Perù, molto più che Machu Picchu

Dalla Montagna dell'Arcobaleno alla navigazione sul Rio delle Amazzoni, 10 giorni in Perù scoprendo i mille volti di un paese unico.
Scritto da: Viviaggia
perù, molto più che machu picchu

Il nostro itinerario: Lima – Islas Ballestas – Huacachina – Cusco – Machu Picchu – Montagna dei sette colori – Puno – Isla de los Uros – Iquitos – Belèn (10 giorni).

Bagaglio: si passa dal caldo torrido al gelo dei ghiacciai, quindi bisogna portare per tutti i climi. Meglio bagaglio leggero (zaino) e lavare le cose nelle soste più lunghe.

Avvertimenti speciali: il mal di montagna richiede adattamento e specifica attenzione.

Perché andare in Perù?

Quando si parla di Perù, sicuramente la mente corre a Machu Picchu, una delle sette meraviglie del mondo moderno. E diciamolo: per molti aggiungere una di queste mete alla propria lista è già un motivo sufficiente per programmare il viaggio. Lasciate allora che vi racconti un po’ delle sorprese che ci ha riservato il Perù e capirete perché dovreste andarci, anche se non ci fosse questa grandiosa città della civiltà Inca a farvi l’occhiolino. Come molti dei nostri viaggi, anche il Perù è stato deciso – tra varie alternative – da un’offerta a tempo. Dopo sere su sere passate a cercare voli economici per il Sudamerica, quando ormai avevo perso le speranze, un venerdì notte mi è apparsa un’offerta a tempo per la tratta Milano-Lima, durante il Ponte di ognissanti. Inutile dire che non me la sono fatta scappare, e così ho prenotato, senza sapere bene ciò che avrei voluto e potuto vedere.

I giorni di ferie non sono mai abbastanza e ci tocca sempre concentrare più cose in poco tempo, spesso a scapito del sonno e del riposo. Il nostro itinerario si sarebbe potuto ben fare in 15 giorni, aggiungendo Arequipa e Nazca, ma noi avevamo solo 10 giorni a disposizione. E in fondo (come vedrete) siamo (sono) un po’ masochisti.

Lima, Miraflores e Barranco

lima

La prima meta, obbligata per via del volo, è stata Lima. Come sempre, non abbiamo riversato le nostre speranze nella capitale (insomma, non stiamo certo parlando di Roma o Parigi), ma abbiamo preso la prima tappa come sosta per smaltire le ore di volo (8 solo di scalo ad Atlanta) e il jet-lag. Smaltire si fa per dire, perché il volo è arrivato alle 5 del mattino e, nonostante settimane di email e preghiere in lingue varie, la nostra stanza non è stata pronta prima delle 12. Pazienza: vorrà dire che vedremo la città prima del suo risveglio ufficiale.

Partiamo dal primo dato: all’aeroporto di Lima sarete assaliti da sedicenti tassisti che si offriranno di portarvi in hotel e talvolta lo faranno, magari a prezzi maggiorati, ma in qualche caso vorranno solo ripulirvi per bene e rapinarvi. Per questo, schivato l’assalto dei driver, abbiamo conquistato l’area interna dei taxi ufficiali e siamo riusciti a prenotarne uno (Green taxi), venendo scortati all’esterno dal nostro autista (quando dico “assalto” non esagero). State attenti, quindi, a scegliere un taxi ufficiale o Uber, meglio non rischiare.

Al nostro arrivo, Miraflores – quartiere di Lima in cui è consigliato alloggiare – si presenta avvolta dalla nebbia e dal fresco. Siamo dall’altra parte del mondo, è primavera ma sembra di stare nella bassa padana. A fare la differenza sono altissime scogliere verde smeraldo (che sanno tanto di Irlanda) e l’oceano popolato da decine di surfisti che all’alba sono già a cavallo della tavola a cercare l’onda perfetta. Cosa porti i surfisti a svegliarsi alle 5 per sfidare la nebbia e il freddo lo scoprirò poi più tardi, quando il mare avrà smesso di ruggire e i surfisti saranno ormai sotto la doccia.

Alle 6:30 della domenica Miraflores è un viavai di ciclisti, podisti, passeggiatori di cani, fiorai comunali, netturbini e camerieri che preparano i bar per l’apertura delle 10 (delle 10, alle 6:30… e non pensate di poter fare colazione prima, ahimè). Che siamo in Sudamerica si capisce solo dalla musica latina che i bar sparano a tutto volume nelle strade, mentre gli autobus urbani trasportano i lavoratori locali dai quartieri periferici al centro città. Forti del fuso orario favorevole e delle molte ore in aereo, passeggiamo per il lungomare di Miraflores, visitiamo il Parco dell’Amore (niente che valga la pena menzionare in realtà), vediamo il Giardino delle Farfalle (zero farfalle avvistate), ci addentriamo in Parco Domodossola (già, hanno un parco dedicato alla famosa Domodossola della D di nomicosecittà), percorriamo parchi e viali perfettamente curati e osserviamo i palazzi con case dalle enormi vetrate e i balconi attrezzati per la bella stagione. Ripeto, non sembra di stare in America Latina e niente appare lontano dalla nostra quotidianità. Dopo i primi 4 km decidiamo di prendere le bici a noleggio (costano poco e i parcheggi per riporle sono diffusissimi) e ci spostiamo a Barranco. Nel frattempo la nebbia si è un po’ alzata, ma non tanto da farci vedere il cielo (allerta spoiler: il cielo di Lima non ci si mostrerà mai, fino alla fine del viaggio).

