Verdi colline d’Africa

DIARIO DI VIAGGIO DI MILENA E MAURO Mauro ed io abbiamo prenotato un viaggio in Kenia con l’”A.S.C.”. Un collega di Mauro, Fabrizio, ha già fatto questa esperienza l’anno scorso con Francesca, la sua ragazza; il loro entusiasmo ci ha contagiato ed eccoci partire tutti e quattro per questa nuova avventura. Prima di partire abbiamo letto...
Scritto da: anelim
verdi colline d'africa
Partenza il: 21/07/2002
Ritorno il: 04/08/2002
Viaggiatori: fino a 6
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DIARIO DI VIAGGIO DI MILENA E MAURO Mauro ed io abbiamo prenotato un viaggio in Kenia con l’”A.S.C.”.

Un collega di Mauro, Fabrizio, ha già fatto questa esperienza l’anno scorso con Francesca, la sua ragazza; il loro entusiasmo ci ha contagiato ed eccoci partire tutti e quattro per questa nuova avventura. Prima di partire abbiamo letto con attenzione, su questo stesso sito, il diario di Sandro e Belinda “Kenia: tutto quello che si deve fare”. Anche loro sono partiti con l’A.S.C. E hanno soggiornato allo Shanzu Beach Hotel; ci limiteremo quindi ad arricchire le loro preziose indicazioni, sperando che possano essere utili a qualcuno, così come lo sono state per noi.

Primo e secondo giorno (21-22 luglio 2002) Partenza per Milano dalla stazione della Spezia alle 12,50.

Fa caldo e il treno è pieno di viaggiatori.

Arriviamo all’aeroporto di Malpensa (terminal 2) verso le 17.

Nell’area gruppi individuiamo subito il banco dell’A.S.C.: le camicie degli addetti sono zebrate! L’ora di partenza è prevista per le 21,15, ma l’aereo (dell’A.S.Air, con coda, naturalmente, zebrata) parte con forte ritardo verso le 23 circa.

Il nostro posto (Economy class) è già occupato e le hostess ci fanno accomodare in Club class. Sui voli A.S.A. Ci sono tre classi: la Economy, la Club (+ 90 euro) e la Royal (+ 300 euro). Non ci sono sostanziali differenze fra le prime due: forse la franchigia bagaglio di 33 Kg. Della Club (invece dei 23 Kg.Della Economy) può avere “peso” nel viaggio di ritorno. In volo qualche perturbazione, facciamo fatica a prendere sonno.

Alle 6 del mattino la sveglia: dal finestrino ammiriamo lo spettacolo del sorgere del sole e, dopo alcuni minuti, scorgiamo il maestoso Kilimangiaro, con una spruzzatina di neve sulla cima. E’ vero, siamo proprio in Africa! Arriviamo all’aeroporto “Moi” di Mombasa verso le 7.

Fuori, accanto ai bus dell’A.S.C., ci aspettano un drink di benvenuto e una danza ritmata al suono dei tamburi (che sa tanto di falso, ad uso e consumo dei turisti).

Lungo la strada che ci porta all’albergo (guida a sinistra) primo impatto con la nuova realtà: da ogni parte ci giungono segnali di un tenore di vita molto diverso da quello europeo.

Dimentichiamo il tutto ben presto: la struttura dello Shanzu Beach Hotel è di buon livello, inserita in un bellissimo e ben curato giardino tropicale. Il corpo centrale riprende la tipica architettura “makuti”, spettacolare tetto di pali di legno con copertura in foglie di sisal..

Le camere, tutte con balcone, con vista sul giardino o sulla piscina, sono disposte in blocchi a tre piani e sono piuttosto semplici.

Il giardino ha una bella vista sul mare; scendendo alcuni scalini si arriva alla lunga spiaggia bianca che digrada verso l’Oceano Indiano.

Di nuovo, sulla spiaggia, ci rendiamo conto che la realtà del paese è ben diversa dal paradiso tropicale che ci offre il resort.

Una corda tesa a metà della spiaggia, parallelamente alla riva, impedisce ai locali di avere contatti diretti con i turisti in visita al loro paese.

All’inizio prevale la diffidenza, il nostro primo impulso è quello di ignorare gli inviti che ci vengono dall’altra parte per riposare, distesi al sole, sui lettini della spiaggia; ben presto però, vuoi per curiosità o per voglia di capire, oltrepassiamo il “muro”.

Ci salutano e ci invitano a guardare i loro pareo le signore (mama) della spiaggia, avvolte in teli coloratissimi; ci accompagnano sulla battigia e dentro l’acqua della bassa marea i ragazzi (beach boys) che propongono gite, in piroga (scavate in tronchi di palma), in barca a motore o in tipiche imbarcazioni con bilanceri, alla vicina barriera corallina…

Rispondiamo che siamo appena arrivati e che ci sarà tempo per il “business”. Nonostante i ripetuti inviti a valutare offerte e merci varie e le conseguenti risposte negative da parte nostra, c’è, da parte di entrambi, un reciproco interesse e un tentativo di stabilire un rapporto di comunicazione.

Alla fine passeggiamo insieme sulla spiaggia e ci salutiamo rinviando i discorsi sospesi all’indomani.

La sera, spostandoci con lo Zebi-express, un servizio di navetta che collega le tante strutture della costa dell’A.S.C., cena-barbecue alla “Marina”, un ristorante su una lingua di mare (a Mtwapa) che penetra nella costa per alcuni Km.; si mangia a lume di candela, sotto un suggestivo baobab che si staglia contro il cielo illuminato da un’incredibilmente luminosa luna piena. Terzo giorno (23 luglio) Giornata dedicata al riposo e al mare.

