Quando la cina non era vicina
L’aeroporto è piuttosto modesto, subito siamo avvolti dal suono della lingua cinese che a tratti appare armoniosissima a volte stupisce per le sue impennate gutturali; comunque quei suoni ci hanno dato immediatamente la misura della distanza e della diversità del mondo in cui siamo arrivati.
Storditi ed assonnati veniamo trasferiti all’hotel Bejing non lontano dall’aeroporto. Hotel lussuosissimo, di concezione americana, costruito con capitali USA. Letti da una piazza e mezza, abbiamo un bagno con due lavabi, il phon incorporato ed una quantità di accessori.
Ceniamo in un patio con un servizio self-service pantagruelico. Dopo cena usciamo a piedi: appena fuori dal recinto dell’albergo siamo inghiottiti dal buio, pare di essere in aperta campagna, si odono stormire i rami degli alberi, ma siamo in città, stiamo camminando lungo un viale. Appena gli occhi si sono abituati all’oscurità incominciamo ad intravedere sagome di palazzoni, spazi per passeggiare, giardini, vie laterali al viale, il tutto fiocamente illuminato da piccole lampade, anche dalle finestre traspare un lieve chiarore; vi è molta tante in giro, sia per le strade che seduta nei giardini, ma loro presenza sembra immateriale. Per la prima volta proviamo la sensazione, che si ripeterà spesso durante la nostra permanenza, di essere fra una folla che ci scivola intorno aprendosi e chiudendosi al nostro passaggio, restando sempre impenetrabile.
Impenetrabile come i voli delle persone che la formano e come i loro occhi indagatori che si fissano su di noi e con estrema rapidità sfuggono il nostro sguardo. Nell’atrio dell’albergo incontriamo un italiano qui per affari, il giorno seguente andrà in una città dell’interno per concludere dei contratti, ci parla dei suoi già numerosi soggiorni in Cina, della difficoltà di penetrare il modo di comportarsi e di pensare dei cinesi; forse noi siamo troppo rozzi, troppo immediati per distinguere quando un cinese sorride per cortesia o per rabbia, siamo troppo pratici nel considerare facili certe cose che per loro sono complicate o per ritenere impossibili imprese essi affrontano e concludono con successo.
La nostra prima notte in Cina ci dà la sensazione di grande confusione, un po’ per il fuso orario, ma più che altro per le contraddizioni che incominciano a delinearsi: l’albergo illuminato a giorno come una piattaforma petrolifera in un oscuro spazio formicolante di persone rapidissime nei gesti ed immobili nel volto, sculture di ghiaccio ad ornare i tavoli del ristorante e fontanelle sgocciolanti agli angoli delle strade.
Dormiamo, domani si andrà alle Tombe dei Ming ed alla Grande Muraglia.
Per raggiungere le tombe dei Ming dobbiamo uscire da Pechino, ne sfioriamo il centro, la città è immensa, pare più un insieme di quartieri collegati da grandi arterie sulle quali scorre il traffico lento di camion ed autobus affollati al massimo della capienza più qualcosa, molti i carretti trainati da animali, i rimorchi attaccati alle biciclette.
Ecco la parola magica: bicicletta. E’ la vera regina del traffico. Una moltitudine di biciclette nere con cromature e campanelli dal suono gentile invade le strade della capitale.
Anche in bicicletta i cinesi sono una massa liquida e silenziosa; è come essere sulla sponda di un grande fiume che scorre silenzioso: il suono dei campanelli ha una vita propria.
Sotto una pioggerella sottile arriviamo alla via Sacra: un viale fiancheggiato da statue di animali allegorici che conduce ad uno spiazzo nel quale troneggia una grande tartaruga con stele: da qui passavano i corpi degli imperatori defunti che venivano collocati nelle tombe erette al fondo della valle. Sono state scoperte solo alcune delle molte tombe qui esistenti ed una sola è visitabile.
La visita avviene in mezzo ad una folla di turisti, ad un ritmo bersaglieristico, forse giustificato dal fatto che dobbiamo occupare in fretta il nostro tavolo al ristorante, prima che la sala sia invasa da ben 700 turisti americani che stanno effettuando una crociera e sono scesi a terra per vedere i grandi monumenti di Pechino; sono suddivisi in plotoni di una quarantina di unità, per ogni gruppo vi è un accompagnatore che precede portando in alto un cartello indicante la specie e la famiglia botanica di appartenenza.
