende a perdita d’occhio un paesaggio lunare di striature rossastre disseminato di “skeleton trees”, alberi fossilizzati dal terreno acido su cui sono cresciuti.
Intanto all’Old Faithful c’è già un capannello di gente attorno al geyser più famoso del parco: aspettano la prossima eruzione. Noi che ne abbiamo già viste due ieri sera decidiamo di rimandare a più tardi. Quindi la regola è: se vedete un assembramento di gente attorno ad un’attrazione significa che lì sta per succedere qualcosa. Il problema è che non sempre si sa bene quando. L’Old Faithful è famoso per la regolarità delle sue eruzioni, ma ci sono tanti altri geyser “predictable” che però non sono, diciamo, così “puntuali”. Davanti ad ogni geyser ci sono le indicazioni del lasso temporale entro cui dovrebbe avvenire l’eruzione, ad esempio “fra le 14.00 e le 16.00”. Il che può significare alle 14.01 o alle 15.59… Sta a voi decidere quanto tempo siete disposti ad aspettare! Così può succedere ad esempio che passiate davanti ad un geyser totalmente inerte e poi magari all’improvviso si mette a sparare in aria getti di acqua e vapore quando voi già siete 200 metri più avanti. È esattamente quello che succede a noi praticamente con tutti i geyser “predictable” dell’area: prima con il Beehive Geyser che per fortuna inizia ad eruttare dopo che ci eravamo allontanati di poco, poi arriviamo al Grand Geyser con intorno il solito capannello di gente, chiediamo quando è prevista l’eruzione e ci viene risposto: “Non si sa esattamente…”. Ah bene. Aspettiamo un po’ ma non è che abbiamo tutto il giorno… Il Grand Geyser erutterà quando noi saremo da tutt’altra parte, anche abbastanza distanti per la verità, ma è un’eruzione talmente grande e spettacolare (e soprattutto lunga!) che riusciamo a godercela anche dalla parte opposta del bacino.
Ma oltre ai geyser ci sono una quantità innumerevole di piscine colorate da ammirare, prima fra tutte la straordinaria Morning Glory o “bella di giorno”, perché nella forma e nel colore ricorda appunto il fiore cui deve il nome. In realtà un tempo aveva un colore diverso, più tendente al blu che all’attuale giallo-verde, ma purtroppo la brutta abitudine dei turisti di gettarvi dentro monete e oggetti di ogni tipo ha fatto sì che si ostruisse lo sfiato da cui fuoriesce il calore, con conseguente abbassamento della temperatura dell’acqua e proliferazione di alcuni batteri che ne hanno modificato il colore. Qualche anno fa lo sfiato è stato ripulito mediante un’eruzione indotta e ne hanno tirato fuori un quantitativo enorme di monetine, sassi e perfino bottiglie. Da allora vige il divieto assoluto di gettarvi dentro alcunché, nella speranza che con il tempo la sorgente riacquisti i suoi magnifici colori originari.
Bene, non ci resta che tornare verso l’Old Faithful Geyser e prendere posto anche noi sulle panchine in attesa dello spettacolo che si ripresenta puntuale ogni 90 minuti circa: stavolta l’eruzione è più breve e meno potente delle precedenti, ma poco importa, è pur sempre un’emozione. E poi abbiamo ancora tempo per vederne altre! E infatti più tardi usciamo a cena et voilà! Eccone un’altra. Stasera però è l’ultima che trascorriamo nel parco e dobbiamo concentrarci sugli acquisti, non possiamo lasciare Yellowstone senza nemmeno un ricordino. Per il Teddy Bear forse sono un po’ grandicella ma almeno una felpa con la scritta “Yellowstone” me la merito! Vabbè, dài, già che ci siamo portiamoci via anche questo coltellino multiuso da escursionista. E una candelina soprammobile no? Va bene, va bene, basta così… Usciamo dallo store giusto in tempo per cogliere un tramonto rosso fuoco mozzafiato. Che spettacolo! Proprio un bel regalo a conclusione del nostro ultimo giorno nel parco. E come ciliegina sulla torta, trascorriamo il resto della serata pacificamente spaparanzati sulle poltroncine davanti al colossale camino in pietra dell’Old Faithful Inn. Stasera siamo proprio distrutti. E ti credo: un’occhiata alla mia app mi dice che oggi abbiamo percorso ben 25 km a piedi!
16 agosto: Yellowstone (West Thumb) – Grand Teton
Siamo ormai agli sgoccioli del nostro soggiorno a Yellowstone. E anche quest’oggi vuol farsi ricordare per le temperature: 3°C! Però la giornata è magnifica. E allora via in direzione dell’uscita sud del parco, fra torrenti, cascate, laghetti e… Ehilà! Chi si rivede! Il Continental Divide! Vi avevo detto che lo avremmo ritrovato. E poi quasi a volermi fare un ultimo omaggio: ecco qua l’Isa Lake (Isa è il mio diminutivo, he he…). Giunti a West Thumb Junction facciamo una piccola deviazione verso nord lungo lo Yellowstone Lake per visitare l’ultima area geotermica del parco: il West Thumb Geyser Basin. Si tratta in pratica di una caldera minore dello Yellowstone Lake, la gigantesca caldera principale del supervulcano su cui si trova il parco. Il bacino, se lasciato per ultimo come abbiamo fatto noi, può sembrare meno spettacolare rispetto agli altri, ma ha la particolarità di trovarsi proprio in riva al lago, anzi molti geyser e sorgenti termali si trovano addirittura sotto la superficie del lago stesso. Fra le varie attrazioni del bacino spicca la Abyss Pool con il profondo blu delle sue acque e il Fishing Cone, un cratere che emerge dallo Yellowstone Lake, divenuto famoso dopo che vi cadde dentro una trota sfuggita all’amo di un pescatore e poi “risputata” dal cratere cotta a puntino. Dal lago alla… brace insomma!
A questo punto non ci resta che avviarci verso l’uscita sud. Passiamo davanti al Grant Village, poi costeggiamo il Lewis Lake e le Lewis Falls e mestamente diamo l’addio al parco. Peccato, sarebbe servito almeno un giorno in più per visitare alcune zone con più calma, specialmente quella dei geyser, e magari fare un po’ di trekking in più. E perché no, anche incontrare l’Orso Yoghi, unico grande assente di questa stupenda avventura allo Yellowstone. Pazienza… Ma già ci aspetta un’altra meraviglia: stiamo per fare il nostro ingresso al Grand Teton National Park, il parco contiguo allo Yellowstone, così vicino ma così diverso. Qui infatti a dominare sono le sue cime maestose, che per molti versi ricordano le nostre Alpi. E infatti mentre costeggiamo il Jackson Lake già si profila all’orizzonte l’immagine da cartolina delle vette appuntite del Teton Range, che culminano nei 4197 metri del Grand Teton, la cima più elevata.
Giunti al Colter Bay Village facciamo una prima sosta in riva al lago dove ci accoglie la marina con le sue file di imbarcazioni ormeggiate, poi facciamo un salto al Visitor Center e chi ti troviamo all’uscita? Un volpacchiotto curioso che si aggira un po’ spaesato fra i turisti. Che carinooo! Altra breve sosta alla Jackson Lake Dam da cui defluisce lo Snake River e poi ci avviamo su verso Signal Mountain per una vista panoramica del lago su cui si specchiano le vette del Grand Teton. Scesi da Signal Mountain riprendiamo la Teton Park Road, il panoramico scenic drive di 21 miglia che attraversa il parco. Nostra prossima meta: lo String Lake in cui abbiamo in programma di fare un po’ di hiking.
Il parcheggio è minuscolo e a fatica troviamo un buco sulla strada che costeggia la zona dei laghi. Poi, zaino in spalla, ci avviamo verso il trail. In questa zona ci sono tre laghetti spettacolari collegati fra di loro da piccoli torrenti. Il più grande e famoso è il Jenny Lake che visiteremo più tardi, quello centrale e più piccolo è lo String Lake e più a nord troviamo il Leigh Lake. Il tratto che percorriamo noi è quello che costeggia lo String Lake e procedendo verso nord arriva fino all’imbocco del Leigh Lake. È un percorso molto suggestivo, con il laghetto che a tratti si restringe fino a diventare quasi un torrente attraversato da tante cascatelle. Piccola nota di brivido: i numerosi “bear warning” disseminati qua e là, che con il fatto che il sentiero non è frequentatissimo non è che ci facciano stare molto tranquilli… Ad un certo punto sentiamo dei rumori di rami spezzati, acceleriamo il passo e per poco non andiamo a sbattere contro una comitiva di hikers. Questi si rendono conto che li abbiamo scambiati per orsi e ci dicono ridacchiando: “No bear, ha ha!”. Spiritosi… Loro però sono muniti di “bear spray” e addirittura di campanellini, “to make noise”, come raccomandano i cartelli. Mica sprovveduti come noi! Vabbè, ormai siamo arrivati all’imbocco del Leigh Lake, direi che possiamo anche fare dietro-front, così ci accodiamo alla comitiva di hikers e stiamo più tranquilli!
