Un conto aperto con la Cina

Tutto cominciò quasi per scherzo. Studiare il cinese? Così per passare il tempo? Sembrava una cosa piuttosto curiosa. Quando poi mi iscrissi al corso di lingua che si teneva all'Associazione Italia-Cina, si rivelò un impegno non indifferente. Fui confortato dagli insegnanti che mi esortavano a proseguire, a detta loro possedevo una buona...
Scritto da: Maurizio Virgili
un conto aperto con la cina
Partenza il: 02/10/1996
Ritorno il: 30/10/1996
Viaggiatori: in coppia
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Tutto cominciò quasi per scherzo. Studiare il cinese? Così per passare il tempo? Sembrava una cosa piuttosto curiosa. Quando poi mi iscrissi al corso di lingua che si teneva all’Associazione Italia-Cina, si rivelò un impegno non indifferente.

Fui confortato dagli insegnanti che mi esortavano a proseguire, a detta loro possedevo una buona predisposizione all’apprendimento di questa ostica lingua, e così giunsi a sostenere e superare brillantemente l’esame finale dopo tre anni di corso, di sudore e di calli sulle dita per le pagine e pagine di caratteri redatti con la biro. A questo punto divenne improrogabile partire per la Cina, anche per mettere alla prova quello che avevo faticosamente imparato. Come sempre mi seguiva Elisabetta, inseparabile compagna dei miei viaggi, oltre che di vita.

Dopo aver studiato un itinerario di massima da compiere nella regione centro nord nei 28 giorni di validità del visto, decidiamo di partire in ottobre: a Pechino e dintorni è sicuramente il periodo migliore. D’estate infatti il caldo è soffocante, gli inverni sono invece gelidi. Anche la primavera, nonostante le temperature siano piacevoli, per Pechino e l’area immediatamente a ovest, è una stagione da evitare per i forti venti provenienti dalla regione mongola che in quel periodo si abbattono sulla zona tempestandola di sabbia. Viaggiamo con Alitalia. Volo tranquillo, servizio discreto, ma prima dell’atterraggio ci consegnano un foglietto con le istruzioni per la conferma del volo di ritorno e gli orari degli uffici Alitalia presenti in città e in aeroporto. Gli orari si riveleranno sbagliati in entrambi i casi! A Pechino sbrighiamo le formalità di frontiera e con un autobus raggiungiamo il centro. Ci vengono incontro dei guidatori di risciò (a pedali), e comincio ad azzardare le prime frasi in cinese: sorpresa! Loro mi capiscono sembra piuttosto bene, capire loro è tutt’altra faccenda. E già, perché i cinesi, quando sentono qualcuno parlar cinese, anche in maniera non proprio fluente e disinvolta, si comportano esattamente come parlassero con un conterraneo dagli occhi a mandorla, sparando a raffica. D’altronde la orgogliosa ed arrogante chiusura culturale durante le epoche dinastiche prima, e la propaganda contro i “diavoli occidentali” durante la Rivoluzione poi, hanno fatto in modo che i cinesi fossero convinti di essere sul serio il centro del mondo, e che al di là della Muraglia ci fossero poco più che barbari dalla lingua incomprensibile ed inutile. Perciò anche se non parlate cinese, ed un cinese nel cercare di spiegarvi qualcosa nella sua lingua, si accorge che non capite nulla, non sorprendetevi se all’improvviso questi comincia idealmente a tracciare col dito i segni di un ideogramma sul palmo della mano. Questo è il modo che i cinesi di regioni diverse, che, parlando, spesso non si capiscono affatto, usano per intendersi. In cinese infatti la fonetica non è legata a doppio filo con la scrittura, e lo stesso carattere, con identico significato, può essere letto in modo molto differente da sud a nord e da est a ovest, nei rispettivi dialetti. All’arrivo in hotel, faccio