Viaggio di nozze low cost in Turchia

Due settimane tra Istanbul, la Cappadocia, l'Anatolia Sud-Orientale e il Mar Nero, raccontata con un pizzico di humour e di leggerezza
Scritto da: hugh.79
viaggio di nozze low cost in turchia
Partenza il: 25/06/2013
Ritorno il: 10/07/2013
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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E fu a coronamento di una delle più incredibili e inaspettate storie d’amore mai raccontate, che alla fine io e Mels tornammo insieme. Ci sposammo in un casale disperso tra le fauci dell’Appennino Tosco-Emiliano il 22 Giugno 2013, un caldo giorno d’estate, tra pochi cari amici e le nostre famiglie. Quello che segue è il racconto del nostro viaggio di nozze.

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Tra le tante mete che avremmo amato vedere, alla fine abbiamo scelto la Turchia, anche e come solitamente accade, per scendere a compromessi coi nostri sogni. Un posto alla portata delle nostre tasche che ci permettesse di continuare ad inseguire i tanti altri progetti nascosti nel cassetto. I progetti di una famiglia che stava nascendo.

L’idea di fondo prima della partenza era quella di lasciare al caso un ampio insieme di decisioni. Località, sistemazioni, itinerari e pasti. Scegliamo così di prenotare soltanto le prime 3 notti ad Istanbul, e l’andata/ritorno da e per Bologna, con in più 2 voli interni per coprire le amplissime distanze del paese. Un volo da Istanbul a Kayseri, e uno da Trabzon per tornare ad Istanbul. Tutto il resto, decidiamo di stabilirlo sul posto.

Partiamo nel tardo pomeriggio di martedì 25 Giugno da Bologna alla volta dell’aeroporto Ataturk di Istanbul. Durante il volo, ci sorprende l’accoglienza del personale della Turkish Airlines. Arrivano tanti bei pasti caldi tipici, richiamo alla cucina turca, ma a me e Mels – che avevamo voluto fare i fighi al check-in on line – rifilano rispettivamente, come ordinato, due penosi menù: solo frutta e per intolleranti al lattosio. La consolazione al nostro spirito autolesionistico sono unicamente i “Turkish delights”, serviti come dessert a tutti i passeggeri (per fortuna) indipendentemente dalle prenotazioni.

All’arrivo a Istanbul la fila al controllo passaporti è infinita… oltre un’ora in coda in attesa della timbratura del passaporto da parte degli ufficiali doganali. Rimaniamo bloccati in aeroporto fino alla mezzanotte inoltrata. Fuori dai gates di arrivo, ci attende paziente l’autista del Saruhan Hotel il quale, a passo tranquillo, ci guida in città tra le sfavillanti luci della modernissima autostrada aeroporto-centro. Il Saruhan Hotel è una piccola e graziosa struttura alle porte del quartiere Sultanahmet, a poche centinaia di metri dalla Moschea Blu ed Haghia Sophia, con vista sul mare al di là della tangenziale. Un piccolo campo da calcetto di fronte all’Hotel lo rende più “familiare”, facendolo quasi sembrare l’ostello del quartiere. Ci corichiamo a notte inoltrata, stanchi ma pronti per godere delle bellezze di Istanbul nei 2 giorni successivi. [OMISSIS].

Ci svegliamo relativamente presto il mattino successivo, per cercare di sfruttare al massimo le 2 giornate ad Istanbul. La colazione al Saruhan Hotel è molto gradevole e tipica, e la collocazione sul terrazzo ci permette di godere di una bellissima vista su tetti e comignoli del quartiere popolare di Sultanahmet. Ricopro il piatto con salamini di pollo, galbanino turco, uovo sodo, burro di arachidi e pane caldo, ed accompagno il tutto con l’immancabile thé caldo. Piccioni e pellicani si accovacciano tra i tetti minacciando i nostri piatti. Mi godo la disputa, a tratti verbale, tra mia moglie – terrorizzata da sempre da qualsiasi forma di volatile – e un pellicano che non vuole saperne di allontanarsi dai nostri pressi. Ci incuneiamo tra le stradine di Sultanahmet, cartina del centro storico alla mano. A poche centinaia di metri dal nostro albergo c’è un grazioso parchetto con una grande fontana nel mezzo, dove le donne giocano coi loro bimbi; la prima impressione che ci trasmette la Turchia è un’immagine di serenità. Ci dirigiamo verso la Punta del Serraglio dove troneggia l’immenso Palazzo di Topkapi, fatto costruire nel XV secolo dall’imperatore ottomano Mehmet II e sede, per 400 anni, dei sultani e delle donne dell’Harem. La visita del palazzo, che si compone di 4 ampi cortili di cui 1 esterno e 3 interni alle mura, nonché di svariate costruzioni al proprio interno, impegna tutta la nostra mattinata. Il primo cortile fuori dal palazzo ospita la bella chiesa di Haghia Eirene. Passeggiando arriviamo alla Porta dei Saluti, che comunica col secondo cortile e rappresenta il vero e proprio ingresso al Palazzo di Topkapi. Visitiamo la Sala del Divano, dove si riunivano i Visir del Consiglio Imperiale, e la vasta esposizione di armi ed abiti da guerra ottomani.

