Quando Alessandro ci propone di fare qualcosa per la gente di Pisco, Ica e le altre città della costa peruviana colpite dal terremoto di Ferragosto (sette-e-rotti gradi della scala Richter), non ci pensiamo più di tanto. In un paio di giorni Ale e Roberto contattano Matteo e Camilla della Famiglia dell’Ostello la Piccola Locanda, Emanuele dell’agenzia di turismo responsabile PeruEtico.com, Vittoria e Ronald del CAITH e ci imbarchiamo con due camionetas cariche di coperte, acqua, latte, tonno, pasta, olio, vestiti e quant’altro. Alessandro dell’Instituto de Educación Rural – IER di San Salvador, Roberto, Silvia e Michele del Servizio Volontario Internazionale – SVI, quando partiamo non è che c’abbiamo poi le idee così chiare sulla situazione, anzi. Le strade sembrano accessibili, anche se nel tratto Pisco-Chincha incontreremo vari smottamenti, pali dell’energia elettrica divelti, qualche ponte inservibile e un paio di piccole deviazioni a passo d’uomo lungo la Panamericana Sur che porta drittadritta a Lima. Sono l’eredità di un terremoto durato 2-3 minuti che ha colpito in modo devastante soprattutto le città di Pisco, Paracas, Ica, Chincha e Cañete. Circa cinquecento morti (in aumento), intere città collassate, tantissime case crollate o quasi, migliaia di persone senza un tetto, senza energia elettrica, senz’acqua, i telefoni in tilt per varie ore, tantissimo panico, voci di saccheggi ed atti di sciacallaggio, violenze. Leggendo i giornali non si capisce granché della situazione e di quanto sia più o meno grave; la radio – lo scopriremo poi – risulterà essere un po’ allarmistica, come quando i tipi di RPP mandano in diretta la telefonata di un tizio dalle parti di Cañete che sostiene che il mare si è ritirato soltanto di una cinquantina di metri, guardaunpo’. Dopo alcuni minuti il sindaco smentirà un po’ scazzato l’arrivo di uno Tsunami alto tre chilometri, sostenendo che si tratta invece di bassa marea … Uno dei due era un imbecille. Non abbiamo idea di cosa serva per davvero, di quali siano le priorità. Ci diciamo: andiamo per vedere, soprattutto per vedere con i nostri occhi, farci un’idea un po’ meno astratta delle necessità della gente e poi, se raccoglieremo nuove donazioni, organizzeremo un’altra “spedizione”, magari con un camion, magari un po’ meno alla o-la-va-o-la-spacca. Il viaggio da Cusco è lunghetto: Abancay-Puquio-Nasca-Palpa-Ica-Pisco- Chincha un migliaio di chilometri quindiciore che diventeranno 25 un po’ per le inevitabili soste, un po’ per un problema alla macchina di Alessandro: alle 5 di mattina, a 20 km da Ica (cioè: ad un passo dall’arrivo, anche se poi arrivare a Chincha ci richiederà altre 5 orette buone) l’antifurto dell’auto decide di auto-inserirsi, bloccando la pompa di alimentazione. Ci troveremo così a vagare per una città terremotata, la domenica mattina, alla ricerca di un elettrauto. Per le strade c’è un sacco di gente, anzi: sembra proprio che tutta la città sia in strada (in effetti, se c’è il rischio che il tetto ti caschi in testa, pensiamo poi …). Pochi poliziotti invece, se non davanti alla Comisaria e molti di più i copertoni bruciati in mezzo alle strade. Il terremoto si porta via la luce all’istante, coprendo possibili sciacalli che derubano le macerie delle poche cose di valore rimaste intatte. Così, pare che alla gente non rimanga molto altro che vegliare dal marciapiede i resti della propria casa, improvvisando fuochi per scoraggiare i cosiddetti malintenzionati. Le case di material noble (mattoni, laterizi) hanno forse retto l’impatto; a schiantarsi sono stati i poveri muri di adobes (mattoni di fango e paglia), assieme agli edifici costruiti semplicemente male, privi di fondamenta o di pilastri, tanto per risparmiare. I più poveri, al solito, hanno pagato con la vita. In Plaza des Armas, a Ica, ci troviamo di fronte una chilometrica coda di persone che fa il giro di tutta la piazza e ritorno: stanno distribuendo i primi aiuti, probabilmente acqua ed alimenti. La radio ci tranquillizza a proposito di alcuni assalti a camion che