Polinesia ed Australia

“Ti ricordi quella volta che …..” I racconti dei viaggi vissuti. L’ultimo viaggio è stato quello in Polinesia Francese, dove abbiamo dimostrato ancora una volta a noi stessi che le mete irraggiungibili lo sono solo per chi ha paura di volare o di correre dei pericoli. Noi non abbiamo paura di volare perché ai voli intercontinentali ci...
Scritto da: bitronic
polinesia ed australia
Partenza il: 31/07/1998
Ritorno il: 28/08/1999
Viaggiatori: in coppia
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“Ti ricordi quella volta che …” I racconti dei viaggi vissuti.

L’ultimo viaggio è stato quello in Polinesia Francese, dove abbiamo dimostrato ancora una volta a noi stessi che le mete irraggiungibili lo sono solo per chi ha paura di volare o di correre dei pericoli. Noi non abbiamo paura di volare perché ai voli intercontinentali ci siamo abituati e poi abbiamo sviluppato una certa forma di cosciente paura che ci tiene alla larga dai pericoli reali, cerchiamo sempre di evitare i rischi che derivano dalla voglia di eccedere o dalla presunzione di essere al di sopra di ogni evento negativo. Questo è il motivo per cui per esempio non andrò mai nello Yemen (o altri posti simili per pericolo, nulla da dire sulle bellezze del paesaggio o sullo spirito d’impresa che accompagna coloro i quali si addentrano in un simile territorio).

Non sarà una testimonianza di luoghi da visitare, di nozioni da apprendere o di consigli prepartenza, saranno solo delle memorie di momenti vissuti durante i nostri viaggi che abitualmente mi flashano la mente nei momenti più diversi della giornata, in particolar modo durante l’inverno, quando le giornate sono corte e grigie e non si riesce a vivere se non per far passare il giorno, la settimana, il mese finché non arriverà la primavera e poi l’estate. I periodi dell’anno in cui tutto rifiorisce, la natura e la voglia di stare fuori, di organizzare o di mettere in pratica le tante idee scaturite durante l’inverno e tenute in attesa del giusto momento.

Questa è la stagione migliore, quella che in tanti posti dove noi siamo stati, è vissuta per tutto l’anno, per dodici mesi su dodici. Port Douglas o Darwin in Australia, La Polinesia Francese. “Terre d’oltremare” Anche se la loro estate è piuttosto piovosa, il clima ha un ciclo regolare e i Polinesiani organizzano la loro vita sulle ore in cui non piove o non si rischi di morire dal calore insopportabile. In Australia invece, nel Quennsland, le stagioni sono sempre miti arrivando a temperature massime di trentotto e minime di venticinque gradi centigradi. Un tipico clima tropicale.

La Polinesia è un paese fantastico, il rammarico diventa grande quando ci si rende conto di aver speso venti giorni di ferie e di non essere riusciti a vedere questo e quell’e quell’altro. In effetti, seguendo le rotte classiche del turismo, ci si fa un’idea bizzarra di questo arcipelago, ci si immerge in una cultura che ha basi diverse dalla nostra, basata sulla sola necessità di sopravvivere il giorno che si sta spendendo o tutt’al più il giorno successivo.

Una cultura quindi basata sulla pesca, sulla coltivazione della terra e dei suoi frutti e basata su una fede votata alle divinità locali che fanno da contorno ad ogni pensiero ed ad ogni gesto del popolo Polinesiano.

Questa è l’idea che ci si fa prima di arrivare a Tahiti, leggendo le riviste e sognando la vita dei pescatori, liberi e divisi tra terra e mare. Basta un rapido giro dell’isola, per rendersi conto che qui, come d’altronde in altre parti del mondo dove sia arrivato il consumismo, le favole non esistono più.

I pescatori, quelli che ancora lo fanno per sfamarsi, sono ridotti a vivere da barboni senza la giusta fierezza della loro condizione d’essere discendenti di un popolo che ha navigato l’intero oceano Pacifico in lungo ed in largo, che riconosce nel mare il proprio fratello, che parla coi pesci e sa ascoltare il vento. Una condizione visibile a tutti, perlomeno quelli che la vogliono vedere, non vivono più nelle capanne in riva al mare, ma in vere e proprie baracche lungo la strada principale.