Al mattino c’è bassa marea: passeggiamo (con scarpette di gomma!) sul fondo sabbioso lasciato dall’acqua del mare per qualche ora e osserviamo, su invito di alcuni ragazzi della spiaggia, piccole pozze con granchi, stelle marine, conchiglie… verrebbe voglia di raggiungere la barriera corallina a piedi (è lontana solo un Km!), ma non ci fidiamo.

Il capitano di una barca a motore ci fa salire a bordo e ci mostra il fondo di vetro che permette di osservare la fauna marina senza immergersi.

Cominciamo a riconoscere alcuni abitanti della spiaggia (lato Africa): Gli italiani si riconoscono perché occupano i lettini a confine con il famigerato “muro” o sono impegnati in continue trattative con i kenioti, più riservati i turisti francesi, in seconda fila; i tedeschi e gli svizzeri…Dove sono sulla spiaggia? E’ possibile che passino tutto il loro tempo ai bordi delle pur bellissime piscine? Al pomeriggio il paesaggio cambia di colpo: soffia un forte vento che increspa e intorbida le acque dell’alta marea; il mare non invita né a lunghi bagni né a gite in barca.

Alle 16,30 io e Francesca ci rechiamo sulla terrazza del bar dove, ogni giorno, vengono serviti tè e pasticcini; per la prima volta vediamo sui prati del giardino e sulle palme rincorrersi i cercopitechi, graziose e curiosissime scimmiotte (blue monkeys) che si avvicinano ai tavolini per rubare un pezzetto di pane, un dolcetto… I camerieri cercano in tutti i modi di cacciarle (“Do you like the monkeys? They are a very problem!”), ma loro sono furbissime: si nascondono ad ogni segnale di pericolo, per poi riapparire all’improvviso, si arrampicano sui balconi delle stanze, corrono sui tetti e saltano dai rami delle palme… Alle 18 il sole già tramonta (siamo vicini all’equatore) e la notte scende velocissima.

Dopo cena decidiamo (noi quattro con Tiziana, Daniela, Fabio ed Enrico), nonostante le raccomandazioni, di uscire dalla zona recintata del resort e avventurarci nel vicino villaggio commerciale (Shanzu Village).

Lungo la strada non ci sono luci, per fortuna in cielo c’è la luna piena.

All’improvviso ci affiancano delle alte figure scure, con lance e sottili bastoni in mano: sono Masai! Si offrono di accompagnarci e, insieme a loro, ci fermiamo ad un piccolo bar (bar Sonia) in cui, in alcuni giorni della settimana, sono soliti danzare.

Al nostro tavolo si avvicinano e si siedono anche due giovani ragazze molto appariscenti; una di loro, Lucy, è in stato di evidente esaltazione. Mastica in continuazione alcuni germogli che tira fuori da un sacchetto di plastica, ci invita ad assaggiare quella che lei indica con il nome di “mirah”, osserviamo, ma decliniamo l’invito.

Vicino a me e Daniela è seduto un giovane Masai di ventidue anni: un mantello rosso gli avvolge l’alto e magro corpo. Al collo e alle braccia porta numerosi e bellissimi ornamenti in perline colorate; i suoi capelli sono intrecciati in una elaborata acconciatura. Il Masai è di Amboseli, con orgoglio ci dice di aver frequentato la scuola per otto anni, si esprime in lingua masai, in swaili, in inglese. Alcuni dei suoi compagni hanno il lobo dell’orecchio forato.

I giovani masai fanno con noi un pezzo di strada del ritorno, ci spiegano che in lingua masai la luna si chiama “allapa” (o qualcosa di simile), ci chiedono come si dice in italiano “look the moon”, quindi ripetono divertiti: guarda la luna, guarda la luna… Ci salutiamo ad un bivio, promettendo loro di tornare una sera ad assistere alla loro danza, e le figure scure spariscono nella notte.

Quarto giorno (24 luglio) Oggi, alle 13,15, è fissata la partenza per il nostro primo safari, il “Kibo Active Safari”, nella riserva privata “Kimana-Kilimanjaro”, già compreso nel prezzo da noi pagato.

Sono con me e Mauro, Rita e Guglielmo da Terni e Morena e Pierre da Lecco; tre polacchi, tre signore francesi, alcuni tedeschi.

Il pulmino dell’ASC ci porta al campo volo privato “Bamburi Airfield”, una stretta striscia d’asfalto in una radura circondata da palme, dove ci aspetta il nostro bimotore da 18 posti, che ci porterà direttamente alle falde del Kilimangiaro.

Durante il volo cerco di non pensare ai vuoti d’aria, concentrandomi sugli spettacolari paesaggi che si susseguono sotto i nostri occhi.

Dopo un’ora circa atterriamo (finalmente!) su una striscia di terra battuta e ci ritroviamo catapultati all’interno dell’Africa dei documentari naturalistici, nel cuore del “Bush” africano.

Arriviamo al nostro campo tendato: intorno ad una piccola spianata circolare, sulla riva del piccolo “fiume” Kimana, 10 piccole strutture, costituite da tende con sovrapposti tetti “makuti”; la sistemazione è semplice, ma bene si adatta al luogo in cui sorge e all’atmosfera quasi “hemingwayana” che vi si respira. Sdraiati sul divano della verandina coperta ammiriamo lo straordinario spettacolo del Kilimangiaro, avvolto da un collare di nuvole.

Un gentile Masai, dal caratteristico orecchio forato, ci invita al primo fotosafari in minibus aperti.

