Sopravvissuti al peru’

« Lima es la basura del Perù, Lima è la spazzatura del Perù», mi confida con tristezza un autista peruviano. Effettivamente la città non sembra molto accogliente; ancor prima che l’aereo atterri la garùa ti avvolge sibillina per poi catapultarti in una metropoli di ben 9 milioni di abitanti, buona parte dei quali sono campesinos degli...
Scritto da: Sabrina Tamanini
sopravvissuti al peru'
Partenza il: 09/07/2003
Ritorno il: 23/07/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 3500 €
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« Lima es la basura del Perù, Lima è la spazzatura del Perù», mi confida con tristezza un autista peruviano. Effettivamente la città non sembra molto accogliente; ancor prima che l’aereo atterri la garùa ti avvolge sibillina per poi catapultarti in una metropoli di ben 9 milioni di abitanti, buona parte dei quali sono campesinos degli altipiani andini che hanno abbandonato il piccolo pezzo di terra per trovare fortuna nella capitale. Fortuna che puntualmente non arriva. Eccoli allora inventarsi i più disparati lavori per sopravvivere. Per stada li ho visti vendere di tutto: dall’abbecedario alle bibite gassate, dalle caramelle alle coccarde per il giorno dell’indipendenza. Flavio ed io osserviamo in silenzio le persone che ci sfilano davanti man mano che percorriamo le caotiche strade di Lima. La sfida, la rabbia e la disperazione che ti comunicano fissandoti dritto negli occhi giunge come una sferzata al mio cuore. Ora più che mai mi rendo conto della fortuna che ho avuto nella vita. E quasi vergognandomene un poco mi faccio piccola piccola aspettando che il taxi giunga al nostro hotel. Rimaniamo poco a Lima. Il giorno seguente ci dirigiamo di buon mattino verso sud con uno dei tanti pullman di linea. Vere e proprie baracche si susseguono numerose alla periferia di Lima, in pieno deserto. Non c’è nessuno, « Sono disabitate?» chiedo alla nostra guida. «No», mi risponde «La gente è in città al lavoro, rientreranno questa sera». Proseguiamo il nostro viaggio verso la riserva nazionale di Paracas, prima meta del nostro viaggio. Il paesaggio è affascinante; dune di sabbia color rosa antico si estendono a perdita d’occhio. La riserva è popolata da un gran numero di animali quali fenicotteri, tartarughe, leoni marini ed una grande varietà di uccelli. Noi, per la verità, riusciamo a vedere solo un gruppo di fenicotteri ad un centinaio di metri di distanza. La guida del posto non ci permette di avvicinarci ulteriormente per non disturbarli. Confesso di avere un’ottima vista, ma sinceramente a quella distanza è difficile distinguere un fenicottero da un gabbiano…sono perfettamente uguali! In compenso il panorama merita alcuni minuti di contemplazione. Il silenzio è interrotto solo dall’ululare incessante del vento (Paracas in lingua quechua vuol dire pioggia di sabbia); la forza della natura in questo luogo aspro e selvaggio predomina incontrastata e l’impotenza dell’uomo è tangibile. Eppure proprio qui visse più di 3.000 anni fa la civiltà Paracas. E’ stato scoperto un consistente sito archeologico e sono state trovate numerose mummie oggi custodite nei vari musei del paese. Il sito, mi spiega la nostra guida, è in pessime condizioni perché lo stato ha problemi ben più gravi ed urgenti che non il recupero dei beni archeologici. Nella riserva c’è pure un piccolo museo senza elettricità. Scopro un fatto interessante e allo stesso tempo atroce sulla civiltà Paracas: agli appartenenti la “casta” più importante e ricca della popolazione veniva deformato il cranio in modo da allungarlo nella parte posteriore. In che modo? Con l’uso di bende, tavolette di legno ed altro materiale con il quale avvolgevano il cranio dell’infante appena nato. Avere il cranio allungato era considerato un privilegio nonché un elemento di distinzione. Gli archeologi hanno però constatato che la mutazione forzata causava numerose malattie mentali; molti fra i crani allungati rinvenuti presentavano, infatti, delle perforazioni. Pratica che veniva effettuata su un individuo malato con la convinzione che così operando la malattia potesse fuoriuscire dalla testa. Belli e dannati insomma! Proseguendo il nostro viaggio