Tre giorni in Bulgaria
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Una domenica a Sandanski
Sandanski è la città di Spartaco ci spiega un cartellone appena arrivati. La scritta in caratteri cirillici sullo sfondo di una statua dall’aspetto fiero. Sandanski grad Spartaca, per la precisione. Il sud della Bulgaria, una domenica di fine giugno, una lunga via pedonale strapiena di gente. Ci sono, nell’ordine: bambini che circolano su grandi automobili elettriche a gettone, non esiste una pista vanno semplicemente su e giù per la strada. Venditori di lamponi in bicchiere di plastica, prezzo 50 centesimi di euro ma si paga in lev. Venditori di semi di girasoli e semi di zucca in bicchiere di plastica. Grande albergo comunista Sveti Nicola, san Nicola, che incombe sulla piazza, con portiere in camicia bianca e pantaloni neri all’ingresso. Ristorante greco con cameriere che cerca di attirare clienti; pare che diversi uomini greci vengano qui per turismo sessuale, almeno così scrive la Lonely Planet. Manifestini mortuari in formato A4; nessuno annuncia una morte, sono tutti in ricordo di anniversari: 40 giorni, sei mesi, un anno, cinque anni; sempre la foto, spesso qualche verso di una poesia. Negozi di moda italiana dai nomi improbabili; uno si chiama Marcello Adultini, Creation in Italy e vende articoli in pelle ma anche camicie. Grande albergo con piscina termale piena di gente; un simbolo di Sandanski, ricorre sulle cartoline, sui magneti da frigo; grigio, mastodontico. E poi arriva il parco. Spazi ampi, prati curati, fiori, un grande viale centrale, bandiere bulgare affiancate a bandiere dell’Unione Europea. Di nuovo le macchinine a gettone, poi una fontana termale dal sapore di cloro appena prima della piscina termale olimpionica. Non si può nuotare perché sta per iniziare una gara di ragazzini: sono tutti riuniti insieme agli allenatori che mangiano kebabche (salsicce speziate, un grande classico della cucina bulgara) e patatine al bar della piscina. Un chiosco sgangherato, qualche sedia di plastica bianca e una tavolata chiassosa. Dall’altra parte c’è la piscina dei bambini, con una signora che fa pagare (poco) l’ingresso. E’ seduta davanti a un tavolino con una piccola cassa e chiacchiera al telefonino; sorride, ci fa entrare. Piccola piscina, scivolo d’altri tempi, erba: i bambini si divertono un mondo, scoppia qualche lite, tutto intorno ci sono vecchie sdraio con corde di plastica. Al ristorante della piscina è finito tutto, restano solo patatine con o senza formaggio. Tornati nel parco troviamo un plastico del massiccio del Pirin; c’è gente che lo esamina con attenzione, conoscono tutte le vallate, indicano le montagne, alla fine si fanno fotografare con la macchina digitale. Verso l’una e mezzo pranziamo al ristorante Tropicana appena fuori dal parco, lungo il fiume. I tavoli all’aperto sono pieni, il pane si ordina a fetta: cinque fette, un tarator (altra specialità bulgara: zuppa fredda con yogurt, cetrioli, olio, finocchietto e noci), spiedini, insalata, patatine con formaggio. Intorno mangiano più o meno tutti le stesse cose, c’è un’atmosfera rilassata da domenica pomeriggio estiva, ritmi rallentati, voglia di trattarsi bene. Il cameriere ci porta un piattino strapieno di una salsa rossa che ricorda il ketchup, prezzo 20 centesimi. Si chiama lutenica avevamo chiesto cosa fosse e ha capito che la volevamo ordinare. La mangiamo religiosamente, spalmata sul pane; è più buona del ketchup.
Pensandoci su
Pensandoci su, in Bulgaria mi aspettavo in parte di trovare il vecchio Est, quello di quando il comunismo era appena crollato e bastava allontanarsi di pochi passi dall’Occidente per sentirsi in capo al mondo. Atmosfera esotica, prezzi stracciati, un’assenza assoluta di turismo, la sensazione entusiasmante per chi ama viaggiare di essere capitati in un mondo davvero diverso.