A questo punto sarebbe anche arrivata ora di pranzo. Ci avviamo verso la macchina e cominciamo a scaricare frigo e borse della spesa. Una ranger ci vede e intuendo che ci stiamo preparando per il picnic ci avvisa che è stata avvistata un’orsa con due piccoli in zona e che dobbiamo quindi fare attenzione e soprattutto non lasciare cibo o rifiuti in giro. Ah ecco, addio al pranzo rilassante… Dopo esserci quasi strozzati con il panino continuando a lanciare occhiate guardinghe in giro raccattiamo infine le nostre cose e riprendiamo la macchina in direzione del celeberrimo Jenny Lake. La via a senso unico che lo costeggia è molto panoramica e motivo di numerose soste per altrettante foto. Qui infatti si può catturare l’immagine da cartolina divenuta ormai l’emblema del parco in cui le vette del Grand Teton si specchiano nel lago sottostante. Un ranger spiega ai turisti come mai il parco ha questo nome curioso. Non è che per caso “Grand Teton” significa quello che stiamo pensando? Ebbene sì, ha ha! Pare siano stati i primi esploratori francesi a dargli questo nome, evidentemente presi da disperazione a causa della lontananza da casa e l’assenza di donne. “Loneliness, of course!” sintetizza il ranger molto efficacemente. Solo così possono aver visto delle “grosse tette” nelle cime del parco!
Proseguiamo in direzione di South Jenny Lake dove si trova l’attracco dello shuttle boat che conduce sulla riva opposta del lago. Anche qui ci sono lavori in corso per il rifacimento del parcheggio e ci tocca lasciare l’auto lungo la strada e fare un bel pezzo a piedi. Arrivati all’attracco abbiamo un dilemma: fare il trail attorno al lago e poi tornare con il traghetto o fare entrambe le tratte con il traghetto? Il contabile della coppia vota per la camminata (ettepareva…) mentre la pigrona dà un occhio alla mappa e vede che il percorso è 2,4 miglia. E siccome mi ricordavo anche di aver letto da qualche parte che il sentiero è uno dei preferiti degli orsi, alla pigrona si aggiunge anche la fifona e indovinate chi vince? Il contabile sgancia suo malgrado 30.00$ per due a/r con lo shuttle boat (effettivamente mica poco) e ci imbarchiamo. Giunti sulla riva opposta ci aspettano tanti magnifici trail: noi scegliamo quello classico verso le Hidden Falls e l’Inspiration Point, che però al momento si può percorrere solo parzialmente perché… indovinate un po’? Ci sono dei lavori in corso… Arriviamo comunque fino alle cascate inferiori da cui si gode un bel panorama del lago e delle cime del Grand Teton.
Ripreso lo shuttle e riattraversato il lago ci rimarrebbe ancora un po’ di tempo prima del tramonto: cosa possiamo fare? Diamo uno sguardo alla mappa: ci sono altri due laghetti più a sud, il Bradley Lake e il Taggart Lake, ma sono troppo distanti dalla Teton Park Road e anche i trail per raggiungerli non sono proprio brevi. Più avanti c’è un bivio che verso destra porta al Teton Village e anche qui c’è un laghetto, il Phelps Lake. Imbocchiamo la via ma ce ne pentiamo subito: del Phelps Lake non troviamo indicazioni e ad un certo punto la strada diventa anche sterrata. Oltretutto c’è un traffico infernale, probabilmente perché è l’unica via che porta al Teton Village. Ad un certo punto siamo fermi in colonna: già ci stiamo maledicendo per aver fatto questa inutile deviazione quando da fuori sentiamo esclamazioni concitate: “A bear! A bear!” Un orso?! Orca miseria stavolta ci siamo! Una serie di fruscii, un rapido movimento fra la vegetazione e all’improvviso sbuca fuori un esemplare di black bear che rapidamente attraversa la strada, più spaventato lui di noi! Ah, che soddisfazione! E così, felici e trionfanti, partiamo alla volta del nostro motel a Jackson.
Chiariamo subito un dubbio che sarà venuto a molti: Jackson è la città, Jackson Hole è l’intera valle circostante. La cittadina di Jackson è proprio un bijoux, una vera icona western, forse un tantino turistica ma non per questo meno attraente. Noi l’abbiamo preferita anche a Cody. La via principale è piena di locali stile Old Wild West, primo fra tutti il celeberrimo Million Dollar Cowboy Bar. Anche Jackson poi ha il suo rodeo, ma noi che siamo già stati a quello di Cody preferiamo soprassedere. Oltre ai tipici locali e intrattenimenti in stile western la città è anche ricca di musei, gallerie d’arte, eleganti ristoranti e negozi fashionissimi. Eh sì, perché le vette del Grand Teton ospitano numerose piste da sci e Jackson se la gioca con Aspen in Colorado per il primato degli sport invernali e del turismo a 5 stelle. Noi stessi incappiamo (devo dirlo, per sbaglio) in un ristorante super chic dai prezzi non proprio amichevoli…
Una cosa che balza agli occhi sono i numerosi cartelloni che pubblicizzano la “Total Solar Eclipse” del 21 agosto che interesserà la fascia del Nordamerica che va dall’Oregon al South Carolina. E Jackson Hole è uno dei luoghi che si trovano nel cosiddetto “path of totality”, la zona in cui l’eclissi si vedrà al 100%. Gli americani, che non vedono un’eclissi totale di sole da non so quanti anni, sono andati letteralmente fuori di testa per questo fenomeno. La conseguenza più diretta è stata la presa d’assalto delle strutture ricettive e l’inevitabile impennata dei prezzi. Noi che per fortuna sapevamo dell’evento già da qualche mese ci siamo ben guardati dal trovarci qui il 21 agosto: saremo un po’ più a sud e riusciremo ugualmente a vedere l’eclissi senza farci spennare.
17 agosto: Grand Teton – Idaho Falls
Questa mattina rientriamo nel parco ancora per qualche ora per completare il loop verso nord sulla via parallela alla Teton Park Road. Accompagnati dall’ormai familiare panorama delle cime del Teton Range, facciamo la nostra prima sosta al Mormon Row Historic District, ciò che resta di un antico insediamento mormone dei primi del ‘900. Proseguiamo poi verso nord lungo la strada che corre parallela allo Snake River, facendo ogni tanto sosta per qualche foto con alle spalle il ghiacciaio del Grand Teton. Arrivati a Moran Junction deviamo verso sinistra e andiamo a ricongiungerci con la Teton Park Road, chiudendo il loop panoramico. A questo punto vista la bella giornata di sole pensiamo di tornare al Jenny Lake per qualche altra foto e, siccome abbiamo tempo, perché non fare almeno parte del trail lungo il lago che abbiamo tralasciato ieri? Orsi permettendo, naturalmente. Okay, fatta anche questa, adesso abbiamo la coscienza a posto. Direi che possiamo dirigerci verso l’uscita sud del parco. Ma prima un’ultima sosta alla Episcopal Chapel of the Transfiguration, una graziosa chiesetta in legno immersa nel verde, costruita negli anni ’20 del secolo scorso.
Giunti a Jackson deviamo verso ovest in direzione di un altro nuovo stato: l’Idaho. L’insegna che ne demarca il confine è anonima quasi quanto il paesaggio che ci circonda: distese di brulle praterie e qualche campo coltivato. In effetti è il primo stato in cui troviamo un qualche genere di coltivazioni, anche se non riusciamo bene a capire quali. Per il resto il panorama non offre granché. Unica nota coreografica sono le anse dello Snake River che ci ha accompagnato fin qui dal Grand Teton e una distesa di pale eoliche sul giallo delle brulle collinette. Questa notte facciamo tappa in un puzzolente Motel 6 alla periferia di Idaho Falls, cittadina non particolarmente degna di nota se non per le cascatelle lungo lo Snake River, che tra l’altro noi nemmeno riusciamo a trovare! Ma pazienza, abbiamo già visto molte altre cascate nei parchi. Per il resto downtown non offre molto altro, così dopo una cenetta in un Irish Pub e una rapida passeggiata decidiamo di tornare in motel, sperando che sia sparito quel terribile puzzo di cane che infestava il corridoio…
18 agosto: Antelope Island – Salt Lake City
Il nostro on the road continua in direzione sud alla volta di una nostra vecchia conoscenza: lo Utah. Questo stato ci è rimasto nel cuore sin dal nostro precedente viaggio negli States, durante il quale ne avevamo visitato tutti i parchi principali. Qualcosina però era rimasto fuori e per questo abbiamo deciso di inserirlo anche nell’itinerario di quest’anno. Tanto per cominciare non si può passare dallo Utah senza una sosta nel suo capoluogo: è Salt Lake City, la capitale spirituale della religione mormone situata sulle rive del Great Salt Lake. Ed è proprio su questo particolarissimo lago che vogliamo fare tappa prima di raggiungere la città, perché qui si trova una straordinario parco statale, l’Antelope Island State Park, dimora di diverse specie animali fra cui bisonti, mule deer, bighorn sheep e naturalmente pronghorn, la varietà di antilopi da cui prende il nome il parco.