A Barranco lo scenario cambia un pochino: i palazzi con ampie vetrate lasciano il posto a ville Liberty, alcune delle quali – le più grandi, impenetrabili allo sguardo – sono protette da guardia armata e recinto elettrificato. Intorno tutto dorme, a parte la gente che compra frutta e verdura al mercato biologico e i dog-sitter che portano a spasso gruppi di cani (memorizzate questo particolare del lusso da dog-sitter, vi sarà utile dopo). Pedalando senza fretta (cantando Cocciante) arriviamo al celeberrimo Ponte dei Sospiri (Puente de Los Sospiros). Ora, chi di voi ha visto Venezia avrà l’immagine di un ponte bianco ben rifinito che spicca sul canale, dove sembra di sentire ancora adesso i sospiri dei detenuti. Bene, se andate a Lima dimenticate ciò che avete visto! Il Ponte dei sospiri qui si affaccia su un parcheggio e, ciononostante, famiglie festanti col vestito buono pagano fotografi locali per farsi delle foto con questo sfondo (auto parcheggiate, le loro probabilmente), mentre un vigile ricorda che si tratta di un ponte destinato al transito pedonale e sposta fotografi e modelli per permetterci di passare dall’altro lato. A far da cornice a questo spettacolo per me incomprensibile, una chiesa col tetto crollato piena zeppa di corvi che guardano minacciosi. Sulla facciata un cartello annuncia che si tratta di proprietà privata e che le foto possono disturbare la privacy dei proprietari (i corvi, ritengo), mentre alle spalle delle statue di ferro raffiguranti corvi confermano la mia idea di essere finita nel sottosopra.

A parte questa Chiesa degli Addams, Barranco è colore, fiori, viali, animali, casette e villette, ordine e pulizia. E anche qui è fortemente consigliato alloggiare. Tra una pedalata e l’altra, torniamo a Miraflores, consumiamo un brunch vista oceano e finalmente conquistiamo l’agognato letto. Al nostro risveglio sarà già pomeriggio inoltrato. Il pomeriggio prendiamo un Uber e andiamo a visitare il centro storico di Lima. La prima cosa che mi colpisce è che tutto il centro storico è circondato da cancelli che credo servano per limitare gli accessi in caso di manifestazioni e sommosse.

Nel centro storico niente più turisti e dog-sitter, ma comitive di peruviani che passano il pomeriggio insieme (è domenica). Quasi ovunque vi sono gruppi che ballano e suonano o artisti di strada che fanno monologhi ironici circondati da persone che ridono e battono le mani. I ristoranti (attrezzati con quattro tavolini e una lampadina) offrono i piatti tipici a prezzi che sono 1/5 di quelli di Miraflores. Dentro ci sono solo peruviani. Nel parco che corre verso la metro una distesa di bancarelle di street food che vendono prevalentemente dolci (picarones, zucchero filato colorato, mele caramellate, bicchieri con dentro forse yogurt e salse) e intorno la gente parla a voce alta e mangia golosa. Siamo i soli non peruviani della zona e questo non può che farci pensare di essere nel posto giusto! Finalmente un po’ di vita vera. Dopo un altro po’ di giri, prendiamo un altro Uber e torniamo a Miraflores per la cena. In fondo sono già le 19! (col jetlag la fame viene decisamente presto).

La sera di Halloween Miraflores si trasforma: dalle 18 gruppi di turisti e peruviani vestiti da mostri e streghe sbevazzano sghignazzanti negli infiniti locali che popolano l’area intorno a Kennedy Park. È una città gioiosa che vuole fare festa e divertirsi e le occasioni non mancano di certo. Noi, presi a schiaffi dal jet-lag, molliamo presto la presa… ma la mattina dopo, nel tragitto verso l’aeroporto, troveremo in giro ancora gli ultimi mostri gironzolare sbronzi per il parco, rispettosi della vita notturna da vampiri e barcollanti tra i resti di bicchieri e ragnatele che i netturbini hanno già iniziato a pulire.

Islas Ballestas e Huacachina

islas balletas perù

Da Miraflores un’escursione di un giorno trovata su Get Your Guide mi consente di unire in un giorno un doppio tour senza dormire ad Arequipa e già questa felice concentrazione di esperienze in un tempo killer mi rallegra (rallegra molto meno Lele, che confronta il numero di ore di sonno a quello dell’escursione e mi guarda perplesso…). Il tour parte con un pick-up dall’hotel (che comodità!) e nelle due ore e mezza fino alla prima sosta ci fa vedere la periferia di Lima (un modo a parte: case cadenti e a volte senza tetto o con tetto di lamiera, sporcizia, barboni, gente ammassata alla fermata del bus e anche un uomo di colore intento a soddisfare i propri bisogni in pubblica piazza…) e ciò che c’è dopo Lima (distese di nulla intervallate da villaggi turistici in costruzione, presumibilmente destinati un domani a offrire vacanze vista mare nel periodo estivo).

La prima tappa sono le Isole Ballestas, che non avrei mai considerato di visitare se non mi avessero promesso di farmi vedere i pinguini. Lo ammetto: sono rimasta scettica sulla presenza di pinguini in Perù fino a quando non li ho visti con i miei occhi, dritti e impettiti come solo loro sanno fare, tuffarsi nel mare uno dopo l’altro (quando si dice: se il tuo amico si butta nel burrone lo fai anche tu? ecco, i pinguini lo fanno: si lancia il primo e gli altri lo seguono, almeno quelli che ho visto io). Alle Ballestas abbiamo visto anche leoni marini spalmati con comodità su pizzi aguzzi di scogli appuntiti (l’idea di comodità è indubbiamente relativa) e una delle principali risorse economiche della zona: il guano. Come ha detto la nostra guida, non si può negare che facciano soldi vendendo… capito no?

Dopo il pranzo inizia la vera esperienza del giorno: la visita a un’oasi nel deserto. Qui le dune sono alte, molto molto alte, e il deserto si estende per una vastità che sfugge allo sguardo. Al centro di queste dune, uno specchio d’acqua naturale dà vita all’Oasi di Huacachina, gioiellino naturale oggi sede di ristoranti e ostelli che ospitano gli esploratori del deserto e sfruttano a più non posso questo miracolo della natura. Vista dall’alto delle dune, Huacachina è indimenticabile: acqua e verde spiccano in mezzo alla sabbia e inevitabilmente incantano chi li guarda.