Come si può dedurre l’atmosfera non è molto raccolta.
A me pare di essere in un centro di raccolta per turisti all’ultimo grado di assuefazione da tours organizzati. Speriamo nella Grande Murag1ia! Per arrivare al passo di Badaling percorriamo una strada che pian piano s’inerpica fra le montagne, oggi, ahimè, avvolte nella nebbia.
La strada è in corso di riasfaltatura: il cantiere è costituito da un folto gruppo di operai muniti di picche e pale, da una vecchia macchina pressapietre, di un bidone nel quale bolle il catrame che viene sparso sulla carreggiata con un pentolino. Si, un pentolino tipo quelli da cuocere le uova con il manico lungo che permette di pescare sul fondo del bidone.
Nelle gole delle montagne e sulle creste più alte incominciamo a scorgere dei tratti della muraglia. E’ un’apparizione emozionante. Quante volte ci è stata raccontata la leggenda di questo immane argine contro gli invasori, da piccoli immaginavamo questi nemici come dei mongoli rapati e feroci, poi, man mano che si cresceva, sono diventati nemici sempre più complessi, più problematici, fino ad identificarsi coi misteriosi tartari, invisibili e sempre attesi che ci hanno suggestionato nel romanzo di Buzzati.
Scendiamo a terra, anzi a terra terra. Passo di Badaling: nuova orgia turistica con empori pieni di magliette, souvenirs di ogni genere, panda di peluche.
Saliamo alcuni scoscesi scalini e siamo sul muro: largo fiancheggiato da merli, esso s’inerpica ripido per il fianco della montagna.
La giornata nebbiosa non consente la vista d’insieme sulle cime circostanti, però aumenta il mistero ed il fascino di questo bastione possente inghiottito dalla foschia. Sotto raffiche di vento freddo scendiamo tra una fila di ragazzi che, per mezzo dollaro, ci offrono i famosi berretti con la stella rossa.
Torniamo in città e dal pullman vediamo di lontano la piazza Tien Ammen illuminata.
Cena in un ristorante del centro, mangiamo l’anatra laccata che a noi pare ottima, mentre gli ‘orientalisti’ del gruppo dicono di averne mangiata una molto migliore in un ristorante di Torino.
Il giorno successivo, a causa di un mio forte mal di capo, non possiamo seguire il gruppo che va a visitare il Palazzo d’Estate; restiamo un poco in albergo, poi chiamiamo un taxi e concordiamo con l’autista un giro nel centro di Pechino fino al primo pomeriggio: il prezzo richiesto è di L. 20.000.
Eccoci in via Linlichang, la strada degli antiquari; in parte restaurata. Vi sono case basse con le facciate di legno intagliato e colorato, molti negozi di carta di riso, di pennelli per scrittura e pittura, di timbri e di sigilli, piccole gallerie d’arte che espongono pannelli dipinti: monti avvolti nelle nubi, canne di bambù che accolgono uccelli dalle piume meravigliose, ritratti di vecchi saggi fra pagode e pini frondosi.
Andiamo un po’ in giro nelle vecchie vie, case bassissime, un locale per tutta la famiglia, sulle porte corone di melanzane e funghi ad essiccare, banchi di vendita di verdure, vecchiette sedute sulle soglie, molte portano ancora gli ampi calzoni neri e la casacca bianca abbottonata fino al collo; facciamo, come logico, alcuni acquisti e poi in nostro taxì ci porta sulla piazza Tien Ammen.
E’ immensa, quasi non se ne vedono i confini ed è piena piena di gente: cinesi in gita con il sacchetto per il pranzo; cinesi in fila davanti ai banchetti dei numerosi fotografi, cinesi giovani che passeggiano tenendosi per mano, cinesi vecchi con la barba a punta ed il cappello a pagoda di bambù che si guardano intorno pieni di curiosità ed ammirazione, cinesi che fanno volare lunghe file di aquiloni colorati, cinesi davanti al mausoleo di Mao che leggono con attenzione gli ideogrammi della colonna eretta a glorificazione della Lunga Marcia.