Il Great Salt Lake è ciò che resta di un antico ed enorme bacino preistorico e le sue acque hanno un’elevatissima concentrazione salina, addirittura superiore a quella del mare, tanto che quasi nulla vi può sopravvivere ad eccezione di alcune varietà di crostacei e di uccelli. Proprio per l’elevata salinità l’evaporazione dell’acqua lascia vasti depositi salini sulle rive del lago che sembrano candide distese di neve. Il contrasto con la brulla vegetazione circostante e le acque del lago crea paesaggi incredibili caratterizzati da striature giallo-brune, verdi, bianche, grigio-azzurre. Antelope Island, che in realtà è una penisola, è accessibile da sud passando per Salt Lake City, oppure da nord dove è collegata alla terraferma da una striscia sottile di asfalto, mentre ai lati stormi di gabbiani punteggiano qua e là la superficie del lago piatto come una tavola su cui si specchiano nitidi i morbidi rilievi circostanti. La strada asfaltata poi prosegue lungo la costa est della penisola fino al Fielding Garr Ranch, un ranch storico liberamente accessibile dove gli stessi gentilissimi proprietari si offriranno di farvi da guida. A questo punto torniamo verso nord lungo la stessa strada, fermandoci ogni tanto per ammirare il paesaggio multicolore su cui avvistiamo qua e là qualche bisonte al pascolo. Una sosta nei pressi del Visitor Center e della marina, una rapida occhiata alla costa nord-ovest della penisola e poi una breve passeggiata sulle bianche distese saline. Infine riprendiamo la via verso l’entroterra in direzione della nostra prossima meta.
La capitale dello Utah, Salt Lake City, è nota come il quartier generale della religione mormone. Anzi no, The Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints (sì, avete capito bene…), ovvero la corrente maggioritaria del mormonismo istituito da Joseph Smith negli anni 20-30 dell’Ottocento. Il fondatore della città, Brigham Young, era un leader di quel gruppo di mormoni che dagli stati dell’est migrarono verso ovest alla ricerca di un luogo dove professare liberamente la loro religione, luogo che individuarono proprio nello Utah. Avete presente le immancabili carovane di mormoni che si vedono nei film western? Ecco, diciamo che furono tra i primi pionieri colonizzatori del Far West. Ma perché la confessione ha un nome così strano? Perché secondo il suo fondatore doveva rappresentare una restaurazione della Chiesa cristiana del primo secolo, quella dei primi seguaci di Gesù, i “Santi degli Ultimi Giorni” appunto. Il nome “mormonismo” deriverebbe invece dal suo testo sacro principale, il cosiddetto Book of Mormon, un testamento rivelato scritto dal profeta Mormon su tavole d’oro in una misteriosa lingua antica chiamata “egiziano riformato”, che Joseph Smith avrebbe ricevuto da un angelo e che avrebbe poi tradotto e pubblicato.
Ma mentre quasi nessuno conosce la storia del mormonismo, scommetto invece che tutti hanno ben presente la caratteristica per cui è principalmente noto: la poligamia. Ora se chiedete cosa c’è di vero ai moderni mormoni vi liquideranno in quattro e quattr’otto dicendovi che si tratta di un’antica pratica ormai abbandonata. Ma come stanno realmente le cose? Il cosiddetto matrimonio plurimo è stato legittimato dal secondo profeta mormone, Brigham Young, come restaurazione della pratica del matrimonio patriarcale dei profeti dell’Antico Testamento. Lo stesso Young pare avesse avuto qualcosa come 55 mogli e altrettanti figli. Poi nel 1890 la Chiesa mormone rinunciò ufficialmente alla pratica dei matrimoni plurimi che da allora è considerata fuori legge, anche se alcune frange fondamentaliste che si sono staccate dalla confessione originaria hanno continuato e continuano tutt’oggi a praticare la poligamia.
Fulcro di Salt Lake City è Temple Square, una sorta di cittadella fortificata che ospita il più grande tempio mormone del mondo. In pratica una Città del Vaticano del mormonismo. Solo che al contrario delle chiese cristiane, simboli per antonomasia di apertura e accoglienza, qui la prima impressione che si ha è di voler allontanare i fedeli più che attrarli. C’è questo tempio maestoso in stile gotico che assomiglia ad un castello chiuso da un’alta recinzione che sembra quasi una fortezza, con intorno tutta una serie di imponenti edifici di proprietà della Chiesa immersi in un tripudio di aiuole multicolori. Tutto dà l’impressione di magnificenza, ordine, disciplina, pulizia. Non una carta per terra, non una pagliuzza fuori posto, il che non è poi male. Ma attenzione perché nel tempio i turisti non possono entrare, e anche quando cerchiamo di far visita agli altri edifici amministrativi attorno al tempio, scopriamo che l’ingresso è consentito solo se accompagnati dalle guide. Gli unici edifici liberamente accessibili sono il Tabernacolo, dove si può assistere alle esibizioni del coro, e la Sala delle Assemblee. Le stesse dimore ottocentesche di Brigham Young, la Lion House e la Beehive House, sono state trasformate in musei visitabili solo con la guida delle cosiddette “sisters”. Ci sono però a disposizione dei turisti ben due Visitor Center alle estremità opposte della piazza, che farebbero invidia ai Visitor Center dei siti dell’NPS. Uno dei due ospita addirittura una copia di una scultura dell’artista neoclassico Thorvaldsen, una colossale statua del Cristo sotto un’enorme volta celeste.
Intanto fuori c’è un caldo torrido. Ci vorrebbe un bel gelato… Gira che ti rigira ma di gelaterie neanche l’ombra. Incredibile, una città che d’estate supera come niente i 30°C non ha nemmeno uno straccio di gelateria?! Presi da disperazione, visto anche l’orario, ripieghiamo sul fast food, dopo di che rifocillati continuiamo la nostra visita. E giusto per dare a Cesare quel che è di Cesare, spostiamo adesso la nostra attenzione dal simbolo del potere spirituale a quello politico della città, lo Utah State Capitol, la sede del Governo in stile neoclassico che ricorda molto il più noto Campidoglio di Washington, DC. E come ogni Campidoglio che si rispetti si trova sulla sommità di Capitol Hill. Eh, ci voleva proprio una bella camminata in salita… Ma la nostra fatica è presto ricompensata: da lassù si gode una vista straordinaria della città e poi noi ci arriviamo proprio al tramonto, giusto in tempo per immortalare uno spettacolare panorama rosso fuoco. Riprendiamo la via verso il centro che ormai è sera e il Tempio di Salt Lake sfavillante di luci rifulge in tutto il suo splendore. Riusciamo anche a goderci lo spettacolo delle fontane che a tempo di musica lanciano zampilli d’acqua tra fiammelle di fuoco. Cosa vogliamo di più? In complesso una gran bella impressione questa città.
19 agosto: Goblin Valley – Dead Horse Point – Arches NP – Moab
On the road again fra le aride colline desertiche dello Utah! Ed ecco qua un déjà-vu: le familiari rocce dalle striature rossastre già note dal nostro precedente viaggio. Siamo sulla Scenic Byway UT-24 in direzione di Capitol Reef, già visitato due anni fa, per recuperare un parco che in quell’occasione avevamo dovuto saltare per mancanza di tempo: è il Goblin Valley State Park. Questo parco statale (altro ingresso separato) si contraddistingue per i suoi pinnacoli di arenaria rossa, i cosiddetti “hoodoos”, cugini di quelli del più famoso Bryce Canyon, solo che questi sono sormontati da una specie di cappelli che li fanno assomigliare un po’ a dei giganteschi funghi. E infatti noi ribattezziamo il parco “fungaia”, e non è che ci andiamo tanto lontano perché il suo nome originario era proprio Mushroom Valley. Un po’ sembra di essere su Marte in questa valle desertica di roccia rossa fra bizzarre creature rocciose, mezzi “goblin” e mezzi funghi giganti. Non a caso il parco è stato più volte set di film di fantascienza.
In questa valle surreale naturalmente ci sono dei trail, e vuoi che ce li perdiamo? Non un’idea brillante però percorrerli a mezzogiorno sotto questo sole… Un’ora e mezza di trail e siamo cotti a puntino, con anche una bella abbronzatura da muratore per ricordo. Ma non ci possiamo neanche lamentare, perché i giorni nello Utah saranno gli unici veramente estivi di questa vacanza, e allora meglio approfittarne. Quando ormai cominciamo a pronunciare frasi sconnesse ci decidiamo a risalire verso il parcheggio prima che l’insolazione ci faccia dare i numeri del tutto. Immortaliamo le Three Sisters, immagine iconica simbolo del parco, salutiamo anche un bel branco di pronghorn sul ciglio della strada e proseguiamo.
