Sauna caucasica
Il biliardo di Lermontov
Anche se in gennaio, il torrente Teberda scorreva impetuoso nella gola stretta che risaliva la valle verso Dombay. Uno spesso strato di neve copriva la strada e le betulle che venivano sostituite, man mano che salivamo, dalle conifere, erano cascate di brina scintillante mentre il giorno cedeva di colpo alla notte. Di...
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Il biliardo di Lermontov Anche se in gennaio, il torrente Teberda scorreva impetuoso nella gola stretta che risaliva la valle verso Dombay. Uno spesso strato di neve copriva la strada e le betulle che venivano sostituite, man mano che salivamo, dalle conifere, erano cascate di brina scintillante mentre il giorno cedeva di colpo alla notte. Di tanto in tanto blocchi di ghiaccio vivo segnalavano le sorgenti che sporgevano dai fianchi della montagna. Così di notte arrivammo al paese deserto, una stazioncina di sport invernali abbandonata nella dissoluzione dell’URSS tra le alte cime del Nord Caucaso. Sembrava un paese fantasma sepolto dalla neve he aveva vissuto momenti gloriosi. Il nostro cliente si era preso un week end di valutazione sulla nostra offerta per una linea di imbottigliamento e aveva voluto offrirci un assaggio delle bellezze della sua terra. Eravamo ospitati, unici avventori, in un antico sanatorij che era stato luogo di riposo per Bresniev e per tutti gli altri capi della vecchia nomenclatura da Cernjenko ad Andropov e tra le grandi sale rivestite di legni profumati, si respirava l’aria di passato severo che incombeva anche dagli occhi fissi delle teste impagliate di ungulati dalle grandi corna che ci fissavano dalle pareti. Grazie ai titoli del nostro cliente, il personale ci accudì subito con grande deferenza, anche considerando che di italiani da quelle parti non se ne ricordavano e che il grande complesso era completamente a nostra disposizione. Fu quindi subito sacrificato un intero montone (opportunamente già surgelato) che fornì una ricca cena a base di sashliky polposi ben rosolati sul braciere. Vodka davanti all’enorme caminetto, crepitare di ceppi resinosi, un sapore di passato. Salimmo quindi nella sala del biliardo su cui aveva giocato anche Lermontov, il poeta morto giovanissimo in duello, come ci confermò Larissa, una cameriera rubiconda dalle guanciotte rosse e con gli occhi un po’ tristi. Attorno a noi fantasmi di contesse pallide dagli occhi accesi e di ufficiali in divise perfette, spazzati via dalla rivoluzione incombente. Le palle d’avorio correvano sul panno verde delicatamente colpite con il tocco secco delle stecche antiche, lucide per l’uso. Il rumore sordo dell’ avorio che finiva nelle buche aveva un tono definitivo ed in quella atmosfera magica, avevamo poche parole da dire. Si immaginavano storie, intrecci, eventi burrascosi, decisioni politiche, amori travolgenti passati attorno a quel biliardo e sollevati assieme alla polvere dal pavimento scricchiolante. Anche Stefania, che mi accompagnava, da sempre vicina ed appassionata alla cultura ed alla storia russa, era visibilmente colpita dall’ambiente e affascinata dai continui richiami al passato. La mia camera era bellissima, profumava di legno di bosco e dalla grande finestra senza tendine, ricamata di cristalli di ghiaccio, una luna piena velata illuminava debolmente il crinale che ci separava dall’Avkazia. Faticai ad addormentarmi. Il giorno successivo lo trascorremmo tra la neve del paesino deserto e dopo cena (bisognava pur finire il barano ormai scongelato, che ci fu propinato in tutte le salse, in brodo, stufato, arrosto, bollito) andammo nella banija, una piccola sauna con un bracere al centro su cui Andreij continuava a gettare mestoli di acqua, sviluppando uno sfrigolante vapore. La temperatura (come da regolare termometro sovietico validato da apposito GOST) superava i 95°C ; infatti Stefania, accampando scuse improbabili, si era data per malata, mentre noi avvolti da candidi asciugamani sudavamo copiosamente. Quando mi parve di essere pronto ad esalare l’anima a Lermontov e vedevo il fantasma di Bresniev che, pur con il baffo immobile aggrottava il cespuglioso sopracciglio, Andreij mi fece un cenno e aprì una piccola porticina nell’angolo della banija invitandomi a seguirlo. Mi trovai di colpo seminudo nell’inferno bianco degli alpini di Nikolaijevska, sferzato dalla tormenta, a piedi nudi nella neve in cui affondavo fino alle caviglie. Nell’ottundimento generale dei sensi mi parve di sentire un bruciore caldo alle piante dei piedi e nei punti dove mi colpivano le pallate di neve che Andreij scagliava contro senza pietà. Risposi debolmente tenedomi l’asciugamano male annodato, poi man mano mi resi conto che forse faceva freddo. Tornammo di corsa alla porticina, verso la salvezza; dalle gole un urlo beluino per riguadagnare il riparo. Il pavimento era bagnato e scivoloso; nell’ impeto di rimettermi al coperto mi sentii mancare il terreno e caddi fragorosamente. Il rumore sordo della mia testa (assieme al resto più ricco di lardo protettivo, forse la mia salvezza) che impattava sul marmo fece tremare la dacia. Mi riportai a valle un consistente bernoccolo e forse irreparabili danni cerebrali che ancora oggi ottundono le mie capacità di pensiero.