L’autista Geremia ci accompagna lungo piste polverose e accidentate ed è subito spettacolo: sfilano sotto i nostri occhi gruppi di placide zebre, gnu dall’aspetto triste, eleganti antilopi, scodinzolanti e tenere gazzelle di Thompson… Poi, fra cespugli di acacie spinose, un lungo collo… una giraffa e poi un’altra e un’altra ancora! Sembrano enormi animali di peluche tanto sono vivaci e “morbidi” i colori dei mantelli maculati! E ora, non ci posso credere, una mamma elefante che si allontana fra gli arbusti con il suo piccolo! Un branco di bufali… un gruppo di facoceri… Assistiamo persino alla danza di corteggiamento di uno struzzo che agita le grandi ali e il lungo collo davanti a due femmine…

Assistiamo a tutto ciò in uno spontaneo e rispettoso silenzio, rotto solo dagli scatti delle macchine fotografiche e dal ronzio delle telecamere.

Torniamo al campo interamente coperti di polvere (ora capisco il perché del color caki degli indumenti classici da safari!). Dopo la doccia una cena-barbecue e due chiacchiere intorno al falò acceso al centro del campo.

Nella tenda, a letto, sarà l’emozione, il freddo o il timore per il mondo sconosciuto che ci circonda, fatichiamo a prendere sonno.

Quinto giorno (25 luglio) Prima dell’alba, alle 5,30 del mattino un “Jambo!” ripetuto più volte ci sveglia.

Fa molto freddo e non siamo abbastanza attrezzati: ci copriamo alla bell’e meglio con k-way leggeri.

Fuori dalla tenda ci assale un forte odore di selvatico.

Dopo un tè caldo iniziamo il safari mattutino; solitamente, così ci dicono, è questo l’orario migliore per osservare le diverse specie di animali al risveglio, ma questa mattina sono tutti rintanati, sarà il gelo, nei loro nascondigli, a parte le “solite” zebre e gnu. Assistiamo però al rapido risvegliarsi dei colori e dei rumori nella savana.

Dopo un nutrito gruppo di babbuini l’emozione più grande: un piccolo branco di elefanti molto vicini al nostro automezzo; per un po’ ci. Ignorano, poi si infastidiscono e dopo una serie di sordi brontolii, ci atterriscono con un potentissimo barrito. Geremia si allontana a tutto gas… Infreddoliti, per non dire gelati, ritorniamo allo “Zebra Lodge”, vicino al nostro campo tendato, per la colazione.

Prima di tornare alle tende un masai ci accompagna alla vicina pozza di acqua sorgiva, proveniente dal Kilimangiaro: una ventina di ippopotami sono immersi nell’acqua e, ogni tanto, affiorano in superficie per respirare.

Alle 9,30 escursione in mountain bike: dapprima siamo incerti se partecipare o meno, poi il gusto dell’avventura ha il sopravvento (è o non è un “active” safari?).

Dopo poche pedalate siamo già completamente impolverati; l’attenzione che mettiamo a non sprofondare con la ruota della bici nei cumuli di sabbia impalpabile, ci fa dimenticare che, probabilmente, stiamo correndo qualche piccolo rischio. Per fortuna incontriamo solo zebre, gnu e giraffe.

A poco a poco i partecipanti all’escursione si ritirano e prendono posto sul camioncino che segue le nostre pedalate; siamo rimasti in 4: io, Mauro, il ragazzo polacco e Pierre. Breve sosta accanto ad un pozzo, dove un ragazzo è di guardia: in pochi minuti appaiono da ogni dove bambini masai.

Offro loro delle caramelle, mentre i piccolini ripetono ogni mia parola.

Ancora pochi metri su una pista rossastra (rocce laviche del Kilimangiaro) e poi ci fermiamo a fare un picnic (molto misero) nella savana.

Spero che chi organizza queste cose sappia il fatto suo! Mescolando termini italiani, francesi e inglesi cominciamo a fare amicizia anche con la signora francese (un’insegnante di biologia) e il ragazzo polacco, Alexander, che studia legge e che conosce, oltre la sua lingua, l’inglese, il francese, il russo, il latino e un po’ d’italiano.

Per il ritorno carichiamo le bici sul rimorchio e saliamo tutti sul camioncino: abbiamo resistito abbastanza! Sporchi e distrutti torniamo al campo, ma prima delle 17 il generatore non viene acceso e quindi non c’è acqua! Non ci resta che partecipare ad un nuovo safari, tanto ridotti peggio di così! Ed è una decisione azzeccata perché questa volta la grossa jeep percorre una nuova pista; guadando il Kimana entra in un bosco con scimmie, kudu, giraffe, babbuini, elefanti, uccelli variopinti… Ci fermiamo poi ad una torretta di avvistamento: in lontananza, fra bassi arbusti, notiamo un grosso branco di elefanti.

Stanchi, ma soddisfatti, torniamo al campo per la cena: questa notte non soffriremo certo d’insonnia! Sesto giorno (26 luglio) Dopo la colazione passeggiata a piedi, sotto la guida di ranger Masai.

I Masai sono 2: sono molto eleganti nelle loro divise verdi. La loro origine è resa evidente dal marchio a fuoco sulle guance, dai bracciali di perline, dall’immancabile bastone sottile e dalla tipica lancia. Il ranger spiega che il marchio sulle guance viene praticato ai bambini all’età di due anni; avrebbe la prerogativa di preservare la vista acutissima dei Masai. Spiega anche che, dopo i quattro anni, vengono estratti ai bambini i denti incisivi inferiori: si forma in questo modo uno spazio che viene a poco a poco in parte occupato dallo spostamento dei denti vicini, che provoca, conseguentemente, un profilo più fine ed affusolato. Lo spazio fra i denti ha anche un altro scopo: permette di aiutare i malati e gli anziani a nutrirsi, inserendo cannucce per aspirare cibo liquido.

Il ranger riesce a leggere, in una spianata per noi senza alcun interesse, tracce preziose e indicazioni sulla presenza dei vari animali.

