VALENCIA, l’America’s Cup val bene una messa
Oggi sono in procinto di realizzare il sogno.
Vado a Valencia. Vado a vedere l’America’s Cup ! E’ da qualche anno ormai che mia moglie Miriam mi assilla periodicamente per andare a fare un “salto” in quella città, ma io ho sempre opposto una strenua e fiera resistenza. “Che ci andiamo a fare a Valencia? In Spagna ci siamo già stati un sacco di volte!” erano le mie contestazioni. In realtà sapevo che il famoso architetto Santiago Calatrava stava realizzando delle importanti opere e che Miriam, anche lei architetto, smaniava per andarle a vedere. Terrorizzato dalla prospettiva di giornate intere passate tra cantieri ed incomprensibili strutture ultramoderne, avevo sempre anteposto il desiderio di scoprire nuove nazioni.
Quest’anno però, alla puntuale richiesta di mia moglie: “Che facciamo a Pasqua? Si potrebbe andare a Valencia…”, qualcosa è scattato nella mia mente.
Pasqua. Valencia. Ma è la settimana dell’inizio dell’America’s Cup ! “Ok. Prendo immediatamente i biglietti!” è stata la mia risposta che ha lasciato Miriam a bocca aperta.
Così, coinvolti i nostri amici “cinesi” (vedi il precedente racconto ‘Pechino val bene una messa …’”, ed acquistati i soliti biglietti aerei low-cost (Dio benedica la RyanAir !), ci tuffiamo nella “primavera Valenciana”.
Appena arrivati a destinazione, ci appare subito chiaro che di primavera, quest’anno a Valencia, non se ne parla proprio. Il freddo è pungente e la pioggia costante.
L’aeroporto è vicino al centro ed un breve tragitto in taxi ci deposita davanti al nostro albergo. E’ il Novotel Palacio de Congresos che abbiamo scelto via internet. Conosciamo lo standard dei Novotel, ma questo ci colpisce particolarmente. E’ nuovissimo e le camere ed i servizi sono di ottimo livello. Pur se piuttosto decentrato, ha le principali fermate della metropolitana praticamente dietro l’angolo.
Sono le 22,30 quando riusciamo a sistemarci, ma decidiamo comunque di fare un salto in centro. Dopotutto siamo in Spagna. Troveremo qualche locale aperto anche a quest’ora! Ed infatti, nonostante qualche difficoltà di orientamento ci faccia perdere del tempo, alle 23,30 riusciamo a trovare un ristorantino aperto proprio di fronte al Mercado Central. Si tratta di un simpatico locale che prepara tapas, bocadillos e piccoli piatti di pescado. Il cameriere, rispettando appieno i canonici ritmi spagnoli, adotta uno strano metodo per prendere le ordinazioni: attende infatti l’arrivo di ogni singolo piatto prima di passare ad un nuovo ordine. In questo modo, impieghiamo un tempo esagerato prima di riuscire a mangiare tutto, ma va bene lo stesso, perché il posto è piacevole e non abbiamo fretta. Dopotutto il ristorante chiude alle 2 di notte!
VENERDI 6 APRILE Il giorno seguente, il nostro entusiasmo è messo a dura prova dalla persistenza della pioggia. Io, in particolare, mi porto dietro dall’Italia un fastidioso mal di gola e la situazione climatica mi rende inquieto.
Di comune accordo, prima della partenza, abbiamo deciso di dividere equamente i nostri interessi nei tre giorni di permanenza. Oggi visiteremo la città vecchia. Domani ci recheremo al porto per le regate ed infine visiteremo la nuovissima “Ciutat de les Arts i les Ciencies”.
Ovviamente il programma non verrà affatto rispettato, ma per ora ci rivolgiamo alla perlustrazione del centro storico. La metro ci deposita davanti al Puente de la Exposicion, una specie di pettine gigante, anch’esso opera dell’architetto valenciano Santiago Calatrava, davanti al quale i due architetti Miriam e Daniela scattano la prima dozzina di fotografie.
Fortunatamente la pioggia ci concede una pausa e, dopo un’abbondante colazione in Plaza Ayuntamiento, cominciamo a vagare per le ampie strade cittadine. Siamo in pieno periodo pasquale ed i negozi sono tutti chiusi, ma, detto per inciso, la cosa non mi disturba affatto, almeno eviteremo sul nascere ogni tentazione di estenuanti e dispendiosi shopping.