Siamo emozionati ed orgogliosi di passeggiare su questa piazza la cui immagine è giunta nelle nostre case piena di ‘guardie rosse’ che scandivano slogans tenendo in pugno il libretto di Mao.
Ora ci pare che la popolazione si sia riappropriata di questo spazio e ci viva, lo abbia in qualche modo, dissacrato. Ma forse non è così, forse il vecchio cinese che mangia spaghetti e beve the dal suo thermos è qui a venerare questo luogo con lo stesso spirito riverente con cui suo padre si fermava di fronte alle mura della città proibita.
Ed eccola la cittadella dell’imperatore, chiude da un lato la piazza, ad essa si accede attraverso alcuni ponti di marmo bianco sul ‘fiume d’oro’ che circonda le mura rosse.
Passiamo i ponti ed entriamo nel primo cerchio: vi sono alberi e costruzioni che paiono magazzini, altra cerchia di mura, altro cortile, altro bastione e così per quattro volte.
Siamo nel cuore della città, nel cortile del Palazzo Imperiale.
Non proseguiamo perché temiamo di perderci, di dover uscire da un lato diverso da quello dove l’autista ci aspetta.
Come dicevo prima abbiamo visto una moltitudine di cinesi, un fiume di biciclette, parcheggi di bici da capogiro sotto le mura della città proibita, però non abbiamo visto l’ombra di un turista occidentale. Il motivo lo scopriamo quando andiamo a fare la visita con il gruppo: infatti i pullman scaricano i turisti alla quarta cerchia di mura da dove comincia la visita a piedi, proprio dove noi ci siamo fermati.
Per quanto riguarda la piazza è prevista una breve sosta per chi vuole vedere la salma di Mao e la piazza, essendo troppo vasta per essere percorsa a piedi, viene vista e fotografata scendendo un attimo dal mezzo.
Per una volta il mio nervo del trigemino è stato provvidenziale! 6 settembre: Marco Polo’s day.
Visita di tutta la mattinata al Palazzo Imperiale, bello, imponente, ben tenuto; un alternarsi di costruzioni rosse e cortili di marmo bianco, di scalinate a tre rampe e tappeti di pietra, incensieri di bronzo ed animali mitologici, draghi e fenici, leoni dallo sguardo feroce e leonesse gelose; sale laccate a disegni fantasmagorici e colonne rosso sangue, troni dorati e clausonnè fantasiosi, alberi di pietre dure e bonsai centenari, tetti gialli coi nove guardiani ed acciottolati che risuonano ai passi di noi intrusi.
C’è anche il set del film ’L’Ultimo Imperatore’ di Bertolucci.
Nel pomeriggio visita al Tempio del Cielo: mirabile, grande purezza di linee, armonia stupefacente di forme e di colori.
Per me è il più bel monumento di Pechino; la sua mole rotonda si staglia contro il cielo innalzandosi sopra una serie di scalinate e balconate bianche che lo circondano; la perfezione delle proporzioni è stupefacente, un bellissimo parco ricco di pini contorti circonda la costruzione isolandola dal paesaggio urbano.
Nuovo attraversamento della Pechino moderna, viaggiamo su grandi arterie, attraversate da vie strette e trafficatissime, piazze piene di gente a piedi ed in bicicletta, bancarelle, mercatini di uccelli e verdure, mucchi di uova e bambini degli asili legati alla vita con una cordicella e condotti a spasso dalle maestre, casette che danno il retro alla via ed hanno cortiletti interni, passeggini di vimini a due posti con dentro bimbi dalla rosea faccia di luna e lisci capelli corvini, vecchietti che vanno curvi con la borsa della spesa e rigidi militari in uniforme verde oliva e grandi cappelli tondi.
Nel tardo pomeriggio dovremmo partire per Xian, una delle antiche capitali, per questo ci portano all’aeroporto. Però non si parte, bivacchiamo fino all’una di notte sui sedili dell’aerostazione per apprendere infine la definitiva cancellazione del nostro volo, causa, pare, un violento temporale in atto sulla zona di Xian.
Allora che si fa? Mah! Il guaio grande è che non ci sono stanze per ospitarci in Pechino. La nostra guida cinese fa una serie di telefonate concitatissime (o forse non lo sono affatto, solo che a noi pare che i cinesi quando parlano siano sempre affannati) ed alla fine trova una sistemazione a Fangshan, centro industriale della seconda cintura e luogo in cui sono stati ritrovati i resti ‘dell’uomo di Pechino’, uno dei nostri più antichi progenitori.