Dopo aver comprato una bandana (ve le venderanno con l’insistenza della mamma quando provava a farvi dormire alla quarantesima notte insonne) e aver coperto occhi, naso, bocca, orecchie e capelli (il respiro è relativo, ma almeno si evitano i granelli di sabbia come piercing), saliamo in questi mezzi infernali che sono le Dune Buggy. Sarò sincera: non sono tanto le Dune Buggy a essere infernali, quanto i ragazzini che le guidano, che si sfidano e si sfiorano incuranti delle urla (le mie) e dei pianti (sempre miei). Dopo aver conquistato i posti davanti e aver infilato queste cinture di sicurezza dalla dubbia utilità (ci volavo dentro), iniziamo questo giro da montagne russe con la macchinina che si arrampica solerte sulle dune e che poi, dopo averci mostrato un orizzonte senza mete apparenti, precipita verso il basso e discende la duna. Ho sofferto, sarò sincera, ma non faccio testo. Lele si è divertito da morire, anche a riprendermi mentre invocavo l’aiuto di mia madre. Il giro dura due ore ed è intervallato da soste per scendere con le tavole da snowboard lungo il fianco delle dune (io mi sono graffiata tutte le braccia ma ancora una volta non faccio testo) e da pause fotografiche. Tutti facciamo le foto sulla Dune Buggy (non sarebbero comunque male per la lapide) e col salto nel deserto … ma le foto non rendono il senso di immensità che si respira qui in cima alle dune.

Al tramonto torniamo a Huacachina. Nonostante la paura, le montagne russe a bordo della Dune Buggy resteranno uno dei ricordi più belli della vacanza, forse anche per lo spettacolo meraviglioso del sole che tramonta sul deserto. Arrivati davanti alla nostra oasi, ordiniamo una pizza (molto alta ma comunque mangiabile) e alle 19 risaliamo sul bus. Alle 23 verrò svegliata da Lele, dopo 4 ore di sonno pieno: la paura deve avermi sfinita!

Cuzco. L’antica capitale Inca…nto del Perù

cusco

La mattina dopo un Green Taxi ci porta in aeroporto per il volo che ci condurrà nel vero cuore del nostro viaggio: Cuzco. Cusco si trova a 3500 m s.l.m. e credete quando vi diranno che il salto di quota fatto in aereo vi stenderà. Il mal di altura, cosa di cui ignoravo l’esistenza, si impadronisce di noi dopo circa un’ora dall’arrivo. Nel frattempo, abbiamo già bevuto il nostro mate de coca, abbiamo già masticato le prime foglie di coca e ci siamo anche stesi nel letto a quattro piazze della nostra camera di albergo (Casa Matara Boutique, consigliato consigliatissimo). Ma non basta: la testa gira, l’ossigeno manca e la sensazione è quella di una sbornia presa con il vino da mezzo euro al litro che bevevamo da universitari, bevuto però ora che non smaltiamo neanche lo champagne. Niente paura, dopo il primo giorno ci si abitua. Però bisogna stare attenti e prendere subito un integratore o un diuretico (io ho seguito le indicazioni di un’amica medico che ha ispirato l’intero viaggio e che credo mi abbia salvata da mal di testa tremendi). Se andrete a Cusco e dintorni e avrete questi sintomi, non preoccupatevi: è normale. Solo, per i viaggiatori solitari mi sento di consigliare prudenza.

Cusco ci offre la prima immagine caratteristica del Perù: in Plaza de Armas (ne troverete una in ogni città, sappiatelo) incontriamo subito donne dagli abiti colorati, con gonne svolazzanti e copricapo ampi, con accanto dei meravigliosi Alpaca. Degli Alpaca ci siamo innamorati al primo sguardo: morbidi, dolci, coccoloni, mansueti, sono un valore aggiunto in questa antica capitale Inca. Attenzione però: ogni foto vi costerà dei soles e nemmeno una carezza o uno sguardo saranno gratuiti, ma dopo aver visto come vive la gente del luogo, sarete più che felici di strapagare queste foto ricordo.

Cusco vi conquisterà con il fascino di una città che sa di storia e tradizione. A pochi passi da Plaza de Armas un muro grigio vi porterà alla pietra dei 12 angoli, masso di diverse tonnellate che presenta 12 angoli, che si dice sorregga l’intero edificio e che simboleggia l’abilità dell’architettura Inca. Intorno troverete vicoli e stradine piene di negozi di souvenir e vestiti in vero (?) baby alpaca di qualità molto variabile. Dopo una bella salita, arriverete al Cristo Bianco, statua dalle dimensioni non proprio indimenticabili che veglia sulla città che sta a valle. Intorno, i resti di un insediamento Inca e una vista meravigliosa della città.

A Cusco impariamo ben presto, grazie alle improvvisate guide locali, che gli Inca veneravano 3 animali: il Condor, il Puma e il Serpente. La stessa città si dice che abbia la forma di un Puma. L’influenza degli Inca e delle credenze e tradizioni locali si nota anche nell’arte della Cattedrale: la Madonna indossa una veste triangolare che richiama una montagna, il Cristo Crocifisso ha una gonna che viene cambiata ogni giorno, al centro dell’Ultima Cena trionfa un porcellino d’india fritto (piatto della festa) e sullo sfondo si incontrano spesso richiami alle Ande. La visita nella Cattedrale l’abbiamo fatta con una guida che ci si è presentata all’ingresso e ci è costata pochi soles. Indubbiamente è consigliata. Diranno di parlare anche inglese, ma se capite lo spagnolo potrete certamente ricevere molte più informazioni.

Machu Picchu, la meta irrinunciabile del Perù

machu picchu

Da Cusco partono le escursioni più interessanti del nostro viaggio. La prima è, ovviamente, per Machu Picchu. Certo, neanche io sono immune alla tentazione di vedere una delle 7 meraviglie del mondo moderno! I blog consigliano di dormire vicino e di trovarsi a Machu Picchu all’apertura, per non trovare molta gente. Noi però abbiamo già programmato un investimento notevole di energie e preferiamo partire da Cusco comodamente alle 5 del mattino, con colazione al sacco (da quattro giorni non lasciamo l’albergo più tardi delle 5), pronti a un viaggio che prevede un’ora e mezzo di auto (pickup privato), due ore di treno e 40 minuti di bus.  Come dire: le cose belle ve le dovete guadagnare.

