Quattrodi mila passi a New York City
Io sono quello senza scarpe, quello che una scrupolosissima Guardia Civil sta scannerizzando con il suo metal detector. Sono anche quello con lo zainetto nero improvvisamente e pericolosamente oggetto delle attenzioni del cane lupo anti-esplosivi e qui, vi ricordo, l’incubo ETA spaventa molto di più di Bin Laden.
Mentre tre agenti mi intimano di non muovermi, seppur certo della mia innocenza ripercorro mentalmente la lista delle cose che sono sicuro (?) di non aver portato: coltellino, forbicine, rasoio, liquidi infiammabili…Tutto ok…Cacchio no,… Non sarà mica…? Si, è il “ bocadillo con chorizo y finas hierbas” (panino con specie di salame spagnolo ed erbe aromatiche) che Carmen ha amorevolmente insistito per darmi dietro prima di partire, “cosí avrai un po’ di nostalgia di casa e mi penserai”, diceva…
Nostalgia per il momento non so, sul dedicarti qualche pensierino, invece, non ho dubbi!!! Figura di merda, risata generale, tutto risolto ma una nonnina yankee, anche lei casualmente diretta a New York, non mi toglierà gli occhi di dosso per tutto il volo! Se il buon giorno si vede dal mattino…! Io, come molti di voi, sono un travel-addict, spesso in viaggio per lavoro, ma soprattutto per piacere e, senza paura di ammetterlo, con una smisurata, incrollabile, forse poco obiettiva, passione per l’America, intesa a stelle e strisce.
Ho girato quasi tutto il mondo e ho visto posti ineguagliabili, ma qui ci ho vissuto, studiato e ci torno appena posso, senza stancarmene mai.
È un paese dove il credibile e l’incredibile vivono fianco a fianco in un crescendo continuo di contraddizioni e controsensi: la totale indifferenza degli abitanti delle grandi metropoli verso gli estranei e la grande ospitalità di chi vive in campagna in case con porte quasi mai chiuse a chiave; la ricchezza sfrontata dei pochi che vivono il sogno americano contrapposta alla povertà dei molti che lo inseguono tutta la vita senza raggiungerlo mai; quartieri da sogno e ghetti da incubo; donne taglia XXXXL che mangiano mega hamburger e silos di popcorn imburrati bevendo ettolitri di (Diet!) Pepsi mentre guardano compiaciute atletiche ragazze cresciute a sedano e vitamine fare aerobic in TV.
E poi ancora grattacieli popolati come formicai ma anche centinai di Km di niente e nessuno tranne tu, la tua auto e le magiche note di una canzone country trasmessa dalla radio.
Cinquanta stelline sulla bandiera, due oceani, diversi fusi orari, montagne, pianure, foreste, deserti, freddo polare, caldo tropicale. Non hanno la storia dell’Europa, il fascino dell’Oriente o la bellezza dell’Africa e sembrano un’enorme set cinematografico dove tutto è artificiale e ci ricorda un film già visto, potreste ribattere voi! Forse c’é del vero, si possono amare o non sopportare ma una cosa è certa, gli Stati Uniti non lasciano indifferenti.
Ho con me la mia vecchia guida, compagna inseparabile di ogni mio viaggio oltreoceano, ormai la mia coperta di Linus. Non per reale utilità (sono quasi sicuro di conoscerne ogni virgola a memoria), ma per affetto.
Il solo sfogliarla, con tutto quel nastro adesivo che la incerotta, mi ricorda ogni ora, giorno, kilometro di viaggio passato insieme. Ogni pagina è un labirinto di scarabocchi, note, memorandum, le foto sono ormai completamente coperte da un collage di post-it multicolori…L’indirizzo in Alabama di quel campeggio che poi non c’era, quel ristorantino a San Francisco quella volta che…, il numero di autobus e il nome della fermata per riuscire a trovare la casa di Kelly nella giungla dei sobborghi di Detroit e centinaia di altri tasselli di memoria.
E il segno lasciato da quella lacrima su quella pagina, ti ricordi Carmen? Il volo passa in fretta e tra film, due chiacchere e qualche giornale, atterriamo al JFK che quasi non me ne accorgo.
Il panino l’ho mangiato, più per la paura che per la fame, ma sorprendentemente i controlli al di qua dell’oceano, anche se comunque più accurati di un tempo, non sono come me li immaginavo.
Ufficio immigrazione con le solite domande di rito, il timbro sul passaporto, il ritiro dei bagagli e una telefonata a casa (“…Eh? come?…Si, si era buonissimo!”).
È passato più di un anno dall’ultima mia volta a NY eppure mi sembra di ricordare perfino le facce di alcune delle persone che lavorano all’aeroporto…A volte l’entusiasmo gioca brutti scherzi, così salgo diretto sull’autobus bianco-giallo-blu che mi porta alla Howard Beach Subway Station.
“Seventeen dollars, please!” recita meccanicamente la signorina e in pochi secondi eccomi con la mia bella Metrocard 7-Day Unlimited Ride. Mi sono appena assicurato una settimana di viaggi in metropolitana e bus su e giù per la città, incluso JFK-Manhattan-JFK, mi allontano contento come un bambino con in mano un biglietto per Disneyland. E poi, in poco più di un’ora e venti di treno, eccomi sbucare in superficie sulla 14ªW, linea di confine virtuale tra il Village a sud e Chelsea a nord.