Il pesce di cui si nutrono, è solo lo scarto di qualche peschereccio. La loro realtà è racchiusa in una bottiglia di birra, quella non manca mai.

Per tutti quelli che invece credono che il vero Polinesiano sia quello dello spettacolo serale del beach club di turno, rispondo di sì, forse quello è proprio il vero Polinesiano. Per tornare alle citazioni di “ti ricordi quella volta che .. “ voglio comunque far capire che un viaggio è per me l’approccio con la gente e con la terra. Se per la gente della Polinesia nutro quindi i suddetti umori, tanto non devo dire per la terra in cui loro abitano.

Terra e mare si fondono in Polinesia in un unico punto là all’orizzonte, dove si riesca a vedere le frastagliate sagome delle verdi alture delle isole principali e i lembi di sabbia dorata degli atolli.

Michela, ti ricordi quella volta che abbiamo visto le balene dalla spiaggia di Tahiti? Stavo fissando l’orizzonte ed eravamo in pochi in spiaggia al tramonto. Davanti a noi c’era Moorea, isola che giorni più tardi visiteremo e tra Lei e noi, proprio in mezzo al canale dove le acque sono più calde e tranquille, appena fuori la laguna, intravedemmo la sagoma di una pinna di balena.

Tanto bastò ad attirare la mia attenzione e concentrazione su quel breve tratto d’orizzonte dove si stagliavano non una ma due o forse più sagome di pinna dorsale di balenottera. Tanto poco bastò dovrei dire perché uno spettacolo analogo ma ben più consistente lo potemmo vedere una delle ultime sere da una delle spiagge più bianche e più belle dell’isola di Moorea.

Forse le balene erano le stesse ma lì allora, potemmo vederle ballare tra un’onda e l’altra, immergersi per poi riemergere per più volte di seguito. Uno spettacolo senza precedenti.

Forse però, la prima volta contava proprio perché era la prima e perché era il tramonto e perché era una delle prime sere su quell’isola. E poi forse anche perché era comunque una cosa che non ci aspettavamo. Mai, infatti, avrei pensato di poter vedere le balene durante quella vacanza.

Michela, ti ricordi quella volta che ci siamo fatti tatuare da quel tipo muscoloso e dalla pelle che sembrava un cartellone pubblicitario tanto era colorata e disegnata? Ci è capitato a Huahine, isola dai mille colori, isola ospitale e ben disposta a rendere al visitatore la giusta dose di realtà Polinesiana. In questa isola, si gode infatti del primo assaggio di Polinesia vera, quella del mare pieno di pesci coloratissimi, delle spiagge bianche, a dire il vero non ce n’è più di un paio, e della foresta tropicale. Piante rigogliose, alte e verdi intrecciate tra loro e piene di frutti. Ricordo le noci di cocco arancioni, il cui succo e la cui polpa ho assaggiato più volte. Ricordo quei frutti strani fatti a stella, con la polpa come quella del peperone ma dolci al palato.

Il tatuatore abitava in cima alla collina dove con le bici non ci si arrivava e forse o quasi, nemmeno con la Panda. La loro Panda, quella con cui c’è venuta a prendere al Motel Vanille la moglie di George, australiana come Megane Gale, ma non proprio come lei. George invece aveva lavorato per parecchi anni presso lo Sheraton Hotel dell’isola dove intratteneva i clienti con spettacoli serali composti da danze e riti tribali.George era uno di quei Polinesiani con il cellulare che non viveva più delle risorse dell’isola ma di quelle del portafoglio dei turisti. Certo non me la sento di screditarlo, perché Lui forse è uno dei pochi che vive la realtà della sua vita in una doppia coscienza. George vive infatti in cima alla collina, ha ricavato uno spazio tra la foresta per costruirsi la propria casa, ad un tetto di lamiera, ha appoggiato altre lamiere e pannelli in legno o altro materiale, vive con il frigorifero all’americana, quello a due ante, vive con il forno a microonde, possiede un televisore ventotto pollici ed una telecamera, la sua macchina fotografica Canon è più recente della mia. Detto questo, George ha il pavimento della sua casa fatto di conchiglie di barriera corallina, in casa sua ci si cammina scalzi, non ha né reti né materassi su cui dormire, il suo bagno non scarica nelle fognature pubbliche, la sua doccia non ha le pareti.