Partiamo, dovremo percorrere circa 70 km prima di giungere all’albergo è una seccatura che però si rivelerà molto interessante.
Infatti fatti pochi km incominciamo ad incontrare sulla strada una teoria di carri e carretti carichi di ogni genere di cose, moltissimi hanno traballanti mucchi di masserizie sopra le quali viaggiano alla meno peggio gruppi di persone, vanno in entrambi i sensi di marcia.
Non riusciamo a renderci conto di che cosa si tratti: è impossibile che siano così tanti traslochi, e poi a quell’ora della notte! La guida interpellata non ha saputo o voluto darci una risposta, così il mistero rimane, impressionante soprattutto per la portata del fenomeno; sovente mi torna alla mente quella processione di carri piena di persone che con le loro cose vanno nella notte verso chissà quale meta.
Ed eccoci all’albergo di Fangshan, un albergo per cinesi, niente a che vedere con il Bejing, ma molto più aderente alla realtà del paese; le stanze sono ampie con servizi modesti, i letti sono provvisti di una quantità di cuscini, ci sono anche le immancabili ciabatte sul comodino ed il thermos per il the.
Il mattino torniamo a Pechino per partire alla volta di Xian. Sulla strada non c’è più traccia del traffico della notte, solo camion e carri carichi di paglia o verdure, contadini lungo la strada; passiamo su un ponte dove paghiamo un pedaggio alla cooperativa (forse qualche anno fa si sarebbe detto alla comune) che lo ha costruito per abbreviare il percorso fra i suoi campi e la città. Verso le 13 decolliamo alla volta di Xian, dove siamo accolti da una guida che parla un dolcissimo francese e si rivela uomo di grande cortesia ed educazione.
Sta ormai per calare la sera e questo ci permette di poter visitare il capannone dove si trova l’esercito di terracotta liberi dalla presenza delle centinaia di turisti che ogni giorno affollano il luogo rendendo problematico anche solo il gettare una rapida occhiata nella grande fossa in cui è collocata quest’opera straordinaria.
Il silenzio aumenta, se possibile, il fascino delle statue schierate davanti al carro dell’imperatore, fisse nell’immobilità della materia inerte eppure vive per la varietà di espressioni che gli artisti-schiavi hanno dato loro.
Annesso allo scavo vi è un interessante museo che illustra la storia dell’esercito e la tecnica usata per la modellazione delle statue. Questo non è l’unico esercito di terracotta, ve ne sono molti altri perché non solo gli imperatori, ma anche gli alti dignitari, i proprietari terrieri ed i vari signorotti volevano essere seguiti nella morte dalle effigi di coloro che avevano posseduto e dominato in vita. Molto c’è ancora da scavare e da scoprire in questa parte della Cina.
Purtroppo abbiamo perso un giorno e salta la visita di Xian che merita ben altra attenzione.
La città moderna è molto grande, gli edifici modesti, molte delle grandi strade, affollate in modo indescrivibile da camion, bici e carri, sono sterrate, anche i marciapiedi sono intasati da una fiumana continua di persone tanto che anche a piedi è difficile procedere.
Con un Ilyuscin. Russo, ricordo della passata amicizia e collaborazione fra i due paesi, compiamo un dolcissimo volo ad elica verso Shangai. La mitica città il cui nome è per noi sinonimo di Oriente, traffici, affollamento,vita ai margini della legge. In alcuni quartieri conserva ancora evidenti i segni dell’epoca in cui essa era concessione francese, inglese, tedesca tanto che in certe vie pare di essere in Normandia o a Dublino.
La città vecchia cinese e invece una … Shangai. Difficile descrivere l’animazione delle viuzze in cui è problematico avanzare di qualche passo tale è l’affollamento di uomini e mezzi, di banchetti che vendono ogni sorta di merce. Tutta la vita si svolge sulla strada, per mancanza di spazio nelle abitazioni si cucina all’aperto, anche i panni si lavano fuori e poi sono messi ad asciugare su lunghe canne di bambù sospese attraverso i vicoli. Le case sono basse, con piccole porte, all’interno si vedono molti cesti appesi per guadagnare spazio, però su tanti tetti svettano antenne televisive e fiammanti motociclette giapponesi sono parcheggiate accanto alle seggioline di bambù ed ai fornelli.