portavano aiuti da parte di gente esasperata. La nostra meta è Chincha, 200 km a sud della metropoli Lima. Con noi c’è, casualmente, Veronica di San Salvador, che a Chincha ha una sorella. La nostra principale preoccupazione è come distribuire in modo minimamente equo quello che stiamo trasportando. Potremmo fermarci in qualsiasi punto, togliere il telone, scoperchiare la camioneta e cominciare a lanciare cose. Un paio di scene simili le abbiamo pure viste, nei dintorni di Pisco. Ci sembra una follia, alla fine prevarrebbero i più decisi, i più prepotenti, i più furbi; i più disonesti. Pensiamo invece che forse a Chincha, con l’aiuto della sorella di Veronica e di suo marito, infermiere, sia possibile organizzare una distribuzione più giusta – o meno casuale, a seconda dei punti di vista – cercando di portare un piccolo appoggio a chi veramente ne ha più bisogno. Almeno: ci proviamo. Non si sa come, alla fine ad Ica un elettrauto sbuca per davvero, alle otto del mattino di una domenica immersa nella neblina invernale della costa. In 3 minuti disattiverà il maledetto antifurto andato in tilt e si racconterà ad alta voce di essere ancora vivo per una piccola serie di casualità che hanno fatto in modo che non venisse sepolto dal muro dell’abitazione del vicino. Non ha perso molto; i suoi familiari stanno bene. Sta ripulendo il suo taller mecanico per tornare a riaprire il lunedì mattina. Ci racconta della convinzione, durata 3 minuti buoni, di essere ormai morto; di una popolazione in panico a vagare nelle strade, o asserragliata con bastoni nel cortile di casa, temendo violenze e saccheggi; di telefonate alle radio locali che non facevano altro che alimentare ed alimentare ed alimentare ancora il panico sempre più incontrollabile della gente; le istituzioni (la polizia, prima di tutto) semplicemente assenti, ognuno per sé, Dio per tutti; le prime ore del dopo-terremoto. Alla fine Alessandro deve insistere per fargli accettare 10 soles per la riparazione dell’auto e ripartiamo verso la nostra destinazione, Chincha. A venti chilometri dall’arrivo ci fermiamo per fare il punto. Che fare? Lungo il tragitto finale abbiamo attraversato piccole comunità disperse sulla Panamericana, gruppetti di persone ai bordi della strada dissestata, con la bandiera biancorossa del Perù e cartoni improvvisati, “Necesitamos ayuda”, “¡Alimentos!” e altre scritte ancora. Sono soprattutto bambini e donne con bambini, ma non mancano ragazzetti ed adulti. I soliti furbi del caso? Opportunisti? O semplicemente gente senza alternative? Come decidere dove lasciare le poche cose che abbiamo? Come individuare persone realmente bisognose? Come arrivare magari a gruppi tagliati fuori dal circuito ufficiale degli aiuti, tutto proiettato sull’asse Lima-Pisco per via dell’aereoporto? Alla fine il senso del viaggio lo cogliamo alla fine. Tagliamo nervosi le strade di Chincha, tra solerti aggiornamenti di RPP che fa il conteggio dei 600 detenuti del carcere locale ancora fuggitivi e le comprensibili incertezze di Veronica che ci sta guidando alla casa della sorella, destra sinistra destra, centro e poi periferia e infine finalmente il barrio Cruz Blanca che già non doveva essere molto ricco né attraente prima e mi sa che non è migliorato molto. Forse un po’ troppo cinematograficamente ci facciamo aspettare dalla famiglia di Veronica appena fuori da un piccolo cortile che diventerà la nostra autorimessa sgommando in un mezzo polverone entriamo nel posticcio garage marciando spediti sopra un bel cumulo di mattoni e macerie e subito quelli dietro chiudono il portone ad occhiate indiscrete ed avide. Fermarci in mezzo alla strada col nostro misero carico di ben-di-Dio ci esporrebbe a troppi rischi, almeno così ci pare, forse esagerando, chissà. Spegniamo le auto, circondati dalle macerie di una casa bassa di un piano soltanto. Il portone dietro di noi ormai richiuso sulla scena. Scendiamo lentamente, con una calma stanca. Ad accoglierci ci saranno una trentina di persone mute che si guardano, donne, bambini attaccati agli