Ci insegna a distinguere le impronte, la cacca degli animali, ci indica un uccello che sta covando proprio sul sentiero, per noi pressoché invisibile, individua in un grosso cespuglio sotto un’acacia, un bufalo enorme che ci osserva attentamente (il ranger ci mette in guardia: il bufalo è uno degli animali più pericolosi e aggressivi).

Poi, su nostra richiesta, ci accompagna ad un vicino villaggio Masai.

Questa è terra Masai e i villaggi sono sparsi un po’ dappertutto qui intorno.

Il villaggio tipico è costituito da 8/10 capanne che circondano un recinto grande per le mucche e altri due o tre piccoli per le capre. Il villaggio è protetto tutto intorno da sterpi e cespugli spinosi.

Mentre ci avviciniamo notiamo un grande trambusto all’interno: le donne Masai si sono accorte del nostro arrivo e stanno preparandosi ad accoglierci.

Una quindicina di donne più o meno giovani, col capo rasato, avvolte in mantelli coloratissimi, insieme ad una decina di bimbi, con il viso segnato dalla fresca cicatrice del marchio infuocato, improvvisano un canto e una danza di benvenuto; ad un loro invito mi unisco a loro: si divertono molto a farmi ripetere le loro parole. Ci fanno visitare poi le loro casupole: sono basse e poco spaziose. All’interno l’oscurità è appena attenuata da una piccolissima apertura che serve da finestra e da camino; si distingue appena lo spazio angusto destinato al padre e ai figli, il focolare e, più appartata, la “stanza” per la madre.

La capanna viene costruita dalle donne del villaggio con fascine di sterpi, fango e cacca di mucca.

Le donne provvedono ai figli e alle necessità del villaggio, mentre gli uomini si occupano del bestiame e accompagnano al pascolo gli animali.

Le donne Masai ci mostrano oggetti e ornamenti in perline, appositamente stesi su fili per gli eventuali visitatori.

Salutiamo e continuiamo la nostra passeggiata: poco dopo il ranger ci mostra, fra i rami di un cespuglio, una piccola gazzella appena nata (ha ancora il cordone ombelicale attaccato!) che, spaventata, traballa incerta sulle esili zampe.

Dopo il pranzo c’è ancora tempo per un’ultima ora di safari; in mattinata è stata scoperta la carcassa di uno gnu: il leone ha ucciso stanotte e noi, emozionati, guardiamo attentamente fra i fili d’erba secchi della savana.

Non troviamo il felino, ma in compenso, abbiamo un incontro ravvicinato con un branco enorme di gnu e zebre; le giraffe sembrano essersi moltiplicate e così gli elefanti… E’ già ora, però, di tornare a Shanzu, sulla costa, e, dai finestrini dell’aereo, ci congediamo già con nostalgia da questo mondo selvaggio.

Ritroviamo sulla spiaggia i nostri amici. Fabrizio e Francesca ci propongono, per l’indomani, una gita in barca all’isola di Wasini.

Nel tardo pomeriggio ci rechiamo al villaggio Shanzu a fare acquisti e alle 18 incontriamo finalmente il famoso David, proprio quel David nominato nel diario di Belinda e Sandro (v. Resoconto su questo sito del 9/7/02) e che i nostri amici avevano già conosciuto lo scorso anno.

Dico a David che il suo nome compare su Internet e lui risponde con una sonora risata.

Sarà proprio lui ad accompagnarci con il suo pulmino all’escursione di domani.

Settimo giorno (27 luglio) Sveglia alle 5,30.

Alle 6 abbiamo appuntamento con David al di là della sbarra dello Shanzu resort.

Una guardia dell’A.S.C.Si avvicina a David con fare minaccioso, aizzando un grosso cane, e fa spostare all’autista il pulmino di 10 metri. L’hotel organizza la stessa gita con 60 dollari, David ne chiede 40 a persona.

Sosta a Mombasa per il cambio in scellini kenioti da un cambiavalute pakistano (molti esercizi commerciali sono in mano a pakistani e indiani), prendiamo quindi il ferry boat di Likoni (incredibilmente affollato), per attraversare un braccio di mare e continuiamo il viaggio.

Lungo la strada possiamo farci un’idea del modo di vivere dei locali: le case, poco più di capanne, sono costruite con mattoni di fango e ricoperte con foglie di palme o lamiere; le donne, vestite con teli multicolori, camminano lungo le strade o i campi, portando in equilibrio sulla testa pesanti carichi. Numerose sono le scuole, nei cortili delle quali si notano bambini in uniformi colorate.

Intorno un’esplosione di verde: canne da zucchero e palme da cocco sono dappertutto.

Dopo circa due ore arriviamo all’imbarco per l’isola di Wasini: la barca (dohw) è vecchiotta, ma il ragazzo al timone mi sembra esperto. Il tempo non è dei migliori ed ho una paura folle di soffrire il mal di mare: ma il timoniere sa come evitare le onde e prenderle nel verso giusto.Dopo circa un’ora arriviamo ad un isolotto di sabbia bianchissima che la bassa marea lascia scoperto per qualche ora: sembra di essere alle Maldive. Ci tuffiamo dalla barca con le maschere prese a noleggio: sotto la superficie del mare c’è un vero e proprio giardino colorato: madrepore blu, viola, rosate, pesci pappagallo, pesci luna, pesci pagliaccio; tridacne enormi…

Peccato che il sole si sia nascosto dietro le nuvole; comincia a fare freddo, ma lo spettacolo è proprio affascinante per uscire dall’acqua! Al momento di risalire in barca ho qualche difficoltà a raggiungere gli altri, per l’alzarsi di un vento forte che mi impedisce di avvicinarmi; per fortuna qualcuno mi lancia un salvagente e vengo così recuperata! (che figura!).

Qualche problema anche durante il trasbordo a riva con una barchetta che fa acqua, ma dimentichiamo tutto a pranzo, seduti ad una tavola ricoperta di fiori profumati.