la mia prima litigata in cinese coi due guidatori di risciò che pretendono una cifra ben più alta di quella concordata e che io non concedo affatto. Per avere il visto turistico è necessario possedere almeno una prenotazione alberghiera. Noi avevamo prenotato l’Hotel Minzu, non eccessivamente caro, ottima posizione su Fuxingmennei Dajie, si può arrivare a Tienanmen a piedi. Ed è esattamente quello che facciamo non appena rifocillati con doccia e colazione. La grande piazza, cuore di una Pechino che vi ha visto le grandi folle prima in adorazione del Figlio del Cielo e poi ascoltare il presidente Mao proclamare “la Cina si è sollevata”, fa davvero una grande impressione per la sua sterminata superficie, e mentre la si percorre, tra bambini che giocano, adulti che fanno volare gli aquiloni (e cercano di venderli) e ragazzi e ragazze che si abbracciano guardando la Colonna degli Eroi, si fa fatica ad immaginare cosa sia successo quando i carri armati “fronteggiarono” gli studenti in quel giugno dell’89. La folla a Pechino è davvero tanta. Le strade sono ingombre di gente, ci si urta continuamente e sorprende, per come siamo abituati, che nessuno si volga a scusarsi. Ma i cinesi sono fatti così. Forse l’abitudine a vivere in situazione di sovraffollamento, forse ed anche, l’educazione rivoluzionaria che ha teso a livellare, almeno all’apparenza, gli stati sociali delle persone mettendo al bando forme di cortesia o deferenza che erano ritenute reazionarie. Il fatto è che abitualmente, ed in particolar modo quando il rapporto è tra un pubblico funzionario, anche un semplice impiegato o sportellista voglio dire, e un comune cittadino, i cinesi tra loro si trattano in modo piuttosto scortese, quantomeno non fanno troppo uso di garbo. Non è infrequente vedere persone che litigano tra loro. Ed anche con lo straniero non cambiano atteggiamento. Sono insomma piuttosto spicci e indifferenti. Ovviamente chi va in Cina con un viaggio organizzato, o chi una volta giunto si affida a qualche guida o operatore locale non si accorge di questo. Ma dover trattare quotidianamente con i cinesi per un mese può risultare faticoso. Si ha a che fare con la loro grande pragmaticità, ma anche con atteggiamenti quotidiani a cui si deve fare il callo. L’abitudine di sputare dei cinesi è una cosa a cui si fa fatica non badare, anche perché o fanno indifferentemente nei luoghi pubblici che siano la strada, gli autobus, i ristoranti. A dire il vero, a Pechino e pare nelle altre grandi città la gente sputa abbastanza poco, le autorità stanno timidamente cercando di far perdere questo vezzo alla popolazione; ma altrove quello dello scatarramento costituisce una sorta di leit motiv sonoro della giornata. In questo ed in altre cose Pechino costituisce un caso a parte. A Pechino non è rarissimo incontrare qualcuno che parla inglese,j, le persone si offrono con un atteggiamento che tradisce l’abitudine al turista straniero (parte di cortesia e parte di indifferenza), si gode di alcuni servizi per il turista anche se non sempre questi si rivelano efficienti, i tassisti usano tutti il tassametro. Nella periferia dell’ Impero la musica cambia. In ogni caso avere a che fare con i tassisti offre occasione di rimanere perplessi quando non di litigare. Non è infrequente vedersi rifiutare la corsa perché chiedete di essere portati ad una destinazione troppo lontana o scomoda da raggiungere (specie in prossimità della fine del turno di lavoro), od anche di non essere caricati affatto da un tassista che vi fa un segno roteante con l’indice ed il medio della mano uniti, a simboleggioare le bacchette che è sua intenzione usare per rifocillarsi di lì