Questo pomeriggio abbiamo un itinerario un po’ saltellante: stiamo cercando di metterci dentro di tutto un po’ per ottimizzare il programma dei prossimi giorni. Nostra prossima meta è Dead Horse Point State Park, altra vecchia conoscenza di due anni fa. Situato a nord-est di Canyonlands, dove troviamo gli ennesimi lavori in corso con consueto trenino dietro la “pilot car”, anche questo parco statale richiede il pagamento di un ingresso separato: 13.00$. Apperò! “Two years ago it was 10.00$” facciamo presente al ranger alla guardiola, che però fa palesemente lo gnorri e con nonchalance ci consegna biglietto e brochure. Ora non sto qui a raccontarvi di nuovo la storia dei cavalli imprigionati che morirono di sete e di Thelma e Louise che si lanciano nel precipizio. Chi è interessato può leggersi il nostro diario dei parchi della West Coast. A noi quest’oggi basta rinfrescarci un po’ la memoria delle bellezze del parco passeggiando fra gli overlook sulle anse di roccia rossastra del Colorado River. Dopo di che via in direzione di Moab dove trascorreremo due notti. Giusto il tempo di depositare le valigie in motel e siamo di nuovo in auto alla volta del prossimo parco.
Arches National Park, una meraviglia di roccia situata a nord appena fuori Moab, faceva parte anche del nostro itinerario di due anni fa, ma causa la solita mancanza di tempo avevamo potuto dedicargli solo mezza giornata, ben misera cosa per un tale prodigio della natura. Stavolta vogliamo visitarlo per bene ma… anche qui ci sono dei lavori in corso! Mannaggia, li abbiamo beccati proprio tutti quest’anno… E meno male che per minimizzare i disagi per i turisti gli operai lavorano di notte, e per questo ogni sera il parco chiude alle 19.00 e riapre alle 7.00 del giorno dopo. Il che significa niente escursione al Delicate Arch al tramonto?? Eh no, porca miseria! Sappiamo che due giorni a settimana il parco rimane aperto di notte, il venerdì e il sabato. E oggi è sabato! (Non vi dico che fatica per far incastrare i giorni al posto giusto…). Quindi verso le 18.00 entriamo nel parco e ci dirigiamo subito all’imbocco del trail di 1,5 miglia (one way) che porta proprio sotto al Delicate Arch, simbolo del parco e dello stato dello Utah.
Il trail inizia al Wolfe Ranch, nei pressi del quale si può ammirare anche una parete di roccia con antichi petroglifi, incisioni rupestri lasciate dai nativi. E poco dopo il sentiero inizia a salire lungo una lastra liscia di arenaria dalla pendenza moderata ma costante, una vera spacca gambe, specialmente con il caldo torrido che incombe invariabilmente in questo parco. Per questo è consigliato percorrere il trail nelle ore meno afose e soprattutto portarsi tanta acqua. Quando finalmente arriviamo sulla sommità della rampa rocciosa ci voltiamo indietro e vediamo una lunga processione di turisti che risalgono faticosamente il pendio come formichine. Sono tutti ansiosi di ammirare il particolare arco solitario illuminato dal rosso del tramonto, uno spettacolo che si ripete ogni sera. Il sentiero poi prosegue ancora in salita per un bel tratto fino a diventare uno stretto passaggio piuttosto esposto. L’arco non è visibile se non all’ultimo momento, prima attraverso una finestra panoramica un po’ sopraelevata, poi dietro all’ultima curva finalmente appare in tutto il suo splendore, solitario e perfetto sull’orlo di una spianata, mentre dietro si spalanca il baratro sullo sfondo delle rocce desertiche dello Utah. L’esile arco di rossa arenaria è messo ancor più in risalto dallo sfondo dell’azzurro del cielo, ma a questo punto è d’obbligo attendere il calar del sole che incendia l’arco di un magnifico arancio prima di scomparire all’orizzonte. Spettacolo imperdibile. Sono ormai le 21.00 quando rientriamo a Moab, ma niente paura, la cittadina è molto turistica e piena di locali, non c’è pericolo di rimanere a pancia vuota.
20 agosto: Arches National Park
Oggi intera giornata dedicata al parco. Cominciamo da quel che avevamo tralasciato la volta scorsa: il Devils Garden Trail, proprio in fondo al parco. Due anni fa per il poco tempo e il troppo caldo eravamo arrivati solo fino al Landscape Arch, stavolta vogliamo arrivare al Double O! Sono 4,5 miglia (round-trip), per la maggior parte esposte al sole, ad eccezione del tratto iniziale che è anche il più frequentato. E siccome d’estate questo parco raggiunge come ridere i 100°F (38°C), è decisamente consigliabile percorrere il trail nelle ore più fresche. Ore 8.30: direi che siamo già in ritardo, diamoci una mossa!
La prima parte del trail è incassata fra alte pareti di arenaria, quindi per un po’ si sta all’ombra, ma non illudetevi perché durerà poco. Incontriamo subito il Tunnel Arch e il Pine Tree Arch, gli archi più vicini e facilmente accessibili, poi per un bel pezzo il sentiero prosegue fra rocce colorate, arbusti e piante grasse, su un terreno di fine sabbia rossa non proprio agevole da percorrere: se usate i sandali vi pianterete, se optate per le scarpe chiuse fate in modo che non siano bianche perché non resteranno tali per molto, e comunque sia al ritorno ve le ritroverete piene di sabbia. Il bello è che ad un certo punto incontriamo dei bikers (ovviamente non in moto…) che percorrono il sentiero con la tuta e gli scarponi da motociclista! Un bel coraggio! Io dopo un quarto d’ora sono già in canottiera e sto rimpiangendo di non aver portato il costume! Intanto il percorso comincia pian piano a salire. Ad un tratto eccolo qua: il Landscape Arch, un’esile campata di arenaria pericolosamente sospesa a 23 metri d’altezza. L’arco nella sua parte più larga misura oltre 93 metri (più di un campo da football!) e se c’è qualche controversia sul fatto che sia l’arco più lungo del mondo, di sicuro comunque è fra i primi.
Ecco, se non vi appassionano le scarpinate potete fermarvi qui, che è poi quello che fa la maggior parte dei turisti, perché da qui in poi si fa veramente dura. Il percorso comincia a salire, salire, salire e ad un certo punto il sentiero sabbioso lascia il posto alla roccia e cominciano le vere e proprie scalate. Ma il bello deve ancora arrivare: un’altra rampa rocciosa simile a quella del Delicate Arch Trail ma più stretta ed esposta. Una fatica immonda, anche perché il sole comincia a picchiare, ma una volta arrivati in cima che spettacolo! Siamo sul tetto del mondo, circondati da una distesa di roccia rossa, con all’orizzonte lo scorcio delle montagne desertiche dello Utah. Il trail prosegue ancora… ma dov’è questo Double O Arch? “You’re almost there” ci conforta un turista. Speriamo bene! Ah, eccolo finalmente questo scherzo della natura! Due archi uno sopra l’altro a disegnare proprio una doppia O. Ma noi vogliamo andarci più vicino, anzi dietro! Sì, fosse facile… Ci tocca scalare uno stretto passaggio esposto con dei gradoni per cui non mi bastano le gambe. Ma è proprio necessario?? Il mio compagno non mi lascia scelta. Sì, ma aspettami però! Uff, è stata dura ma ce l’abbiamo fatta, siamo dietro l’arco e davanti a noi si spalanca un panorama sconfinato.
Okay, torniamo al Devils Garden Trailhead a tuffare la testa sotto la fontanella (e a svuotare le scarpe piene di sabbia…) e poi via alla scoperta di altri archi: lo Skyline Arch, il Sand Dune Arch, il Broken Arch… Ormai è l’una e il caldo è insopportabile. Sarebbe anche ora di pranzo ma è impossibile trovare un filo d’ombra nel parco, a meno di non voler mangiare in macchina! Non ci resta che rimandare a più tardi. Una breve sosta all’overlook del Delicate Arch, dove oggi ci accontentiamo di ammirare l’arco da lontano, e poi ci avviamo verso l’uscita del parco. La zona del Double Arch e delle Windows è chiusa per lavori come già sapevamo, quindi ci limitiamo ad un breve trail attorno al Balanced Rock, la stupefacente roccia sospesa, poi qualche scatto al Great Wall, ai Three Gossips, alla Tower of Babel, già note dalla nostra precedente visita, e infine ci dirigiamo verso il Visitor Center per un picnic un po’ tardivo. Per il resto del pomeriggio abbiamo in programma uno scenic drive lungo il Colorado River: è la Scenic Byway UT-128 che parte proprio dall’uscita del parco e si snoda verso nord-est lungo il canyon colorato scavato dal fiume. E con questo direi che per oggi basta. Cena in un buon ristorante dove invece di prendere nota del nome ti danno una specie di telecomando che lampeggia quando è il tuo turno (che figata!) e infine passeggiatina dopocena sulla Main Street della turistica Moab.