Non è una questione economica, chi mi conosce sa piuttosto che il mio problema è l’opposto e che se c’è uno che non sa risparmiare quello sono io! Si tratta di romantica e affettuosa abitudine: se non mi ospita qualche amico, io a New York soggiorno sempre nello stesso Hostel, nella 20ª strada W, in pieno Chelsea. Camere doppie, doppie uso singole, shared rooms con i letti a castello, bagno e cucina in comune in un ambiente internazionale, divertente, sicuro e pulito (il che rappresenta una mosca bianca nel sottobosco degli alloggi economici di NY, spesso veri e propri “fleabags”) e, soprattutto, ormai per me una seconda casa! Lo scoprii da studente squattrinato, ne divenni cliente abituale negli anni del dottorato, fino a quando, iniziato a lavorare, mi covinsi di poterne fare a meno e decisi che ormai mi potevo permettere alcuni di quegli imponenti e asettici alberghi per turisti, quelli dove fuori dalla porta aspetta il bus a due piani per il giro turistico della città. Che non c’è proprio niente di male, per carità, ma non fanno per me, non a New York almeno. Il pentimento fu rapidissimo.
Certo, mi si potrà commentare, vedere uno che, dopo aver fatto la coda in accappatoio per la doccia e la colazione compartendo latte e corn-flakes con globetrotters e backpackers provenienti da tutto il mondo, esce dalla sua stanza (singola, questo si) in giacca e cravatta e chiama un taxi che lo porti ad un appuntamento di lavoro, fa quantomeno ridere, ma è lo stesso rispondo io, le ragioni del cuore seguono strade non convenzionali.
E poi a trentadue anni, libero professionista (parola molto grossa) o meno, la voglia di crescere (di maturare direbbero i miei) non si è ancora vista! Sono arrivato l’altroieri, lunedí.
Il jet-lag non mi ha rincoglionito più di tanto, il che ha significato una buona riunione di lavoro ieri. Fino a venerdí non ci si rivede, un paio di giorni liberi, si comincia!!! Ero negli Stati Uniti, tanto per cambiare, l’11 di settembre, a Houston, e nella hall del mio hotel guardavo distrattamente la CNN aspettando il titolo del film di cui ero certo stessero trasmettendo il trailer.
Ma di Bruce Willis nessuna traccia, di Schwarzenegger nemmeno, la mia prenotazione aerea Houston-NYC per il giorno 12 venne cancellata e successe quello che oramai tutti sanno ma che nessuno poteva immaginare.
Adesso sono qui e voglio fortemente andare a vedere cosa c’è al posto del World Trade Center. Non è la cinica curiosità che spinge a rallentare quando si passa sul luogo di un incidente stradale, è un qualcosa di diverso, difficile da spiegare, una specie di necessità di “toccare con mano” quanto visto, rivisto e stravisto alla televisione. Forse è l’ultimo briciolo incosciente di speranza che non sia successo niente, che le torri siano ancora la e che tutte le persone che vi lavoravano siano ancora sedute allo loro scrivanie, di fronte ai loro PC, o stiano bevendo un caffè, chiaccherando, ridendo, scherzando, facendo piani per il fine settimana, o semplicemente aspettando la fine della giornata per tornare alle loro case come mille altre volte.
L’area è ancora chiusa e transennata, ma hanno costruito una viewing plattform, piattaforma “panoramica” di legno, all’angolo tra la Broadway e Fulton St proprio a lato della St. Paul Chapel.
Ci si accede con un biglietto gratuito rilasciato nel South Street Seaport Museum, sette blocks più a est, che dá diritto ad una mezz’ora di permanenza, esclusivamente all’ora indicata, duecentocinquanta persone alla volta. Se arrivate tardi niente da fare. Se arrivate troppo presto gli agenti si infastidiscono.
Ancora prima di raggiungere la piattaforma, colpisce la sostanziale differenza tra chi aspetta il suo turno di “visita” e chi lo ha appena finito. Macchine fotografiche e telecamere alla mano in un atmosfera da gita di classe, i primi; seri, attoniti, alcuni con gli occhi rossi, i secondi. Gli sguardi parlano da soli e mi ritorna in mente la sensazione provata quando ai tempi del liceo ci portarono in visita a Dachau, il campo di concentramento nazista, e all’entrata la nostra irrispettosa esuberanza di quindicenni si scontrò con le occhiate di disapprovazione di alcuni anziani che uscivano. Entrammo e capimmo subito il perchè.
L’immenso cantiere che ti si prospetta davanti è già di per se abbastanza impressionante ma lo è ancora di più al ricordare cosa c’era prima al suo posto.
Centinaia di persone tra cui spiccano gli eroi del FDNY (Fire Department of New York, i pompieri) lavorano incessantemente dalla mattina alla sera sotto l’enorme bandiera stars-and-stripes, ormai simbolo di Ground Zero. Un via vai continuo di camion sgombra tonnellate di materiale, ma più ne portano via, più sembra che ne rimanga. Scatto alcune foto, meno di quelle che pensavo perchè, sinceramente, ho come la sensazione di mancare di rispetto a qualcuno. La mattinata è ormai finita e, senza una meta precisa punto a nord, sulla Broadway, rigorosamente a piedi (perchè mai avrò comprato la Metrocard…?). All’altezza di Canal St svolto a destra per un rapido giro di Chinatown. Sono alla ricerca di quel negozietto di Tè e infusi che piacciono tanto a Carmen ma, o non c’è più, o la fame mi impedisce di vederlo. Un dollaro e cinquanta ad uno degli ambulanti e mi ritrovo con in mano un vassoietto di nonsocosa. Riconosco il riso, i piselli e dei pezzetti di carne, il resto…Mah!. Mangio con la voracità di un profugo mentre proseguo la ricerca ma niente da fare, il negozio di Tè non appare.