a qualche minuto. Ma adesso siamo nella “Capitale del Nord” e per prima cosa ci godiamo la Città Proibita. Poco prima di passare sotto il ritratto di Mao che sovrasta la Porta della Pace Celeste, una coppia di cinesi che sono giunti nella capitale da chissà dove decidono di portare a casa una foto del loro figlioletto di non più di tre anni, e mi chiedono di prenderlo in braccio. Il bambino è bellissimo, niente affatto intimidito da me, un estraneo che lo tiene in braccio e che per di più non assomiglia neanche un poco alle persone che è abituato a vedere. Ha invece un atteggiamento ed uno sguardo incredibilmente fieri e compunti. E’ vestito di giallo e arancio, porta uno strano cappello che gli nasconde completamente i capelli dando quindi l’impressione che non ne abbia, e per un momento la mia mente rivede le immagini del film di Bertolucci, e mi sento un dignitario di corte che tiene in braccio Pu Yi, l’ultimo imperatore. Mi chiedo anche il perché di questo desiderio di una foto con un “Naso Lungo”. E mi accorgo che siamo gli unici stranieri in giro, e se, almeno in questa stagione, i turisti stranieri a Pechino non sono poi molti, quando ci allontaneremo dal centro dell’ Impero, ci renderemo conto che là sono davvero rari tutto l’anno. Entriamo nel Palazzo. L’impressione e di imponenza, e lo spettacolo è bellissimo. La folla è tanta anche qui, quasi tutti cinesi, e si perde un po’ l’atmosfera. Usiamo un trucchetto: arrivati in fondo, in prossimità dell’orario di chiusura anziché uscire dalla parte del parco Jing Shan, torniamo verso Tienanmen percorrendo a ritroso l’itinerario, riuscendo così a rivedere e fotografare molte cose in perfetta solitudine, incalzati ogni tanto, ma senza eccessiva insistenza, dai sorveglianti e dai militari con tanto di cane lupo. Arrivati all’ingresso, la grossa porta di legno si chiude alle nostra spalle, e torniamo nella pazza folla. E’ ormai il tramonto e ci fermiamo a vedere l’ammaina bandiera sulla piazza attorniati da un gran numero di persone, cinesi, alcuni che hanno atteso seduti in terra anche per più di un ora per essere in prima fila. Il giorno successivo assoldiamo un autista e ci facciamo portare a Mutianyu. E’ un po’ più scomodo di Badaling, ma qui non c’è folla e possiamo goderci la vista della Grande Muraglia in pace. Inoltre in autunno, i boschi che la circondano si tingono di caldi colori rosso e arancio, e soprattutto verso il tramonto lo spettacolo è bellissimo. Una coppia di attempati signori sostano sulla Muraglia abbigliati da antiche guardie imperiali in attesa che qualcuno dei rari visitatori chieda di farsi fotografare con loro, ma ci saranno al massimo una dozzina di persone che passeggiano sui bastioni, e nessuno si avvicina. C’è una piccola funivia, qui la Muraglia passa sulle creste dei monti, ma al ritorno la troviamo chiusa: l’orario non coincide con quello di apertura della Muraglia. Poco male, dopo un iniziale problema di orientamento, troviamo il sentiero che porta a valle, e la passeggiata si rivela piacevole. Nota: anche qui, come a Badaling, la Muraglia è stata restaurata, che vuol dire pressappoco “ricostruita”. In effetti il fatto che i mattoni di questa millenaria opera dell’uomo siano nuovi salta subito all’occhio, ma questo è uno dei motivi che possono costituire parziale delusione per chi visita le bellezze architettoniche della Cina. Durante la rivoluzione, purtroppo, è stato fatto parziale scempio di molte delle cose che rapprsentavano il potere imperiale o religioso, scempio che è poi ripreso durante la rivoluzione culturale e che solo recentemente, avvedendosi che potevano essere appetitose per il turista, alcune cose sono