Visitiamo il tempio del Budda di giada, dove assistiamo a parte di una cerimonia di monaci che salmodiano e percuotono tamburi.
Passeggiamo nel giardino del Mandarino Li, un luogo di delizie molto gradevole e pieno di cose belle. Il pomeriggio visita in nave del porto fluviale: lungo 30 km giunge sino al mare. E’ un po’ noioso, ma serve anche per riposarci e per spegnere la sete folle di acquisti che sta divorando i vari componenti dell’eletto gruppo.
Nella mattinata del 12 settembre partiamo dalla stazione di Shangai per il parco naturale di Wuhi, il percorso dura undici ore e si snoda attraverso la pianura del Fujian. E’ una zona coltivata molto accuratamente a riso, cotone, canapa, soja, vi sono molti stagni per l’allevamento del pesce e la coltivazione delle castagne d’acqua, di alghe ed altre piante acquatiche molto usate nelle cucina cinese.
Arriviamo nel cuore della notte in una stazione ai margini del parco e qui siamo caricati su di un pulmino che incomincia ad inerpicarsi per una sconnessa strada di montagna.
Siamo molto stanchi, attraversiamo villaggi immersi nell’oscurità, a volte si sentono cani latrare e versi di altri animali, si intravede qualche abitazione molto modesta e fiocamente illuminata.
Solo al mattino successivo ci rendiamo conto di dove siamo: un lodge situato ai piedi di una catena di picchi che emergono da foreste di bambù.
Questi torrioni di roccia grigia calamitano le nuvole, bianchissime, che s’insinuano fra le gole, si sfilacciano e si ricompongono a seconda di come soffia il vento.
Passiamo la mattinata a passeggiare nel parco andando da padiglione a padiglione: ve ne sono moltissimi, anche sui picchi e lungo le loro pareti, sono collegati da sentieri e scalinate tagliate nella roccia.
Al pomeriggio ci aspetta un’esperienza interessante: la navigazione sul fiume delle Nove Anse su imbarcazioni di bambù.
Si tratta di zattere formate da sette od otto grosse canne legate fra loro, su di esse sono posti dei seggiolini per i passeggeri, un barcaiolo a poppa ed un altro a prua le manovrano servendosi di un lungo remo.
Vinto il primo momento di titubanza, saliamo quattro per zattera ed incominciamo la discesa del fiume.
L’ambiente è spettacolare, le acque limpidissime scorrono fra i picchi cui sono stati dati nomi poetici quali: il principe, la fata, la principessa, gli innamorati ecc., le pareti sono di roccia scura ravvivata dal verde tenero di boschetti di bambù e dall’arancio dei gigli selvatici, dove la valle si allarga il corso del fiume è fiancheggiato da spiagge di sabbia e ciottoli bianchissimi. Nel silenzio risuonano i colpi sordi dei remi che battono sul fondo sassoso.
Viaggiamo per quasi tre ore in quest’atmosfera irreale, il cielo è percorso velocemente da nuvole che talvolta fanno cadere un po’ di tiepida pioggia subito evaporata dal sole bruciante.
E’ bello! Alla sera all’albergo il direttore, per fare onore a noi ed ad altri ospiti svedesi ed americani, ci fa assistere all’esecuzione di alcuni disegni da parte di un vecchio pittore, molto considerato e riverito; egli con pochi tocchi di pennello, tenuto dritto e mosso con rapidi scatti, delinea immagini bellissime di paesaggi fiori, uccelli ed ideogrammi ad illustrazione e commento su ogni opera appone i sui sigilli. Nell’arte cinese pittura e calligrafia sono strettamente collegate, non vi è pittura che non rechi iscrizioni.