L’escursione a Machu Picchu è la cosa più cara della nostra vacanza: 340 euro a persona. Avremmo potuto risparmiare prendendo il Bus fino a Ollantaytambo e un treno non panoramico, ma il tempo a nostra disposizione era troppo poco per rischiare di perdere una coincidenza e comunque il treno – uno dei pochissimi treni del Perù – è ipercostoso a prescindere e il risparmio non sarebbe stato poi di rilievo. Alla stazione di Ollantaytambo, in attesa del treno di Perù Rail o Inca Rail, un gruppo di ballerini in costume accoglie i passeggeri festante. Nessuna propina viene chiesta e questo mi stupisce (finora le mance sono state pretese/estorte). Lo stupore cresce a dismisura quando, dopo 10 minuti di viaggio in treno, la hostess ci invita ad andare nella carrozza panoramic per godere dello spettacolo di danza! Uno spettacolo in treno davvero non me lo aspettavo, ma anche questo è Perù. Ci offrono una birra (7 euro, un prezzo folle) alle 8 del mattino e poi ci riaccompagnano nella nostra carrozza, dove riceveremo uno snack con biscotti e barretta di quinoa e un caffè. Il treno si ferma ad Aguas Calientes, paesino circondato dalle montagne che è semplicemente il punto di accesso a Machu Picchu. Qui tutto costa il triplo e ogni cosa è univocamente rivolta al turismo (e non potrebbe che essere così).

Dopo un giro tra i ponti di queste Aguas che tutto sembrano tranne che calientes arriva sfrecciando un bus che, fatta inversione tirando il freno a mano, ci accompagna sicuro tra tornanti a strapiombo e stradine striminzite. Dopo la prima curva decido che è meglio non guardare in basso e mi godo la vista delle montagne gigantesche che ci circondano. E non è un caso: Machu Picchu è stata costruita nel centro di queste montagne per non essere vista dagli spagnoli ed essere così sottratta alle loro razzie. E infatti, finita l’era Inca, ci sono voluti secoli prima che un archeologo vi si imbattesse, peraltro cercando altro, e quindi per secoli è rimasta sconosciuta.

All’arrivo a Machu Picchu sono ormai le 11 e il sito è pieno di turisti. La nostra guida ci attende in cima e ci accompagna lesta attraverso i controlli (è richiesto il passaporto, come anche per l’escursione alle Ballestas e per quella alle Montagne Arcobaleno). Dopo alcuni scalini notiamo gente distesa sul prato, quasi in attesa di un cantante a un concerto. Ben presto scopriremo perché: i mattinieri non hanno ancora potuto vedere il sito dall’alto, a causa della foschia che si alza solo al nostro arrivo (!).

La foto ricordo con vista Machu Picchu è d’obbligo, nessuno si senta superiore a questo. Ciò che ci stupisce è scoprire, poi, che alle nostre spalle si erge una montagna che ricorda il profilo di un indiano d’America: naso, mento, bocca e addirittura la fascia intorno ai capelli (nella foto sotto, il mento è sulla sinistra e il naso è facilmente visibile nella cima più alta).

La guida ci spiega con passione come siano stati incredibili gli Inca a costruire questa città con tecniche innovative, un sistema di acquedotto moderno, dei finti archi e fessure a sostegno della muratura. Io, alla scoperta che siamo nel XV secolo, scavo nella mia ignoranza pensando alle Piramidi e alle città greche e romane, costruite molti secoli (o millenni) prima. Mi viene in mente, però, che qui siamo in un mondo isolato e capisco che gli Inca sono stati innovatori in un mondo in cui non ci si poteva di certo giovare di influenze e scoperte fatte in mondi di cui reciprocamente era ignorata l’esistenza. E in ogni caso, un dubbio resta: come cavolo sono riusciti a costruire questa città in mezzo alle montagne, con massi che pesano quintali? (hanno usato massi a km zero, lo so, ma come li hanno spostati e lavorati?).

Machu Picchu è conservata benissimo e si comprende chiaramente la disposizione della città: le autorità civili e religiose vicine, il tempio che viene attraversato due volte al giorno dalla luce del sole, l’altare su cui si mettono le vittime sacrificali per invocare il Condor (che è il punto di incontro tra il cielo e la terra), l’acquedotto che porta l’acqua alle abitazioni dei notabili, un campo destinato al gioco. Mentre la nostra guida ci spiega la destinazione di ogni stanza, spesso avvalendosi di un book fotografico che ci mostra le scene dall’alto o ricostruzioni, camminiamo nella storia e impariamo tantissimo sugli Inca che erano fino a quel momento poco più che sconosciuti. La cosa che mi colpisce è l’idea pragmatica del matrimonio: ci si sposa dichiaratamente per convenienza, la città è tenuta a sostenere ed aiutare gli sposi, ma il matrimonio può finire se non è più conveniente per scelta dell’uomo o della donna. Se questo non è essere innovativi.

Per arrivare a Machu Picchu potete scegliere, se la pazzia vi accompagna, di camminare lungo il tragitto Inca per circa 4 giorni, dormendo in tenda. Ho letto vari blog di viaggiatori che hanno fatto almeno una parte di questo percorso e ne ho visti diversi per strada. Noi ovviamente, anche se avessimo avuto tempo, non ci avremmo mai pensato. Sempre a Machu Picchu potete unire la salite a un Monte che vi si affaccia, con poche ore di escursione in più. Noi – che già così avevamo il tempo di riposo ridotto al minimo – abbiamo evitato. Nel tragitto di ritorno, in treno, la hostess si trasforma in modella e inizia una sfilata di cappotti e maglioni/mantelle in baby alpaca. La qualità è elevata, si vede, ma anche i prezzi lo sono. Il ragazzo cerca di convincermi in varie lingue che solo su quel treno potrò trovare cose di quella qualità, ma la tenacia mi premierà e a Cusco troverò il negozio con la stessa marca, a prezzi più bassi. La qualità però è davvero più alta della media. Moltissimi negozi spacciano il misto non so cosa per 100% baby alpaca, ma la morbidezza di quei teneroni la riconoscerete subito, quando la troverete.

Il rientro a Cusco è intorno alle 19 e la giornata è durata un’infinità. Ceniamo nel ristorante Cicciolina, ristorante gourmet dove consumo forse la prima cena decente del viaggio (non è un paese per vegetariani, anche se si dice il contrario). Poco dopo arriva il sonno catatonico, la sveglia suonerà alle 3:30!

La montagna arcobaleno, da sola, vale il viaggio

vinicunca

Quinto giorno di viaggio, quinto giorno in cui facciamo colazione para llevar perché usciamo troppo presto, con prelievo alle 4 del mattino! Il jet lag verso Ovest aiuta, ma Lele inizia a guardarmi con risentimento, forse sperava di dormire un po’ di più! La domanda vi sarà venuta spontanea: cosa porta i turisti a svegliarsi in piena notte in un periodo di vacanza, a parte la pazzia da Mal de Altura? Guardate le immagini e capirete. Vinicunca non è ancora così conosciuta perché fino a qualche anno fa un meraviglioso ghiacciaio la copriva e nella zona si andava solo per vedere, appunto, il ghiacciaio. Adesso invece la stessa Lonely Planet ha posto questa montagna variopinta come copertina della guida del Perù e certamente per me è la cosa più particolare vista in un luogo comunque estremamente vario.