state parzialmente o quasi interamente ricostruite. Questo vale per templi, palazzi, e per la grande Muraglia che, nei luoghi dove non è stato effettuato nessun intervento, ha perlopiù l’aspetto di un muretto a secco del nostro meridione. Così, ciò che si visita adesso, che viene vantato come millenario, talvolta è stato rifatto completamente 10 anni fa. La nostra visita a Pechino prosegue con altre tappe obbligate, come il Tempio del Cielo, il Tempio Lamaista e il Palazzo d’Estate. Tutte belle, ma tutte con la medesima impressione di rifatto. I templi meritano un discorso a parte. Sappiamo come il regime di Mao abbia fatto di tutto per cercare di sradicare le radici culturali del popolo cinese, in particolare in tema religioso. In buona parte l’impressione è che vi sia riuscito. E’ stato educativo osservare il comportamento dei cinesi nell’avvicinarsi ai luoghi di culto. Dopo aver pagato il biglietto di ingresso (come se ad un italiano che intende pregare facessero pagare una tassa per entrare ad inginocchiarsi in una nostra basilica), le persone si avvicinano ai bracieri, accendono l’incenso e congiungono le mani, ma solo per un attimo, e lo fanno spesso sorridendo o ridendo addirittura, tra imbarazzo e scherno. Altri si avvicinano alla grossa campana e la colpiscono con il lancio di monete, che diventa per i più giovani una divertente gara di tiro al bersaglio. La maggior parte, comunque, sembra ripetere gesti di cui non è padrona, che non gli appartengono più, che non condivide perché forse non più è in grado di riconoscere. Certo altra atmosfera si respira nei templi buddisti di Nepal o Birmania. Solo i vecchi sembrano avvicinarsi a questi luoghi con una devozione che sembra emergere da una memoria seppellita per decenni, ma solo per essere conservata. Mi reco alla stazione centrale per prenotare un biglietto per Xian. Ho letto che c’è un ufficio prenotazioni per stranieri e mi dirigo fiducioso. Lo sportello reca l’insegna in inglese, ma il biondino davanti a me si arrovella con l’impiegata. Quando arriva il mio turno capisco: lo sportello sarà pure riservato agli stranieri, ma nessuno parla una parola di inglese o altro. Il mio mandarino non sarà perfetto ma sufficiente per ottenere le informazioni necessarie e compilare il modulo di richiesta del biglietto mio e del biondino. Il giorno dopo partiamo per Xian alle 17.30, arrivo previsto 7.15, del giorno dopo ovviamente. Ci sistemiamo nella nostra “lussuosa” cuccetta di prima classe insieme ad una coppia di anziani signori che rimangono gradevolmente sorpresi del mio cinese ed intavoliamo una conversazione che mi fa sudare un poco fino alla buonanotte. Nel frattempo una austera addetta in divisa, senza troppi convenevoli ritira i nostri biglietti consegnandoci una targhetta di plastica col numero del posto, e omaggiandoci bruscamente di una rubrichetta telefonica in similpelle delle ferrovie cinesi. A Xian troviamo posto in un confortevole alberghetto centrale appena ristrutturato. La città sta cercando di sterzare verso occidente, e le insegne luminose dominano la notte del centro. L’ingresso di un centro commerciale si offre con i suoi giganteschi display luminosi che pubblicizzano i prodotti ed i suoi leoni di pietra all’ingresso, mentre un altro, festosamente addobbato con nastri e mongolfiere multicolori si affaccia su un piazzaletto dove, prima dell’orario di apertura, le commesse in divisa effettuano una seduta di ginnastica che sembra più un breve addestramento militare, sotto l’occhio vigile di un tomo dallo sguardo inflessibile in abito blu. Le ragazze in realtà sembrano non prenderlo troppo sul serio e si confidano complici risolini che