nella riserva di Paracas giungiamo ad una bellissima spiaggia, la playa del diablo, alla quale si accede dall’alto attraverso un ripido sentiero. Ci sediamo sulla sabbia ad ammirare l’ambiente che ci circonda: l’oceano impetuoso con il suo odore intenso, i gabbiani che stridono sopra di noi, le rocce striate alle nostre spalle dai mille colori e non un’anima viva…è un vero paradiso! Raramente mi è capitato di vedere uno scenario così meraviglioso e selvaggio allo stesso tempo. L’impronta dell’uomo non ha ancora lasciato il segno qui. Questa è una delle immagini più belle del Perù che custodisco nella memoria. Dall’altra parte della spiaggia c’è la famosa “cattedrale”, soprannominata così dai pescatori peruviani che la osservavano dal mare. E’ un’enorme formazione rocciosa che assomiglia ad una cattedrale appunto. Il particolare interessante è il suo campanile, che alcuni vedono come un condor appollaiato sulla roccia, altri come una tipica donna peruviana che guarda verso il mare, stretta nel suo poncho e con un cappello dalle larghe falde in testa. Terminata la visita alla riserva proseguiamo verso Ica, da dove cercheremo di arrivare in qualche modo a Nazca. I collegamenti fra queste due città, per chi viaggia in pullman, pare siano piuttosto difficili (si viaggia preferibilmente di notte). La nostra guida decide quindi di prendere un taxi collettivo e ci troviamo così a percorrere l’entroterra in compagnia di altre tre signore peruviane. Viaggiamo in sette sulla stessa macchina, una vecchia Ford americana di data a dir poco preistorica. Le cinture di sicurezza mancano, del tassametro non c’è l’ombra (in Perù non è ancora arrivato) e gli specchietti retrovisori sono stati tolti perché inutili, qui si guarda all’essenziale! Mi concentro sullo scenario, ancora una volta incantevole. La luce del tramonto conferisce al deserto un colore rosa-azzurro irreale, sembra quasi di essere su un altro pianeta. Non c’è un essere vivente a vista d’occhio, se non per qualche camion che di tanto in tanto incrociamo. Proprio in questo momento di profonda contemplazione succede il primo imprevisto: un pneumatico del camion che ci accingiamo a superare scoppia improvvisamente investendoci in pieno. La macchina sbanda a destra ed a sinistra ma l’autista, con una calma a dir poco esasperante, riesce a riprendere la rotta. Sono paralizzata dallo spavento, mi giro ad osservare le tre donne e la nostra guida che stanno seduti dietro. Stanno guardando fuori dal finestrino come se nulla fosse successo, Flavio ed io ci guardiamo in silenzio…non è forse così grave come sembra? Arriviamo a Nazca che è già buio, siamo stanchi morti ed andiamo subito a dormire. Il mattino seguente saliamo anche noi sul piccolo aereo che sorvola le famose linee di Nazca. Si tratta praticamente di basso-alto rilievi tracciati sul terreno in modo da formare gigantesche immagini visibili solo dall’alto. Le figure rappresentate sono numerose; le mie preferite sono l’astronauta che saluta, il condor e la scimmia. Ci sono varie teorie sul loro uso reale, la più accreditata parla di una mappa astronomica utile per calcolare il tempo della semina. Altre teorie più bizzarre sostengono che i Nazca avessero costruito una mongolfiera e con questa si gustassero lo spettacolo dall’alto. Non riesco comunque a godermi pienamente la sorvolata; un momento tengo d’occhio il pilota che, con lo scopo di far vedere bene a tutti i passeggeri le linee, si inclina paurosamente prima a destra e poi a sinistra; un altro momento sono indaffarata a fotografare i geroglifici cercando di evitare, senza poi notevole successo, il palo vecchio ed arrugginito che sostiene una delle ali dell’aereo. Le foto non sono un granché, meglio le cartoline. Quindi, se proprio volete salire su quel dannato aereo, vi consiglio di scegliere il sedile posteriore e di lasciare a terra telecamera e macchina fotografica. Riprendiamo il nostro viaggio verso Lima con una breve sosta all’oasi di Huacachina, una graziosa località immersa fra dune di sabbia gigantesche dove si pratica il sandboard, vale a dire il nostro snowboard praticato sulla sabbia anziché sulla neve. Posto carino, ma credo che il Perù abbia molto di meglio da mostrare. Arriviamo