21 agosto: Canyonlands National Park
Altra giornata dedicata a rinfrescarci la memoria di uno stupendo parco già in parte visitato due anni fa: è Canyonlands National Park, a una trentina di miglia a sud di Moab, un enorme parco diviso in tre sezioni: Island in the Sky all’estremo nord, la parte più facilmente accessibile e più visitata, The Maze, la sezione sud-occidentale più remota e di difficile accesso, e infine The Needles a sud-est. La strada che percorriamo per raggiungere Island in the Sky è la stessa che ieri ci ha portato al Dead Horse Point (con altra sosta forzata per lavori in corso…). E anche qui iniziamo la nostra visita da ciò che avevamo tralasciato due anni fa: il Mesa Arch. Eh sì, anche qui c’è un arco, e che arco! Non so come abbiamo fatto a perdercelo l’altra volta. Dopo un breve trail di 0,5 miglia ci troviamo davanti questo enorme arco situato proprio sull’orlo di un precipizio su cui si apre la distesa sconfinata di canyon per cui è famoso il parco. Il momento ideale per venire qui è l’alba, che spunta proprio dietro l’arco e lo incendia di un magnifico arancio. E infatti a quanto si dice allo spuntare dell’alba qui è già pieno di fotografi appostati con tutta la loro attrezzatura in attesa di cogliere lo scatto da cartolina. Quando arriviamo noi l’alba è già passata da un pezzo ma ancora si vede uno spettacolare riverbero arancio alla base dell’arco. C’è poi anche qualche spericolato che si diverte a scalarne la campata lunga e bassa, con il baratro dei canyon alle spalle, temerari…
Nostra prossima meta è l’Aztec Butte, una strana formazione rocciosa alta meno di un centinaio di metri con la sommità piatta. Il trail di un miglio che porta in cima ha un dislivello moderato ma non è per niente una passeggiata, il sentiero è ripido e a tratti esposto. La particolarità è che sulla sommità della collina si trovano degli antichi insediamenti degli “ancestral Puebloans” o “Anasazi”, una popolazione ancestrale vissuta nel Nordamerica fra il VII e il XIV secolo e poi scomparsa per cause non del tutto chiare. Si tratterebbe degli antenati degli odierni nativi americani Hopi, di cui impareremo vita, morte e miracoli durante la nostra prossima tappa di domani. Per ora ci basta un assaggio delle loro strane dimore costruite in cavità nella roccia sulle pareti a strapiombo della collina, che le popolazioni scalavano letteralmente a mani nude, spesso con pesanti carichi sulle spalle. E infatti parte degli insediamenti che visitiamo sono proprio dei granai ricavati in rientranze delle ripide pareti di roccia per mettere le provviste al sicuro da intrusioni indesiderate.
Scendiamo dalla collina già grondanti di sudore, e sono solo le 10.00. Poi riprendiamo l’auto e percorriamo fino in fondo la via principale fermandoci ogni tanto ai viewpoint per qualche foto. La strada asfaltata termina al Grand View Point Overlook, l’enorme terrazza panoramica a strapiombo sulla distesa di canyon sottostanti, dove troviamo dei ranger impegnati a far vedere dei curiosi oggetti ai turisti. Che sta succedendo? Una ranger ci porge degli strani occhialini di cartone. Aaah! L’eclissi! È vero che oggi è il 21 agosto! La ranger ci fa anche guardare attraverso un cilindro da cui si vede uno spicchio luminoso a conferma che l’eclissi è già iniziata. Solo che raggiungerà l’apice verso le 11.30 e noi dobbiamo fare il trail verso il punto estremo del Grand View Point, non possiamo stare qui ad aspettare un’ora! Come si fa? Con nonchalance sfiliamo un paio di occhialini da sotto il naso della ranger e ci allontaniamo alla chetichella… Ma è solo un prestito, giuro!
Il trail di 2 miglia (round-trip) che costeggia i canyon solitari e sconfinati ci porta ad ammirare panorami noti ma sempre stupendi fra le anse del Colorado e del Green River. Ed eccola qua la roccia pericolosamente sospesa sul dirupo immortalata nelle foto di due anni fa. Certo che il parco è quasi deserto, vuoi vedere che questa eclissi ha attirato tutti i turisti nel “path of totality”? Be’, poco male, se non altro c’è meno confusione. Gli unici immancabili turisti sono ovviamente degli italiani, e in effetti la zona di Moab è l’unica dove ne abbiamo incontrati, a parte Yellowstone, of course! Ma già che siamo attrezzati diamo un’occhiata a questa eclissi. Ah però! Se non è totale poco ci manca! In effetti qui a Canyonlands l’oscuramento del sole è circa all’80%, non male davvero. Okay, riconsegniamo da bravi gli occhialini ai ranger e ci avviamo verso l’uscita. Ma prima ci fermiamo brevemente alla Whale Rock, la roccia a forma di balena, mentre tralasciamo la zona dell’Upheaval Dome già visitata in lungo e in largo nel nostro precedente viaggio (vedasi diario). Un’ultima occhiata al Mesa Arch con una luce diversa, un veloce picnic al Visitor Center e si riparte.
Lasciamo definitivamente la zona di Moab e ci spostiamo verso sud nella parte meridionale di Canyonlands, The Needles. È sempre lo stesso parco, solo 100 miglia più in giù. Da non credere quanto è immenso! Sulla US-191 incontriamo un altro enorme arco: è il Wilson Arch. Intanto qui si sta preparando un temporale, meglio proseguire. Imbocchiamo la UT-211 in direzione di The Needles e poco dopo incontriamo il Newspaper Rock State Historical Monument, la parete di roccia decorata con antiche incisioni rupestri già nota dal precedente viaggio. Proseguiamo in auto fino al Big Spring Canyon Overlook dove termina la strada asfaltata. Da qui si può proseguire solo a piedi o in fuoristrada, con le dovute cautele perché è una zona molto più selvaggia e remota della parte nord, e quindi meno frequentata. Noi che non vogliamo fare la fine di Aron Ralston (non so se avete presente il film 127 Ore…), ci limitiamo a qualche breve trail senza allontanarci troppo. Qui siamo sul fondo dei canyon che da Island in the Sky si vedevano da una posizione sopraelevata e siamo quindi circondati da rocce a forma di guglia o di ago, i “needles” appunto. Ehi! Ma c’è anche un enorme zoccolo lassù in cima! È il Wooden Shoe Arch. Altri due brevi trail alla Cave Spring e alla Roadside Ruin e poi facciamo rotta verso Monticello dove trascorreremo la notte.
Ne abbiamo messa parecchia di carne al fuoco oggi e quando arriviamo al nostro motel è già piuttosto tardi ed è quasi buio. Oltretutto dobbiamo stare attenti ai cartelli minacciosi di attraversamento animali selvatici sulla strada, che è già disseminata di qualche carcassa qua e là. Giusto il tempo di appoggiare le valigie in stanza e usciamo subito a cercare un posto in cui mangiare, perché avevamo letto che Monticello è alquanto desolata. E infatti… Cavoli, sono appena passate le 20.00 e i pochi locali disponibili sono già chiusi. Troviamo per miracolo una pizzeria da asporto che chiude alle 21.00 e ci portiamo in motel la nostra bella pizza “14 inches”. Già, perché qui la pizza non la vendono a peso ma a pollici, come i televisori! E che si beve? A good beer, of course! Prendiamo, paghiamo e via in stanza. Apriamo la birra e… puah! Ma che roba è? “Root beer”?! Birra di radice, una bevanda gassata dolciastra dall’odore nauseante e dal gusto indefinibile. Una vera schifezza!
22 agosto: Mesa Verde National Park
Oggi abbiamo una fretta terribile, perché abbiamo in programma la visita alquanto impegnativa di Mesa Verde per poi proseguire verso Durango. Intanto partiamo da Monticello a orario antelucano (come al solito) e sbagliamo subito strada. Cominciamo bene. Lo dico sempre io che una buona cartina è sempre meglio di tanti navigatori… Quando ci accorgiamo che c’è qualcosa che non va siamo già a Blanding, decisamente fuori rotta. Ci tocca fare inversione e tornare praticamente al punto di partenza: un’ora persa. E meno male che abbiamo cancellato dal programma la deviazione verso Four Corners, ma anche così non so come faremo a starci dentro. Comunque sia, eccoci a fare il nostro ingresso nel “Colorful Colorado”! E così il cerchio si chiude, il che ci ricorda quanti pochi giorni di viaggio ci sono rimasti ormai, sigh!
Mesa Verde National Park è un altopiano che supera i 2500 metri e ospita diversi insediamenti dei popoli ancestrali o Anasazi, come li chiamavano gli indiani Navajo. Sono i cosiddetti “cliff dwellings” costruiti all’interno di rientranze nella roccia, sullo stile di quelli visti ieri a Canyonlands ma più grandi e molto ben conservati. Il sito, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, è visitabile mediante tour guidati a pagamento che si devono prenotare in anticipo al Visitor Center. Solo che questo si trova all’ingresso del parco a ben 20 miglia dagli insediamenti, che si raggiungono con un’oretta di auto su una salita piuttosto ripida e tortuosa. Ogni tour dura circa 60 minuti e noi vorremmo fare i due principali, al Cliff Palace e alla Balcony House. Ma ce la faremo? Arriviamo al Visitor Center in ritardo mostruoso ma per fortuna per i tour c’è posto in abbondanza. Riusciamo addirittura a fare il primo alle 11.00 e il secondo alle 13.00, così da avere anche un bel po’ di tempo per gli altri insediamenti minori, liberamente accessibili.