Rimaniamo subito colpiti dalla grande eleganza dei palazzi che si susseguono di isolato in isolato. E’ un’architettura decisamente insolita rispetto a quanto abbiamo visto finora della Spagna. In alcuni scorci ricorda quasi Parigi.
Visitiamo le sfavillanti strutture moderniste del Mercado de Colon e della Estacion del Norte, con i loro colorati mosaici. Poi ci rituffiamo nella città vecchia dove ritroviamo il Mercado Central e la Lonja de la Seda, splendido edificio gotico, il cui interno a colonne tortili ricorda un gigantesco palmeto.
In Plaza Reina ho bisogno del primo pit-stop. Prima di affrontare la scalata al Miguelete, l’alto campanile della cattedrale, decido di tracannare un bel bicchierone di Horchata gelata. In realtà non ho la più pallida idea di cosa sia, ma poiché tutte le guide non parlano d’altro, non posso esimermi dall’assaggiarla.
Inizialmente, data l’affinità del nome, pensavo si trattasse della nostra orzata, ma una volta sul posto vengo informato che la bevanda deriva da un tubercolo (!) chiamato Cyperus Esculentus, meglio conosciuto come chufa. A me sembra un normalissimo latte di mandorla, ma comunque è gradevole e rinfrescante e ne berrò altri. Torniamo al Miguelete che, nonostante io cerchi di ritardarne l’incontro, mi aspetta minaccioso con i suoi 230 (altissimi!) gradini. All’inizio la salita sembra agevole. Solo un po’ di fiatone costringe a qualche pausa, ma man mano che ci si avvicina alla sommità, lo spazio si restringe ed il continuo incrocio con i visitatori in discesa, costringe a delle soste per consentire un passaggio alternato. Verso la cima, però, lo spazio vitale diventa così esiguo che i flussi in salita ed in discesa si fondono in un unico mostruoso ingorgo nel quale è impossibile passare se non esibendosi in contorsionismi da circo. Un’esperienza decisamente non raccomandabile per chi soffre di claustrofobia, come mia moglie che all’arrivo sulla terrazza tenta di uccidermi per averla costretta a questa traumatica esperienza.
Una volta ripreso fiato, veniamo immediatamente colpiti dallo splendida visuale che ci circonda (e per quanto mi riguarda anche da una botta di vento gelido che, sudato fradicio come sono, mi priva della residua buona salute). Si può chiaramente distinguere la conformazione della città. Il nucleo antico delimitato dal vecchio corso del fiume Turia (ora uno splendido parco), e tutt’attorno la nuova città che si sta allargando a macchia d’olio nelle pianure circostanti. In lontananza si distinguono le strutture portuali che mi fanno fremere al pensiero di quanto mi attende l’indomani. Proseguiamo fino all’ora di pranzo locale (circa le tre) il giro tra le bellezze della città che, devo dirlo, continua a sorprendermi, quindi facciamo una sosta in una caratteristica sidreria asturiana, dove mangiamo gustosi salumi e formaggi locali accompagnati da sidro di mele spillato da botti a muro. Qui inizio la mia serrata competizione con Stefano, l’amico che mi accompagna, nel tentativo di lasciare qualche effetto personale ai valenciani. Sì, perché entrambi siamo caratterizzati da una certa predisposizione alla distrazione, ed in ogni viaggio che facciamo assieme, qualcuno di noi riesce sempre a dimenticare qualcosa lungo il percorso. Questa prima sosta mi vede protagonista nel primo tentativo di lasciare il mio zainetto nel ristorante. Tentativo sventato in extremis da un solerte cameriere. Visitata Plaza Redonda, un buco circolare tra le case (una specie di Piazza dell’Anfiteatro di Lucca in formato mignon), siamo stanchi di girare per il centro, che abbiamo ormai battuto in lungo ed in largo, così decidiamo di apportare una variazione al programma, dedicando il resto del pomeriggio ad un primo assaggio della “Ciutat de les Arts i les Ciencies”.
Prima di partire abbiamo visto parecchie fotografie di queste modernissime strutture, divenute ormai simbolo della città, ma appena poniamo il piede fuori dall’autobus, rimaniamo tutti e quattro per un attimo paralizzati dallo stupore. Non penso di aver mai visto (se non, per altri versi, il Guggenheim di Bilbao) una cosa così folle ed ardita. Una serie di gigantesche architetture, a metà strada tra Disneyland e “2001 Odissea nello spazio”, scorrono davanti ai nostri occhi, abbaglianti nel loro candore, lasciandoci letteralmente senza parole.