Entriamo poi nel famoso Harem, complesso di appartamenti che a suo tempo accoglieva oltre 1.000 schiave, reclutate da tutto il regno, per la loro bellezza e intelligenza, e il cui sogno era quello di essere scelte come predilette dal Sultano e dargli un figlio. Un po’ come quello che hanno sempre sognato le donne mie pretendenti, prima che io scegliessi la via dell’amore eterno e decidessi di sposare la donna più meravigliosa che avessi mai visto sulla faccia di questa Terra, mia moglie. L’Harem ha delle pareti con decorazioni molto belle, tra forme architettoniche arabeggianti e stanze completamente rivestite di tappeti persiani. Usciamo dall’Harem ed attraversiamo il terzo ed il quarto cortile. Il Padiglione Baghdad, quello della Circoncisione e quello del Sacro Manto. Un’immensa fila attende al caldo di entrare a visitare il Tesoro. Noi decidiamo di abdicare e di uscire dal Palazzo per andare a mangiare qualcosa. Ci dirigiamo a piedi verso la zona di Kumkapi, dove persone del luogo ci hanno consigliato l’assaggio di ottimo pesce. Wi-Fi dovunque, condivido un pò di foto coi miei amici mentre attendiamo le pietanze. Il pesce è buono, ma il menù si rivela abbastanza salato: la zona dei ristoranti è prettamente turistica e gli operatori, collaborando spalla a spalla, fanno in modo di mantenere i prezzi al livello di una qualsiasi altra città turistica europea. A fine pasto ordino un amaro “Yeni Raki” (simile alla nostra Sambuca) e il conto decolla: l’alcool è carissimo e arriva ad essere tassato fino al 400% per scoraggiarne il consumo. Cerco il bagno per metabolizzare la mia amarezza: qui anche nei locali pubblici di buon livello si fa fatica a trovare un adeguato livello di pulizia delle toilettes, e c’è questa strana pretesa – scritta anche nel bagno dell’Hotel – che invita i turisti a non buttare la carta nel w.c. ma nei secchi al loro fianco. E le mosche ringraziano. Ci dirigiamo verso il quartiere dei bazaar, che rappresenta il folkloristico teatro del nostro pomeriggio. Un’esplosione di colori. Migliaia di negozietti tra una miriade di viette coperte; tappeti persiani, tessuti, gioielli, dolci e spezie. Mia moglie è un’animale da shopping… entrando in questi posti io tremo nella misura in cui lei si esalta, tanto più quando questi negozianti assalitori fiutano la preda come delle iene e la attirano nella loro trama… “Good afternoon my friends, how can I get your money?” ma oggi ce la caviamo con un pacchettino di Turkish Delights, dolci tipici, ed una graziosa pashmina. Tornando verso l’Hotel passeggiamo nell’immensa piazza centrale di Sultanahmet dove, troneggiando, la Moschea Blu e Haghia Sophia – fiere rappresentanti delle rispettive fedi Musulmana e Cristiana, nella loro imponenza si sfidano. Camminiamo tra il chiasso dei turisti per strada e le 5 preghiere quotidiane filodiffuse dagli altoparlanti ad ogni angolo della città. Tra il caldo torrido e me che mangio un pupo arrostito, osservo mia moglie attonita alla vista delle sue coetanee musulmane con il velo indosso e le toghe dai colori scuri, alcune perfino col volto coperto ad eccezione solo degli occhi. Soffre per loro.