Il primo tour è il più avventuroso, quello alla Balcony House, famosa per le sue scale vertiginose e gli stretti cunicoli da attraversare strisciando letteralmente carponi. E infatti al momento della prenotazione il ranger ci fa vedere le foto della brochure e ci chiede: “Any problem with this?” Naaaaa… Siamo in forma noi… Sarà la nostra guida casomai ad avere qualche problema: una ranger donna, giovane e pimpante, ma soprattutto… tonda. Decisamente tonda, tanto che temo che la cintura dei pantaloni un po’ troppo stretta in vita le salti via da un momento all’altro. Chissà se ci riuscirà lei a passare per il tunnel! Intanto ci accoglie con un “Are you feeling well?” che non è tanto una frase di circostanza ma un imperativo categorico per partecipare al tour. La prima regola è infatti “To be in good health”. La seconda è “Carry plenty of water”. E che è? La scalata dell’Everest? Okay, la buona salute pare ce l’abbiamo, l’acqua anche, che altro? Ah sì: “Respect the environment”. Cioè non toccare, non calpestare, non lasciare rifiuti… Tutto chiaro. Il primo quarto d’ora di tour se n’è già andato. Possiamo partire?
Ed eccolo qua il primo ostacolo da superare: la famigerata scala a pioli alta 10 metri, “come un palazzo di tre piani” aggiunge sadicamente la guida. Regola n° 1: salire usando tutte e due le mani, quindi gettate la bottiglietta d’acqua e scordatevi il selfie con il telefonino! Regola n° 2: non guardare giù ma tenere gli occhi fissi sui pioli della scala. Regola n° 3: da qui in poi non si può più tornare indietro, quindi se soffrite di vertigini e pensate di non farcela questo è il momento buono per rinunciare. Della serie: lasciate ogni speranza voi ch’entrate! E che sarà mai? Vediamo un po’… Be’, in effetti seguendo scrupolosamente tutte le raccomandazioni non è poi così difficile, anzi è addirittura divertente. Certo per chi soffre di vertigini è tutta un’altra storia. Ho visto una signora salire tremante grondando sudore e sbuffando come una locomotiva, e non credo fosse solo per il caldo. E pensare che gli antichi Anasazi scalavano la parete a mani nude, altro che scala a pioli! Poi arriviamo al cunicolo: ma erano proprio così piccoli questi “ancestral Puebloans”? Tocca inginocchiarsi e attraversarlo carponi, e all’interno del tunnel è pure bagnato, porca paletta! Per fortuna si tratta solo di qualche metro. Certo che voglio proprio vedere la ranger passare di qui! Ah, ecco! Lei ci saluta e torna indietro, volevo ben dire… Altra scala da salire: questa è scavata nella roccia e munita di catene cui aggrapparsi come corrimano. Nota bene: gli Anasazi non le avevano le catene ma salivano a corpo libero, si vedono ancora i solchi lasciati dalle mani nella roccia nei punti in cui erano soliti appoggiarsi.
Concluso il tour abbiamo giusto il tempo di prendere l’auto e spostarci verso il secondo insediamento: il Cliff Palace, quello più fotografato e simbolo stesso del parco. Questo è un tour più tranquillo che non richiede particolari sforzi fisici, eppure anche qui il ranger di turno ci accoglie con il solito predicozzo, una cosa tipo: “Se non vi sentite in perfetta forma ditelo subito perché laggiù non vi sentirete di certo meglio”. Molto incoraggiante. Nemmeno questo comunque riesce a sbarazzarsi di qualche turista, quindi partiamo. Anche qui c’è qualche scaletta da salire ma niente di insormontabile. La nostra guida stavolta si concentra sul valore del patrimonio lasciatoci in eredità da questi popoli ancestrali, sulla sua conservazione per trasmetterlo il più possibile inalterato alle future generazioni, sulla storia di questa antica civiltà di cui dobbiamo mantenere viva la memoria. Il ranger è talmente infervorato nella spiegazione che mi chiedo se non sia un discendente degli antichi Anasazi, un moderno Hopi, e in effetti a guardarlo bene ha dei chiari tratti “nativi”. Chissà…
Terminato anche questo tour proseguiamo alla scoperta degli altri insediamenti in autonomia: alcuni sono visibili da lontano negli anfratti delle pareti rocciose, altri sono in restauro o chiusi al pubblico a causa di cedimenti e crolli (è il caso della bellissima Spruce Tree House). Ci sono poi altri siti che ospitano dimore storicamente antecedenti ai “cliff dwellings”: sono le “pithouses” o “case a fossa”, dimore ricavate in cavità nel terreno con coperture di tronchi di legno e fango. Dopo di che saliamo con l’auto fino al punto più elevato della mesa per una vista panoramica degli insediamenti, ma siamo costretti a scappare dal sopraggiungere di un forte acquazzone. Lasciamo quindi il parco in direzione della nostra prossima meta attraversando verdissime colline lussureggianti. Non per nulla siamo in Colorado! Uno splendido arcobaleno infine ci accoglie quando varchiamo la porta d’accesso della “Historic Durango”.
23 agosto: Durango – Silverton – Durango (Narrow Gauge Railroad)
Signore e signori, ecco a voi Durango. Siamo a sole 20 miglia dal confine con il New Mexico a un’altitudine di 1990 metri, fra alti picchi e dirupi vertiginosi, scenografici ruscelli e cascate. La storica città in stile western, con le sue miniere d’oro e d’argento, i suoi saloon, i suoi briganti e fuorilegge, è il simbolo per antonomasia dell’Old Wild West ed è stata anche set di numerosi film, fra cui Viva Zapata, Il Giro del modo in 80 giorni, La conquista del West, Butch Cassidy, Cliffhanger. Ma Durango è soprattutto la sua principale attrazione: la Durango & Silverton Narrow Gauge Railroad, la linea ferroviaria a scartamento ridotto risalente al 1881, i cui treni a vapore sono ancor oggi funzionanti e operativi, anche se solo a scopo turistico. E ricordate le scene dei banditi che assaltano la locomotiva nei film western? Be’, è probabile che si trattasse proprio di uno di questi treni, a volte utilizzati anche come star del cinema. E noi… udite, udite… oggi prenderemo questo treno! Ehm, con i biglietti acquistati sul sito ufficiale ben tre mesi prima per una cifra non proprio modica… E vabbè, crepi l’avarizia, quando ci ricapita?
Al momento della prenotazione del posto si può scegliere il vagone: dal più spartano, la carrozza aperta, al più lussuoso, il vagone presidenziale. Noi dopo tanti ripensamenti alla fine scegliamo la “open gondola”, la carrozza aperta, non solo perché è la più economica (che è comunque già un ottimo motivo, visto il costo!), ma anche perché è quella che permette di scattare foto a manetta senza l’ostacolo del finestrino. Ci sono però due inconvenienti da valutare:
1. Siete all’aperto e il treno sale fino a 3000 metri, quindi se è estate e fa bel tempo non c’è problema perché il treno fa al massimo i 30 km/h, ma se per caso piove potreste non passarvela benissimo. Noi per fortuna abbiamo trovato una bella giornata di sole ma al mattino presto felpa o k-way non guastano.
2. Occhio alla cenere, perché quella sì che ve la beccate e se vi entra negli occhi può essere parecchio fastidiosa. Quindi sono d’obbligo gli occhiali e almeno mezz’ora di doccia al ritorno, perché sarete sudici quasi quanto il macchinista! Inconvenienti a parte votiamo decisamente per la carrozza aperta, il panorama mozzafiato che si gode vale qualche piccolo disagio. E mi raccomando, prima di salire in treno passate alla biglietteria e chiedete il “souvenir ticket”: il controllore sul treno ve lo pinzerà e sarà un altro bel ricordo da conservare oltre alle magnifiche foto.
Qualche altra dritta: la tratta Durango-Silverton è di 45 miglia, che alla velocità di 18 mph più le soste per l’approvvigionamento idrico significano 3,5 ore di viaggio solo andata. C’è la possibilità di fare sia andata che ritorno in treno, ma dovete mettere in conto 7 ore di viaggio, sosta a Silverton esclusa, oppure si può fare una tratta in treno e l’altra in pullman. Con il pullman il tempo di percorrenza si riduce a un’ora e mezza, ma va rigorosamente prenotato prima, perché i posti sono ovviamente limitati e vanno via come il pane. Seconda raccomandazione: se fate una sola tratta in treno prenotate i posti dalla parte destra se salite verso Silverton e dalla parte sinistra se scendete verso Durango. In questo modo vi troverete seduti dalla parte del fiume (l’Animas River), la posizione ideale per le foto. Ma se non doveste trovare posto dal lato del canyon niente paura, il treno fa diversi passaggi da una parte all’altra del fiume attraverso i ponti, avrete sempre la possibilità di fare foto spettacolari. L’attimo clou da immortalare è quello in cui il treno fa la curva attorno alla montagna con lo strapiombo sul fiume da un lato: in questo modo se siete in un vagone abbastanza in fondo potete catturare il treno in tutta la sua lunghezza con la locomotiva sbuffante in testa e lo scorcio del fiume e delle montagne ai lati.