Detto questo, George ha ciò che gli serve, gli serve un frigo ma non gli serve un letto, gli serve il televisore ma non il pavimento. Forse George non vede la pubblicità che vediamo noi in Italia, perciò compra solo quello che gli serve.

George ha un figlio, sua moglie è australiana e vive da sei anni con Lui. George ha un sogno, trasferirsi alle isole Marchesi, anche lì arriveranno i turisti, però Lui sente il richiamo della terra da dove è originario.

Mi fanno ridere gli Italiani che quando sono all’estero, sognano di trasferirvisi per cambiar vita. Non è la vita che devono cambiare, ma la testa.

Michela, ti ricordi quella volta che quel tipo sbronzo ci si è fatto incontro e ci voleva invitare alla festa al porto? La birra è l’elemento liquido che, dopo l’acqua del mare, riempie le giornate dei polinesiani. E’ un dato acquisito, i Polinesiani, quando è sera, o anche nel tardo pomeriggio se hanno smesso di lavorare, bevono.

Bevono al punto che ne ho visti più d’uno con gli occhi lucidi ed iniettati di sangue, non più in grado di reggersi in piedi e mi chiedevo ogni volta se fosse sabato ma non lo era.

Che dire, certi fisici obesi sono il risultato di questa schiavitù, quella dell’abuso della birra e di una certa mancanza della cura del proprio aspetto. Nei miei primi giorni in Polinesia, a Papeete ma anche a Huahine, cercavo tra le donne quella che avrei potuto definire come donna polinesiana. Ricordo in un camion una mattina a Papeete, una donna di circa trent’anni, il cui volto disegnava la luna, tanto era curvo tra il mento e la fronte. Gli occhi erano neri come l’alabastro e la pelle non troppo scura come la narrava il capitano Cook, le labbra erano sottili. Portava un normale abbigliamento ma era pettinata e curata, pur senza trucco, come a voler dimostrare il proprio orgoglio. Ritengo infatti che la povertà vissuta con dignità sia lo specchio dell’orgoglio personale. Quella signora non sembrava povera, non posso saper se lo fosse, lo sembrava. Il nostro amico sbronzo, un metro e ottanta per cento chili, continuava a girare attorno alle quattro parole d’inglese che conosceva, dandoci l’idea di voler fraternizzare per creare una nuova amicizia, una nuova relazione tra popoli diversi per etnia, cultura e religione. In realtà gli spiegai che anche in Italia, da sbronzi, si riescono a fare dei bellissimi discorsi.

L’idea che invece io mi facevo di lui era che da lì a niente mi avrebbe sferrato un cazzotto di gancio destro, non perché gli fossi antipatico, ma solo perché in quel momento a Lui sarebbe andato di farlo e che avrei finito le mie vacanza in ospedale e che avrei dovuto rifare la mia carta d’identità e che avrei dovuto spiegare ai miei figli perché il loro babbo da dieci anni non usciva di casa.

Ci salutammo alla fine da buoni amici, non prima di avergli fatto provare i miei occhiali. Prendemmo le nostre biciclette e tornammo al motel. Quella sera mi convinsi che avrei dovuto provare più paura e meno incoscienza. A star lontano da tipi come quello ci si può solo guadagnare. Michela ti ricordi quella volta che assaggiammo il pesce crudo da Yves? Eravamo al motel Vanille e furono le ultime cene veramente deliziose di quel viaggio. Negli altri motel, o ci arrangiavamo, o mangiavamo dei piatti di pesce o carne serviti in maniera decorosa ma niente più. A me piaceva quando trovavamo a disposizione la cucina, allora ci si cucinavano gli spaghetti e sembrava di essere in Italia.

Michela ti ricordi quella volta che presi la pagoda e navigai nella laguna al tramonto? Al tramonto, l’acqua della laguna è ferma come quella della vasca da bagno, i pesci scompaiono e ricompaiono dalla barriera corallina e girano attorno alla barca cercando chissà che cosa. Il sole scende lentamente tra le nubi fino ad impattare con il mare all’orizzonte e disegna nel suo calare mille colori che si impressionano nelle pupille del turista che lo andrà a raccontare ai mille amici e nelle pupille del viaggiatore che terrà per sé questi mille secondi di memoria fotografica acquisita per poterli poi confrontare con gli altri mille e poi ancora mille e poi ancora mille.