Dopo un ottimo pasto con granchi a vapore, pesce arrosto…(e dire che io non amo il pesce: ho”spolverato” tutto quanto!), breve visita al paesino, con i bambini che si attaccano alle dita di Fabrizio, fino a raggiungere un superbo ed enorme baobab, all’ombra del quale attendiamo di essere riportati sul dohw.

Durante il viaggio di ritorno avvistiamo più volte un branco di delfini che, scivolando con le lucide schiene, affiorano per qualche secondo sulla superficie del mare.

Torniamo in hotel in tempo per la cena.

Salutiamo David dopo aver concordato con lui un safari ad Amboseli (saremo in otto: 150 euro a testa) Ottavo giorno (28 luglio) Questa mattina Fabrizio, Francesca, Fabio, Daniela e una coppia di Massa, Eleonora e Andrea, conosciuti ieri sera, sono partiti per un safari al Parco nazionale Masai Mara: torneranno il 30.

Decidiamo così di approfittare di un’offerta dell’A.S.C.: il “pass tempo libero”, che permette di partecipare a delle escursioni gratuitamente (si può anche prenotare con un addebito di 3 euro, ma noi ne facciamo a meno).

Con il pullman dell’A.S.C. E guida oggi scegliamo il “Bush tour”.

L’escursione prevede la visita ai villaggi (non turistici) vicini alla costa (Bamburi e Shanzu) e una gita all’interno.

Il bus attraversa i villaggi senza fermarsi, lo “spettacolo” è terribile: gruppi di bambini molto piccoli inseguono il mezzo di corsa, per ricevere una caramella, una penna, senza curarsi del pericolo di essere investiti. Sono letteralmente scioccata, sprofondo angosciata nel mio comodo sedile, mentre intorno a me risuona, come in un incubo, il ritornello “bon-bon, bon-bon!” Intanto la guida ci illustra i metodi di coltivazione, le piante più comuni (manioca, banano, papaia…), ma riecco il nodo alla gola: “bon-bon, bon-bon!”.

Ci allontaniamo dall’abitato e cominciamo a risalire verso l’interno: villaggi formati da poche capanne sono sparsi all’intorno, in mezzo ad una natura davvero rigogliosa.

I campi sono ben coltivati, spesso senza l’aiuto di alcun mezzo meccanico (un trattore, a volte, viene affittato collettivamente dalla gente di un villaggio), non c’è acqua (ci sono delle cisterne o dei pozzi pagati dalla collettività), non c’è elettricità, la bicicletta è il mezzo di trasporto per i più fortunati (esiste un servizio di taxi-bici improvvisato), la scuola più vicina è a sei chilometri! Ci fermiamo davanti ad una grande capanna: all’interno assistiamo ad una dimostrazione della macinatura del mais e ad una danza tipica, accompagnata dal suono di strumenti ricavati da materiali di recupero.

Da un chiesa, in lontananza, ci giunge un canto gospel: è domenica! Poco dopo, quando ci accompagnano al ristorante della “Marina” per un barbecue, ho già dimenticato le immagini che mi hanno turbato e consumo con buon appetito il pranzo; arrivo persino a gettare, senza rimorso, pezzi di salsiccia arrostita a delle cornacchie insistenti che calano dalle palme! Più tardi, mentre ci attardiamo sul molo dell’imbarcadero e osserviamo dei grossi pipistrelli appesi al tetto makuti del diving center, cominciamo a scambiare qualche parola con un giovane, addetto alla sicurezza del posto.

Ci racconta di essere somalo e di aver lavorato per degli italiani a Malindi. Non si trova bene invece con questo lavoro “no dormire, no mangiare, solo lavorare!” e, con grande sconcerto, apprendiamo che è digiuno dal giorno avanti… Sì, proprio lì, dove i turisti come noi si abbuffano o sfamano le cornacchie! Il mio senso di colpa di europea stressata per problemi di poca importanza raggiunge il massimo…

La sera incontriamo Enrico, Tiziana, Guglielmo, Rita, Pierre e Morena.

Decidiamo di organizzare per domani una gita a Watamu e Malindi, usando l’autobus di linea.

Nono giorno (29 luglio) Partiamo la mattina dallo Shanzu hotel, dopo esserci assicurati della possibilità di consumare il pranzo presso il “Watamu Beach” dell’A.S.C.. Morena e Pierre non sono molto convinti sulla possibilità di raggiungere Malindi con un autobus di linea e, così, rimangono al nostro albergo.

Siamo quindi in sei: io e Mauro, Tiziana e Enrico, Rita e Guglielmo.

Per la strada facciamo proseliti: si aggiungono a noi Ada, Alessia, Vittorio e due loro amici; siamo undici in tutto.

Ci avviciniamo alla statale che collega Mombasa con Malindi, ma si uniscono a noi alcuni ragazzi del posto che si informano sul nostro itinerario. Uno di questi ci dice essere insegnante di matematica della scuola di Shanzu.

Cominciano serrate trattative: i ragazzi ci offrono un più confortevole viaggio con un taxi collettivo.

Quando già abbiamo pattuito il prezzo, il giovane insegnante ci sconsiglia di accettare e propone invece di usare i mezzi di un’agenzia più affidabile.Stiamo sprecando tutta la mattinata in contrattazioni: io, Ada e Mauro ci teniamo in disparte.

Ad un tratto comprendiamo che l’accordo è stato raggiunto: è stato affittato un pullman per circa 12 euro a persona. E pensare che volevamo andare con l’autobus di linea, spendendo una cifra irrisoria! Ci viene detto che occorre aspettare per mezz’ora circa l’arrivo del pullman; per ingannare l’attesa viene organizzata dai ragazzi del posto una visita alla locale scuola.