L’arrivo non è agevole. Da Cusco ci vogliono due ore di autostrada e un’ora di strada sterrata vulcanica lungo la quale Lele ha continuato a dire “è impossibile che non foriamo” e “ora foriamo”. Nel mezzo, la nostra escursione prevede una colazione in un locale peruviano, molto spartana, con self service da ciotole con riso, quinoa calda, uova strapazzate, carne e pane raffermo. Una colazione davvero gustosa, forse perché è la prima che facciamo da seduti a tavola. Il percorso su strada sterrata da mal d’auto è comunque niente in confronto a quello che si farà a piedi: 3.5 km di salita, per arrivare da 4500 a 5200 m s.l.m.. Ve lo dico: 3.5 km in pianura per noi sono niente, siamo (eravamo, meglio dire) podisti. Ma a quell’altezza la mancanza di ossigeno è fortissima. Per fortuna eravamo alla terza notte a Cusco e quindi il corpo si era un po’ ambientato (non avevamo altri giorni per ambientarci un po’ di più), ma l’arrivo in cima è stato un’impresa. Per chi non se la sente, ci sono cavalli da noleggiare in loco per pochi soles. Noi abbiamo deciso di sfidare il mal di montagna e di salire, ma non è un tragitto per tutti.

La nostra guida – armata di bombola di ossigeno – ci dà foglie di coca (i denti ci sono diventati verdi per quante ne abbiamo masticate) e ci fa annusare l’agua florida che effettivamente ci aiuta a non avere le visioni. A questo punto una precisazione è d’obbligo: la montagna è colorata davvero e lo si vede dalle foto, non sono la coca e l’assenza di ossigeno a dare l’illusione!

Dopo aver faticosamente percorso gli ultimi scalini del tragitto, tra gente stesa per terra e persone con l’ossigeno, ci troviamo davanti questo miracolo della natura: una montagna con 7 colori stratificati perfettamente, la cui variazione cromatica dipende dall’ossidazione di minerali e la cui disposizione si può spiegare con la tettonica delle placche. Io all’arrivo ho quasi perso conoscenza per la mancanza di ossigeno (forse avrei dovuto fare più soste) e una botta di vento gelido mi ha procurato un fortissimo mal di testa (mi si vede nelle foto passare dalle maniche corte al piumino con cappello di lana). Il ricordo che ho è però solo di estasi, di meraviglia, di emozione e di stupore. Ne vale davvero davvero la pena. Vinicunca non è solo la montagna: di fronte si trova un grande ghiacciaio (non pensavo ci potessero essere a queste latitudini) e nelle vicinanze c’è una valle rossa dentro cui scorre un fiume rosso, il cui sentiero si vede distintamente anche dalla Rainbow Mountain. Inoltre la valle è colorata e ricca, tanto che un po’ più giù si fanno dei giri in Dune Buggy per ammirare il panorama.

La cosa che vi stupirà – mentre cercate ossigeno invocando anche le divinità Inca – è che la gente del luogo corre accanto ai cavalli come se stesse in pianura di fronte all’oceano. Vi sono infatti dei popoli che vivono in paesini rurali che si incontrano per strada, con le case di fango e paglia o di lamiera, dove non esistono praticamente auto (molti si spostano in autostop) ed è facile incontrare lama e alpaca che girano liberi a mo’ di cani randagi. I bambini sono insieme ai genitori a vendere snack e bevande e guardano i turisti con occhioni neri che non hanno mai visto altro che quelle montagne. Non si ha mai l’impressione che gli manchi qualcosa e forse è solo ai nostri occhi che sembrano privi di tanto (quanto meno, di un letto caldo e confortevole e di una adeguata varietà di cibo).

Con la Montagna dei Sette colori si chiude il nostro ciclo di sveglie al buio. Il corpo non ce la fa più. Il cuore è felice, gli occhi sono pieni di meraviglia, ma l’altura e le levatacce esigono una tregua. Al rientro dormiamo nel nostro kingsize xxl, beviamo mate de coca e andiamo a mangiare la seconda pizza della vacanza (il cibo peruviano è buonissimo se si mangiano carne e pesce, altrimenti è fatto spesso di verdure saltate, riso e quinoa e dopo un po’ stanca).

Il quarto giorno lo dedichiamo all’esplorazione di Cusco, ai bagagli (abbiamo fatto due bucati in tutto, visto che siamo partiti con uno zaino e abbiamo bisogno di abiti puliti), alla calma. Il quarto giorno a Cusco abbiamo anche scoperto quant’era buona la colazione che abbiamo perso finora… ma non abbiamo decisamente nessun rimpianto.

Il più alto lago navigabile al mondo si trova in Perù

titicaca

Per arrivare a Puno scegliamo di avvalerci dei celebri bus peruviani, visto che è quello il mezzo di trasporto più usato. Io avevo pensato a una Marozzi, ma mi sono ritrovata con un sedile reclinabile a 180 gradi, una tendina per la privacy, il poggia piedi e un ampio cuscino. Di fatto le poltrone della business class degli aerei, pagate però in questo caso 24 euro a testa. Questo comodissimo bus a due piani ci porta nottetempo da Cusco a Puno. Il viaggio su gomma rende agevole l’adattamento all’altitudine e questo è certamente un vantaggio (so che molti hanno sofferto di mal di montagna anche a Puno). A Puno arriviamo, pensate un po’, alle 5 del mattino. L’esperienza di Lima ci ha però insegnato a prenotare anche la notta precedente l’arrivo, per cui alle 5 abbiamo una comodissima camera ad attenderci e riusciamo anche a fare colazione da seduti. Alle 9 (non ci sembra vero) viene a prenderci la nostra guida per l’escursione peggiore della vacanza: le Islas Flotantes degli Uros. Non posso dire che la mia amica Giulia non mi avesse avvisata, ma non sono riuscita – nonostante gli sforzi estremi – a inserire una notte nell‘isola Amantani e le pile erano troppo scariche per fare trekking. Inoltre ero curiosa di camminare su un’isola galleggiante.