La pagoda non voleva saperne di andare dritta, neanche quella di Flavio, che la vacanza se l’era organizzata meglio di noi, ma lui era da solo e spendeva la metà di me. Beato lui. Chissà se avrà poi ritrovato la sua scrivania a Milano, lunga storia la sua.

Con Flavio sono arrivato fino alla barriera corallina esterna dell’isola di Bora Bora. Un muro di corallo che divide la laguna dall’Oceano Pacifico. Un metro più in là, a dire il vero dieci, le possenti onde dell’Oceano si infrangono su questo muro, sopra il quale, in dieci centimetri d’acqua, ci si può pure camminare, un metro più in qua, le calde e calme acque della laguna, che contengono un habitat che sarebbe impensabile riuscire a trovare nell’Oceano. Migliaia di pesci piccoli e grandi nuotano assieme tra uno scoglio e l’altro, tra una formazione corallina e l’altra, ma assieme a loro, la laguna contiene anche razze, squali e, dov’è più profonda, anche pesci abituati a vivere sul fondo del mare, come cefali o altri pesci di cui conosco l’esistenza ma non ricordo il nome.

Michela, ti ricordi quella volta che Flavio ci parlò dell’esperienza di essere trascinati dalla corrente durante il passaggio tra bassa e alta marea in laguna? Questa è senz’altro una di quelle cose che non si è riusciti a fare. Come il soggiorno a Rangiroa. Mi consola che nessuna delle cose che non ho visto e che avrei voluto vedere o fare , rientra nei canoni turistici dei viaggi organizzati in Polinesia. Ritengo inoltre che molte delle cose che ho fatto o visto, non le avrei fatte se avessi seguito un tour organizzato. Inoltre mi consola che sono riuscito a risparmiarmi mille di quelle idiozie alle quali i turisti accompagnati da guida devono sottostare.

Quale tour operator ci avrebbe indirizzato al Motel Vanille? Quale tour operator ci avrebbe fatto conoscere George? Quale tour operator ci avrebbe portati a Le Paradis? Non avremmo traghettato con ONO ONO, non ci saremmo tatuati in mezzo alla foresta tropicale con vista sulla baia, non avremmo percorso mezza isola di Bora Bora nel cassone di un Fiat Ducato Maxi. Le Paradis, era un motel costituito da cinque bungalow sulla spiaggia con due bagni ad uso comune, aveva un bungalow che fungeva da ristorante ed una costruzione più grande che veniva utilizzata dalla famiglia e dagli aiutanti della padrona per passare le ore durante il giorno e come magazzino. Ci accorgemmo il secondo giorno che, durante la notte, nell’isola eravamo soli perché la signora con tutta la truppa se ne tornava a Bora Bora a dormire nella sua casetta.

La notte a “Le Paradis”, era una cosa meravigliosa. Il motel era situato sulla parte est del motu, ciò favoriva , unito al fatto che si era in pieno inverno, il calare precoce e repentino della sera. Le ultime ore di luce, erano dedicate alla ricerca affannata del sole, un continuo spingersi più in là, verso la spiaggia, poi verso il bagnasciuga, poi verso il pontile, ci si fermava solo prima di entrare in acqua, consci che quella era oramai l’ora di rientrare nei bungalow per prepararci alla cena. L’alternativa, e lo si faceva volentieri, era rappresentata dalle canoe, ci si saliva sopra e si circumnavigava l’isola. Una volta, ti ho trascinata per un’ora con la tua canoa attaccata alla mia perché tu avevi paura di perderti. Te lo ricordi? La notte, dicevo, è una cosa meravigliosa. Sembra di stare con i tappi alle orecchie o di essere sott’acqua. La laguna è muta, perché il mare e fermo e non c’è mai vento. Le stelle sono milioni, e non si capisce se siamo noi a guardarle oppure son loro a guardar noi. Ma nel buio della notte, si possono fare pure brutti incontri, occorre guardare dove si mettono i piedi, infatti l’isola pullula di paguri che non devono essere buoni da mangiare perché arrivano alle dimensioni di un pugno dei miei. Sono esseri strani, niente di esotico o meraviglioso, ma se torturassero me come noi abbiamo torturato loro, farei una strage. Non li abbiamo uccisi, né mutilati, ci siamo solo divertiti a vedere, quante volte si riusciva a rivoltarli su loro stessi prima che decidessero di chiudersi in casa e non accettare più le nostre provocazioni. La notte ti inghiotte, come fa anche il mare, ti circonda e te la senti sulla pelle. Con il buio più totale, se le nuvole coprono la luna , pochi raggi di luce raggiungono il mare e ne rigano la superfice. Ci siamo impadroniti di una maglietta al Le Paradis. Per questo ci meritiamo l’Infern.