Riprendo il cammino verso nord e già che ci sono attraverso Little Italy.
Questo quartiere, un tempo popolato da “quei bravi ragazzi” è ormai un’attrattiva turistica visto che gli italiani di New York oggi abitano nel Bronx e soprattutto a Brooklyn, ma resta comunque una tappa obbligata, pittoresca soprattutto con la bella stagione quando i tavoli all’aperto dei caffè e ristoranti di Mulberry St. Si riempiono di gente.
Oggi non fa freddo e anche se non siamo in estate i tavolini e soprattutto il movimento non mancano. Mi fermo ad osservare la gente che passa: occhiali da sole, cellulare (trial band, suppongo), trucco sempre perfetto (in qualsiasi parte del mondo a qualsiasi ora con qualsiasi condizione atmosferica, lo dico per esperienza), borsa di Prada e immancabili tacchi alti tanto alla moda quanto, immagino, scomodi per camminare. Sono “italiani d’Italia”, non c’è dubbio, e mi sento un po’ più a casa! Ho promesso di comprare un regalo per il figlio dei nostri amici ma di questo passo arriverò da F.A.O. Schwarz, sulla Fifth Avenue nella meno famosa delle Trump Towers proprio di fronte al Plaza, l’anno prossimo, cosí sulla Lafayette prendo la subway. In realtà di negozi di giocattoli ce ne saranno centinaia in città e sicuramente tutti meno cari di questo, ma il mio è un pellegrinaggio. Da quando, anni fa, lessi che per una trentina di milioni (di Lire) vi si poteva organizzare la festa di compleanno di un bambino per tutta una serata, ho sempre sognato (nonostante concordi con voi che sia uno schiaffo alla miseria) di diventare sufficientemente abbiente da festeggiarci mio figlio. Più per me che per lui, credo. A tutt’oggi, comunque, mi mancano ancora i due ingredienti principali: i soldi e il figlio.
Resisto alla tentazione di farmi la (ennesima) foto con il clown che staziona all’entrata ma varcata la soglia non posso fare a meno di essere pervaso dalla sensazione di sempre, quella di essere “Alice in the Wonderland”. Ci sono più adulti (quelli a bocca aperta che si guardano dappertutto) che bambini (quelli euforici ma meno eccitati dei grandi, ormai non si meravigliano più di niente) e la cosa non mi stupisce neanche un po’! Con un modico sovrapprezzo mi recapiteranno il pacco all’hotel (ok, d’accordo, all’ostello!), cosí con le mani libere già che ci sono decido di attraversare la strada e fare due passi a Central Park. Il misterioso (per contenuti) spuntino di Chinatown incredibilmente è già stato digerito, cosí, visto che il menù della giornata prevede cucina anti-mediterranea, dirigo deciso verso il fumante chiosco degli hot dog, uno di quelli, per intenderci, dove in qualsiasi film o telefilm americano che si rispetti si fermano a mangiare i poliziotti.
Dunque, vediamo, …Pane, salsiccia, ketchup, mustard, pickles (sottaceti) e cipolla fritto-stufata-peperonata, crauti…Mi sembra che non manchi niente. “Uno e poi basta”, penso tra me e me, e infatti alla fine ne mangio… Quattro. Più una lattina di Pepsi a mo’ di Idraulico Liquido.
Cedere all’abbiocco e sdraiarsi sul prato come già stanno facendo decine e decine di persone o aiutare la digestione camminando? Opto per quest’ultima, come se non avessi fatto altro tutto il giorno e mi metto in marcia seguendo più o meno la East Drive verso nord perchè, visto che non piove, ho deciso di andare al Metropolitan. Mi spiego meglio. Una regola non scritta ma rigorosamente nota e rispettata dai turisti di tutto il mondo è quella di approfittare delle giornate di pioggia per visitare i musei, monumenti o luoghi d’interesse. L’equazione “piove = non posso prendere il sole o girare la città quindi ne approfitto per andare al museo”, si compie sempre, senza eccezioni. E non parlo solo delle lunghe code al Louvre, al Prado o agli Uffizi (che tanto ci sono sempre), è un fenomeno universale! A Rimini bastava (e basta) una nuvola per trovarsi incolonnati con altri milioni di gitanti sulla strada che si inerpica a San Marino, impiegare tre ore per arrivare in cima e dopo aver tentato invano di trovare parcheggio, rigirarsi e tornare giù! E le targhe delle auto tradivano (e tradiscono) un Europa più unita che mai: italiani, tedeschi, francesi , belgi ecc…, nessuno escluso. Cosí oggi che c’è il sole al Metropolitan si potrà respirare.
Mentre giro per le varie sale (sempre impressionante l’antico Egitto anche se è la decima volta) ho una visione: ColumbiaColumbiaColumbiaColumbia… Dev’essere un messaggio del mio stomaco, ormai in preda ad una crisi d’astinenza da porcherie, perchè non sto “vedendo” l’Università, bensí Columbia Bagels, il negozio sulla Broadway, all’altezza della 110ª St. (tre blocks a sud della University, dalla quale appunto prende il nome, lontanissimo dal Museo) che offre una serie infinita di varietà di questo “chewy boiled bread”, il panino rotondo immancabile nella colazione di ogni newyorkese che si rispetti. Fuori è gia quasi buio ma fa lo stesso.