Arrivati a Silverton si hanno a disposizione circa un paio d’ore prima di rientrare a Durango. Silverton è un’antica cittadina mineraria situata a 2840 metri che, come dice il nome, fece la sua fortuna grazie alle miniere d’argento. Fra i primi pionieri fondatori della città ci furono anche molti italiani, il che spiega certi strani cartelli tipo “Parking for Italians only” che troviamo sparsi qua e là per la città. Oggi le miniere sono ormai esaurite e Silverton vive quasi esclusivamente di turismo, ma è rimasta praticamente tale e quale a com’era oltre un secolo fa, con le sue strade sterrate, i saloon, le botteghe, la chiesetta e la prigione dell’epoca. Le due ore a disposizione sono più che sufficienti per la visita e per il pranzo. Da qui volendo partirebbe una stupenda strada panoramica che sale verso nord fino a Ouray, la US Route 550 o Million Dollar Highway, nota per la sua tortuosità e totale assenza di guardrail, che la rendono pericolosamente esposta su strapiombi vertiginosi. Raccomandatissima d’inverno con la neve, insomma! Noi purtroppo non abbiamo tempo per provare il brivido, non ci resta che rientrare a Durango in pullman sulla pur sempre scenografica San Juan Skyway. Insomma, che ne pensiamo di questo “train ride”? Spettacolare. Una delle esperienze più entusiasmanti dell’intera vacanza.
Tornati a Durango c’è ancora tempo per una visita al museo della stazione, dove sono in bella mostra altri stupendi esemplari di antiche locomotive, e una passeggiatina per il centro storico della città in attesa dell’ora di cena. La serata la trascorriamo nel Diamond Belle Saloon, il locale annesso allo storico Strater Hotel, dove si respira l’atmosfera degli autentici saloon del selvaggio west, con tanto di cameriere in abiti d’epoca e giarrettiere. Ad un certo punto colpo di scena: entra uno sceriffo dall’aria minacciosa imbracciando un fucile, si avvicina al bancone del bar e chiede informazioni su certi fuorilegge che sarebbero in circolazione. Il barista risponde che non si è visto nessuno e lo sceriffo si allontana con aria circospetta. Dopo un po’ entrano due ceffi e chiedono da bere al bar. Fra i due scoppia un alterco, si alzano i toni e spuntano le pistole. Aaah… è la solita messinscena della rissa nel saloon, possiamo rilassarci e goderci lo spettacolo. Poco dopo infatti ritorna lo sceriffo e la rappresentazione si conclude con la classica sparatoria e qualche cadavere steso a terra. Okay va’, anche stavolta ne siamo usciti vivi…
24 agosto: Great Sand Dunes – Colorado Springs
Dai 3000 metri delle San Juan Mountains alle aride dune del deserto: tranquilli, siamo sempre nello stesso stato, solo 170 miglia più a est. Siamo al Great Sand Dunes National Park & Preserve, dove si trovano le dune di sabbia più alte del Nordamerica (fino a 230 metri) con davanti un torrente, il Medano Creek, e alle spalle la Sangre de Cristo Range, una sottocatena delle Montagne Rocciose. Insomma con un piede siamo in montagna e con l’altro al mare. Ma com’è possibile? La sabbia che forma le dune è quella proveniente dal vicino fiume, il Rio Grande, che viene trasportata qui dai forti venti. A questo punto però trova l’ostacolo della catena montuosa Sangre de Cristo, a ridosso della quale va a depositarsi per poi essere continuamente modellata dall’azione del vento fino a formare delle enormi dune.
La riserva viene utilizzata come un vero e proprio parco dei divertimenti. Volendo ci si potrebbe addirittura portare il costume e fare un bagnetto nel Medano Creek, ma nel periodo estivo è quasi asciutto, si riescono a malapena ad immergere i piedi. I più attrezzati invece si portano lo snowboard, e dopo aver attraversato il torrente salgono in cima alle dune e si lanciano giù per il pendio sulla loro tavola. Poi ci sono degli sportivi un po’ più improvvisati che usano come scivolo gli strumenti più impensabili, dagli enormi scatoloni nei quali si infilano con tutto il corpo, ai teloni di plastica… alle proprie natiche! Noi che non abbiamo niente di tutto ciò, tranne ovviamente le natiche che vorremmo preservare, ci limitiamo a salire a piedi lungo il crinale di qualche duna, ma inutile dire che la salita sulla sabbia ripida e cedevole è una fatica indescrivibile, praticamente un passo avanti e tre indietro. E il tutto è reso ancor più complicato dalla temperatura della sabbia, che com’è noto attira i raggi del sole, quindi non cedete alla tentazione di camminare scalzi come se foste al mare se non volete lasciarvi dietro qualche brandello di pelle.
Intanto qui ormai è mezzogiorno e il sole sulle cime delle dune picchia parecchio. Un’altra cosa che picchia sono i fulmini, quindi occhio ad eventuali temporali in avvicinamento. Ecco, ce n’è giusto uno, ti pareva… Meglio scendere dalle dune e fare pausa pranzo, dopo di che passiamo al Visitor Center dove troviamo una troupe televisiva che sta facendo un servizio sul parco. Che bello! Ci rimane ancora un po’ di tempo per qualche breve trail alla scoperta della flora desertica: scopriamo così la “yucca”, la pianta che avevamo sentito nominare durante i tour a Mesa Verde perché gli Anasazi la utilizzavano come cibo e per la realizzazione di cesti.
Ma meglio rimetterci in viaggio, ci attendono altre tre ore di strada per raggiungere la nostra prossima meta: Colorado Springs, che oltre ad essere la location della serie televisiva La Signora del West, è anche la seconda città del Colorado per numero di abitanti dopo Denver. E in effetti non è mica piccola! La parte più interessante e turistica è l’Old Colorado City Historic District, la città vecchia ancora ben conservata in stile “selvaggio west”. Qui, dopo la consueta passeggiatina, finiamo per cena in un BBQ dove ordiniamo uno dei soliti burger, almeno così crediamo. E invece… aiuto! Ci vediamo arrivare un panino alto 10 cm infarcito di carne da far paura, ci sarà stato mezzo bue dentro. Giuro, non riuscivamo ad aprire abbastanza la bocca per addentarlo, una cosa mostruosa. Per smaltirlo credo che domani dovremo salire a Pikes Peak a piedi!
25 agosto: Pikes Peak – Garden of the Gods – Red Rock Canyon – Denver
Pikes Peak, ovvero “America’s Mountain”: con i suoi 4302 metri è la cima più alta del versante sud delle Montagne Rocciose e uno dei ben 53 “fourteeners” del Colorado, come sono chiamate le vette che superano i 14000 piedi. Ma il bello è che la vetta può essere raggiunta addirittura in auto attraverso la Pikes Peak Highway, uno scenic drive di 19 miglia con tornanti da capogiro e quasi totalmente privo di guardrail. E non è tutto: su questa strada vertiginosa, che fino a pochi anni fa era anche in parte sterrata, si corre ogni anno la Pikes Peak International Hill Climb, lo storico rally automobilistico ad alta quota noto anche come “The Race to the Clouds” e secondo per data di fondazione solo alla 500 Miglia di Indianapolis. V’ho detto tutto? Okay, partiamo!
La Pikes Peak Highway è una strada panoramica a pedaggio (15.00$ a testa, sigh!) che si imbocca poco fuori Colorado Springs. Quando acquisti il biglietto la prima cosa che ti chiedono è se sai usare il cambio manuale per inserire marce basse, perché com’è noto gli americani sono abituati a guidare solo con il cambio automatico, il che significa che in discesa continuano a frenare… Insomma vogliono assicurarsi che non facciamo un volo giù per una scarpata, vista la notevole pendenza e l’assenza di guardrail. Addirittura ci consigliano di scendere in prima marcia. E vabbè, forse non sapete che anche noi abbiamo le Alpi? Altra raccomandazione è quella di salire almeno con metà serbatoio di benzina, perché in salita le auto bevono parecchio, soprattutto quelle americane. Noi poi che abbiamo un 3.0 di cilindrata vedremo bene…
La giornata è bellissima, ideale per il panorama mozzafiato che ci aspetta in cima. La nostra prima sosta è al Crystal Creek Reservoir, un enorme bacino incastonato in un verdissimo paesaggio idilliaco. Un po’ meno idilliaco è l’enorme scimmione in legno che troneggia nel parcheggio. Ma cos’è? C’è anche un’impronta di piede mostruosa lì per terra. Ci si può anche mettere sopra il proprio per confrontare le dimensioni. Massì! È Bigfoot! La strana creatura mezzo uomo e mezzo scimmia che pare si aggiri da queste parti. Ma quanto sono matti sti americani? Ci sono perfino i cartelli di “Bigfoot crossing” per strada, da non credere! Noi comunque non lo abbiamo incontrato, peccato… Saliamo e saliamo ancora stando molto attenti alle curve vertiginose. Incredibile, ci sono pochissimi guardrail e solo nei punti più pericolosi, ma anche così l’esposizione è notevole, basta una curva presa un po’ troppo veloce o una sbandata e il volo è assicurato. Non so come fanno i bolidi da corsa a rimanere in carreggiata!