Ci incamminiamo a piedi fra le strette viuzze del villaggio: in pochi minuti io Ada e Mauro ci troviamo da soli con Luca Mattheus, un ragazzino che ci fa da guida, ma di cui non comprendiamo nemmeno una parola.

Mentre proseguiamo all’interno di un labirinto di vicoli, ci rendiamo conto di esserci persi: chiediamo di essere ricongiunti col resto del gruppo, ma “hakuna matata” (nessun problema) e “pole pole” (piano piano) sono le uniche parole che riusciamo a comprendere.

Cominciamo ad innervosirci e a preoccuparci, mentre continuiamo a chiedere agli abitanti del villaggio che si affacciano incuriositi agli usci “where is the school?” Anche la nostra guida è ormai incerta, ma, dopo una buona mezz’ora di rincorsa ansiosa, ecco finalmente gli altri: sono davanti ad una piccola costruzione; Enrico ha aperto un sacchetto di caramelle ed è attorniato da un gruppo di bimbi di varia età.

E’ questa la scuola di Shanzu: due strette stanze nelle quali due classi di bambini sorridenti ci accolgono, cantando per noi una canzone di benvenuto.

Saluto le mie colleghe Keniote, due giovani molto carine, e nel mio inglese molto molto stentato ci scambiamo brevi informazioni sulle nostre rispettive realtà.

E’ tempo di tornare indietro, i malumori non sono del tutto spariti, ma ecco il nostro pullman: è davvero un mezzo confortevole e spazioso! Con noi sale anche Luca, la nostra guida improvvisata.

Da Shanzu a Malindi sono circa 100 km: arriviamo a Watamu proprio per l’ora di pranzo.

La spiaggia è davvero splendida: una baia riparata con sabbia fine e bianchissima è davanti ai nostri occhi; là in fondo, dove le onde si infrangono sulla barriera corallina, alcuni scogli affiorano sulla bassa marea.

E’ valsa la pena del viaggio solo essere arrivati qui, fra queste sabbie abbaglianti e queste acque cristalline! Cerchiamo di imprimerci nella memoria questo spettacolo indescrivibile, mentre passeggiamo lungo la baia, scoprendo scenari sempre diversi…

Ripartiamo verso Malindi e ci fermiamo ad un centro di artigianato del legno.

Sotto due grandi capannoni all’aperto numerosi artigiani sono impegnati nella lavorazione del loro pezzo: ci chiedono di essere ritratti dalla macchina fotografica, giustamente orgogliosi e soddisfatti per i loro manufatti. Il legno (mogano, olivo, ebano…) viene intagliato con maestria usando semplici strumenti; normali pezzi di tronco si trasformano in sculture, animali, maschere, personaggi finemente cesellati.

Luca ci accompagna poi, facendoci attraversare un sentiero fra ville di italiani protette da alti muri, al punto in cui sbarcò, nel gennaio del 1499, Vasco de Gama.

Facciamo un breve giro nel villaggio di Malindi: Luca è molto bravo a tenere a bada i venditori locali che ci invitano a valutare ogni genere di mercanzia.

Dobbiamo iniziare il viaggio di ritorno, è tardi! A poco a poco l’oscurità cancella il paesaggio intorno a noi: lungo la strada non c’è illuminazione, ai lati della via, nel buio, file di persone che tornano probabilmente alle loro case.

Nel nulla apparente risplendono ogni tanto fuochi accesi nei cortili di gruppi di capanne. L’autobus viaggia al centro della strada, per evitare incidenti e, più di una volta, sorpassi azzardati da parte di taxi collettivi, ci fanno rizzare i capelli in testa! La sera, dopo cena, assistiamo ad uno spettacolo di musica e acrobati (bravissimi!) presso il vicino Paradise Hotel.

Decimo giorno (30 luglio) Questa mattina partenza per Mombasa, con un autobus (vecchissimo) dell’A.S.C. (escursione gratuita).

Mombasa è una città portuale, collegata alla terraferma da tre ponti e dal vecchio servizio di traghetti di Likoni.

Sosta obbligata lungo la strada principale della città, la “Moi Avenue” (Moi è il nome del presidente della repubblica del Kenia), per la foto di rito davanti alle enormi zanne poste ad arco sui due sensi di marcia, che sono diventate il simbolo di Mombasa.

Quindi visita ad un negozio di gioielleria.

Finalmente camminiamo nel centro della città antica, che conserva segni della dominazione araba (la maggioranza della popolazione qui è musulmana): moschee, tipiche abitazioni con balconi in legno, portoni di legno intarsiato… Anche in città vediamo dappertutto povertà, ma è una miseria più triste, quasi rassegnata.

Entriamo dentro il porto e assistiamo ad una scena da girone di inferno dantesco: uomini scalzi e laceri scendono di corsa, sotto il peso di due enormi sacchi di merce (di 60 Kg. L’uno), gli scalini che portano al molo, dove si sta caricando una nave da trasporto. Di corsa, perché si lavora a cottimo; è uno “spettacolo” da pugno allo stomaco, che ci ricorda che proprio qui, su questa banchina, venivano caricati gli schiavi provenienti da Zanzibar o dall’interno del paese. Ma di quanto sono cambiate le condizioni di vita? E poi di nuovo ci immergiamo nei vicoli della città e ci fermiamo in negozi di artigianato dove si vendono a buon prezzo oggetti in legno, pietra saponaria, perline, tutto rigorosamente fatto a mano.

Ci fermiamo alla fortezza del Jesus, ma fa caldo e noi preferiamo aspettare, all’ombra, all’esterno.

Nel pomeriggio ci dedichiamo ad una lunga passeggiata attraverso lo Shanzu Holiday Resort, il nostro complesso, che comprende lo Shanzu Beach Hotel, il Paradise, il Coral e il Palm Beach, tutti immersi in un parco con ibischi, bouganvillae, frangipane, e altra vegetazione esotica, all’ombra di palme da cocco.