a Lima verso le 8 di sera. Più di 14 ore di pullman in due giorni, e siamo solo al secondo giorno del nostro itinerario! Il mattino seguente sveglia alle ore 5 e partenza per Cusco. Le operazioni di check-in ed imbarco durano un’eternità, l’Europa da questo punto di vista è avanti anni luce. Cusco è situata a circa 3.300 metri di altitudine. L’aria è molto limpida, dopo il grigiore di Lima finalmente di nuovo il sole! Depositiamo i bagagli in albergo e partiamo alla volta di Cusco città. Il centro è molto, troppo turistico per i miei gusti. Ho l’impressione che questa occidentalizzazione forzata le abbia fatto perdere quell’alone di mistero e di incanto che mi aspettavo di trovare. Oltre alla miriade di bambini che ti vogliono vendere qualsiasi cosa, non c’è ristorante che non abbia il suo cameriere in strada determinato a farti entrare a tutti i costi. Noi, trentini chiusi ed un po’ orsi, ci sentiamo decisamente a disagio e camminando a zigzag cerchiamo di evitarli con scarsi risultati. Tenaci come solo gli Inca lo furono, ci inseguono per diversi metri. Ma dove siamo mai capitati? Ci rifugiamo nel convento di Santo Domingo, splendido esempio di miscuglio fra sacro e profano dove il complesso del Koricancha – il più ricco tempio degli Inca – brilla come una perla rara. Ci dirigiamo quindi verso plaza de armas, maestosa a dir poco con i suoi splendidi portici di epoca coloniale. La cattedrale rappresenta l’emblema delle chiese del Perù: stracolma di Cristi crocifissi, sofferenti e sanguinanti che ti fanno sentire colpevole e peccatore più di quanto tu lo sia in realtà. I padri conquistatori, qui come in tutto il Sud-America, hanno lasciato decisamente il segno. Lo dice una cattolica praticante. Il giorno seguente lo dedichiamo alle rovine Inca nei dintorni di Cusco. Saqsaywuaman emana un fascino ed una forza particolari, si percepisce immediatamente che questo era un luogo sacro. Strabiliante la tecnica di costruzione che usavano gli Inca: le loro opere hanno resistito a numerosi terremoti che hanno distrutto quasi tutto. Nulla hanno però potuto contro il dominio spagnolo. Sull’imbrunire visitiamo le rovine di Q’enqo. Uno sciamano sta officiando un antico rito inca in una grotta sottostante il complesso. Rimaniamo con il fiato sospeso per paura di disturbarlo. Il silenzio è totale, interrotto dall’unico ed incomprensibile mormorio dell’indigeno. Lo squillo improvviso di un cellulare ci riporta bruscamente alla realtà. Lo sciamano risponde con non calanche. Ma da quando in qua gli stregoni hanno il cellulare? L’incantesimo è rotto. Un po’ disorientati ed un po’ amareggiati ce ne andiamo. La notte a Cusco fa veramente freddo. Ci svegliamo al mattino intirizziti e con poca voglia di alzarci. Il riscaldamento qui non esiste. La colazione ci viene per di più servita sulla terrazza; saranno al massimo tre gradi sopra lo zero. Rimpiango con nostalgia la dolce, cara afa estiva che ho lasciato in Italia. Partiamo quindi per la fortezza di Pisac dove rimaniamo l’intera mattinata a percorrere in lungo ed in largo i suggestivi quanto angusti sentieri tracciati dagli Incas. La vista sulle splendide terrazze millenarie nonché sulla valle dell’Urubamba è incantevole. Il pomeriggio lo dedichiamo invece al mercatino di Pisac; piccolo ma caotico e variopinto. Partiamo finalmente per la meta che ho sognato fin da bambina: il Machu Picchu. Sulla strada ci fermiamo a Chinchero, paese che custodisce una splendida chiesa coloniale, oltre che alcuni terrazzamenti inca. Non mi posso però gustare il tutto perché vengo colta dal famoso quanto nefasto soroche, il mal di montagna. Vertigini, nausea, brividi e mal di testa mi colgono improvvisamente. Riesco a liberarmi di questo fastidioso imprevisto abbassandomi rapidamente di quota. Un rimedio pare ci sia: il mate de coca, l’infuso di foglie di coca, di cui sia io che Flavio ne abbiamo fatto buon uso. Guardatevi bene però dal masticarne le foglie o verrete irrimediabilmente colti da potente dissenteria, come successo a Flavio per l’appunto. Dopo Chinchero visitiamo le saline di Maras, di cui se ne può ammirare una spettacolare vista dall’alto, essendo queste situate al fondo di una stretta valle. E’ preferibile