crescono quando decido di fotografarle. Bighelloniamo per la città e tra una Torre del Tamburo e una Pagoda della Grande Oca, pilucchiamo l’ottimo cibo cinese. La cosa forse più interessante è la moschea con il quartiere che la circonda. Molto vero, con una pulsante vita di strada. Dobbiamo però andare a vedere l’esercito di terracotta, e ci aggreghiamo ad una comitiva di cinesi. Il pullman è scassato e la guida, ovviamente, parla solo cinese. Dopo mezz’ora di viaggio ci fermiamo in un posto che non parrebbe il siti archeologico che stiamo cercando. La guida dice qualcosa che non capisco, ma ci invita comunque a scendere ed ad entrare in un grande capannone. All’interno, con scenografie e figure in cartapesta a dimensioni reali è ricostruito il cosiddetto “Incidente di Xian”, quando i comunisti catturarono Chiang Kai Shek, che fu fatto poi liberare da Zhou En Lai in persona. Non è che capisco molto di ciò che la guida spiega, ma il conoscere un po’ la storia cinese mi aiuta. La cosa pareva a noi ingenua e divertente (i cinesi ascoltano invece con molta attenzione), quando giungiamo alla ricostruzione della camera della locanda dalla quale Chiang Kai Shek tentò di fuggire durante la notte. La camera è ricostruita così minuziosamente che sopra il comodino fa bella mostra di sé, un bicchiere con dentro una dentiera, finta suppongo, evidentemente di Chiang. A quella vista Elisabetta scoppia in un riso irrefrenabile, e mentre io soffoco il mio divertimento, mi vedo languire in una cella con una condanna per vilipendio alla rivoluzione o qualcosa del genere. Si prosegue per la meta principale e, dopo una breve sosta alimentare in un ristorantino di campagna, giungiamo alla imperiale tomba di Qin Shi Huangdi. Certo, la vista dei guerrieri di terracotta è impressionante, ma sono costretto a rimproverare ai cinesi di non averli valorizzati come meritano. La visione risultava infatti eccessivamente distaccata, ed anche la collocazione, all’interno di una sorta di capannone industriale, certo non contribuiva a creare atmosfera. Spero che abbiano nel frattempo fatto di meglio, o che si siano impegnati a farlo. Torniamo alla corriera che riparte direzione Xian. A metà strada altra sosta. Stavolta è una fabbrica di prodotti cosmetici e medicamentosi. Ci fanno accomodare in una sala con un grosso braciere acceso accanto al quale una giovane addetta ci mostra una miracolosa crema contro le bruciature. Per convincerci della bontà del prodotto pone una catena di ferro sopra il braciere, ed una volta diventata incandescente l’afferra per un attimo. Poi passa velocemente tra il pubblico per mostrare le ustioni (noi esterrefatti, i cinesi interessati) e poi si spalma la crema sulle mani continuando a parlare. Dopo qualche minuto torna tra gli astanti a mostrare il risultato dell’efficace prodotto. Esempio non importabile di pubblicità diretta e tangibile.

Decidiamo di andare a Yanan, il quartier generale dei comunisti all’epoca della rivoluzione. Sull’autobus la gente mangia, sputa, un bimbo fa la pipì che gli ondeggiamenti del mezzo provvedono a distribuire uniformemente per il pavimento. La sosta pranzo si fa in un villaggio dove il cibo è piuttosto semplice ed i bagni pubblici sono delle buche nel terreno, strette e lunghe dove le persone si accovacciano insieme. D’altronde nella stessa Pechino, i bagni pubblici hanno dei separatori, ma non le porte. Yanan è una città decisamente brutta. Il centro è formato da una interminabile serie di palazzoni di edilizia popolare. Sulla collina ed in periferia, invece, le abitazioni sono le stesse yaodong di cinquanta o cento anni prima: semplici grotte scavate nel terreno argilloso, spesso