Subway linea 4 dall’86ª su fino allo Yankee Stadium poi, senza fermarsi (il Bronx non è più quello dei film ma non mi va di uscire e verificare), linea D giù fino alla 110ª. Entro nel negozio (me lo ricordavo diverso) e perdo gli ultimi scampoli di dignità rimastami strafogandomi senza ritegno! Un cliente di 200Kg mi guarda compiaciuto.
Sono sdraiato ad occhi chiusi sul mio letto e medito se prendermi un triplo Alka-Seltzer prima di dormire. Medito tanto profondamente che quando li riapro è già giovedí mattina! Doccia rapida (i globetrotters non si sono ancora svegliati), breakfast altrettanto e sono già fuori.
La prima parte della giornata, come pianificato da tempo, verrà immolata nell’Outlet più grande, famoso e premiato (!) d’America. Dopo un’ora e dieci minuti di bus da Port Authority lungo la valle dell’Hudson River si raggiunge questo strano “pianeta”, regno assoluto del consumismo americano. Duecentoventi negozi diversi sistemati in duecentoventi cottage di legno puro-american-style diversi, parcheggi smisurati, fast food e ristoranti vari danno vita a questa specie di paese fantasma dove non abita nessuno, ma che tra le 10 di mattina e le 9 di sera di ogni giorno dell’anno (domeniche e festività incluse) raggiunge livelli di densità umana pari a quella di Tokyo.
Gli sconti fino all’85% (si, avete capito bene) ne fanno uno dei paradisi dello shopping e, considerando che con il biglietto del bus danno anche un ulteriore blocchetto di buoni, capirete perchè il sottoscritto in poche ore riesce quasi a fondere le carte di credito.
Rinuncio alla visita della vicina accademia militare di West Point, già vista e che mi ricorda un po’ troppo la mia, di naja, e prendo uno dei bus di ritorno.
Ancora in trance per la mattina appena trascorsa, dopo aver litigato con il mio subcosciente rifiutandomi di fare la conversione Dollaro/Euro per vedere quanto ho realmente speso, raggiungo l’hostel dove deposito la valigia. Si perchè per riuscire a portare tutto, visto che era scontata anche quella, ne ho comprata una! Decido di sgranchire gambe e cervello passeggiando e senza rendermi conto mi ritrovo nel pittoresco e rilassante dedalo di strade del West Village, sbucando a Washington Square Park, cioè alla NY University. Un giretto nel parco poi prendo la subway e scendo a Times Square. Solita affascinante ubriacatura di gente, luci, colori e traffico e dopo un po’ torno a Chelsea, che domani è venerdì e si lavora.
Il St. Patricks Day, festa di San Patrizio patrono degli Irlandesi è il 17 marzo ma la tradizionale sfilata di NYC, la più grande e importante del mondo, si fa, almeno quest’anno, sabato 16.
Assieme a italiani e cinesi, gli irlandesi sono stati fra i rappresentanti più numerosi dell’emigrazione in America e da sempre (1766) questa festa coinvolge l’intera città che la celebra appunto con la spettacolare St. Patricks Parade. Partendo dalla 44ª, poco a nord della NY Public Library, un serpentone ininterrotto di persone si snoda tra ali di folla festante su e su lungo la Fifth Avenue per concludersi nella 86ª, all’altezza circa del Guggenheim Museum. Un’unità militare (la Irish 165th Infantry) marcia con la bandiera alla testa della parata seguita dalle Irish Societies della città, dai vari clan e via via da bagpipers, bande musicali di scuole, istituzioni, quartieri, poi ancora da personalità politiche (onnipresenti), sportive e dello spettacolo (irlandesi o no), per un totale approssimativo di 150.000 persone. Quattro ore (dalle 11am alle 3pm circa) e qualche bel kilometro di totale “irish atmosphere” di un verde che più verde non si può. Verde come l’Irlanda.
È la prima volta che sono a NYC a San Patrizio e non voglio perdermi l’occasione di vedere la sfilata anche perchè quest’anno avrà un zapore particolare, una sorta di tributo alle vittime dell’11-S. Mi alzo di buon ora e facendo colazione conosco un gruppo di ragazze (e un ragazzo, Mel) irlandesi, anche loro ospiti dell’ostello (questo in un albergo normale non mi sarebbe capitato, fosse solo perchè generalmente la colazione non è inclusa!). Vanno tutti alla parata e ben volentieri mi unisco al gruppo. Una di loro mi disegna un paio di “shamrocks” (il trifoglio portafortuna simbolo d’Irlanda) sulle guance, prendiamo macchine fotografiche e telecamere e ci incamminiamo verso nord.
L’ora non è propriamente tattica (sono le dieci e mezzo) e ben presto veniamo risucchiati dall’esodo biblico di gente che sta risalendo Manhattan. Come noi, dunque, altri milioni (che sembrano miliardi) di persone hanno avuto la stessa idea. Che fare? Non ci perdiamo d’animo e giù nella subway alla fermata della 23ªW sulla 7ªAv. Il piano d’azione prevede: risalita di Manhattan con la linea “rossa” fino a Times square poi a est con lo shuttle fino alla Grand Central Station infine “verde” di nuovo su fino alla 86ª. Puntiamo ai due posti, ci hanno detto, con la migliore vista sullo spettacolo: la scalinata del Metropolitan o l’angolo Fifth Av-86ª dove la parata svolta a destra prima di esaurirsi, illudendoci di essere gli unici che ci hanno pensato! A Times Square già ci perdiamo di vista. Io rimango con Julie e Anne, gli altri cinque svaniscono nel nulla. Rivediamo la luce nella 86ª e dopo un po’ riconosciamo Mel arrampicato su quello che, non badando alle decine di poliziotti che ci cazzieranno più volte, diventerà a turno il punto panoramico di tutto il gruppo, un lampione. Vediamo Rudolph Giuliani, poi il nuovo sindaco e anche Hillary Clinton, poi molto prima della fine della parata si decide di andare a mangiare qualcosa. Propongo un ristorante russo, scoperto da tempo grazie alla mia guida, il B&H Dairy nell’East Village. L’idea piace moltissimo a Julie ma pochissimo agli altri e cosí dopo aver fatto la spesa, mi ritrovo, non so neanche io come, in una delle due cucine dell’ostello a preparare un’amatriciana per otto.
