Per uno spicchio d’africa
Non ho più certezze. Sono disarmata. E la storia si ripete all’uscita dell’aeroporto, quando uno stuolo di inservienti si fionda sulle valigie e pensi: fatene ciò che volete, ma non perdetele e non chiedetemi i miliardi, che non sono Briatore! Salgo sul pullman, e alla partenza mi accorgo che non sono su una strada. Sono su un colabrodo! Ogni buca è una voragine da cui puoi scorgere le viscere della terra. Poi guardo fuori e scopro un mondo che non avrei pensato, ma che risiedeva dentro di me, meno intenso, meno povero, meno toccante. La gente è in cammino e mi chiedo dove vada. Le donne hanno grosse ceste, o taniche sul capo. La periferia di Mombasa è una costellazione di baobab e villaggi disarmanti e cumuli di rifiuti e gente che si affolla intorno ad improbabili bancarelle, che propongono improponibili mercanzie. Non c’è turismo che artefaccia la loro realtà . Quella è la loro vita. Niente lustrini. Quella è l’Africa degli adulti. I bambini sono altrove, forse a scuola L’arrivo al resort Sun Palm a Watamu – proprio di fronte alla splendida Isola dell’Amore – è festoso. Il personale al completo ci attende intonando Jambo Bwana. La colonna sonora è orecchiabile, semplice, allegra, umile, esattamente come i keniani.
Niente vorticosi giri di parole. Niente di niente. Faccio solo in tempo a levarmi di dosso i residui della frenesia italiana, della mia routine, che crollo assopita in un’allucinazione onirica. Dormo qualche ora. Non dovrei? Sono stanca e se non lo facessi non godrei appieno dello spirito africano. Akuna matata! Ci attende il teatrino dell’aperitivo cum proposta escursioni del tour operator annesso e connesso.
Ascoltiamo proiettati altrove, a incontrare la gente del luogo, quella vera, o chissà per quanto ancora tale.
Il turismo è contaminazione reciproca, mi dico. Spero solo di non ingenerare false illusioni.
Incontrando i ragazzi della spiaggia, capisco subito che la mia pellaccia è, per loro, binomio indissolubile di ricchezza economica. Chi glielo spiega che sono solo un’italiana “media”? Si, perché, per quanto “media”, solo affacciandomi dall’albergo (pur sobrio e poco impattante con l’ambiente) mi accorgo che la comparazione è impensabile.
Mi faccio prendere dalla frenesia di vedere, andare, fare, comprare.
Programmo il safari e mercanteggio con i beach boys perché entrambi siamo del parere che sia più giusto dare i nostri soldi a gente del luogo. La vacanza è appena cominciata, ma già mi manca il cielo. E’ nuvoloso e non riesco a guardarlo. Eppure dovrei poterlo “toccarlo” da qui! Le cene sono costellate dal gracchiare delle rane, che intonano concerti in sol minore. La natura è predominante, non si può ignorarla.
Anche allo Tsavo East mi turbano i paesaggi, sempre nuovi, sempre diversi, e gli animali che convivono, ormai, come domestici, al passaggio dei turisti e dei loro pulmini, vieppiù rumorosi e recalcitranti. Due giorni immersi nella natura. Due giorni in cui mi sveglio all’alba e trovo inutile dormire. Mi guardo allo specchio senza trovarmi. Inalo la mia dose di repellente insetticida e ingurgito la mia razione di antimalarica.
E’ questo il prezzo da pagare per il mio spicchio di Africa? Mi riguardo allo specchio: non mi ritrovo! Non ho mai dato del tu ai farmaci, di qualsiasi natura essi fossero… Mi arrovello per cercare di capire se vivano meglio o peggio i keniani che entrano in contatto con noi turisti (per caso o per vocazione).
Un po’ di ricchezza in più, è vero, ma anche nuovi desideri, forieri di malessere. Lo sappiamo bene, noi cittadini del “villaggio fantaglobale”. Verdeggiante, lussureggiante. Questa la descrizione di quello spicchio di Kenya che è quello spicchio di Africa che mi è dato vedere: Watamu. Ma le persona di cosa vivono? Di turismo? Di agricoltura? Di commercio? Di espedienti? Non so. Mi sembra che tutte queste cose insieme possano appartenere a quella minuscola fetta di mondo che incespica sui miei passi incerti. Forse incontro chi vogliono che io incontri. E la gente vera dov’è? E’ quella la gente vera! Sveglia! E’ proprio quella gente che ha conciliato il diritto del bisogno estremo e la richiesta di aiuto. Se ho bisogno di loro, loro ci sono. Investono in relazioni. Poi domani mi presenteranno il conto che non hanno ancora finito di compilare dall’epoca coloniale. I debitori siamo noi. Noi diamo loro solo quanto abbiamo preso a due mani, in tempi non troppo lontani. Abbiamo sottratto la vera ricchezza e ora diamo loro le briciole del nostro fittizio benessere.
Ritrovo le mie radici, mentre li vedo danzare. E’ una danza antica la loro. Immediata. Diretta. Istintiva. Da lì veniamo tutti noi, imbellettati e sbiaditi. All’origine, la matrice è comune.
Non voglio che questa vacanza finisca, tra delfini e baracche di lamiera e pozzanghere, e buche infinite. Ho bisogno di rubare ancora un po’ di pace interiore, e i loro sguardi e i loro sorrisi. Così decidiamo di farci accompagnare da S. Nel suo villaggio. Ci porta a casa sua. Ha una bimba bellisma e una moglie molto giovane e dolce. Ma la sua casa è ciò che per noi sarebbe una cantina. Mi porto via i loro sguardi, la loro voce che vibra teneramente. Avrei voglia di annientarmi e sento che non sarò più la stessa, soprattutto dopo la visita dell’orfanotrofio di Timbuni. Sulla spiaggia acquisto collanine e parei e statuine, e qualcuno tenta di regalarmi una stella marina, color corallo: ma penso sia più bella da viva, così la lascio andare. Nel bagaglio di ritorno c’è posto per tanta roba. Decido di portar via la veracità del loro mondo interiore e il candore dei loro sorrisi imperturbati, impressi indelebilmente nelle mie memorie africane.