chiuse da usci di legno intagliati e traforati per lasciar passare l’aria. Naturalmente non ci sono fognature o condutture idriche, ma sono ugualmente riusciti a portarvi l’energia elettrica. Così, oltre a qualche lampadina, qualcuno possiede anche un televisore, in alcuni casi, addirittura, con tanto di parabola satellitare. Ci inerpichiamo su per la collina, passiamo tra i vicoli che si snodano tra le grotte, la gente è gentile, qualcuno ha una improvvisata bancarella, una famiglia seduta nel “cortile” ci invita a bere del tè. Sulla sommità della collina si erge un tempio, non troppo ricco, non troppo frequentato. Un vecchio (ma sarà poi davvero così vecchio?) che sembra uscito dal Milione di Marco Polo, con pochi denti ed una barba lunga e sottile, sorride incuriosito. Scendiamo dalla collina percorrendo un altro sentiero e ci accorgiamo che passando tra le grotte, abbiamo in realtà involontariamente bypassato l’ingresso principale che è a pagamento. Nessuno se ne accorge, e possiamo anche visitare il piccolo museo dedicato al periodo della rivoluzione, di quando anche Mao e Zhou abitavano in una delle grotte. A passeggio per le vie della città ci rendiamo conto che qui, davvero, di stranieri ne devono vedere pochi. La gente si volta, ci scruta, sorridono e si danno spallate, ci seguono, a distanza, quasi ci temessero. Solo una ragazza si avvicina per offrirci della frutta, e subito si forma un capannello di gente. Ci sentiamo un po’ un’attrazione involontaria. E’ parzialmente imbarazzante, a tratti irritante. Irritante è per l’esofago il pasto in un ristorantino scelto a caso per la cena. Siamo gli unici avventori, la ragazza sembra perplessa nel vederci lì, ci offre un tavolo riservato con tanto di separé e ci consiglia la specialità locale il cui nome non annovero nel mio mentale vocabolario di mandarino. Si rivelerà un piatto di trippa piccantissima e assai ardua da masticare. L’albergo è abbastanza economico e funziona ancora col vecchio sistema dell’inserviente di piano che possiede le chiavi ed a cui ci si deve necessariamente rivolgere per rientrare nella stanza. Quando arriviamo l’inserviente non c’è, nessuno sa dove sia, e ci tocca aspettare un po’ prima di poter andare a letto. Il bagno comune del piano è completamente allagato a causa di una vistosa perdita di una doccia che fa scrosciare rumorosamente l’acqua su pavimento, ma pare che nessuno se ne accorga, o forse a nessuno importa.

Ritorniamo a Xian per prendere un autobus che ci porta a Luoyang. Visitiamo le grotte dei Budda sul fiume, ma i Budda non esistono quasi più. Parte distrutti dalle guardie rosse, parte trafugati, rimangono perlopiù solo dei mozziconi. Rari i casi in cui la figura sia riconoscibile. Solo i grandi altorilievi in cima alla salita sono in discrete condizioni. Doveva essere sicuramente un bello spettacolo prima che la furia distruttrice della Rivoluzione ci privasse di loro. E’ così irritante e deprecabile, e allo stesso tempo così inevitabile mi rendo conto, che violenti rivolgimenti politici e sociali tendano a distruggere tutto ciò che è lì a ricordare il passato. E questo in Cina è stato fatto con impegno. Una delle sensazioni che ho avuto è che i cinesi oggi sappiano davvero poco della loro storia antecedente al 1949, e quel poco che sanno è stato filtrato abilmente dal regime. Oggi vestirsi da imperatore è uno sfizio che chiunque può togliersi per pochi yuan, con tanto di fotografia. E i cinesi lo fanno, divertiti, con quel riso che nasconde o forse evidenzia imbarazzo, come se fosse un carnevale di cui però nessuno sa spiegarsi l’origine, o di cui si spiegano l’origine come di qualcosa da deridere.