In spiaggia, a sorpresa, troviamo Francesca, Fabrizio, Daniela e Fabio appena tornati dal safari al Masai Mara: senza perdere nemmeno un minuto, si stanno cuocendo sotto il sole.

La sera andiamo tutti a cenare al Coral, dove troviamo anche Eleonora e Andrea. Undicesimo giorno (31 luglio) Oggi è giorno di riposo, prima del safari di domani ad Amboseli.

Decidiamo di approfittare ancora di un’escursione offerta dall’A.S.C.: è il “Shimo Dhow trip”, un gita in barca sulla Ai lati le rive sono ricoperte da mangrovie; gruppi di ibis riposano sui rami o affondano nel fango il lungo becco ricurvo.

Anche qui possiamo notare le enormi differenze esistenti fra gli abitanti del paese: da una parte ville lussuose che fanno capolino fra le palme delle collinette circostanti, con imbarcadero privati da cui partono motoscafi per sci d’acqua; dall’altra capanne di fango che sorgono su fazzoletti di terra coltivati a mais e bambini che giocano nudi nell’acqua… Lungo il percorso incrociamo numerose imbarcazioni arabe (dhow), su una di queste vediamo persino gli acrobati che abbiamo ammirato l’altra sera, offrire le loro spettacolari evoluzioni ai turisti.

Passiamo il pomeriggio in spiaggia, ma il sole gioca a rimpiattino fra le nuvole.

Dodicesimo giorno (1 agosto) Sveglia antelucana: alle 3,30 abbiamo appuntamento con David, per partire verso il parco nazionale di Amboseli.

Nel pullmino siamo in 10: David e l’autista, io e Mauro, Francesca e Fabrizio, Fabio e Daniela, Eleonora e Andrea.

Percorriamo, nella notte buia, la strada fra Mombasa e Nairobi.

Ad un tratto una sosta imprevista: un fascio di luce puntato attraverso i finestrini ci sveglia: uno strano individuo armato di arco e frecce molto appuntite controlla l’interno del mezzo. Ci siamo fermati per cambiare una gomma in un posto di sosta per gli autisti dei moltissimi camion che transitano sulla statale: le frecce avvelenate servono a tenere lontani i malintenzionati! Verso le 7 ci fermiamo per la colazione: siamo allo Tsavo e fa molto freddo.

Comincia poi la strada sterrata, con polvere e buche a non finire; ma il paesaggio è davvero suggestivo: in uno scenario dominato dal colore rosso della terra, si innalzano baobab maestosi e bellissimi.

Ed ecco il popolo Masai: figure snelle ed eleganti avvolte nei tradizionali mantelli rossi, con in mano il tipico bastone o la lancia … eccoli portare al pascolo mandrie di mucche e zebù, e poi donne che portano sulla testa rasata contenitori con acqua, e bambine e bambine che salutano… La strada inizia a salire e ci avviciniamo al confine della Tanzania, ai piedi del Kilimangiaro.

Fa sempre freddo, ogni tanto pioviggina e le nuvole impediscono la vista della cima leggendaria; il paesaggio è cambiato: l’immensa savana si stende davanti ai nostri occhi, interrotta dalle macchie più scure delle acacie spinose.

Arriviamo ad Amboseli verso le 11,30; dopo pochi minuti dalla nostra entrata nel parco incontriamo subito due gnu che lottano, un grosso struzzo… Poi David fa fermare all’improvviso il pulmino: ha notato escrementi di felini fra l’erba! I leoni, i leoni! Eccoli! Un giovane leone e tre leonesse! Ci avviciniamo: il giovane maschio si sdraia sul terreno interponendosi fra noi e il gruppo di femmine. E’ un’emozione difficile da rendere con le parole! La sufficienza con cui ci considera il superbo animale ci mette soggezione, ci sentiamo veramente dei rompiscatole e ci allontaniamo il più silenziosamente possibile. Intanto ci avviciniamo all”Amboseli Lodge”, dove passeremo la notte. Un cartello posto nel cortile ricorda che siamo a 3500 piedi di altezza s.L.M e a 225 Km a Sud dell’Equatore.

E’ un complesso in legno e pietra, molto carino; le stanze sono all’interno di casette di pietra, con verandina su un bellissimo e vasto giardino roccioso.

Sopra e sotto gli alberi di acacia ci sono molti babbuini e famiglie di cercopitechi.

L’interno delle casette è semplice, i letti sono protetti da zanzariere.

C’è persino una piscina con gazebo ricoperto da orchidee gialle e rosse. Ci riposiamo per il lungo viaggio sui lettini della piscina, poi io, Andrea, Fabio e Fabrizio curiosiamo un po’ lì intorno. Fabio ci mostra la tecnica di caccia di un formicaleone mentre Fabrizio ha trovato grandi impronte e cacca fresca di elefante, all’interno del recinto del lodge, vicino alle casette! Verso le 15 partiamo per il safari: vediamo un serpentario (segretario?), una iena con una coscia ferita e dei grandi bufali vicini ad un lago. E’ nuvoloso e vediamo anche un ippopotamo che, “pole pole”, si avvicina all’acqua.

Ci sono anche elefanti, tanti elefanti, intenti a farsi una doccia di sabbia; sembrano tranquilli e si lasciano avvicinare (ma il motore del pulmino resta acceso!). Alcuni piccoli succhiano il latte dalle rispettive madri, mentre alcuni elefanti giovani provano a lottare fra di loro e fingono attacchi nei nostri confronti.

Un gruppo di aironi atterra lì vicino e sulle schiene dei pachidermi e, subito dopo, una bellissima aquila dal collo bianco (sì, proprio come quella che è il simbolo della nostra squadra, lo Spezia!) plana vicino a noi…Nella palude un grosso marabù ci guarda immobile.