Questo Est di venti anni fa in realtà non esiste quasi più, nemmeno in Bulgaria, e probabilmente è un bene. C’è più ricchezza, più fiducia, l’Europa adesso è una sola, come si può avere nostalgia del passato?
Ma nello stesso tempo, con un lieve senso di colpa, ammetto che mi piacciono i carri che circolano ancora per le strade, le vie dei paesini in terra battuta, i palazzoni alla periferia di Blagoevgrad e di Sofia con quell’aria tetra, cadente. Tutte cose che la gente di qui probabilmente trova imbarazzanti e spera di vedere scomparire nel più breve tempo possibile.
Ma mi piace anche, e in un certo senso mi emoziona, vedere che esiste un turismo bulgaro, che Melnik il sabato sera si riempie di gente venuta per il weekend che mangia nelle mehane (le osterie), dorme in albergo, fa festa e balla accompagnata da un coretto di zingari obesi e bravissimi; vedere la gente che visita i monasteri, scatta foto con macchine digitali, i distributori di benzina in stile Autogrill, i negozi che accettano le carte di credito e dappertutto la bandiera europea. Il cambiamento si tocca con mano e non si riesce a restare indifferenti.
Passaggio a Dragoman
E poi si arriva a Dragoman. Un nome da supereoe per una cittadina ai confini con la Serbia, un paesaggio da Far West, campi spazzati dal vento, montagne spoglie, quasi freddo, un’idea di avventura e di lontano. Al bar del centro – e il centro è un insieme di strade con grossi buchi nell’asfalto, chioschi, gente seduta sui marciapiedi – ci dicono che non esiste un albergo. Poi però entro in un mondo parallelo vicino alla statale: c’è un grande ristorante con parco e piscina, un menu di diverse pagine, prezzi rigorosamente bulgari cioè bassissimi. Qui mi dicono in inglese che l’albergo esiste e si trova cento metri più in là. Ci andiamo: si chiama Hotel Alex, è una casa a tre piani dipinta di rosa, un po’ inquietante. La reception è il monolocale dei proprietari: apro la porta e vedo un letto matrimoniale, una stufa di ghisa (e subito penso agli inverni a Dragoman, all’odore del carbone; qui il vecchio Est c’è ancora tutto, è più forte che mai) e già immagino di avere sbagliato, ma poi arriva una donna minuta con i capelli lunghi, neri. Parla in francese e dice che le stanze ci sono, deve solo prepararle perché lei e il marito sono appena tornati da Sofia. E’ tutto molto strano, porte in compensato, camere ampie e ben tenute, ma fate attenzione ai bambini: e ci fa vedere il balcone del terzo piano senza ringhiera. Strano anche parlare francese sul far della sera a Dragoman, tra bulgari e italiani, mentre il vento soffia più forte. Una lingua di un paese lontano, imparata in scuole lontane e parlata in un posto che sembra essere l’incarnazione della parola lontano, almeno per me. E l’ultima sorpresa è il parco giochi di dimensioni abnormi: ogni pochi metri c’è un piccolo parco diverso in qualche dettaglio: da una parte uno scivolo, dall’altra due altalene e viceversa; ce ne saranno cinque, immersi in un grandissimo spazio verde con tanto di campo di basket e calcetto. Il tutto vicino al ristorante con piscina; siamo sempre nel mondo parallelo, in un pianeta diverso rispetto al paese vero e proprio.
La mattina dopo faccio per salutare, ma prima sbircio dalla finestra e vedo che nel letto della reception-monolocale c’è qualcuno che dorme. Così ce ne andiamo senza fare troppo rumore; un’ultima colazione bulgara seduti davanti al chiosco che vende caffè in bicchieri di plastica, di fronte al negozietto dove compriamo un tubetto di colla e due gigantesche brioche al cioccolato. C’è un tipo che offre stecche di sigarette al mercato nero, erano anni che non ne vedevo. Proseguiamo verso la Serbia un po’ spaesati, molto in viaggio. Di passaggio a Dragoman.