Ci dirigiamo a Kaifeng. La città non offre spunti eccezionali, ma ha un bellissimo giardino pubblico ed un centro con case in un curioso stile architettonico fatto di balconate in legno graziosamente lavorate. Alla stazione di Kaifeng, il vecchietto davanti a me litiga furibondo con la sportellista. Io cerco di acquistare il biglietto per Tai An, ma la bigliettaia non collabora, mi fa perdere parecchio tempo per rivelarmi poi che non ci sono posti liberi. Fortunatamente mi viene in aiuto un francese, per lavoro a Kaifeng da tempo. Lui parla male l’inglese, io non conosco affatto il francese, e decidiamo di intenderci in cinese. Mi indirizza ad un ufficio dove mi vengono venduti i biglietti senza problemi. A Tai An mangiamo in un semplice ed ottimo ristorantino il cui proprietario, saputo che siamo italiani, cerca di dimostrarmi la sua passione per il calcio e la conoscenza dei campioni della nostra pedata nazionale. In effetti farò caso ad un’ edicola, ad una rivista sportiva con la foto di Paolo Maldini in copertina. Saliamo su un autobus che ci porterà alle pendici del Tai Shan, una delle cinque montagne sacre della Cina. Sento fischiettare, la musica sembra familiare. Ma si, “Funicolì funicolà”! Mi volto di scatto, ma è un cinese la che fischietta, chissà dove l’ha sentita. L’autobus ci scarica ai piedi di una scalinata di pietra che si inerpica su per una gola, sulla sommità della quale si intravede una porta. Iniziamo a salire. Siamo seguiti e preceduti da un gran numero di persone. La scalinata è costellata da piccoli altarini e da un variopinto mondo di venditori ambulanti, chiromanti, e chioschetti di ristoro. La mia attenzione è attirata da uno strano marchingeno. Un abile fotografo ambulante per pochi yuan vi ritrae con una Polaroid ed effettua un improvvisato fotomontaggio a collage su una immagine del Tai Shan che poi provvede anche a plastificare; il tutto azionato da un piccolo gruppo elettrogeno a gasolio. Continuiamo a salire e giungiamo assai stanchini sulla cima. Sulla sommità della montagna c’è di tutto: alberghetti, ristorantini, bancarelle, steli con iscrizioni che aimé non sempre riesco od ho la pazienza di decifrare. Un cuoco cucina una zuppa di verdure con la “pasta a coltello”: davanti a sé ha la pentola dove bolle la zuppa, e tiene in mano accanto alla spalla un grosso panetto di pasta che affetta con una grossa lama, facendo cadere questa sorta di spesse lasagne direttamente nel pentolone. Decidiamo di dargli fiducia e la zuppa si rivelerà ottima. Si avvicina il tramonto e qualcuno torna a valle. Troviamo da dormire in un modesto albergo. La mattina la sveglia è decisamente antelucana. Affittiamo dei vecchi cappotti militari dell’Esercito di Liberazione. Sono pesantissimi, ma si riveleranno assai efficaci. Sul costone orientale del Tai Shan infatti, all’alba spira un vento teso e gelido. A fatica riesco ad estrarre ogni tanto le mani dalle tasche per scattare qualche immagine. Molte persone ogni giorno dell’anno, alcuni affrontano la salita durante la notte non potendo permettersi di pagare l’alloggio sulla cima, salgono sul Tai Shan a vedere l’alba. E tutto per cercare di scorgere, nel primo attimo del levar del sole, il cosiddetto Raggio di Budda che solo i più fortunati hanno la buona sorte di vedere e che la tradizione vuole sia bene augurante, una sorta di benedizione.Ma lo spettacolo più impressionante è alle mie spalle. Sul costone a ferro di cavallo ci sono centinaia e centinaia di persone, tutti o quasi col nostro stesso cappotto militare. Sembrava che l’Ottava Armata di Mao Ze Dong si fosse, rediviva, riunita sul Tai Shan. Alcuni tra i più giovani non esitano a sfilarsi il cappotto per farsi immortalare coi propri vestiti, al contrario di noi due che organizziamo prontamente un autoscatto per ritrarci col vecchio cappotto rivoluzionario. Ma forse, per i giovani cinesi, più che essere un nostalgico ricordo del passato, l’Esercito di Liberazione deve essere un ingombrante presenza nella loro recente storia.