Manca solo Mel che torna di li a poco con una quantità di lattine di Guinnes tale da dissetare l’intero distretto. “It’s not draught beer, but we can be satisfied anyway, can’t we?” mi dice ridendo ed io, memore di qualche irish party ai tempi dell’Università e, soprattutto dell’hangover dei giorni successivi, sorrido preoccupato! La pasta è un successone soprattutto perchè il forte aroma della scura per eccellenza ha anestetizzato i palati. Christine, sbronza come una rana, si rende conto (forse per la prima volta in vita sua) della somiglianza delle nostre rispettive bandiere e dopo uno strampalato panegirico annuncia solennemente che, senza ombra di dubbio, dobbiamo essere fratelli (non lei ed io, ma italiani e irlandesi)! Sono le 5 e mi devo sbrigare; ci congediamo dandoci appuntamento per l’indomani sera e mentre salgo a cambiarmi un applauso e un hip-hip-hurrah! al cuoco risuonano dalla cucina. Accidenti la Guinnes, what a power, guys!!! Se qualcuno di voi è un giocatore di basket, un appassionato tifoso o come me entrambe le cose, concorderà che lo spettacolo della NBA è la libidine allo stato puro. Dopo settimane di ricerche e contatti via internet (addirittura con un sito illegale di bagarini del Queens che, questo è il colmo, accetta anche pagamenti con carte di credito!) sono riuscito ad ottenere un biglietto ad un prezzo ragionevole ($30 tax incl.).
Certo i Cleveland Cavaliers, gli avversari, non saranno il massimo (un biglietto dei Lakers, per esempio, sarebbe introvabile, non ci sono santi che tengano) ma è quello che passa il convento e poi vedere i Knicks nel mitico Madison Square Garden è già di per se uno spettacolo anche se la squadra da un po’ va maluccio.
La palla a due è per le 7:30pm ma bisogna essere li almeno un’ora prima per via dei severi quanto giustificati controlli. E in più devo ritirare il biglietto allo sportello.
Non sono ammessi zainetti, borse troppo grandi, telecamere e purtroppo neppure macchine fotografiche ma lo sapevo e ho provveduto.
Non è la mia prima partita NBA ma una volta dentro l’impatto è ugualmente forte, un membro della security mi accompagna al mio posto e amichevolmente mi sconsiglia di accedere ad altri settori diversi dal mio che non siano quelli pubblici. Avrò la faccia da italiano, altrimenti come avrà fatto ad intuire che aspettavo proprio che se ne andasse per scendere a vedere da vicino la panchina dei giocatori? Sfoglio il mezzochilo di depliant, statistiche, pubblicità e chi più ne ha più ne metta che ogni spettatore trova sul suo seggiolino, poi, imitando i miei corpulenti vicini di posto (sono in una zona popolare, i ricchi vicino al parterre sono magri e non mangiano), compro pop corn e Coca Cola rigorosamente king-size. In un attimo tutti i dubbi generati, suppongo, dai miei 80 miseri Kg svaniscono e divento uno di loro. Nel giro di cinque minuti mentre una signora mi “affresca” il viso (cacchio, mi ero appena lavato via i trifogli!), mi trovo con la bandiera americana in mano, un cappellino con il logo della squadra in testa, un cartello con una gigantesca “O” (sono l’ultima lettera della scritta “Go Latrell Go in onore di Sprewell, idolo di casa ) e una specie pon-pon colorato da agitare in aria. Mentre inizia la festa mi rendo conto che così conciato sarà impossibile mangiare e bere ma mi sento adottato e ne sono quasi orgoglioso! Per la cronaca i Knicks vincono 105-95, ho portato fortuna.
Ordinatamente come eravamo entrati usciamo. Tutti i componenti della mia nuova “famiglia”, nessuno escluso, mi salutano abbracciandomi e, in segno di un simbolico gemellaggio Italia-Bronx mi regalano tutto quanto mi avevano prestato! Con ancora in testa (e nelle orecchie) la tiritera “D-fense” (defense, difesa), nota a tutti gli appassionati già dai tempi delle telecronache di Dan Peterson, cammino per un paio di isolati poi mi stufo, fermo un taxi e vado a dormire.
Domenica è il giorno di Nonna Bice.
Nonna Bice non è il nome di un ristorante italiano o di una pizzeria ma di una nonna in carne ed ossa, la nonna di Danny.