adulti. In un silenzio asciutto di parole stringiamo qualche mano, stravolti per il viaggio e dal suo senso un po’ misterioso, il clima grigio sospeso su occhiate sorprese, curiose, in attesa del prossimo grande spavento, qualche scossetta di assestamento (che per altro non tarderà). Veronica abbraccia la sorella, stringe le nipotine. Silvia e Roberto sono visibilmente commossi. Non ci aspettavano, nemmeno ci conoscono, ovvio. Cominciamo a scambiare qualche parola, a bassa voce, piano. Ci presentiamo, spieghiamo come abbiamo fatto ad arrivare fin lì, non perché. Cominciamo ad organizzare la distribuzione. Alessandro è felice, si schianta sul sedile della nostra auto. Decidiamo di distribuire quello che abbiamo portato ad una cinquantina di famiglie del barrio, non di più, scommettendo sull’onestà di queste persone e sul loro senso di solidarietà. Un tot di barattoli di latte condensato, di pacchi di pasta, di bottiglie d’olio e così via. Non molto, certo, anche se alla fine le macchine erano strapiene fuori e dentro. Un piccolo aiuto ad ognuna di queste famiglie che dovrà affrontare nei prossimi mesi grandi sacrifici per tornare ad uno straccio di normalità dignitosa. Scarichiamo il tutto e lasciamo che si organizzino loro. In pochi istanti ci presentano una lista di nomi, capi-famiglia del barrio. Non so perché, ma sentiamo che non ci stanno imbrogliando; non faranno i furbi, si divideranno in modo giusto queste cose. Insomma, non sono perché ma ci fidiamo; forse perché altrimenti non avremmo fatto mille chilometri? Spunta un invito a pranzo. Proviamo a rifiutare, ci sembra di pesare su di loro che di pensieri ne hanno già abbastanza. Ma cediamo quasi subito alla tentazione di goderci un pasto normale dopo un’infinita serie di banane e panini al formaggio. Non si sa da dove, ci tirano fuori un caldo che ci pare eccezionale, come pure la carapulcra a seguire e la Kola Real ad innaffiare. Scherziamo tra noi, ci chiediamo adesso cosa fare, programmiamo il rientro. Quando torniamo alle auto davanti alla casa c’è una piccola fila ordinata: dal portone entrano i capi-famiglia uno alla volta, a ricevere gli aiuti; dalla porticina escono con piccoli scatoloni. Sorpresi dall’organizzazione scopriamo che alcuni stavano tentando di approfittarsene e di accaparrarsi le cose, ci sono stati momenti di tensione, poi risolti. Prendiamo qualche accordo per i prossimi giorni, vorremmo tornare con più aiuti, chessò, magari materiale da costruzione e ancora alimenti, che comunque ci sembrano apprezzati. Nel barrio ci sono un po’ di disordini, non lasciano passare le auto, aspettiamo che alcuni patrulleros della polizia portino un po’ di calma per sgommare di nuovo fuori da lì e dirigerci a Nasca, dove riposeremo qualche ora. Mentre aspettiamo di andarcene ci coglie una scossetta di “assestamento”, un secondo, non di più, quanto basta per terrorizzare i bambini incollati alle donne ed attorcigliarmi l’intestino. Mentre schizziamo via da lì pensiamo a come dev’essere stato un terremoto di tre minuti. Non riusciamo ad immaginarcelo. All’andata non ne abbiamo parlato più di tanto, del perché stavamo facendo quello che stavamo facendo. Una cosa piccola, e di certo limitata nel suo impatto. Però, il senso l’abbiamo catturato all’arrivo a Chincha ed è davvero molto semplice: ci siamo fatti quasi duemilachilometri in cinquantatréore di andataeritorno per far capire a quelle persone che degli estranei hanno pensato a loro e a quello che stavano vivendo, per stringere le loro mani, per guardarli negli occhi e preoccuparci insieme. Forse non è granché; ma ne vale la pena.
Alessandro, Roberto, Silvia, Michele
Ps: per tutti i turisti per caso: è importante continuare a far turismo nelle zone colpite dal terremoto, è un aiuto valido e sostenibile…. Non dimenticatevi di loro.
Per maggiori info: www.svibrescia.it Volontariato internazionale www.peruetico.com Viaggi responsabili in perù www.piccolalocanda.com Ostello ed osteria Cusco http://geocities.com/caithcusco/index-i.html CAITH – Turismo socio culturale Cusco