Storicamente gli Uros sono scesi sul Lago Titicaca – il lago navigabile più alto del mondo – per sfuggire agli invasori. Al principio hanno vissuto sulle barche, cibandosi con il pesce pescato, e col tempo hanno unito le barche tra loro sfruttando le canne di totora onnipresenti, estremamente adatte a galleggiare. Alla fine hanno unito blocchi di canne per creare delle piccole isole, dove venivano ospitate poche unità o decine di famiglie, nominando un capo che cambiava di anno in anno e ruotava indifferentemente tra gli uomini e le donne. Il cibo era procurato con la pesca o il baratto e le donne provvedevano a tessere gli abiti e a cucinare. Se la storia è interessante e singolare, la pantomima che viene oggi offerta ai turisti è frustrante. La guida afferma che gli Uros vivono ancora sull’isola, ci dice che parlano aymara e quechua (non la marca del Decathlon) e ci insegna a dare il benvenuto in lingua locale. Al nostro arrivo, ci viene presentato il presunto capo dell’isola, che ci illustra la storia delle isole galleggianti e ci dice di contribuire all’economia non con le propinas, ma acquistando artigianato locale. Alla fine della lezione di storia prospettata come storia del presente, una presunta abitante del luogo ci mostra la capanna in cui dovrebbe vivere con 6 figli e un marito. Si capisce immediatamente che nella capanna non abita nessuno, perché dentro ci sono solo cose da vendere, in nessun punto si trovano una cucina o un fuoco acceso e non ci sono panni stesi o cibi messi da parte. Tutto è costruito come trappola per turisti e io e Lele andiamo via col sapore amaro di aver perso tempo. Se ci avessero detto che era una rappresentazione di ciò che fu, forse ci sarebbe piaciuto.

Puno probabilmente percepisce la nostra delusione e, da vera capitale del folklore peruviano, ci ripaga con una parata che chiude la settimana di festeggiamenti per celebrare l’anniversario della fondazione della città. Dimenticate le parate del Ringraziamento o altre che potete aver visto altrove: qui parliamo di oltre 9 ore di parata senza sosta, in cui dai bambini di 3 anni agli adulti, tutti sono chiamati – in ordine di età – a ballare in abiti coloratissimi, mentre coetanei battono su tamburi e tamburelli. Dalle 12 finché non siamo andati a dormire abbiamo visto sempre e solo gente che ballava e rideva. Intorno, la gente del posto osservava la parata seduta su sgabelli portati da casa e mangiando il pranzo/la cena homemade: uno spettacolo a costo zero infinitamente partecipato da gente di ogni età. Noi abbiamo pranzato, abbiamo fatto il riposino, siamo saliti fino al Mirador del Puma, abbiamo fatto la doccia, abbiamo cenato, abbiamo fatto un ultimo giro e infine ci siamo arresi al sonno, senza che mai la parata mostrasse l’intenzione di finire. La mattina dopo, alle 6, la città dormiva beata.

Puno si visita come punto di accesso al Lago Titicaca e in effetti una notte è più che sufficiente. Per vedere il tramonto andiamo con il taxi (gli scalini a quell’altitudine sono letali, soprattutto se sono infiniti) al Mirador del Condor. L’area intorno è però poco rassicurante, decisamente povera e con strade sterrate e dissestate che ci fanno infine desistere (il taxi non è riuscito a fare la salita finale). Convinti dal tassista, ci spostiamo dall’altra parte della città, al Mirador del Puma. Qui troviamo un parco con giochini a tema, un Puma, un Serpente e un Condor di grandi dimensioni e una stazione di polizia all’ingresso (i dubbi sulla sicurezza dell’altro Mirador erano dunque più che fondati). Il tassista ci accompagna, ci fa le foto, ci spiega un po’ della vita della città e ci ha riporta al centro. Dall’alto, il Titicaca mostra solo uno dei suoi lati e non dà l’idea della sua vastità. Da lassù, ad ogni modo, ci godiamo un break dal rumore incessante dei tamburi. Da Puno prendiamo un taxi che ci ha portati alla vicina Juliaca, città culla dei commerci e sede dell’aeroporto più vicino. L’autostrada per arrivarci è a doppia corsia, ma a distanza ravvicinata ci sono dossi alti che costringono a rallentare. Ai margini della strada donne e uomini fanno l’autostop e lama e cavalli pascolano nella vicina campagna senza barriere. Insomma, un’autostrada peruviana, non c’è che dire.

Da Juliaca i voli portano tutti a un solo destino: Lima. E quindi prendiamo un primo volo Latam con destino Lima e poi da Lima un volo Skyairlines verso Iquitos e alla discesa dell’areo sorvoliamo una distesa verde infinita attraversata da un fiume a serpentina che dall’alto sembra imponente: siamo arrivati in Amazzonia.

Iquitos e il Rio delle Amazzoni: un Perù completamente diverso

iquitos

Quando ho scoperto che tra le mete potenziali del Perù c’era la foresta amazzonica, non ho avuto nessun dubbio e ho trovato un modo per inserirla nel già fitto itinerario. Ho sacrificato Arequipa e non me ne pento affatto. Arrivare dal confine sud a quello nord del Perù ha richiesto quasi 4 ore di volo oltre allo scalo e agli spostamenti, ma all’arrivo ho avuto l’impressione di aver cambiato Stato e probabilmente anche epoca storica.

Iquitos non è raggiungibile via terra e fino all’apertura dell’aeroporto il solo modo per arrivarci era la navigazione di giorni sul Rio delle Amazzoni. Questo isolamento geografico ha favorito un’arretratezza nello sviluppo che è tangibile fin dal primo minuto: in aeroporto i tassisti arrivano fino al nastro dei bagagli e le pochissime auto presenti sono prive di aria condizionata (in un posto in cui il caldo torrido la fa da padrone assoluto). Ovunque sfrecciano i motocarri dietro i quali campeggiano trolley giganti di turisti (pochi, pochissimi) che sperano di arrivare vivi alla meta. Le case sono prive di intonaco e di finestre o a volte hanno solo il soffitto; le terrazze non hanno parapetto; uno scooter ospita comodamente anche una famiglia; le bancarelle di pollo fritto esposto ai fumi tossici dei mezzi sono un po’ ovunque. L’afa è tremenda, ma l’aria condizionata è un vero lusso.