Intanto i venditori di tour panoramici sul Bosforo, e qualsiasi altra cosa possa essere venduta, ci assalgono. Riusciamo alla fine, quasi scalciandoli, ad abbandonare la piazza. Tornati all’hotel decido di riporre in borsa il mio cappellino sudista che fa molto turista americano in vacanza in Europa, sperando così di confondere l’avversario con quella mia carnagione da maghrebino e quella barba incolta che – a detta di mia moglie – ricordano tranquillamente le fattezze d’un turco. Una doccia veloce e poi cena tipica in un fast-food locale di terz’ordine dietro all’hotel. Il cameriere che prende le ordinazioni, dal volto al quanto simpatico, sembra essere muto; il titolare parla solo turco. Ordiniamo a gesti polpette al sugo, carne speziata e verdurine varie, oltre all’immancabile riso (odiosamente soffritto nel burro). Ceniamo all’aperto, praticamente in mezzo alla strada, in bocca ai tubi di scappamento del traffico locale. Stavolta spendiamo una miseria. Prima di rientrare in hotel ci godiamo un po’ la tranquillità del parchetto di quartiere. I bimbi giocano e le madri conversano rilassatamente. In hotel mi gusto gli ultimi scampoli della partita di calcetto sul campo in sintetico adiacente alla pensione. I turchi non fanno il fallo laterale ed usano le reti di recinzione come sponda a mo di giocatore aggiunto. Corrono poco – troppo fumo – e piazzano l’attaccante fisso davanti alla porta avversaria. Chiudo le tende e spengo le luci della stanza, finisce il secondo giorno. [OMISSIS].

27 Giugno

La giornata è dedicata alla visita delle due grandi e imponenti opere di Istanbul, la Moschea Blu e la Cattedrale di Haghia Sophia. La prima è una delle più grandi moschee del mondo. Fu fatta erigere agli inizi del XVII secolo dal Sultano Ahmet I, e si caratterizza per le decorazioni in ceramiche blu di Izmit. Ha sei imponenti minareti, e fu considerata – all’epoca in cui venne costruita – un tentativo sacrilego della Costantinopoli ottomana di voler sfidare l’architettura della Mecca. Entrando per la prima volta all’interno di una moschea, ci sorprende questa grande atmosfera di serenità che pervade l’edificio; i fedeli si lavano i piedi presso i lavacri prima e dopo la preghiera. È necessario per gli uomini coprirsi le gambe fin sotto le ginocchia, e per le donne la scollatura del petto ed i capelli, con dei teli. Si entra senza scarpe sui tappeti della sala da preghiera. Le donne pregano in sezioni apposite nelle retrovie, separate dagli uomini da muri fessurati. Ci sono immensi lampadari che giganteggiano sospesi dal tetto a un’altezza molto bassa, quasi a toccare le teste dei fedeli. Osserviamo affascinati i movimenti di culto dei fedeli in preghiera, che si inginocchiano ripetutamente seguendo un rituale prestabilito. Usciamo dalla moschea e ci dirigiamo verso la Cattedrale di Haghia Sophia. Camminando leggo un manualetto per saperne di più sull’Islam. Parola che contempla i significati di “Pace” e “Sottomissione”, l’Islam si fonda sull’unicità di Allah, sugli Angeli senza peccato, e sui Profeti menzionati nel Corano, tra cui Mosè e Gesù. La guida spirituale è il Corano, che sancisce il Destino ed il Decreto Divino di Allah. E infine si fonda sul concetto di Resurrezione dei Giusti tramite il rispetto, durante la vita, dei 5 Pilastri: Shahada (testimonianza della propria fede), Sala (preghiera), Sawn (digiuno nel periodo del Ramadan), Zaka (carità) e Haji (pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita per chi ne abbia le possibilità economiche e fisiche). Haghia Sophia, detta anche la Basilica della Santa Sapienza, non dista moltissimo dalla Moschea Blu. Si trova dall’altra parte di Piazza Sultanahmet, e vi si accede passeggiando per la graziosa vietta Sogukcesme Sokagi, fiancheggiata da casette in legno dipinto. È una tra le più grandi basiliche del mondo. Fu inaugurata nel 537 d.C. dall’imperatore Giustiniano, e trasformata in moschea nel XV secolo dagli Ottomani. La basilica impressiona per la sua imponente navata sotto la cupola, che raggiunge i 56 metri, e per i suoi antichissimi mosaici. Bella anche all’interno la Piazza dell’Incoronazione degli imperatori, e all’esterno i mausolei di Muhrat III e di Mehmet III. Mia moglie rimane sconcertata da Haghia Sophia, mentre io preferisco la Moschea Blu. Il confronto fra le due meraviglie termina dunque in parità: 1-1.