Quella del rapimento della maglietta è una triste storia, una vendetta acida e spietata verso un regime che ci pareva ingiusto.

Giusto era per noi pagare la camera tutti quei soldi, se li avesse meritati, giusto era per noi pagare l’anguria a peso d’oro, se fosse stata per lo meno intera, giusto era per noi cercare la vendetta verso quel popolo, i Polinesiani, che ci aveva smarrito la valigia, non ci aveva assistito all’aeroporto, ci spennavano per qualsiasi cosa noi si intendesse fare.

La vendetta era la risposta migliore alle nostre recriminazioni. Quella signora che ci aveva fatto viaggiare nel cassone del camion, che ci ospitava in quei bungalow dove la porta non aveva serratura, dove non c’erano tende ed il sole entrava a svegliarci tutte le mattine attraverso quei vetri di plastica. Quella signora che alla fine, ci voleva baciare, ci aveva regalato due trasferimenti ed una cena a testa. Quella signora aveva pagato per le colpe di tutti i Polinesiani, quelle colpe che addossavamo a loro per l’averci rovinato le ferie, per averci trattato come due banali turisti.

Senza contare che quella corsa in Ducato, quelle finestre in plexiglass e quel sole che al mattino ci perforava le palpebre senza alcuna pietà sin dall’alba, resteranno nei nostri ricordi al pari dei colori della barriera corallina e della laguna.

Quanta vergogna riuscimmo a provare dopo quel gesto, non subito però, perché quel furto ci faceva sentire bene, avevamo agito in maniera secondo noi corretta, quella signora era in credito con noi per come ci aveva trattato, ma noi non sapevamo che lei lo sapeva, e ce ne siamo accorti solo alla fine, ai saluti finali. Oramai, non considero più quella maglietta come un furto, visto che quella signora si era resa conto di doverci qualcosa, io ho scelto cosa.

Abbiamo preso la maglietta una sera che, al ritorno dalla visita all Acquarium di Bora Bora, la signora ci lasciò soli sull’isola per tre lunghissime ore, senza dirci quando e se sarebbe tornata. Ci sentivamo abbandonati, di certo in un paradiso, ma comunque abbandonati. Siamo rimasti per quel periodo senza collegamenti con il mondo esterno, in quell’isola mancavano infatti la TV , la radio il telefono e la luce c’era solo per due ore durante la cena. Poi più nulla, il buio assoluto.

Da quel motel abbiamo potuto fare una bellissima gita sulla laguna di Bora Bora a bordo del pedalò messoci a disposizione dalla signora. Dovevamo andare all’aeroporto, perché da lì avremo potuto contattare il corrispondente Hotelplan di Tahiti.

Quanti possono raccontare di essere andati all’aeroporto in pedalò? Io lo posso fare perché, dopo neanche un’ora di pedalata nella splendida laguna dai mille colori dove l’acqua non superava mai il metro di profondità, il nostro pedalò ha gettato le ancore sull’isola che ospita proprio l’aeroporto di Bora Bora. La nostra base di appoggio era un’insenatura. Un’insenatura tra mangrovie che intrecciavano le loro radici tra la sabbia del bagnasciuga, popolata da granchi rossi e neri , di dimensioni tali che le loro chele avrebbero potuto recidermi l’alluce in un sol colpo. Il mio alluce, quello che solitamente porto racchiuso in una scarpa numero 44. Di lì, poche centinaia di metri per giungere all’aeroporto di Bora Bora, dove atterrano i VIP che qui vengono in vacanza, prima di essere trasferiti via mare nei loro lussuosi hotel lungo la costa, con i bungalow sospesi sull’acqua.