raggiungerle in taxi o con un tour organizzato. Non è infatti una zona ben servita dai mezzi pubblici, e due turisti francesi da ore aspettano un passaggio in macchina per risalire la ripida strada. Giungiamo in tarda serata ad Ollantaytambo, la rovina inca più spettacolare dopo Machu Picchu. Un vento gelido soffia implacabile e ci intirizzisce fino al midollo. Troviamo comunque la forza di risalire fino in cima le gradinate e di goderci dall’alto l’imponente quanto suggestiva fortezza. Il buio incombe e non ci rimane altro che dirigerci verso Aguas Calientes sul trenino pieno zeppo di turisti. Chissà perché mi sono sempre immaginata l’ascesa alle rovine di Machu Picchu come un’impresa ardua e faticosa: ore di cammino sotto un sole implacabile su sentieri ripidi e pericolosi. Nulla di tutto ciò. Un autobus ti porta praticamente all’entrata delle rovine, l’unico sforzo che compiamo è quello di salire e scendere dal mezzo. Devo dire che il luogo più efficiente, più organizzato nonché più costoso del Perù lo ho trovato proprio qui; ci sono perfino i bagni pubblici incredibilmente puliti! Rimango un po’ sconcertata, man non si è sempre parlato di un luogo di difficile accesso?!? E qui pongo fine alle mie perplessità. Difficile è descrivere l’emozione che ho provato quando dall’alto mi sono affacciata sulla città perduta degli Incas. Il luogo è davvero magico e le ripide montagne che lo circondano ne aumentano ancora di più il fascino. Cammino silenziosa fra l’intrico di scalinate e stretti passaggi sfiorando con la mano le pietre calde e ben levigate. Se le sai ascoltare ti possono raccontare millenni di storia, di battaglie e di conquiste. Riesco a percepire distintamente la forza e l’energia che emanano le rovine, lo spirito degli antichi Incas è vivo più che mai. L’orologio, implacabile, mi dice che è già ora di ripartire. Ci rimane giusto il tempo per salire sul Huayna Picchu da dove, dicono, la veduta sulle rovine sia spettacolare. La salita richiede circa un’ora ma noi, spinti dal tempo che stringe nonché dall’indomito orgoglio alpino, riusciamo a raggiungere la cima in meno di 50 minuti. Giurerei di aver visto meno gente sulle affollate spiagge di Rimini nel mese di luglio che non sul Huayna Picchu. Le grandi lastre di roccia di cui è formata la cima sono letteralmente ricoperte di persone. Impieghiamo più tempo a farci strada fra l’ammasso di carne umana di quanto ne abbiamo impiegato a risalire il ripido monte. Il panorama, però, ripaga pienamente lo sforzo fatto nonché il disappunto provato. Da lassù puoi spaziare su tutto l’orizzonte oltre che sulle rovine di Machu Picchu che, come già ci aveva detto la nostra guida, hanno proprio la forma di un condor! Vi assicuro che il Machu Picchu da solo merita un viaggio in Perù. Ritorniamo a Cusco ancora trasognati e ci dirigiamo verso Puno con pullman di linea. Secondo Flavio il tratto Cusco-Puno è ciò che di più bello ha visto in Perù. Si tratta di un territorio aspro e selvaggio popolato unicamente da branchi di alpaca e lama. Il freddo è pungente ed un vento implacabile soffia sull’arida steppa. Siamo in inverno, stagione in cui non piove quasi mai. Rimango anch’io affascinata dall’ambiente. Queste lande desolate mi fanno un po’ rabbrividire ma allo stesso tempo mi ipnotizzano. Non riesco quasi a staccare il naso dal finestrino. Arriviamo a Puno dopo circa 6 ore di viaggio. Puno è la città del Perù che meno amo. Non so per quale motivo, ma fin da subito percepisco un’atmosfera negativa, quasi ostile che emana dalla città in sé. E tale sensazione rimarrà invariata per tutta la nostra permanenza sulle sponde del lago Titicaca. La sera del nostro arrivo visitiamo il gruppo “Sur Andino”, una cooperativa di famiglie che produce indumenti di alpaca per il mercato internazionale. Ci accoglie un’intera famiglia intenta a filare e tessere la lana; nella luce fioca dell’angusto locale riesco a malapena a distinguere le persone che ci osservano. Sono tutti comunque molto amichevoli ed ospitali. Poveri si ma sempre col sorriso sulle labbra. Compriamo alcuni indumenti e ritorniamo al nostro albergo. Il giorno dopo partiamo per l’isola di Taquile, sul lago Titicaca, dove passeremo la notte ospiti di