Ci addentriamo nella parte commerciale di Sultanahmet, per fare un po’ di shopping. Chiacchierando con un commerciante di tappeti, salta fuori il discorso del nostro piano di viaggio per la Cappadocia, il giorno successivo. Conosce un amico che ci può aiutare, che organizza piccoli tour in quella zona e a Nemrut con guide specializzate ed english-speaking. Andiamo a farcelo presentare. Si chiama Tuncay ed è molto disponibile, insieme passiamo quasi tutto il pomeriggio a pianificare i cinque giorni successivi. Si fa sera, e dopo essere tornati in hotel a darci una sciacquata ci dirigiamo a piedi verso il quartiere Aksaray dove per cena ci attende un nostro amico, Burak, che gestisce un delizioso ed economico ristorantino chiamato Akdeniz Hatay Sofrasi, in Iskenderpasa Mahallesi Ahmediye Caddesi. Ci godiamo la gustosa cenetta e ci dirigiamo subito verso l’hotel, da dove il mattino seguente alle 4 a.m. in punto inizierà il nostro viaggio verso la Cappadocia. [OMISSIS].

28 Giugno

È l’alba. La città ancora dorme. Ascoltiamo la prima preghiera giornaliera col suo ipnotico richiamo, mentre sulla strada semideserta il furgoncino-shuttle ci conduce verso l’aeroporto. Il check-in è veloce; l’aereo per Kayseri, principale centro urbano della Cappadocia, puntuale. Parte alle 7 in punto, ed in un’ora di volo ci catapulta nel cuore pulsante dell’Anatolia Centrale. All’aeroporto attendiamo un’infinità di tempo per recuperare i bagagli, poi per attendere tutti i componenti del nostro gruppo, e infine affinchè si dirima un’incognita controversia fra l’autista del pulmino e il poliziotto di stanza al gabbiotto delle uscite, che dura più di un’ora. Usciamo dall’aeroporto alle 11 passate. Il nostro gruppo è formato, oltre che da noi due, da una ragazza australiana, da una famiglia di Hong Kong (madre, padre e figlio), da quattro amici malesiani (tre ragazze e un ragazzo), da una ragazza peruviana, una cinese, un brasiliano, e due ragazzi canadesi. Il primo giorno si uniranno a noi anche quattro studentesse uruguaiane neo-laureate, che per otto mesi stanno girando intorno al mondo in una sorta di viaggio-premio. La guida del nostro primo giorno si chiama Emre, giovane studente di Nevsehir, che ha il compito di guidarci nella parte Nord della Cappadocia, anche detta “Terra di meravigliosi cavalli”. Emre ci attende insieme a una parte del gruppo a Cavusin, nel cuore della Cappadocia del Nord. Particolare menzione merita il paesaggio lunare in cui ci s’imbatte attraversando questi luoghi, dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco. In mezzo alle riarse e brulle colline che la delineano, dominano queste rocce in tufo dalle varie forme uniche al mondo, che devono la propria nascita alla solidificazione delle ceneri vulcaniche le quali – più di 30 milioni di anni fa – furono il prodotto della prolungata attività eruttiva del vulcano Erciyes Dagi, ora spento, ed altri vulcani minori della catena che delineava il contrasto tra le placche tettoniche anatolica e arabica. Il tufo, solidificatosi e consumato ai lati dalle piogge e dal vento per via della sua friabilità, diede origine a queste formazioni allungate dette “comignoli delle fate”, o a cono dette “monaci”, o infine a piedistallo. Da Cavusin ci spostiamo al museo all’aperto di Goreme, che ospita la più grande concentrazione di cappelle e monasteri scavati nella roccia della Cappadocia, tra cui il monastero di Kizlar e la chiesa di Santa Barbara. In queste cave ci sono dei meravigliosi affreschi cristiano/bizantini raffiguranti scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ci dirigiamo poi verso Avanos, dove abbiamo la possibilità di visitare – all’interno di un laboratorio artigianale – la lavorazione di ceramiche tipiche del luogo quali vasi in terracotta, piatti, anfore e bicchieri, arricchite da svariate tipologie di decorazioni. Un maestro ci mostra in diretta la tecnica di costruzione dei vasi. Sempre nei pressi di Avanos, visitiamo la “Monks Valley”, la valle dei tufi erosi che ricordano la sagoma dei monaci. Prima del trasbordo in albergo, assaggio di vini locali della Cappadocia presso un produttore nelle vicinanze di Uchisar. E arriviamo finalmente a Goreme, in paese, dove il nostro hotel è il Village Cave House con camere scavate appunto a mò di cave tra le rocce di tufo eroso. Semplicemente magico, favoloso. Doccia veloce e passeggiatina in lungo e in largo per il paese, alla ricerca di un ristorantino. Ne troviamo uno squisito e anche non troppo caro dove poter assaporare le delizie locali.