Arriviamo ad una torretta di avvistamento e scendiamo ad ammirare il panorama: l’occhio spazia per un’immensa distesa a 360°, purtroppo però, il Kilimangiaro non si riesce a vedere.

Mentre torniamo al lodge vediamo avvicinarsi, dal confine con la Tanzania, un branco sterminato di zebre e gnu, che spettacolo! Davanti alla mia casetta ho una spiacevole sorpresa: un ragno molto grosso, dalla pancia enorme, cerca di entrare all’interno. Mauro lo caccia via, ma più tardi lo ritroviamo, con ribrezzo, sul pavimento della stanza. Dormiremo senz’altro avvolti nella zanzariera! La sera cena-barbecue all’aperto: invitiamo a cena con noi anche David e la guida. Loro accettano con gioia, ma, al momento di sederci a tavola, comprendiamo che questo nostro invito è un problema per il personale del lodge (tutti africani); siamo contenti di avere David con noi, ma ci dispiace per l’imbarazzo evidente che lui e l’autista provano.

David, alle nostre domande, risponde con un sorriso triste:- Hakuna matata, hakuna matata…- Nonostante questo episodio trascorriamo una bella serata chiacchierando e ridendo, anche se siamo tutti molto stanchi.

Tredicesimo giorno (2 agosto) Al mattino ci alziamo presto per un nuovo safari: abbiamo tutti la speranza di rivedere dei felini… Dopo poco incontriamo un gruppo di iene maculate che stanno divorando una grossa preda; uno sciacallo (carino!) attende in disparte che le iene terminino il loro banchetto… Poco più in là assistiamo ad una scena “da Quark”: da tre grosse buche nel terreno escono alcune iene con i loro cuccioli.

Gli animali adulti sono insanguinati fino a metà torace, i piccoli di iena entrano ed escono dalle tane, contendendosi un orecchio di gnu! Per nulla infastiditi dalla nostra presenza continuano le loro corse, i loro giochi… contiamo 6/7 cuccioli, un grosso maschio e due femmine.

Stiamo per lasciare il parco quando, sotto ad alcune palme, David riesce a scorgere una grossa leonessa che sta riposando: è l’ultima immagine di Amboseli, che ricorderemo a lungo.

Riprendiamo la lunga via del ritorno; all’ora di pranzo ci fermiamo in un’area di servizio inserita in un paesaggio quasi da film western: polvere rossa dappertutto, lucertoloni-iguane metà verdi e metà arancioni, ferrovia a scartamento ridotto, vecchi e storti pali della luce (o del telegrafo?)…, ma la sagoma del baobab, là in fondo, è inconfondibile! Arriviamo all’hotel in tempo per scendere in spiaggia, a salutare i nostri amici beachboys: M., contento di rivederci, che vuole sapere come è andato il safari, T., appassionato di calcio, che ci dà le ultime notizie della campagna acquisti italiana (!), i ragazzi S. Che ci chiedono di restare un po’ a chiacchierare con loro… Quattordicesimo giorno (3 agosto) Pensavamo di dedicare tutto il giorno al sole e al mare, ma oggi il tempo non è dei migliori (durante la nostra assenza ci dicono che a Shanzu è diluviato!); andiamo in spiaggia ugualmente…”Vieni qui, in Africa”, mi invita uno dei ragazzi della spiaggia…E penso di avere trovato, davvero, qui, la mia Africa, quella vera… Il pomeriggio piove forte, ma non possiamo mancare al nostro ultimo appuntamento in spiaggia: a tutti noi, italiani e kenioti, dispiace di dover interrompere questo rapporto di amicizia: scattiamo foto, ci scambiamo indirizzi, contraccambiamo semplici doni e, alla fine, partita di calcio sulla battigia! Kwaheri ragazzi! Dopo cena, abbiamo un’altra promessa da mantenere: assistere alla danza Masai allo Shanzu Village.

Ritroviamo il gruppo di Masai che avevamo incontrato nella nostra prima uscita serale, chissà se si ricorderanno di noi! Inizia la danza: è una vera, suggestiva e inquietante danza rituale Masai, fatta di incitamenti, gare di salto, dimostrazione di aggressività… Un Masai altissimo invita me, Daniela e Eleonora a ballare insieme a loro. Vorrei declinare l’invito, ma non posso sottrarmi alla morsa della sua mano intorno al mio polso ed eccomi qui, a cercare invano di trovare un ritmo da seguire in questi movimenti e urla primordiali.

Alla fine i Masai si avvicinano al tavolo e ci offrono la consueta merce: braccialetti e collane di perline.

Con una certa timidezza si avvicina a noi il ragazzo Masai che ci aveva insegnato il nome della luna nella sua lingua.

“No, allapa, stasera” gli dico e lui “ Guarda la luna, guarda la luna!” Kwaheri, arrivederci! Quindicesimo giorno (4 agosto) Sveglia alle 4 per la partenza.

Superato il problema del peso delle valigie ci imbarchiamo per il volo Mombasa-Basilea-Milano Malpensa Arriviamo a casa alle 4 del mattino del 5 agosto.

Ho ancora presenti le immagini, gli odori, i suoni, le voci di questo viaggio per me indimenticabile: “…Jambo, Jambo bwana, Habari gani, Mzuri sana.

Wageni, Wakaribishwa, Kenya yetu Hakuna Matata…” P.S.: potete contattarmi per porre domande, chiedere informazioni …Al mio indirizzo e-mail milemenca@libero.It Lo stesso può contattarmi chi desidera mandare un aiuto (quaderni, penne, libri…)alla scuola di Shanzu, o a qualcuno dei “ragazzi di spiaggia “ (libri in italiano, cartoline…) Ciao Milena



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