Danny, (Daniel Fortunato) mio ex compagno di dottorato, è un newyorkese doc, di Brooklyn che a dispetto delle sue chiare origini non sa neanche una parola di italiano. Per lavoro e per amore adesso vive in Nuova Zelanda e non torna a casa quasi mai, cosí per sua nonna Bice io sono diventato una sorta di nipote sostitutivo e ogni volta che passo in città la vado a trovare. La sua è una storia di emigrazione uguale a quella di moltissimi altri. Un paese dell’Appennino, famiglia numerosa, poco lavoro, nessun futuro si va a cercar fortuna in America.
È una donna che non ha studiato ma ha un’intelligenza fuori del comune e con lei si può parlare di tutto. Logicamente capisce e parla al 100% l’inglese (l’americano dice lei) ma se proprio non ne è costretta si rifiuta sistematicamente di usarlo e sotto sotto soffre nel vedere che Danny non lo sa. Ha lavorato cinquant’anni come sarta poi un bel giorno ha smesso perchè, racconta, si era stufata.
La sua casa di Cobble Hill è esattamente come ci si aspetta che sia la casa di vecchio emigrante italiano: la foto di Garibaldi, del Papa e quelle del matrimonio del figlio e della Laurea di Danny; il forno a microonde il mattarello per tirare la sfoglia della pasta e la macchina da cucire .
Ha ottantasette anni ma una lucidità e una memoria impressionanti. Adora la boxe e il baseball e non c’è niente di più piacevole che dirle “raccontami di Joe, nonna” e stare ad ascoltarla. Joe è Joe di Maggio, che lei conobbe tanti anni fa…
Il modo migliore per raggiungere casa sua se si ha tempo è attraversare il ponte di Brooklyn a piedi. Parto di buon mattino e il fatto che di domenica gli uffici siano chiusi, e che quindi il traffico di pendolari sia notevolmente ridotto, mi fa apprezzare la “passeggiata” molto di più nonostante l’aria pungente.
In una mezz’ora ci sono, giro a destra come sempre e passo da Furman St., in piene Brooklyn Heights ammirando la sponda opposta dell’East River con il panorama dello skyline più famoso del mondo. Suggestivo come sempre (di più al tramonto) anche se senza le Twin Towers non sembra più lui! Mi sposto all’interno e percorro Henry St. Verso sud fino a quando il fragrante profumo che esce dalle numerose pasticcerie mi indica che sono a Cobble Hill.
“È da un mese che non esco, ho avuto l’influenza” mi dice dopo avermi abbracciato a lungo, e mentre mi immagino un pomeriggio in casa a chiaccherare in poltrona al calduccio, se ne esce con una delle sue favolose trovate. “Non piove, si va a fare merenda al lago!” “Fare merenda al lago”, per voi che non conoscete nonna Bice, significa, nell’ordine: prendere dal ripostiglio l’enorme frigo termico da pic-nic regalo di Danny, riempirlo all’inverosimile di ogni ben di Dio (cioè non panini ma melanzane alla parmigiana, polpette, sformato di patate, una specie di insalata russa, torta di mele, vino-piatti-posate-bicchieri-etc.), telefonare a Guen, dirle che passi a prendere Dolly, poi che venga qui, e tutti insieme andare al Prospect Lake, nell’omonimo parco al centro di Brooklyn.
Guen e Dolly, Guendaline e Dolores, centosessantotto anni in due, sono le migliori amiche della nonna. Più o meno vicine di casa da tutta la vita, continuano a vedersi quotidianamente, incuranti degli acciacchi. Insieme sono un incrocio tra le protagoniste di “Arsenico e vecchi merletti”, le Pink Ladies di “Grease” e la bisnonna di Vicky del “Tempo delle mele”, pericolose, scatenate, inarrestabili! Mi offro di guidare io la Dodge azzurra fine anni ‘70, ma Guen non mi prende nemmeno in considerazione. “Mai avuto un incidente in cinquant’anni”, dice, però a me quella portiera color grigio-carrozziere che l’ultima volta non c’era, non convince neanche un po’.
Passo una delle mezz’ore più agitate della mia vita, eppure dovrei esserci abituato. Se penso a quella volta d’estate che tutti e cinque, c’era anche Danny, andammo addirittura fino a Cape Cod…! Il parco è bellissimo e pieno di gente, con bambini, cani, palloni ovali e freesbees. Sembra Central Park e non solo perchè l’hanno progettato i medesimi architetti. E poi con queste tre non ci si annoia di certo, così il tempo vola letteralmente. Sulla via del ritorno ci congediamo da Dolly e poi Guen ci lascia sulla porta di casa con un “Next time to the beach, honey!”. Le sorrido mentre deglutisco preoccupato! È ora di salutare anche Nonna Bice. Mentre aspetto in salotto sparisce un attimo e torna con un sacchettone di cookies fatti da lei e una busta con tanto di indirizzo e francobollo. “È una lettera per Danny, dice, volevo spedirgliela io ma mandagliela tu, elettronica, mi raccomando, che cosí arriva subito!”. Li per li non capisco poi quasi mi commuovo. Cara Nonna Bice, abbastanza moderna da sapere che esistono le e-mail ma non tanto da capire cosa siano realmente. E rivedo mio nonno, quello vero che adesso non c’è più, e quella volta che scassò il rasoio elettrico che gli avevamo appena regalato perchè, senza neanche porsi il problema, l’aveva usato con la schiuma da barba! Le dico di non preoccuparsi mentre penso tra me e me che domani passerò dal Post Office. “Usa sempre la testa in quello che fai e torna presto a trovarmi!” Me ne vado contento. La mia New York è anche, soprattutto questa.