una famiglia del luogo. La lancia sulla quale saliamo è decisamente di altri tempi, la velocità poi è a dir poco irrisoria, di questo passo ci metteremo anni luce ad arrivare! Ma come ho ormai imparato a mie spese, in Perù non bisogna farsi prendere dal nervosismo. Il ritmo di vita è questo e, volente o nolente, bisogna adattarcisi. Sulla rotta per Taquile è d’obbligo fermarsi alle isole galleggianti degli Uros, fatte di uno spesso strato di canne di totora. Con questo tipo di canna ci fanno proprio di tutto: dalle capanne in cui vivono alle barche con cui vanno a pescare, si può perfino mangiare! Sembra di camminare sopra un morbido materasso, i miei passi sono lenti e cauti, in certi punti mi pare quasi di sprofondare nelle scure acque del lago. Ma è solo una sensazione. Tutto è talmente perfetto da sembrare quasi finto. La nostra guida ci dice che gli Uros vivono proprio su queste isole, ma la costa è piuttosto vicina e siamo sicuri che non appena l’ultimo turista se ne va, anche loro ritornano alla loro comoda casa in pietra a Puno. Arriviamo a Taquile verso mezzogiorno e veniamo subito affidati alla famiglia che ci ospiterà. La stanzetta che ci è destinata è piuttosto spartana: due letti senza lenzuola, un comodino e la mappa del Sud-America. Il bagno, una turca per la precisione, è esterno alla casa. Non c’è l’acqua e manca la luce. Non lo userò in questi due giorni di permanenza sull’isola, i campi all’aperto sono molto più attraenti. Sono leggermente contrariata, la nostra guida avrebbe dovuto avvisarci della particolare situazione in cui ci saremmo venuti a trovare, se non altro per darci il modo di portare la giusta attrezzatura. Sta di fatto che mi trovo sull’isola e a meno di non ritornare a nuoto – e sono una pessima nuotatrice – dovrò adattarmi. Taquile è un piccolo paradiso di pace e tranquillità. Non esistono macchine di nessun tipo qui; sarebbe impossibile percorrere l’intricato groviglio di stretti e sassosi sentieri che ricopre l’intera isola. Ogni abitante coltiva il suo minuscolo pezzo di terra gelosamente recintato. Saliamo fino al punto più alto dell’isola da dove si può ammirare una spettacolare veduta del lago nonché delle montagne boliviane all’orizzonte ricoperte di neve perenne. Il tempo qui non ha significato e le ore ed i minuti sono insulse usanze del mondo occidentale. Tutto è immobile e statico. Sembra di essere sospesi a mezz’aria in una bolla di sapone. Che meraviglia! Ma l’estasi dura poco, alcune ore dopo sono immersa nella più profonda disperazione. Il motivo è sempre lo stesso: il freddo. La temperatura è a dir poco glaciale: gambe, mani e piedi sono completamente gelati. Sopravviverò a questa notte? Flavio ascolta con aria serafica le mie lamentele. Certo che non lo sente il freddo lui, sembra un lattonzolo! Riuscirebbe a sopravvivere anche al Polo Nord. Rassegnata mi inabisso sotto chili di coperte di lana di pecora. Già di per sé la respirazione è faticosa a quota 4.000, figurarsi sotto questa coltre di coperte! Riesco comunque a superare la notte senza farmi venire la broncopolmonite e l’indomani, dopo un ultimo giro dell’isola ci prepariamo a ritornare a Puno. Non esagero se dico che il rientro è stata una vera e propria odissea. Non credevo sarei sopravvissuta per poterlo raccontare. Non appena ci imbarchiamo su una delle tante lance ferme al porto, una breve ma intensa bufera di neve ci investe in pieno. Rimaniamo letteralmente sbalorditi, solo mezz’ora prima splendeva il sole! Ma questo è niente in confronto a quello che sta per accadere. Allontanatici dalla costa le acque del lago cominciano ad agitarsi in modo preoccupante, le onde si fanno sempre più alte e si abbattono sull’esile barcarola con forza inaudita. Siamo in balia della tempesta! Nessuno parla, ma basta un’occhiata agli altri componenti dell’equipaggio per capire che sono tutti terrorizzati. L’oscillazione della lancia è talmente violenta che alcune volte rischio di finire in braccio al passeggero che ho seduto di fronte. Ho gli occhi chiusi. Sento la guida che ogni tanto mi dice “tranquila”…con voce poco convincente peraltro! “Tranquila” un corno gli rispondo mentalmente. Mi sento in trappola. Vorrei tanto scendere. Vorrei tanto