Il sole, che per l’occasione fa capolino, rende tutto ancora più fatato proiettando ombre sempre cangianti tra gli intrichi di travi e colonne. Siamo proiettati in un’altra dimensione dove anche il tempo sembra non avere più valore. Ed infatti le ore scorrono veloci senza che ce ne rendiamo conto. L’unico momento in cui ritorniamo con i piedi per terra è quello del pagamento del biglietto. Ben trenta euro e cinquanta per poter entrare in tutti gli spazi espositivi ! Per fortuna il biglietto vale per due giorni, così prenotiamo per la domenica una visione al cinema panoramico dell’Hemisferic e ci perdiamo per il resto del pomeriggio nel gigantesco acquario dell’Oceanografic.
Come bambini, passiamo tra i vari ambienti marini attraversando tunnel di plexiglass con pesci che ci volteggiano attorno. Dai mari tropicali a quelli artici, quindi in superficie per gli ambienti umidi, poi nelle vasche degli squali, ed ancora all’aperto per il delfinario. Il tutto, tradotto, vuol dire: prima una sudata pazzesca, poi il gelo dell’artico, quindi un bagno nell’umidità ed infine una sferzata di vento e pioggia (che nel frattempo e tornata implacabile).
Con la salute ormai definitivamente minata, esco dal parco assieme ai miei compagni.
Come minimo ci vuole una paella.
E paella sia ! Abbiamo letto da qualche parte che la vera paella valenciana non è realizzata con pesce e frutti di mare, ma con verdure, pollo e coniglio, ma … Non ce ne frega niente.
Nel ristorantino in pieno centro nel quale ci siamo accomodati, ordiniamo una paella de mariscos, preceduta da una serie di gustosi antipasti di pesce. Tutto buonissimo.
Distrutti dalla fatica torniamo in albergo. Domani sarà una giornata memorabile.
SABATO 7 APRILE Al nostro risveglio, di memorabile ci sono soltanto il mio raffreddore e … La pioggia.
Un pò depresso prendo quindi la metropolitana che mi condurrà al porto. La zona costiera è piuttosto lontana ed avulsa dal contesto cittadino e prende vita esclusivamente in estate. Il viaggio per giungervi dura poco più di mezz’ora ed attraversa quartieri non proprio indimenticabili. Anche la zona della spiaggia, forse per la tristezza delle condizioni meteorologiche, non sembra un granché. Ci sono una serie di casette basse e spesso ornate di mosaici, che fronteggiano il mare. Ben tenute sarebbero anche caratteristiche, ma per lo più sono in condizioni disastrose. Passiamo quindi davanti ad un gigantesco albergo a 5 stelle che stona un pò nel contesto generale, quindi raggiungiamo un quartiere di anonimi casermoni.
“Ma dove l’hanno messa la Coppa America?” chiedo perplesso addentrandomi in quello squallore, ma all’angolo di una strada mi ritrovo all’improvviso davanti ad una scritta: “Luna Rossa”.
Siamo sbucati di fronte al quartier generale della sfida azzurra di Prada.
L’eccitazione mi sale a mille e finalmente scorgo in lontananza due giganteschi striscioni a forma di vela che segnalano l’ingresso al Port America’s Cup.
Da questo momento in poi tutto diventerà bellissimo ed affascinante. Non sento più neanche il raffreddore. Passiamo un controllo all’ingresso e ci ripariamo dalla pioggia dentro un hangar che ripropone i modelli di tutte le 31 imbarcazioni che hanno vinto la sfida fino ad oggi. Ci trasferiamo quindi in un grande shop che propone ogni genere di gadget ed abbigliamento sponsorizzati dalle 12 squadre contendenti. Cerco affannosamente un cappellino di Luna Rossa, ma non lo trovo, anzi, non trovo nulla di Luna Rossa. “Chissà perché?” mi chiedo ingenuamente (lo scoprirò presto).
Quando usciamo ha finalmente smesso di piovere e possiamo dedicarci alla visita del porto.
Ci sono una serie di strutture, alcune quasi dei palazzi, disposte a semicerchio, che accolgono le basi dei vari team. La parte posteriore ospita degli spazi aperti al pubblico, quella anteriore è off-limits.