Arriviamo a Iquitos poco prima del tramonto e subito ci dirigiamo verso il Rio delle Amazzoni, dove dopo 3 minuti siamo avvicinati da un uomo che si offre di farci un giro con la barca. Accettiamo fiduciosi e ci addentriamo sul fiume, mentre trampolieri che non so identificare volano al suono del motore e i pesci ci nuotano accanto. L’acqua è marrone, ma vediamo solo il riflesso arancione del sole. Il mondo si ferma un attimo: niente più mal di montagna, colori sgargianti, vero finto alpaca, foglie di coca, siamo in un altro universo. La mattina dopo alle 9 (orari umani, signori!) la nostra guida ci preleva dall’hotel dopo una colazione a base di uova strapazzate ripiene di ogni specie di vegetale e ci porta, attraverso un ponte di barche e rottami, sull’imbarcazione che ci condurrà per il Rio. L’escursione prenotata dall’Italia è costata 90 euro a persona e solo una volta sul posto ci rendiamo conto di quanto sia cara. Ma viaggiare con il tempo ridotto impone qualche investimento sbagliato, pazienza.

La nostra guida, Christian, passerà con noi tutto il tempo della nostra permanenza a Iquitos e sarà per me una delle esperienze più interessanti del viaggio. Christian ha 33 anni, una figlia, una moglie e un suocero che vive con loro. Ci conduce come guida di un’agenzia che ho trovato online, ma ha aperto una sua agenzia (Pirana Tours) che spera un giorno possa diventare competitiva. Dice di parlare l’inglese, ma dopo poche parole preferisco seguire il suo spagnolo (lo capisco molto bene, dopo così tanti viaggi anche dalle mie nipotine spagnole) e di avvalermi di Lele per le preguntas. Christian non sa dell’esistenza di Amazon, non sa cosa sia Google Photos, non ha l’elettricità né l’acqua corrente e non ne sente la mancanza perché non sa che al di là dell’Amazzonia esiste un mondo in cui tutto ciò è considerato scontato. Christian ci dice orgoglioso che vive nel quartiere di Belén, “la Venezia dell’Amazzonia”, e accetta volentieri di accompagnarci con la sua barca a visitare questa Venezia peruviana al tramonto, dopo la fine del tour prenotato dall’Italia.

Belén, la Venezia dell’Amazzonia

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Belén non ricorda Venezia in alcun modo, per uno che ci è stato, ma Christian non lo sa e io non ho il coraggio di dirglielo. Mostra con orgoglio le case costruite sulle zattere, pronte a seguire l’innalzarsi del fiume (a patto di aver fatto la manutenzione, ché altrimenti si affonda), le palafitte (si vive in alto durante la secca e ci si sposta ancora più alto in caso di piena, con case che durano al massimo 10 anni) e il bar galleggiante da cui esce un uomo in pigiama che ci allunga una birra dalla sua cucina. Noto che delle donne lavano i bambini nell’acqua del fiume (marrone) e Christian mi spiega felice che persone e abiti si lavano nel fiume. A quel punto Lele gli dice che io mi lamento delle lavatrici che ho da fare a casa (Lele spesso mi dice “non è che i panni stai andando a lavarli al fiume…”) e Christian mi risponde che lì la lavadora è manual. Sorride quando gli dico dell’asciugatrice, che probabilmente non avrebbe mai pensato potesse servire a qualcuno, visto che vive in un posto in cui il sole picchia così forte che le magliette si stendono una sopra l’altra, in gruppi di 5/6.

In Amazzonia si crede molto nel potere curativo delle piante e le prescrizioni mediche sono date dagli sciamani. Christian ci spiega le proprietà curative di alcuni alberi, ci racconta di come la madre metta a bollire foglie varie se ha un colpo di calore o mal di pancia e ci racconta dei finti sciamani che intossicano le persone. Nei suoi racconti ci parla di quando ha visto la sirena del Rio (una corona grande contornata di capelli lunghissimi che gli ha fatto pescare un sacco di pesci), della volta che lui e il suocero hanno visto il fantasma delle Amazzoni (“sono stato attraversato da un vento gelido e ho capito che era il fantasma”, ci ha detto il suocero in uno spagnolo stentato), dello gnomo dai piedi grandi che può assumere le sembianze di un albero o un animale e può farti perdere nella foresta … ma è quando parla di come ha ucciso un ghepardo, nelle numerose contraddizioni del racconto, che gli chiedo se per caso usi quelle piante allucinogene di cui ho sentito parlare e se per caso queste visioni non trovino la loro origine in un’allucinazione. Lui sorride, giura che è tutto vero e resta fermo nelle certezze incrollabili di chi non è mai uscito da un mondo isolato, mentre nella mia testa si apre una voragine di domande senza risposta e le mie poche certezze vacillano tutte insieme.

La domanda che ci facciamo Lele ed io e che molti mi hanno fatto sentendo questo racconto è se la gente che vive lì sia più felice di noi, non sapendo cosa le manca. L’abbiamo chiesto a Christian, che ci ha risposto che dipende dalle famiglie: ce ne sono di felici e di tristi come in tutto il mondo…e in fondo si sa che tutte le famiglie felici si somigliano (parafrasando un po’). Io alla fine mi sono risposta che in fondo non tutti sono felici: Christian sente il bisogno di dirci che ha ucciso un ghepardo e che ha una pistola; al mercato di Belén i turisti vengono spesso derubati di cellulari che la gente del posto non può comprarsi; l’isolamento è ormai scomparso e i turisti, anche se sono pochissimi, mostrano un mondo diverso che necessariamente deve sembrargli più comodo e sicuro (non avrei mai il coraggio di dire alla moglie di Christian che qui abbiamo lavatrici e asciugatrici).