poter accostare su quegli scogli laggiù e proseguire a piedi. Ma non si può e poiché il dono di camminare sulle acque ancora non mi è stato concesso, qui mi tocca rimanere. Attracchiamo al porto dopo ben tre ore di calvario. Scendo con gambe malferme, vorrei baciare la terra ma sono esausta e non ho la forza di piegare nemmeno le ginocchia. Caro lago Titicaca, a mai più rivederci! L’indomani ripartiamo per l’aeroporto di Juliaca con un ritardo spaventoso. La nostra guida si è ammalata ed incarica una sua amica di accompagnarci. L’amica però non conosce la strada e le indicazioni sono inesistenti. Percorriamo la via centrale di Juliaca come dei piloti da formula uno ed inevitabilmente veniamo investiti in pieno da un risciò a tre ruote con malcapitato a bordo. L’urto è violento ed il povero passeggero peruviano, che probabilmente per la prima volta nella sua vita si concedeva il lusso di un taxi a buon prezzo, si accascia su un lato. L’autista balza fuori dalla macchina, si accerta che non ci siano ammaccature evidenti sulla carrozzeria, risale come un fulmine e riparte sgommando. Ed il povero passeggero del risciò? Proprio non vi so dire. Speriamo se la sia cavata con qualche contusione. Arriviamo all’aeroporto giusto in tempo per il nostro volo e finalmente decolliamo con destinazione Arequipa. Arequipa è una bellissima città coloniale e merita sicuramente qualche giorno di permanenza. Ma non cercate qui il vero Perù, non lo troverete. Troppo bianca, troppo pulita, troppo occidentale, sembra più una città della Spagna che non del Sud America. Noi comunque ci rimaniamo poco, giusto il tempo per visitare il celebre monastero di Santa Catalina e per fare un giro in centro. Il mattino seguente ripartiamo per il Cañon del Colca. Quando si parla di Cañon si pensa inevitabilmente al Gran Cañon del Colorado. Bene, scordatevelo. Il paesaggio è sicuramente incantevole, ma se vi aspettate gli spettacolari scenari statunitensi rimarrete immancabilmente delusi. Credo meriti molto di più la riserva nazionale di Salinas e Aguada Blanca che si attraversa per raggiungere Chivay. Il panorama è semplicemente affascinante; lande selvagge ed incontaminate si estendono a perdita d’occhio, popolate unicamente da vigogne, alpaca e lama. Unico inconveniente la strada piuttosto dimessa e polverosa che sale fino a raggiungere quota 4.800 metri per poi ridiscendere con una serie interminabile di tornanti fino a Chivay. Lasciati i nostri bagagli in hotel, mi precipito a comprare un costume da bagno nel piccolo mercatino del paese straripante di sacchi contenenti foglie di coca essiccate e poi via di volata ai bagni termali di Chivay. Data la temperatura pungente, la piscina interna è straripante di gente, scegliamo quindi a malincuore quella all’aperto. La scelta si rivela però essere quella giusta: l’acqua è talmente calda che ci riscaldiamo in pochi minuti e rimaniamo estasiati a contemplare la volta celeste nel bel mezzo della quale splende la croce del sud. Il mattino dopo ripartiamo all’alba verso il Cañon del Colca. La strada sembra l’anticamera dell’inferno: una miriade di furgoncini straripanti di turisti viaggiano nella nostra stessa direzione sollevando un polverone micidiale per i nostri polmoni. Finalmente giungiamo a destinazione e riusciamo anche a vedere i famosi condor. Ma con tutto il rispetto per quest’uccello che gli Incas consideravano sacro, Flavio ed io giungiamo alla conclusione che non vale la pena sobbarcarsi un viaggio talmente lungo e faticoso (10 ore di macchina su strada per la maggior parte sterrata ed in cattive condizioni) per vedere quattro uccelli grandi due volte un corvo che ti svolazzano sopra la testa. Siamo ormai giunti alla conclusione del nostro viaggio. Ritorniamo a Lima stremati e senza più forze. In due settimane abbiamo percorso un itinerario che solitamente ne richiede tre. Se optate anche voi per questo tour de force, assicuratevi una settimana di riposo al vostro rientro in Italia, ne avrete sicuramente bisogno. Ultimo consiglio: se soffrite il freddo evitate di andare in vacanza in Perù nei mesi di giugno, luglio e agosto. Potreste correre il rischio di ibernarvi!


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