In Polinesia, si vola su aerei piccoli ma comodi e ben curati, il servizio è tutta cortesia e sorrisi. Peccato che nel volo da Bora Bora a Papeete, i sorrisi fossero solo maschili (e indirizzati a te, Michela). Quel giorno, dovettero organizzare un volo proprio per noi e per una dozzina di giapponesi, perché i voli programmati erano tutti pieni. Questo la dice lunga sulla quantità di gente in giro per quelle isole in quel periodo. Infatti i voli giornalieri per quella destinazione erano ben otto, ma su nessuno di essi c’era un solo sedile libero. Ma come mai, tutti i giapponesi sono saliti in fretta e furia sull’aereo a occupare tutti i posti a destra? La domanda era pertinente e la risposta fu laconica. Dal mio sedile di sinistra, non riuscii a vedere neppure una minima immagine della stupenda laguna di Bora Bora , invece loro, nell’ affanno di scattare foto su foto, si devono essere fotografati pure i piedi.

Capii che i resoconti di viaggio fatti agli amici una volta a casa, devono contenere pure queste informazioni, “ricordati, quando salirai sull’aereo da Bora Bora a Papeete, sgomita, fai a pugni ma conquista un sedile di destra. E’ molto importante.” Una volta sceso, mi accorsi che sulla fusoliera dell’aereo, dalla parte sinistra, c’erano attaccati dei contrappesi “Made in Japan”. Nel volo da Moorea a Papeete, ebbi l’occasione di copilotare un piccolo piper da dodici posti, potei disporre di tutta la strumentazione di bordo e, se avessi voluto, avrei potuto manovrare la cloche dei comandi o la leva del motore tanto ero vicino alla cabina di pilotaggio. Il mio compito era, visto che mi trovavo lì, quello di informare i passeggeri di qualche inconveniente durante il volo o dell’eventuale malore del pilota. Non ne ebbi l’occasione, ma provai a creare un po’ di suspance dicendo che eravamo a corto di carburante, ma nessuno mi credette. Nei cinque minuti di volo intercorsi tra il decollo e l’atterraggio, tutto filò liscio come l’olio e non potei fare altro che tirare un grosso sospiro di sollievo quando vidi questa terribile mosca porta passeggeri toccare terra senza scomporsi. Il viaggio era finito, quattro ore di attesa all’aeroporto per l’imbarco, un’ora di attesa per il recupero delle valigie arrivate col volo successivo, cinque minuti sospesi in aria sulle ali di un insetto con le finestre. Michela, ti ricordi quando siamo atterrati a Papeete? Sembrava di sbarcare sulla luna tanto era irreale la situazione che ci circondava. L’aeroporto era praticamente vuoto, nessuna anima in giro ad esclusione degli addetti alla dogana. La scaletta dell’aereo ci ha violentemente sbattuto sull’asfalto in una terra che sta dall’altro lato della nostra, dove il loro giorno è la nostra notte e viceversa, non vedremo mai il sole nello stesso momento, noi e loro.

Chissà se qualcuno dei nostri quattrocento volti sarà rimasto impresso per un solo istante nelle pupille di almeno uno dei cinque o sei suonatori e cantanti di musica Polinesiana che ci stavano aspettando al nostro arrivo. Un bel complessino,composto da quattro uomini ed una donna che suonava uno strumento costruito con una corda tesa tra il capo di un palo ed una tinozza di plastica all’interno della quale , il palo aveva l’altra estremità, sicuramente un esempio di evoluzione tecnologica legata all’arrivo di nuovi materiali come la plastica in questi paesi che vogliono integrarsi con la civiltà consumistica tanto propagandata dalle nostra belle facce, con le quali portiamo a destra ed a manca chilogrammi di tecnologia racchiusa in minuscoli aggeggi elettronici. Siamo riusciti a trasformare in plastica, la cassa acustica di uno strumento che nell’evoluzione dei secoli è stato costruito con materiali nobili come il legno, intarsiato da abili incisori che della loro arte facevano il vanto di una vita, e magari tramandato di padre in figlio per generazioni e generazioni. Chissà quindi se la mia faccia sveglia è rimasta impressa per un solo istante nella memoria di quella donna che stava seduta tra due uomini che suonavano il mandolino e cantavano. Sono rimasto a lungo imbambolato a guardarla, per capire se avesse anche le pupille, sotto a quelle palpebre che stavano perennemente chiuse, sia mentre camminava, sia mentre stava seduta. Per lei era notte fonda, aveva tutto il diritto di tenere quelle palpebre chiuse.