Tra una costruzione e l’altra, però, ci sono dei piccoli affacci al mare che consentono di “spiare” all’interno, ed è lì che ho il secondo colpo al cuore. Vedo di fronte a me l’imbarcazione di Luna Rossa già armata e pronta a salpare. Ci informano che le barche tra una mezz’oretta lasceranno il porto per andare verso il campo di regata. Abbiamo il tempo di continuare la visita. Prendiamo quindi una scala mobile che ci conduce allo shop privato di Luna Rossa (ecco perché non c’era nulla di questo team nello shop comune).
Il negozio in realtà è una vera e propria boutique Prada. Ed anche i prezzi sono adeguati. Sono un pò indispettito e poiché non posso andarmene via di qui senza riportare un ricordo della mia barca preferita, compro un cappellino “basic”, cioè senza le pecette dei vari sponsor (che oltretutto costerebbe anche di più del mio). Sarà una piccola soddisfazione, ma almeno quando lo porterò in giro non sarò costretto a far pubblicità ai vari Prada, Alice e compagnia bella! Mentre stiamo scendendo la scala mobile, veniamo sorpresi da un insistente suono di sirene nautiche. Facciamo appena in tempo a ritornare nella nostra postazione, che le barche, ad una ad una, cominciano a lasciare le basi per dirigersi verso il canale di uscita del porto. Ai nostri fianchi ci sono Alinghi e BMW Oracle, poco più in là Luna Rossa e Shosholooza. Tutte le imbarcazioni, chi accompagnate da trombe, chi da musica rock, ci sfilano davanti a pochi metri di distanza e posso distinguere i grandi skipper che le timonano.
Anche Miriam ed i miei amici, che normalmente non hanno nessun interesse per la vela, sono eccitati quanto me. E’ uno spettacolo coinvolgente. Subito dopo proseguiamo la visita del porto e delle sue attrazioni. Ci sono ristoranti e bar, schermi giganti e barche esposte, giochi interattivi e parchi giochi per i bambini. Insomma, una kermesse della vela senza precedenti. E poi c’è il foredeck (ponte di prua), un edificio nuovo di zecca, tutto balconi e vetrate, che consente di avere una vista stupenda su tutto il porto. Ed è passeggiando sulle sue terrazze che ho il terzo e definitivo colpo al cuore. Lì, esposta in bella vista, c’è lei: la Coppa delle Cento Ghinee, la Coppa America. Bella e lucente mi sovrasta dall’alto dei suoi oltre 150 anni di storia.
Mentre mi soffermo per le foto di rito, Stefano si adopera per portarsi in vantaggio nella gara dei “distratti”. Per pochissimo non riesce a regalare tutti i suoi acquisti della giornata, lasciando la busta che li contiene nel bar dove si ferma a prendere un caffé. Anche stavolta è un cameriere che sventa la minaccia quando ormai eravamo quasi fuori del porto.
Dopo uno rapido spuntino, facciamo una passeggiata lungo la riviera di Las Arenas e Malvarrosa. Le due spiagge, che costeggiano il porto, sono belle e ben curate. Incorniciate da palme ed aiuole fiorite, vi si affacciano una serie di bei ristoranti, tra cui il famoso “La Pepica” dove si dice preparino la migliore paella di Valencia (e che, naturalmente, è chiuso per la Pasqua). Sarà il vento gelido che si è alzato o forse perché è svanito l’effetto taumaturgico della Coppa America, ma comincio a sentire la febbre che si alza. Ci interniamo, allora, alla ricerca di una farmacia di turno che, miracolo, troviamo dopo pochi isolati. In meno di un’ora l’aspirina mi rimette in sesto, appena in tempo per vedere le barche rientrare in porto ed assistere alla premiazione dell’equipaggio di Alinghi, vincitore delle regate.
Sono le nove quando, stanchi ed intirizziti ci sediamo davanti ad una bella paella ed è un vero godimento rifocillarsi al caldo mentre fuori dalle vetrate le luci cominciano a riempire di mille colori il porto davanti a noi.
A serata finita mi avvio verso l’albergo con un sorrisino stampato sul volto. Proprio non potevo chiedere di più a questa entusiasmante giornata velica. A proposito, stavolta sono io a tentare il colpo di mano, lasciando i miei acquisti nel ristorante dove un compassionevole connazionale mi insegue per riconsegnarmeli.