All’ostello ritrovo la “gang degli irlandesi” che mi aspetta. Tento di spiegare che sono stanco morto e che andrei volentieri in camera ma quando Julie mi si avvicina dicendomi candidamente in un orecchio che se vado a letto lei viene con me, decido di uscire senza neanche salire un attimo.
Giriamo un’infinità di locali, pub e bar (nonostante la domenica molti siano chiusi) ma questo per uno abituato alla “movida española” è routine. Il segreto sta nel dosare l’alcool e comunque il potere assorbente dei biscotti di nonna Bice risulterà provvidenziale.
Quando torniamo è notte fonda, e nel cielo di Manhattan spiccano le due colonne di luce che hanno preso il posto delle due torri. Non ci sarebbe niente di male se un post-it sulla porta della mia stanza non recitasse: “Unexpected meeting tomorrow 9am. Contact me asap. Peter”. Nooooooooooooooo, merda!!!!!!!!! È soprattutto l’asap (as soon as possible) che mi preoccupa; conoscendo Peter vuol dire “a qualunque ora”. Lo chiamo subito, mi aggiorna meglio che puó considerato che sta(va) dormendo, poi concordiamo che per precauzione passi lui a prendermi alle 8:30, non mi fido della sveglia.
Fortunatamente l’indomani alle 8 e un quarto sono già in strada e poco dopo, alla riunione, mi rilasso non poco al vedere che non sono l’unico zombie.
Nel primo pomeriggio dopo il brunch che decreta la fine dei lavori (questa volta definitivo) saluto tutti, concordo con la segretaria la spedizione di documenti e prospetti all’ ufficio di Madrid, poi prendo la “B” cambio a Herald Square per la “gialla” e scendo sulla 60ª angolo Lexington. Due passi e sono alla stazione dei tram sopraelevati per Roosvelt Island pronto per godermi i quattro minuti di meraviglioso panorama sull’East Side.
Una volta sull’isola cammino immerso nella tranquillità delle vie residenziali gustandomi uno stupefacente Ben & Jerry’s ice cream e poi torno indietro passando, tanto per allungare il tragitto, davanti alle Nazioni Unite.
Stesera si cena russo, con o senza gli irlandesi.
Il martedì, penultimo giorno, mi sveglio con voglia di mare, aria, spazi aperti così, senza neanche pensarci su, vado diretto al South Ferry Terminal, all’estremo sud di Manhattan oltre il Battery Park, da dove partono i traghetti per Staten Island.
A parte un paio di piccoli musei ed un giardino botanico, a Staten Island non c’è assolutamente niente di niente da visitare ma il battello – gratuito – che vi ci porta passa a poca distanza da due dei simboli della città, la Statua della Libertà ed Ellis Island, (l’isolotto che fu per oltre sessant’anni il punto di controllo dell’immigrazione a New York) offrendo una vista mozzafiato sia di Manhattan che di una buona parte di Brooklyn. E tutto questo si traduce in un’ottima, economica, rapida, genuina alternativa al sempre strapieno ferry-troppo-turistico di Battery Park.
Sulla via del ritorno non mi va ancora di “congedarmi” dall’East River e dai suoi panorami, oggi la giornata va così, quindi decido di fermarmi a mangiare al Pier 17 del South Street Seaport (esatto, quello dei biglietti per la viewing plattform).
Gastronomicamente è un posto nuovo anche per me e ad una prima occhiata (meglio, ad una prima annusata) le svariate possibilità culinarie che mi si offrono non sembrano entusiasmanti (si, già, parla quello di hot dog e bagels di pochi giorni fa…).
Nell’ordine: un paio di friggitorie di seafood, l’immancabile fast food, un cinese, un vegetariano, un greco, e diversi altri. Scelgo un Tex-Mex dove, sopravvalutando il mio appetito (o sottovalutando le dimensioni delle bistecche nelle foto), ordino al cameriere il menù nº 3.
Di li a 20 minuti mi vedo servire una specie di quarto di bue guarnito da una coltivazione intera di patate ultrafritte, galleggianti in un lago di una salsa simil-ketchup ma, che dirvi, pian pianino finisco tutto (!) e penso a quanto sarebbe orgogliosa di me la mia nuova famiglia adottiva del Bronx!!! Per essere assimilato, un quarto di bue richiede che tutto il sangue corporeo convogli allo stomaco simultaneamente e cosi’, in questo stato di semi-comatoso, con evidenti sintomi di anemia periferica (orecchie, naso, mani e piedi sottozero), completamente incapace di un qualsiasi movimento modello pitone-dopo-la-merenda, ne approfitto (rigorosamente seduto) per curiosarmi intorno e “studiare” i miei vicini di tavolo.
Il documentario scientifico-naturalistico “L’Animale Americano e il cibo”, che potrei sceneggiare con le informazioni raccolte in tanto tempo trascorso negli USA, avrebbe forse un gran successo (comico) ma non aiuterebbe a chiarire (prima di tutto a me stesso) certe abitudini.
Una delle cose, per esempio, (e mi limito ad una) che non sono mai riuscito a comprendere pienamente è il rapporto che gli americani hanno con la formula “all you can drink” (“tutto quello che riesci a bere”), detta anche “free refill” (ricarica gratuita).