Arrivati in cima la prima cosa da fare è ovviamente la foto ricordo davanti all’insegna del Pikes Peak Summit con l’indicazione dell’altitudine: “YOU MADE IT. 14115 FEET.” Evviva! Certo che l’altitudine si sente eccome: pochi passi e già siamo in carenza di ossigeno! E poi, cavoli, c’è un freddo cane e in giro ci sono ancora spruzzate di neve ad agosto. Meglio entrare in quel locale lì a scaldarci un po’. In realtà stiamo cercando una cosa ben precisa: le ciambelle di cui abbiamo tanto sentito parlare. Eccoli qua i “donuts”: assomigliano alle frittelle che vendono da noi sulle bancarelle delle sagre, una botta al fegato tremenda… Ehi! Ma fuori c’è un trenino! È la Pikes Peak Cog Railway, una cremagliera che sale fin qui da Manitou Springs, un altro magnifico modo per godersi il panorama. Fra l’altro il cielo è limpidissimo e lo sguardo spazia all’infinito fra una miriade di verdi laghetti e il rosso delle rocce circostanti, preludio del prossimo parco che andremo a visitare. Sempre se riusciamo a scendere sani e salvi… A proposito: giusto per rievocare l’atmosfera del racing, durante la discesa a metà percorso vi fanno fare un vero e proprio pit stop per controllare la temperatura dei freni. E se li avete surriscaldati dovrete fare una sosta forzata finché non si raffreddano!
La nostra prossima meta è un parco statale appena fuori Colorado Springs, piccolo ma bellissimo: è il Garden of the Gods, un conglomerato di rocce di arenaria color rosso vivo incastonate fra verdissime colline rigogliose. Un vero gioiellino. Date le dimensioni ridotte e i parcheggi limitati il modo migliore e più divertente per girare il parco sarebbe in bicicletta. Ci sono comunque degli scenic drive che si possono percorrere in auto, ma il fulcro del parco dove si concentra la maggior parte delle formazioni rocciose va visitato per forza di cose a piedi attraverso i numerosi e frequentatissimi sentieri, i Central Garden Trails. Ed ecco qua una delle attrazioni del parco: sulla sommità di un’enorme roccia di arenaria ci sono i Kissing Camels, una strana formazione rocciosa che ricorderebbe una coppia di cammelli che si baciano. Cammelli? A noi sembrano più due graziosi coniglietti, mah… Ci sono poi le Three Graces, tre creste verticali di arenaria che si stagliano parallele verso il cielo, le Cathedral Spires, che assomigliano alle guglie di una cattedrale gotica, la solitaria Sentinel Rock con ai lati le sue due guglie-sentinella, e la Steamboat Rock che sembra la prua del Titanic. E poi anche qui come ad Arches c’è una Balanced Rock, un’enorme roccia in equilibrio precario che io mi affretto ad andare a sostenere a mo’ di Atlante che sorregge il globo, ma solo per il tempo di una foto eh…
Dopo esserci divertiti ad osservare qualche climber che si diletta a scalare le pareti verticali di arenaria, lasciamo il parco in direzione di un’altra attrazione che avevamo adocchiato durante il tragitto: è il Red Rock Canyon Open Space, un altro piccolo parco liberamente accessibile dove si possono fare dei magnifici trail fra creste di rossa arenaria, suggestivi laghetti nei quali si specchiano le rocce circostanti e rigogliose vallate verde smeraldo. Effettivamente il nome “Colorado” ha il suo perché: qui Madre Natura fa veramente sfoggio di tutti i colori più sgargianti della sua tavolozza.
Verso metà pomeriggio ci rimettiamo in viaggio in direzione Denver: non sembra vero ma domani è l’ultimo giorno. Alloggiamo a Greenwood Village, alla periferia di Denver. Al momento della prenotazione ci eravamo accorti che i motel di downtown oltre ad essere piuttosto squallidi erano anche decisamente cari. Il nostro Wingate by Wyndham invece è un signor hotel e ci è costato meno del previsto. Ma cosa sono queste indicazioni in autostrada di traffico congestionato a causa di un “event”? Non sarà mica dalle nostre parti vero? E invece sì, un concerto pare. Speriamo sia sufficientemente distante da riuscire a dormire… Per cena finiamo in quella che crediamo una normale pizzeria da asporto. E invece mentre aspettiamo che ci preparino la pizza una signora ci fa notare che non la cuociono, cioè te la vendono cruda e poi tu te la cuoci a casa. Ma che razza di modo è? Mica ce l’abbiamo noi il forno in albergo! Certo che il nome del locale Papa Murphy’s Take ‘N Bake doveva un attimo insospettirci… Morale della favola: rinunciamo e passiamo metà della serata a vagabondare in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
26 agosto: Denver – Venezia
E così anche questo viaggio volge al termine. Ma stasera abbiamo il volo alle 19.30, vogliamo sfruttare l’ultimo giorno fino in fondo prima di salutare gli States. E in una giornata ci sta giusta giusta la visita di Denver, la capitale del Colorado, così da chiudere il cerchio di questa straordinaria avventura iniziata tre settimane fa.
Denver è soprannominata “The Mile High City” perché si trova a circa 1609 metri sul livello del mare, un miglio appunto, misurato sul quindicesimo gradino del Colorado State Capitol. E allora non possiamo che iniziare la nostra visita da qui. L’edificio neoclassico dalla cupola dorata è ingabbiato nelle impalcature degli ennesimi lavori di restauro: non si può dire che gli americani non si curino del loro patrimonio architettonico! Per di più è sabato, quindi è chiuso al pubblico. Vabbè, allora andiamo alla ricerca di questo famoso quindicesimo gradino, che infatti troviamo sulla scalinata dell’ingresso principale contrassegnato dall’iscrizione “ONE MILE ABOVE SEA LEVEL”. Foto di rito e via. Il Campidoglio si affaccia su un’ampia piazza con al centro dei magnifici giardini pieni di aiuole colorate. Sull’altro lato della piazza si trova un altro maestoso edificio, il Denver City and County Building, sede del Comune. Una cosa che purtroppo notiamo subito è la presenza di molti clochards, vagabondi e gente poco raccomandabile. Assistiamo anche ad un arresto della Polizia in diretta: mica vanno tanto per il sottile negli USA, per un semplice controllo ti ritrovi ammanettato riverso sul cofano della macchina. Hai capito!
Il cuore pulsante di Denver è il quartiere di LoDo, abbreviazione di Lower Downtown, la cui via principale è la turistica 16th Street Mall, una strada pedonale alberata (occhio, gli alberi sono dipinti di blu!) che un po’ ricorda la Rambla di Barcellona, non so se avete presente. Qui ci divertiamo a passeggiare fra negozietti, locali, bancarelle, artisti di strada e intrattenimenti vari: una scacchiera gigante, una zona relax fra le aiuole con tanto di amache e sedie a sdraio ergonomiche, e poi delle trottole giganti su cui ci si può sedere e girare in tondo su sé stessi, una vera figata! Merita una visita anche l’elegante Union Station con i suoi lussuosi interni ottocenteschi, davanti alla quale ci troviamo anche il mercatino del sabato, lo Union Station Farmers’ Market. Ooohhh, finalmente un bel po’ di frutta e verdura fresca, una vera rarità negli States, dove il massimo che trovi nei supermercati è qualche banana o qualche mela striminzita e della lattuga confezionata. Proseguendo poi lungo la 16th Street si arriva ad un ponticello con delle campate avveniristiche che attraversa un corso d’acqua nel mezzo di un bel parco cittadino. E qui ne approfittiamo per la pausa pranzo. Nel pomeriggio andiamo ancora un po’ a zonzo per la città prima di deciderci a riprendere la macchina in direzione aeroporto. Autolavaggio veloce, quindi riconsegna alla Thrifty con litigata per il problemino di cui sopra, che se non rischia di rovinarci la vacanza di sicuro però ci rovina l’ultimo giorno… E così, mogi mogi, prendiamo la navetta per il DIA.
E anche per quest’anno finisce qui. Ma lo sapete tenere un segreto? Stiamo già spulciando la Lonely Planet per studiare il prossimo itinerario! Se sarà qualche metropoli della East Coast o di nuovo i paesaggi sconfinati del selvaggio west ancora non si sa, ma di sicuro sarà presto di nuovo USA. E allora: stay tuned!
Isabella & Tiziano