“Aussie rules” Già da mezz’ora, prima di atterrare a Alice Springs, avevo tentato di intuire come sarebbe stato il mio impatto con il deserto Australiano,lo immaginavo rosso come il fuoco, vasto come il mare e arido come la mia carta di credito. L’impatto fu decisamente positivo, atterrando ad Alice Springs, vidi molte piste bianche solcare la sabbia rossa e mi immaginai alla guida di un potente fuoristrada derapare e controsterzare alzando nugoli di sabbia rossa e bianca, scavalcare dune alte decine di metri staccando le ruote dalla sabbia facendo volare il mio mezzo tra le terre del sogno alla ricerca della civiltà aborigena più vera.

Usciti dall’accogliente aeroporto, salimmo sul primo bus navetta diretto in città, ovviamente la sede della compagnia di noleggio del nostro campervan, era dall’altra parte della città e fummo gli ultimi a scendere.

Le immagini che poco prima mi riempivano la mente, quelle relative al fuoristrada estremo, mi abbandonarono immediatamente non appena il gentilissimo addetto della BRITHS ci mostrò il mezzo che avevamo noleggiato, un coniugato di pulmino da asilo e di furgone per la vendita dei surgelati, il tutto aggiunto alle raccomandazioni esplicite “No unsealed roads”. Fatto sta che, seduti in camera da letto, si poggiavano i piedi in cucina e si riusciva, allungando le mani, ad entrare in veranda. Mancava il bagno, ma nel deserto questo non è un problema, c’era la doccia con il sacchetto da mettere a scaldare al sole, ma neanche questa è servita, non perché non ci sia mai lavati, ma perché l’Australia è dotatissima se si tratta di servire i turisti. Ad ogni modo, il nostro pulmino ci ha scorrazzato prima ad ovest e quindi a nord, senza mai darci il fastidio di doverci preoccupare per il suo funzionamento. Se avesse avuto dei problemi, forse il nostro viaggio sarebbe potuto finire. Tra una città e l’altra, non sono mai passati meno di 200 Km. Le tante raccomandazioni relative al pieno di carburante e al controllo della cartina stradale, non sono servite la prima sera, perché molto più utili sarebbero state quelle relative al non circolare durante la notte e al fatto che d’inverno, il calar del sole è rapidissimo. Avrei dovuto notare quelle ombre lunghissime, disegnate dal gracile e minuto fisico di mia moglie, stagliarsi per quasi un chilometro oltre la strada asfaltata fino al confine del bush. Indicavano che il sole è all’orizzonte ed è sera tardi, solo non ci sono montagne intorno a noi, e quando il sole cala oltre l’orizzonte, non ce n’è più per nessuno, di luce intendo. Quel puntino sulla carta sembra un paesetto, mancano sessanta chilometri, che ne dici Michela, invece di restare qui in questo paese di poche anime, proviamo ad andare lì, in mezz’ora o poco più dovremo esserci e troveremo sicuramente quel campeggio che qui non c’è per fare una doccia e mangiare in qualche ristorante. Si parte.