Piccola parentesi sul cibo. Dominano le zuppe e le carni speziate, agnello o al massimo pollo. Maiale bandito dai manicaretti. Formaggi salati, soprattutto a colazione, pane sempre caldo e delizioso al quale si dedica particolare attenzione e premura nella cottura e nella presentazione al commensale. Insalata che accompagna sempre i pasti principali, come anche il riso. Dolci molto buoni, serviti spesso fritti.

Andiamo a letto relativamente presto, la mattina successiva sveglia prima dell’alba per salire in cielo a godersela in mongolfiera. [OMISSIS].

Un piccolo furgoncino ci trasporta nel mezzo di un’ampia area pianeggiante, dove il nostro pallone gonfiato – assieme a una miriade di altri palloni dai colori più variegati – sta già prendendo aria e forma pronto a librarsi in volo. Il sole, intanto, sta sorgendo. Arturo, il nostro pilota spagnolo, ci spiega che questa è la miglior zona del mondo dove praticare lo sport della mongolfiera. Venti favorevoli e paesaggi mozzafiato. Voliamo fino a oltre 300 metri di altezza tra una miriade di altri palloni, circa una quarantina. L’alba da lassù è meravigliosa. Scatto foto a Mels, al sole che sorge, e ad entrambi in posa sopra le rocce di tufo incantate della Cappadocia. Rimaniamo in volo per circa un’ora, incanalandoci tra le correnti di vento che ci trasportano da un picco all’altro. Intravediamo in lontananza anche la cima del Monte Erciyes, principale fautore – con le sue eruzioni del passato – della morfologia del territorio nei dintorni. Il vento tranquillo ci permette di compiere un morbido atterraggio. Torniamo in hotel e, dopo una ricca colazione turca, ci attende il furgoncino per trasportarci nella zona sud della Cappadocia dove passeremo l’intera giornata. La guida del secondo giorno, molto amichevole e competente, si chiama Khadir. Visitiamo nell’ordine la cattedrale di Selime e la straordinaria valle di Ihlara, scavata dal fiume Melindiz lungo un canyon di 15 chilometri ospitante al proprio interno oltre 60 chiese ed abitazioni scavate nella roccia migliaia di anni fa. Dopo un delizioso pranzetto in riva al fiume, ripartiamo per la zona nord del paese, ma non prima di aver visitato la città sommersa su 8 livelli ed infinite escavazioni nella zona di Kaymakli, la famosa “Underground City” utilizzata dai primi cristiani per sfuggire alle crudeli persecuzioni dei barbari. Sulla via del ritorno visitiamo un laboratorio di gioielli e pietre preziose della zona, e la “Pigeon Valley” nei pressi della bella cittadina di Uchisar. Torniamo in albergo a Goreme e, dopo una meritata sciacquata, ci dirigiamo verso il Top Deck Cave Restaurant ben recensito dalle guide culinarie. Ambiente intimo e in stile tradizionale, con tavoli a terra tra tappeti e cuscini persiani all’interno di rocce scavate nel tufo. Cucina squisita, personale simpaticissimo e conto ragionevole. Consigliatissimo. Conosciamo una giovane coppia, un ragazzo ed una ragazza australiani con i quali si sorseggia un bicchiere di vino e si discute del più e del meno, cioè dell’Australia e dell’Italia. Ce ne andiamo a letto con la panza piena dopo aver passato una meravigliosa giornata ed una gradevole e rilassante serata. [OMISSIS].

Il nostro terzo giorno in Cappadocia ce lo viviamo con spirito molto libero. Affittiamo uno scooter e giriamo un po’ all’avanscoperta visitando tutti i posti del Nord della Cappadocia che non avevamo toccato durante i tour guidati. Centro storico di Avanos, museo all’aperto di Zelve, Centro di Mustafapasa con pranzetto a base di kebab in terracotta, lago di Damsa Dam, sehir merkezi di Urgup e Uchisar, e quasi al tramonto rientro a Goreme. Tutto a portata di mano nel raggio di pochi chilometri. Serata con cena in paese al Koy Evi, tra i gatti che ci sguazzano sopra e sotto il tavolo, e i camerieri che tentano di scacciarli a bottigliate d’acqua. [OMISSIS].