DOMENICA 8 APRILE Tanto per cambiare, piove. Ma non ci interessa. Alle 10,00 dobbiamo essere all’Hemisferic per la proiezione che abbiamo prenotato. Ci avviamo così in tutta calma e facciamo colazione dentro il parco delle scienze. All’ingresso della sala cinematografica ci consegnano delle strane cuffie che ci fanno sembrare tutti degli astronauti o, a scelta, dei malati di mente pronti per l’elettroshock. Veniamo quindi distesi su delle poltroncine reclinabili e letteralmente immersi in una proiezione a 360° sulle barriere coralline. Esperienza interessante, ma in quella posizione ho rischiato più volte il sonno. Impieghiamo il resto della mattina nella visita del “Museo delle scienze Principe Filippo”, all’interno del parco, bello, ma un pò troppo didattico. Tornati in centro, pranziamo in una taperia, abbuffandoci di tapas e patate fritte, quindi, ci concediamo una lunga passeggiata attraverso il parco della Turia.
Vero polmone verde di Valencia, questo è un parco sorprendente ed unico. Negli anni 50, infatti, per far fronte alle continue esondazioni del fiume che l’attraversava (il Turia, appunto), i valenciani decisero di deviarne il corso fuori dalla città e si ritrovarono con un immenso spazio da utilizzare proprio nel bel mezzo del centro cittadino. Invece di farsi prendere da smanie cementificatrici, come sarebbe successo da noi, decisero di farne un gigantesco parco pieno di verde ed infrastrutture sportive. E’ davvero particolare, oggi, passeggiare al di sotto del piano stradale, passando sotto decine di ponti che poggiano sull’asciutto, in un totale isolamento dai rumori del traffico cittadino.
Un’ultima sosta la facciamo per esaudire il desiderio di Stefano, che non vuole partire senza aver provato i “churros”, delle specie di pastelle fritte che vanno immerse nella cioccolata. Sono tre giorni che ci stona per assaggiarli, ma finora non ne abbiamo trovati da nessuna parte. Finalmente una bella pasticceria li pubblicizza in vetrina e ci fiondiamo dentro per non perdere l’occasione.
“Siamo spiacenti” ci dice un cameriere italiano (a proposito, quasi tutti i camerieri che abbiamo incontrato erano ragazzi italiani) “i churros li facciamo solo dopo le cinque di sera” Lo sconforto di Stefano è grande, ma viene subito attenuato da uno strepitoso “zumo de naranjas” (succo d’arancia), vera gloria locale. Le arance di Valencia sono tra le più rinomate del mondo ed hanno fatto la fortuna della città nei secoli, a tal punto che l’immagine delle arance la si può trovare dovunque, persino scolpita sui monumenti.
Raggiunto nuovamente il ponte “a pettine”, che dopo le avveniristiche strutture viste nel Parco delle Scienze, ci suscita molta meno impressione, riprendiamo la metro per l’hotel.
E’ nel tragitto in taxi che ci riporta in aeroporto che abbiamo la sensazione di aver commesso qualche errore. Il tassista che ci guida, infatti, di una loquacità inusitata, distrugge in pochi minuti tutte le convinzioni che ci eravamo fatti in tre giorni di visita. “La paella? No, dove siete stati fa schifo! Dovevate andare da …” “L’horchata? No, quella vera si fa da …” “Non avete visto il museo …? Il migliore della citta!” “Non avete bevuto l’Agua de Valencia? Vi siete persi la cosa migliore …” e via di questo tono.
Giungiamo annichiliti all’aeroporto, ma nell’attesa del volo pensiamo che forse l’autista era solo un fanfarone locale che voleva impressionarci.
Forse avremo sbagliato qualcosa, ma a noi Valencia è piaciuta comunque. E molto.
L’impressione che ne abbiamo ricavato è di una città che fa, prima di dire (l’esatto contrario delle città italiane). Ed i risultati si vedono, visto il numero di turisti da tutto il mondo in vorticoso aumento. Non è un caso, dopotutto che dall’anno scorso la Spagna abbia superato l’Italia come presenze di turisti stranieri. Per risollevare le sorti di un paese c’è bisogno di persone serie e seria programmazione, e gli spagnoli, dispiace dirlo, pur conservando la loro immagine di gente gioviale ed ospitale, si stanno dimostrando più seri di noi.