Il ritorno a Pechino è un rapido ed indolore viaggio in treno. Ma abbiamo qualche altro giorno da spendere e così, dopo aver trovato alloggio al Yuandong Hotel, discreto albergo nei vicoli nei pressi di Qianmen (la porta opposta a Tiananmen sulla medesima piazza) decidiamo di andare a dare un’occhiata alla Grande Muraglia a Badaling. Rispetto a Mutianyu, Badaling ha più l’aspetto di un mercato sovraffollato; perdipiù i cinesi stavano inziando a costruire una autostrada il cui svincolo sarebbe stato proprio ai piedi del monumento. E conoscendo i cinesi credo che l’abbiano portato a termine. Certo la folla è tanta, ma arrivati nel punto più alto e lontano dal parcheggio dove sia consentito arrivare, decidiamo di pazientare, e dopo un paio d’ore, all’avvicinarsi del tramonto, la Muraglia ci si presenta alfine suggestiva e deserta come l’avevamo sognata. Nei giorni successivi, oltre a darci alla ricerca di ristoranti con delizie culinarie di cui Patrizio sarebbe orgoglioso (abbiamo trovato tra l’altro un posticino specializzato in ravioli con più di trenta tipi tutti squisiti ed uno con un’anatra affumicata alle foglie di tè dove siamo tornati due sere di seguito), bighelloniamo tra gli hutong, i vicoli della città vecchia di cui purtroppo lo sviluppo urbanistico di Pechino non prevede la sopravvivenza. I vicoli sono pieni di vita, si può sbirciare dentro i cortili delle vecchie case, ormai ingombri di cavoli per l’approssimarsi dell’inverno. Visitiamo anche una antica farmacia di medicamenti della medicina tradizionale. L’arredo è assolutamente d’epoca, ed i barattoli colmi di bacche, foglie, animaletti e radici (riconosciamo solo il gingseng) danno l’impressione di una volontà del rifiuto alla cultura occidentale che invece pervade la vita cittadina. Pechino è ormai una città che si sta trasformando da regno delle biciclette a regno delle auto, la gente passeggia normalmente conversando col telefono cellulare, un manifesto pubblicizza un provider Internet probabilmente istituzionale. Un negozio di abiti da matrimonio mette in bella mostra prodotti simil europei, offrendo servizio completo con tanto di fotografo, video matrimoniale, musica, acconciature ed abito bianco per la sposa. Il colore del matrimonio in cina per la sposa è sempre stato il rosso, ed il bianco era tradizionalmente il colore del lutto. Ma allora? Come sono riusciti in così breve tempo a cancellare tradizioni millenarie? Ma davvero la cultura e le abitudini occidentali costituiscono un richiamo così allettante? Una mattina ci svegliamo prima dell’alba, e ci dirigiamo al parco Tiantan. E ci riconciliamo un poco con la Cina. Numerosi sono i gruppi di persone che nel freddo mattutino eseguono gli eleganti movimenti del Tai Qi Quan, alcuni addirittura con la spada. In un angolo del parco alcuni uomini piuttosto anziani portano a spasso le gabbie di bambù e ferro battuto con i loro piccoli volatili. Qualcuno cerca di far volare un aquilone, senza scopi commerciali, nonostante il vento sia piuttosto scarso. Un gruppo di donne balla collettivamente ed a tratti canta una canzone con un testo evidentemente divertente. Qualcuno più in là, in una perfetta posizione del loto, pare assorto in una convinta meditazione. Allora esiste “questa” Cina. La Cina che idealmente mi ero creato, chissà perché, nella mia mente. Eppure la Cina di oggi non è più questa. Non solo perlomeno. E’soprattutto un paese dai forti contrasti e dalle ancora più forti contraddizioni. Ero venuto in Cina pensando di fare un viaggio immerso in una cultura millenaria, ma mi ero sbagliato. Sono io che ho sbagliato, perché ho fallito l’approccio. Elisabetta è solita dire: “Non possiamo pretendere che il mondo rimanga pittoresco per farci piacere”, ed è una verità sacrosanta. Certo mi sono trovato ad invidiare un poco chi questo paese l’ha visto trenta, quaranta, cinquant’anni fa. Ma, ripeto, sono io che ho sbagliato. La Cina deve essere colta proprio nei suoi aspetti di paese in bilico. Ed io non l’ho fatto, rammaricandomi e talvolta infuriandomi per questo, durante il viaggio. Dovrò tornarci. Con la Cina ho un conto aperto. Maurizio



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