Il giorno seguente, chi lo desidera, la maggior parte del gruppo ad eccezione di me e di alcune altre pigrone, può salire in vetta ad una delle cime. Lasciamo con rimpianto quest’angolo fatato e scendiamo, a valle dove c’imbarchiamo per una giornata di navigazione sul fiume delle Nove Anse. Il viaggio si rivela subito interessante. Scendiamo questo fiume che si va via via allargando, i paesaggi sulle sponde cambiano rapidamente: le montagne rocciose cedono il posto a monti più ondulati coperti di boschi con terrazzamenti per i campi di the, seguono colline di terra rossa; molti villaggi costellano le rive: le case di mattoni molto spesso sono a palafitta, orti e campi coltivati, mandrie di bufali si bagnano nell’acqua bassa accanto a donne che fanno il bucato, altre portano grandi carichi verso le case.
Ma anche sull’acqua vi sono cose da vedere. Incominciamo ad incontrare delle masse di tronchi legati a formare delle specie di zattere governate da uomini che con lunghi pali le mantengono in rotta nella corrente del fiume che le trascina a valle.
Questi ‘marinai’ credo vivano per molto tempo su quei tronchi a pelo d’acqua, infatti ogni zattera ha una specie di tenda ricovero davanti alla quale fuma un fornello; essi compiono la loro immensa fatica sempre coi piedi immersi nell’acqua.
Un po’ più a valle abbiamo visto il tracciato di una strada, la guida ci ha detto che congiungerà i vari villaggi lungo il fiume al momento raggiungibili solo via acqua. Centinaia di operai lavorano a quest’opera, del tutto privi di mezzi meccanici squadrano a mano le pietre per le massicciate, sempre a mano le trasportano e le collocano al loro posto e questo per decine e decine di km.
Nell’aria tersa risuonano i colpi di scalpello di questi eredi degli schiavi di Xian.
Incrociamo un battello di ‘linea’ proveniente dalla città, incredibilmente carico di persone ed animali e di mercanzie stipate in ogni angolo disponibile, compreso il tetto del battello stesso.
Il fiume è sempre più ampio, il fondo si fa sabbioso e compaiono le barche degli estrattori di sabbia e ghiaia. Altro lavoro da girone dantesco: uomini e donne dritti in punta a piccole barche con panieri fissati ad una pertica estraggono materiali dall’acqua, quando la barca è sufficientemente piena vanno verso la riva dove scaricano il pescato in grandi mucchi. Arriviamo a Funzhou, città industriale sul fiume.
Non vi è molto d’interessante da vedere, tranne un tempio Putuo (una branca del buddismo) suggestivo, con tempietti sparsi in mezzo ad un bosco rigoglioso; molti fedeli che cercano di procacciarsi la benevolenza divina recitando preghiere e buttando a terra delle tavolette di legno, bruciano dei soldi falsi in incensieri per onorare i loro defunti. Assistiamo anche alla processione quotidiana dei monaci che recano vassoi con offerte alle statue delle varie divinità.
Questo tempio l’abbiamo, fortunatamente, visitato da soli, arrivando con il solito taxì. Pranziamo in modo eccellente in un ristorante vegetariano all’interno del parco del tempio; non avrei mai creduto si potessero combinare le verdure in tanti modi tutti gradevoli, buona anche l’erba tagliata finissima e fritta con lo zucchero! Il mattino presto, prima di partire in pullman per Xiamen, in pochi volenterosi andiamo in un giardino dove vi sono parecchie persone che si esercitano nell’arte del Tai-Ci: una forma di ginnastica, con gesti molto lenti che essi effettuano agli ordini di maestri.
Alcuni hanno spade di legno, altri sono a corpo libero; è curioso vedere uomini e donne di ogni età impegnati in tali esercizi. Molti hanno la borsa della spesa vicino all’immancabile bicicletta, altri la cartella dei libri.
Per andare al parco abbiamo attraversato un animato mercato alimentare in pieno svolgimento alle 5,30, quando siamo ripassati, un’ora’ più tardi, quasi tutte le bancarelle erano state smontate e la via era piena di gente che andava al lavoro.
Non solo in questa città, ma in tutto il viaggio, abbiamo notato quanto siano mattinieri i cinesi: alle sei sono già al lavoro dopo aver fatto la spesa al mercato e qualche esercizio ginnico sul balcone di casa o sui marciapiedi.
Qualche ora di viaggio ed eccoci a Xiamen (ex Amoy) sul mar della Cina: nome affascinante ma aspetto deludente pare il mare Adriatico sotto la cappa di calura di agosto, le onde lente e giallognole.