Molti ristoranti (in genere fast food ma non solo), all’ordinare un menù completo ti consegnano un bicchiere vuoto che poi tu puoi riempire all’infinito dall’apposito dispenser. Che senso ha, mi chiedo io allora, che in questi locali continuino a coesistere bicchieri small, medium e large, ovviamente a costi diversi? Che senso ha pagare il bicchiere grande se prendendo quello piccolo lo posso comunque riempire 1000 volte? Per trovare la riposta forse bisogna smettere di pensare da europei (ve la immaginate una formula cosí da noi in Italia?) e tentare di calarsi nel modus vivendi locale, quello cioè del popolo che ha inventato il telecomando, il cinema drive-in, il ristorante drive-through, il car-bancomat e perfino il parcheggio con piazzole dotate di telefono a monete altezza finestrino. Un popolo fondamentalemente pigro alla perenne ricerca del massimo risultato con il minimo sforzo; un popolo che tenta, cioè, di fare tutto senza alzare il culo dalla (comoda) poltrona. E, pensandoci bene l’ “all you can drink” non ne è che una conferma. Facendo notare divertiti la cosa ad un americano vi sentirete beatamente rispondere “che senso ha fare la fatica di alzarsi per riempire il bicchiere cinque volte se pagando poco di più lo posso fare solo tre?” Effettivamente non fa una piega!! Ripresa la mobilità, mi incammino su Fulton St. Per prendere la subway, e mi viene un’idea.
Mi sarebbe sempre piaciuto riuscire a visitare il Chrysler Building ma non essendo aperto al pubblico non mi è mai stato possibile. Adesso però mi viene in mente che la ragazza di un amico di Danny mi aveva detto, l’ultima volta che ci eravamo incontrati, che l’avevano assunta proprio li! È passato abbastanza tempo ma tentar non nuoce. Telefono a casa e sua madre mi racconta che adesso Angela ha un nuovo fidanzato, un figlio, una nuova casa ma il lavoro è sempre lo stesso. Perfetto. Mi da il numero, la chiamo e, contentissima di risentirmi e gentilissima come sempre, mi dice che tra mezz’ora mi farà trovare un pass nella hall del palazzo, mentre lei mi aspetterà su al 42º.
Scendo alla fermata della Grand Central Station e un’ora più tardi, dopo una splendida visuale di Manhattan, per la prima volta da una prospettiva diversa, ma soprattutto dopo la lunga chiaccherata a ricordare i vecchi tempi, la saluto e mi ri-infilo sottoterra.
Ho pensato di tornare all’ostello e organizzare la valigia (anzi LE valige, ci sará da ridere domani in metro!) cosi’ da portarmi il lavoro avanti e, soprattutto avere l’ultima mattinata libera prima del transfer all’aeroporto. Per far passare il tempo guardo di sfuggita le pubblicità dello spettacolo teatrale “Cats” da sempre in scena a Broadway che tappezzano le pareti del vagone.
Una volta in camera mentre “razionalizzo millimetricamente” il bagaglio per il viaggio continuo a pensare alla pubblicità sul treno e, non avendo niente in programma, decido che vale la pena di tentare.
“Vale la pena di tentare” vuol dire che andro’ a Times Square, cuore del Theatre District, e al botteghino vedro’ se c’è qualcosa di interessante, cioè qualche biglietto per uno degli spettacoli della sera.
La formula prevede che tutti quelli rimasti invenduti, vengano ceduti il giorno dello spettacolo a partire dalle 4pm, da metà prezzo “in giú”. La richiesta, considerato che non tutti possono o vogliono spendere 60-70$ per uno spettacolo seppur bellissimo, è sempre alta ma è martedì e, ripeto, vale la pena di tentare.
Che culo!, un po’ di coda ma per $10 mi assicuro una poltrona all’ Eugene O’Neill Theatre dove programmano “The Full Monty” del quale, tra l’altro, le recensioni dicono un gran bene.
Mi addormento (in camera non a teatro!) soddisfatto.
Oggi sará una giornata piuttosto lunga quindi nei tre o quattro negozietti che ancora devo visitare invece che a piedi ci vado in metro, bus e taxi, tanto più che piove. Poi saluto sbrigativamente tutti all’ostello (tanto ci rivedremo sicuramente in un paio di mesi) ed inizio, con due valigie, uno zainetto e il pacco regalo, la mia personale Odissea verso JFK.
Aeroporto JFK di New York, Terminal 8 cancello di controllo della zona imbarchi, 14:30pm di un giorno di marzo.
Io sono sempre quello senza scarpe, quello che uno scrupolosissimo agente del NYPD sta scannerizzando con il suo metal detector. Sono anche quello con lo zainetto nero che viene aperto e controllato minuziosamente perché, vi ricordo, qui l’ETA non sapranno neanche cosa sia, ma Bin Laden è tristemente famoso.
La nonnina yankee stavolta non c’è…
Torno a Madrid, dove abito (ma questa é sempre un’altra storia) e dove mi sta aspettando Carmen.
Il volo (notturno) nonostante film, due chiacchere e qualche giornale sembra non passare mai cosí decido di provare a lavorare. Immobile di fronte al monitor del portatile non riesco a concentrarmi su niente che non sia il fresco ricordo dei giorni trascorsi su e giù per New York City” e, quasi meccanicamente mi metto a scrivere.
“Tra pochi minuti atterreremo all’aeroporto di Madrid Barajas, si pregano i signori passeggeri di allacciare le cinture…” annuncia l’altoparlante, ho giusto il tempo di memorizzare un’altra piccola tessera del mio mosaico poi devo chiudere.
Domani è un giorno di lavoro come gli altri, ma anche uno in meno nel countdown per il prossimo viaggio oltroceano. Perchè stavolta volta non vieni anche tu, Carmen, sai benissimo che in due è molto più bello! E non ti preoccupare, il panino te lo preparo io…
Steve