I’1 Luglio si parte la mattina presto alla volta dell’Anatolia Sud Orientale, col nostro oramai affiatatissimo gruppetto di amici internazionali. Dopo aver superato Kayseri, ci fermiamo in sosta per visitare un caravanserai del XIII secolo all’altezza di Karatayhan. La nostra guida, Kobi, ci spiega che queste appostazioni – simili alle attuali aree di servizio autostradali – servivano un tempo per dare ristoro e alloggio ai viaggiatori e ai commercianti che, sulla Via della Seta, avessero necessità di riposare e di abbeverare i propri cammelli. I caravanserai erano costruzioni molto grandi con immensi cortili interni che venivano collocate all’incirca ogni 40 chilometri, vale a dire quanto un cammello sarebbe stato in grado di percorrere, carico di merce, nel corso di 8 ore. Attorno a questi caravanserai, grazie al commercio indotto, nascevano dei villaggi, che esistono tuttora. I bambini che popolano quelli in cui sostiamo, incuriositi dalla nostra presenza, vengono a giocare con noi e a farsi fare un po’ di foto prima della nostra partenza. On the road, ci fermiamo a mangiare qualcosa nel posto decisamente più caratteristico tra tutti quelli dove abbiamo sostato: un plateau sulla polverosa statale che conduce a Tekir, tra donne in velo, strilloni e fumi di carni speziate d’ogni tipo. Nel corso della lunga giornata di viaggio, prima dell’arrivo in hotel ad Adiyaman ai piedi del Monte Nemrut, ci fermiamo ad assaggiare un caratteristico gelato alla gomma arabica all’altezza di Kahramanmras. Sfiniti dall’ asfissiante viaggio in minibus tra gli altopiani della Mesopotamia, arriviamo in hotel. E’ sera. Un veloce bagnetto in piscina e poi cena leggera prima di andare, prestissimo, a letto. La mattina successiva, infatti, ci aspetta la sveglia all’1.30 del mattino per andare a vedere l’alba sul Monte Nemrut. [OMISSIS].

Serdar, la nostra nuova guida per i prossimi 2 giorni, ci aspetta in ascensore. Batterista metal dal cuore tenero, proveniente da Izmir ma originario di Trabzon, entra subito in confidenza col gruppo. Simpatico, competente e dalla battuta tagliente, appare subito essere la guida più carismatica tra tutte quelle che abbiamo incontrato e che incontreremo in seguito. Nonostante l’improbabile orario, si crea subito un bell’ambiente. Impieghiamo all’incirca un’ora e mezza per salire da Adiyaman alla cima del Monte Nemrut, il più alto rilievo della Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate. Lassù, tra il 64 ed il 38 a.C., Re Antioco I Teo dei Commageni fece ricavare 3 enormi terrazze sulle quali furono sistemate colossali statue raffiguranti la sua sagoma, e quelle delle principali divinità greche e persiane dell’epoca. La cima divenne un santuario ai piedi di un tumulo di pietra alto 50 metri e con un diametro di 150 metri, che a tuttoggi rappresenta la tomba più antica e colossale dell’umanità mai scoperta. Sono le 4 del mattino. C’è un vento fortissimo, lacerante. Fedeli e turisti scalano gli ultimi 400 metri dove i minibus non possono portarci, dopo un thé caldo all’ultimo rifugio. Ci si protegge il corpo con delle coperte di lana. Alcuni fedeli s’inginocchiano ed invocano Allah, prima che sorga il sole. L’atmosfera assume un che di magico. Dopo una breve attesa sulla terrazza est, alle 4.30 circa lontano all’orizzonte quel bagliore rosso che si leva tra il Tigri e l’Eufrate ci regala la più bell’alba da noi mai vista. Stringo la mano di Mels e mi rendo conto di vivere esattamente tra lo spazio e il tempo che avrei voluto vivere. Godiamo di quella fantastica alba fino al suo completo levarsi, e successivamente ci spostiamo ad ammirare le rovine della vecchia cittadella di Arsemia. Sulla via del ritorno, verso l’hotel, abbiamo anche l’occasione di ammirare il bel ponte romano di Cendere, il Septimum Severus, e i tumuli di Karakus. Proprio in mezzo al cammino del ponte, rischio di perdere il mio amato cappello sudista il quale, sfilato da una quasi soprannaturale e diabolica presenza, vola sotto il parapetto che delimita il ponte stesso… ma un’altrettanto soprannaturale e divina presenza lo fa incastonare su una trave di ferro verso la quale allungo agevolmente la mano, e lo riafferro. Facciamo una veloce colazione in albergo ad Adiyaman per poi dirigerci verso il profondo sud del confine con l’Anatolia Sud Orientale, fin quasi a toccare la Siria sconvolta dalla guerra civile. Sulla strada ci fermiamo a vedere la diga di Ataturk, che con i suoi 82.000 ettari di bacino irriga oltre 872.000 ettari di Anatolia servendosi delle acque del fiume Eufrate. Sul cemento della diga troneggia l’iscrizione “GAP – GUNEYDOGU ANADOLU PROJESI”, progetto per l’Anatolia meridionale di 22 dighe sui 2 grandi fiumi mesopotamici. Il progetto è materia di pesante scontro con la Siria, che ha visto la portata dell’Eufrate ridursi del 75% in seguito all’implementazione del progetto stesso a partire dai primi anni ’90. Tagliare i rubinetti dell’acqua ad un paese già di per sé disperatamente povero, affamato e in guerra, non dev’essere stata una cosa che ne rendesse felici abitanti e politici… Approdiamo alla cosmopolita città di frontiera di Sanliurfa, crogiuolo di culture dove convivono greci, turchi, siriani, curdi, armeni ed ebrei. Visitiamo la Vasca di Abramo, il lago dei pesci ed il caratteristico bazaar artigianale coperto.