Xiamien è una città che risente ancora molto, nell’aspetto, dell’occupazione occidentale dell’inizio del secolo; non vi è nulla di particolare tranne un’isola giardino collegata da un traghetto alla terraferma.
Noi siamo alloggiati all’hotel Mandarin, una prestigiosa catena americana; un solo particolare può dare il senso del posto: nella vasca da bagno di ogni camera arriva l’acqua di una sorgente termale che è nel sottosuolo dell’albergo.
Tutta la zona è stata venduta a joint-ventures americane e cinesi, vi sono molte industrie per la lavorazione di manufatti tessili, elettronici, elettrici ecc. (prezzo mano d’opera vicino allo zero, ricambio garantito, precisione dell’esecuzione) E’ la notte della ‘festa della luna’, una specie di capodanno cinese vi sono spari di petardi, vecchie stoviglie vengono buttate dalle finestre; le nostre guide cinesi ci offrono un dolce simbolizzante la luna decorato con ideogrammi rossi: è il loro panettone.
La sera dovremmo (questo è il viaggio dei condizionali) imbarcarci per raggiunge Hong Kong via mare; ma la nave non arriva. Ci dicono che c’è un tifone ed è pericoloso. Sarà vero?! Non abbiamo le stanze per dormire ed in più non c’è un mezzo alternativo per raggiungere la colonia inglese.
Dopo ore ed ore di attesa, dopo aver cercato di dormire un poco su mucchi di splendidi tappeti in vendita nel negozio dell’hotel, nel cuore della notte, saliamo su di un pullman con una comitiva di svedesi nelle nostre medesime condizioni. Partiamo diretti ad Hong Kong, però, fatti pochi km, il pullman si ferma: guasto al motore. Con estrema fatica ritorniamo al Mandarin che ci insulta con il suo lusso, le sue stanze con letti doppi, le vasche da bagno con l’acqua delle terme e con tutti quegli americani beatamente ronfanti, mentre noi siamo qui pigiati sui divani della hall senza prospettive di partire! Dopo circa tre ore arriva trionfante una guida che annuncia il prossimo arrivo di un altro pullman.
Viaggiamo per il resto della notte attraverso la campagna, villaggi e paesi immersi nel sonno, vediamo molta gente che dorme all’aperto dentro delle specie di stie per galline.
Alla luce del sole che sorge vivido e fecondo, ci fermiamo in un albergo dove ci possiamo rinfrescare un poco e dove ci viene servita la prima colazione a base di zampe di pollo fritte e caramellate.
Proseguiamo. Passiamo fra campi e risaie, scene di lavoro contadino arcaico.
Eccoci nei territori neutrali fra Repubblica Popolare Cinese e colonia inglese di Hong Kong: la Cina ci è sfuggita senza che ce ne accorgessimo.
Non smentisce la sensazione sempre più forte di paese impenetrabile alla comprensione di un occasionale visitatore: dopo venti giorni di permanenza essa ci pare più lontana e misteriosa di prima. Oppure no: ora forse siamo più consapevoli della difficoltà, della doppia lettura cui si presta ogni sua immagine.
In una ressa indescrivibile passiamo il confine fra i due stati; siamo immersi in una marea di gente urlante che strattona senza pietà per accalcarsi alle dieci file di sportelli della dogana inglese. E’ un incubo, siamo gli unici turisti nel fiume di cinesi che giornalmente attraversa la frontiera per lavoro, affari, traffici vari; è un’esperienza paurosa ma interessante e che ben inquadra Hong Kong. Paradiso del capitalismo allo stato puro, popolato da un’immensa quantità di persone che si riversa qui nella speranza di avere qualche briciola della ricchezza che trasuda dai grattacieli dorati, accettando per questo qualsiasi imposizione. Andiamo in un albergo del centro: sulla porta un guardiano Sik, all’interno decine di vetrine con tutta la mercanzia possibile ed immaginabile; in camera un elenco simile ad un dizionario, con gli indirizzi presso i quali si può comprare qualsiasi cosa..
Visitiamo, senza troppo entusiasmo, quest’angolo di mercato nippo-occidentale: c’è tutto, c’è troppo.
Ancora, cinque ore di ritardo per il volo Air France: Hong Kong Bankog Calcutta Parigi: …oh! cara,… così simile a Torino dove arriviamo alla sera del dì seguente.