Ma parliamo ancora di Belèn, questo quartiere sul fiume che segue il corso dell’acqua e vive in base a esso. Belén è sporca, piena di rifiuti aggrediti dagli uccelli (topi non se ne vedono: li mangiano!), pullulante di gente in mille faccende affaccendata, dove qualsiasi cosa è in vendita. Al mercato di Belén ci rechiamo alle 8 sotto la guida di Christian (per evitare o almeno ridurre il pericolo di essere borseggiati… anche a Christian hanno da poco rubato il cellulare) e il mercato è già attivo da ore. Qui si vendono animali di ogni tipo, ovviamente a km zero: a parte il pollo, i pesci di varie forme e colori, animali acquatici che non so definire, troviamo gli alligatori e, udite udite, le tartarughe (quando ho detto a Christian che le ho nel giardino deve aver pensato a un allevamento, visto che mi mostra felice le zampe e la testa di una tartaruga pronte per il brodino). Al mercato si trovano anche frutta, verdura, spezie, foglie, intrugli che servono come medicinali (Christian si attarda a lungo davanti agli afrodisiaci, convinto forse che possano attirarci), pezzetti di carbone, utensili, stoviglie, tutto ammassato senza nessuna regola igienica e organizzativa. Il mercato è così lungo e pieno di bancarelle che mi chiedo se esista qualcuno che si limita a comprare senza vendere qualcosa. Alla fine del mercato, in un parcheggio pieno di rifiuti, un motocarro ci riporta al nostro hotel, passando da una strada in cui, dopo qualche centinaio di metri, compaiono negozi che vendono TV e cellulari: nel quartiere ricco c’è qualcuno che ha l’elettricità e addirittura la TV.

La navigazione sul Rio delle Amazzoni

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Nel parlare dell’Amazzonia sono partita da Christian, non solo perché lo abbiamo di fatto preso come guida per tutto il tempo che siamo stati lì, ma soprattutto perché parlare con lui ci ha aperto un mondo di riflessioni e scoperte. In realtà la nostra prima esperienza con lui è stata, come scrivevo, di navigazione sul Rio delle Amazzoni, alla scoperta di villaggi locali e animali. Non abbiamo fatto escursioni interne (non avevamo tempo né preparazione adatta) e ciò che abbiamo visto è stato un assaggio minuscolo ma significativo. Tralasciamo la prima sosta (un centro faunistico dove abbiamo visto pappagalli, alligatori, pesci tipo carpe delle dimensioni di draghi, tartarughe d’acqua, le ninfee Victoria cui le foto non rendono giustizia) e passiamo alla seconda, molto più interessante.

Qui siamo in un villaggio di indigeni che vivono realmente al centro della foresta, a circa un’ora e mezzo di navigazione dalla città (via terra non è fattibile), dove l’elettricità è data (2 ore al giorno) da minuscoli pannelli solari attaccati a ogni casa. I bambini vanno a scuola a piedi, liberi, e si incontra un solo negozietto che vende probabilmente solo ai visitatori (ho l’idea che lì si mangi solo ciò che si produce/coltiva). Camminando per 15 minuti arriviamo davanti a un albero alto 70 metri, dal tronco immenso, primo accenno a una vegetazione dominante che abbiamo visto solo dall’alto.

Navigando ancora un po’ arriviamo in un altro centro per turisti aperto in un villaggio locale e lì conosco il secondo dei miei amori peruviani: il bradipo. Io non avevo idea che il bradipo fosse un incredibile abbraccione dai capelli a parrucchino, con gli occhi sorridenti, le unghie spaventose a cui non si bada e un bisogno essenziale di abbracciare qualcuno o qualcosa. Così quando il cucciolo di bradipo offertomi da una ragazza mi si è attaccato al petto non ho potuto che innamorarmene… e ancora adesso credo che un bradipo nel mio giardino lo terrei volentieri, se lui volesse starci.

In questo centro facciamo amicizia con simpaticissime scimmie che si arrampicano su Lele per prendergli il cibo, tenendosi a volte anche solo con la coda, e con un’anaconda da cui accetto di farmi abbracciare dopo aver visto che è priva di vita e probabilmente satolla. Non sono animali liberi, certo, ma chi di noi sarebbe mai andato nella giungla a cercare anaconde e scimmie fameliche? è certamente il massimo che possiamo permetterci. Al ritorno avvistiamo la pinna di un delfino rosa e così possiamo dire che il nostro stupore per il Rio delle Amazzoni raggiunge l’apoteosi.

L’Amazzonia è il polmone verde del mondo, ma i suoi abitanti probabilmente non lo sanno. La nostra è un’esperienza limitatissima e non voglio che esprimere una considerazione personale basata sul nulla, ma l’impressione è che neppure sappiano dell’emergenza climatica globale (Christian sa solo che quest’anno ha avuto più caldo del solito) e non abbiano le informazioni e la cultura necessarie a capire l’importanza di rispettare l’ambiente. Abbiamo visto incendiare tronchi per fare strada alle barche e ci hanno detto che è del tutto normale. I rifiuti sono buttati ai margini delle strade e lasciati a marcire al sole, forse in attesa che la piena del fiume li spinga altrove. La foresta viene erosa per fare spazio alle coltivazioni del riso e all’allevamento e nessuno sembra in grado di pensare ad altro che alla sopravvivenza immediata. L’isolamento è anche questo: non comprendere l’importanza globale di ciò che si ha.

Cosa ti lascia il Perù

Questo racconto così lungo è l’estrema sintesi di 10 giorni di viaggio, con 10 voli e un bus presi e uno Stato attraversato da nord a sud. Come spero di aver fatto capire, il Perù è vario e nasconde in sé mondi diversissimi tra loro: si pensi solo ai dog-sitter di Miraflores e ai topi che vengono mangiati a Iquitos. I peruviani sono sorridenti, accoglienti, colorati, festosi, in alcune cose ancora arretrati. Il divario tra i ricchi e i poveri si percepisce con nettezza e la divisione tra peruviani e turisti è data dai prezzi: nei ristoranti “turistici” non ho mai incontrato nessun peruviano. Il clima è vario così come il paesaggio. Il costo medio è basso per un europeo, anche se molte cose hanno tariffe “per turisti” che non sono proponibili ai locali. È difficile individuare una tipologia di peruviano tipico, perché i loro tratti somatici e lo stesso colore della pelle sono molto diversi. È un paese che racconta di dominazioni spagnole, grandi civiltà antiche, cultura e storia. Il cibo è molto buono per gli onnivori (carne di alpaca e ceviche in primis), ma per i vegetariani dopo un po’ si fa fatica ad andare avanti. Infine, abbiamo incontrato pochissimi italiani: forse da noi non è ancora abbastanza conosciuto e questo deve farvelo piazzare tra le prime mete da visitare.

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