Ci rechiamo in uno dei più antichi templi della storia dell’umanità, Gumruk Han, e poi ci spingiamo fino a 15 chilometri dal confine con la Siria per andare a visitare le caratteristiche capanne a mattoni di sterco di cammello del villaggio di Harran. L’anziano capo tribù ci spiega che il materiale di cui sono fatte queste catapecchie resiste da secoli all’umidità e alle intemperie meglio di qualunque altro moderno materiale isolante. On the road, verso Sanliurfa, mangiamo un pezzo di cocomero in compagnia di camionisti di lungo corso diretti verso l’Iran, il Pakistan e l’India, via Siria. Chissà per quanto tempo non rivedranno le loro famiglie, o da quanto tempo loro li aspettano per vederli tornare… ma i loro volti appaiono sereni e spensierati, quasi a non voler pensare al domani, e nemmeno all’oggi, in un Medio Oriente sconvolto da povertà e guerra. Torniamo in città, sfiniti. Il tour dell’Anatolia Meridionale è finito, il giorno successivo si riparte per il lungo viaggio di ritorno verso Goreme, Cappadocia. Una lunghissima giornata di viaggio, interrotta solo da alcune brevi soste tra cui quella a Birecick, dove visitiamo una riserva protetta di uccelli Geronticus Eremiti, e il pranzo on the road presso l’oramai immancabile Tekir, dove ci eravamo fermati anche all’andata. Arriviamo a Goreme alle 17 circa di mercoledì 3 Luglio. 3 ore appena per sgranchirci le gambe, dopodiché ci rimettiamo in autobus per affrontare altre 12 ore di viaggio che nella notte ci conduce dalla Cappadocia fino all’estremità Nord Orientale del Mar Nero, a Trabzon. L’antica Trebisonda. Nel frattempo mia moglie aveva lasciato, nel corso dell’ultima notte in Anatolia, il cellulare in un hotel di Sanliurfa. Ce lo riporteranno in auto a Goreme, e successivamente lo metteranno in un pacchettino sul primo autobus per Trabzon, a loro spese, facendocelo infine comodamente recapitare due giorni dopo a mano dalla nostra nuova guida. La cordialità dei turchi, la loro grande civiltà e onestà. Cose che in Italia non succederebbero nemmeno nel più meraviglioso dei sogni. Così ci accingiamo a vivere gli ultimi 6 giorni del nostro viaggio di nozze.