In realtà, quel paesetto non era altro che un distributore di benzina, con una costruzione fatiscente in legno, coperta di polvere e bruciata dal sole. Decine di Aborigeni seduti davanti ad essa, aspettavano un qualche mezzo di trasporto, un’insegna “Coca-Cola” che deve essere stata montata da qualche rappresentante nel secolo scorso, primo dipendente della Coca-Cola Pty., induceva al pensiero che forse all’interno si vendesse qualcosa. Un rapido consulto alla mia compagna di avventure di viaggio e di vita, un rapido consulto alla cartina, un rapido consulto all’orologio e decidemmo che avevamo perso troppo tempo in rapidi consulti ed era il caso di proseguire fino all’incrocio con la strada che ci avrebbe poi portati a Ayers Rock. Erano le sei di sera, doveva esserci ancora più di un’ora di luce, secondo i nostri calcoli. Infatti il sole era ancora davanti a noi, quindi c’era luce fino al tramonto e poi ancora fino all’oscurità. Niente di più falso, l’equazione nel deserto è questa, niente sole, niente luce. La fortuna, ci venne incontro non appena accendemmo i fari, notammo infatti sulla nostra sinistra, una roulotte ferma e della gente attorno ad un fuoco, andammo a fargli compagnia. Ti ricordi Michela la cortesia di quel vecchietto che ci offrì il suo fuoco perché potessimo scaldarci il pane ed il formaggio? E sua moglie che parlava come un libro stampato per permetterci di capire il suo “Aussie English”? Quella fu la nostra prima notte nel Bush, il cielo era nero come la pece e le stelle erano tante che parevano toccarsi l’un l’altra, attimi vissuti in un’alchimia di sensazioni che infrangevano le normali regole che governano il nostro vivere in condizioni normali. Avremmo dovuto aver paura, ma la meraviglia del luogo che ci circondava, assorbiva le nostre emozioni riempendoci gli occhi di stupore e meraviglia, davanti ad uno spettacolo che ogni notte è davanti ai nostri occhi, in ogni dove noi ci si trovi. Basta alzare gli occhi al cielo e godere di ciò che si vede. Avremmo dovuto aver paura, perché eravamo a decine di migliaia di chilometri da casa nostra, eravamo a migliaia di chilometri dai nostri parenti, eravamo in mezzo al deserto più misterioso ed inesplorato del mondo soli come ci si può sentire solo in mezzo al deserto.

Le notti successive furono altrettanto suggestive, talvolta allietate dal fuoco acceso col legno raccolto attorno al camper, spesso allietate dagli spaghetti che Michela cucinava usufruendo delle facilities del nostro mezzo. Il giorno successivo, fu un continuo supplizio. Il giorno non passava mai, ci aspettava infatti il tramonto ad Ayers Rock, il rosso monolito che rappresenta per gli aborigeni l’essenza della terra del sogno e che, non riuscivo a scorgere per quanto tirassi il collo. Lo spettacolo che uno non si aspetta, è quello che più emoziona. Lo spettacolo che solo certe condizioni ambientali, date dal paesaggio, dalla limpidezza del cielo, dall’esatto momento in cui ci si trova di fronte ad esso, è quello che più si ricorda, come quell’immagine della luna, bassa, appena sopra la linea dell’orizzonte , tanto bassa che la si può scambiare per il sole come ho fatto io. La tua immediata correzione, Michela, mi ha fatto ricordare che stavamo camminando verso Est e non verso Ovest, a passeggio per quel camping che fa da contorno all’Hotel più famoso di Ayers Rock. Quella luna enorme, grande come il sole e illuminata da esso, è ancor oggi uno dei fenomeni più affascinanti ai quali abbia io avuto la fortuna di assistere. Il luogo più monocromatico ch’io abbia mai visitato. Più rosso di quanto non sia blu il mare, più rosso di quanto non sia nera la notte. E tutt’attorno di rosso si dipinge ogni cosa, nella sola mezz’ora che precede il tramonto, vengono impressionate ogni sera migliaia di pellicole della stessa tonalità, a parte quelli che per sbaglio inseriscono una pellicola in bianco e nero.

Se arrivi con discreto anticipo davanti allo steccato che delimita il miglior punto di visione per distanza e direzione, hai la possibilità di sceglierti un parcheggio comodo, tanto da riuscire a tirare fuori il tavolino e goderti lo spettacolo sorseggiando qualcosa di fresco.

Se arrivi tardi, lo spettacolo è ugualmente bello, ma lo devi condividere con le decine di altri turisti che scendono in fila indiana dal loro pulmino dopo aver percorso qualche migliaia di chilometri in un sol giorno per arrivare esattamente al minuto preciso in cui il sole drappeggia di rosso le dolci curve della montagna sacra che restituisce la stessa tonalità della sabbia del deserto dipingendo di riflesso tutto ciò che la circonda.

Una luce accecante che invade le pupille perforando gli occhiali scuri e colma di un rosso ricordo non solo gli occhi ma anche il cuore. Stanco di vedere sempre canguri distesi sul ciglio della strada dello spessore di pochi centimetri, non lo spessore della strada ma proprio quello dei canguri, decido che per vedere canguri vivi occorre alzarsi presto e partire.



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