Alla stazione degli autobus di Trabzon veniamo ricevuti dalla nostra nuova guida. Si chiama Serkan, ragazzo molto disponibile e simpatico. Siamo entrati in contatto con lui tramite l’agenzia di Goreme quando abbiamo chiesto un supporto per gli ultimi 5 giorni sul Mar Nero. Serkan ci aiuta a cercare un albergo. La ricerca non è semplice, perché la città è assediata in massa da turisti arabi e gli hotel sono tutti pieni. Ci sistemiamo in un hotel all’estrema periferia della città, vicino all’aeroporto, nella zona di Cimenli. L’hotel è quasi completamente vuoto, non un buon segno in un tale contesto di città affollata dai turisti, e ci accorgiamo subito del motivo: si tratta praticamente di un cantiere aperto, con lavori in corso sia nella hall che ai piani, con impianti dell’acqua e dell’elettricità costantemente interrotti. Per di più, non si tratta di una struttura molto pulita. Il personale non parla l’inglese. Mentre siamo alla reception il titolare riceve una telefonata. Dall’altra parte della cornetta c’è una donna che parla inglese. Mia moglie si offre di fare da interprete con Serkan che traduce in turco: è una catena di montaggio linguistica atta a decodificare la richiesta del servizio clienti di Booking.com, che ha ricevuto lamentele da un cliente il quale avrebbe dovuto rimanere per 6 notti, e se n’è invece andato dopo una. Non vuole pagare per via delle stanze sporche, e rivuole indietro i 5 giorni pagati in anticipo… non proprio una buona presentazione per noi nuovi clienti al check-in! La situazione sembra paradossale. E’ vero, l’hotel è sporco ma gode di una posizione mozzafiato, con vista sul mare praticamente a ridosso degli scogli; piscina, ristorante, tutto rigorosamente vuoto, con decine di addetti che sembrano lavorare solo per noi. Tutti super cortesi e gentili. Una doccia, e poi passeggiata sugli scogli. Cena di pesce a bordo piscina, e poi a letto presto. Serata molto gradevole e rilassante di cui ci rimane un bellissimo ricordo, quel tramonto senza prezzo all’orizzonte del Mar Nero. [OMISSIS].

La mattina seguente, con Serkan, raggiungiamo il monastero di Sumela. Arroccato tra le rupi del Monte Mela, fu eretto nel IV secolo e distrutto più volte, l’ultima delle quali la più grave, nel corso della guerra d’indipendenza turca in cui gli affreschi sui muri vennero quasi completamente distrutti e decapitati. Dopo il monastero ci dirigiamo verso Torul, nei pressi di Gumushane, per visitare le cave di Karaca, complesso di grotte recentemente scoperte e caratterizzate da formazioni stalattitiche e stalagmitiche. Al ritorno verso Trabzon, sosta ad Hamsikoy per assaggio di dolci tipici. Ritorno in albergo con cenetta in centro a Iskenderpasa. [OMISSIS].

Il terzo giorno, viaggetto sul lago di Uzungol, lago risalente all’era glaciale a oltre 1.000 metri di altezza. Poi nel pomeriggio visita alle piantagioni di thé nei pressi del villaggio di Of, a casa di Serkan che ci fa conoscere tutta la sacra famiglia. Lo zio di Serkan appare maggiormente propenso alla socializzazione con i nostri compagni di viaggio arabi, “fratelli e figli di Allah”, che non con noi Europei cristiani, “figli di Berlusconi-mandolino-mafia”.

Gli ultimi 3 giorni della nostra vacanza ce li viviamo nella più assoluta rilassatezza, facendo praticamente nulla in giro per Trabzon. Passeggiando per le vie della città, visitiamo la chiesa-museo di Haghia Sophia, poi rinnovatasi in moschea, e la lunga vista sulla stradina che costeggia il mare. Passiamo una mattinata a rilassarci all’Hamami, poi voliamo a Istanbul. Visitiamo il bazaar delle spezie, che ci eravamo persi nel corso dei primi 3 giorni passati in città, e facciamo un po’ di shopping. Il 10 Luglio, alle 16, il volo di ritorno per l’Italia.

Ciò che ci rimarrà impresso di questo viaggio in Turchia è il calore e la disponibilità delle sue persone, e la bellezza di queste terre. L’affascinante e sentita cultura popolare di queste persone – unita al forte sentimento religioso islamico che detta ritmi ed usanze alla vita di tutti i giorni – rimarrà l’aspetto più incantevole al di là dei luoghi che, per quanto belli possano esserci sembrati, non saranno mai in sé in grado di raccontare il vero valore aggiunto di questo paese: la bellezza della sua gente.

D.M.



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