Pennellate di Marocco

ITINERARIO: Roma-Casablanca-Rabat-Volubilis-Meknès-Fes-Marrakech(??)-Agadir. LE PERSONE CHE HANNO CONDIVISO L’AVVENTURA: Chiarina (e l’arancia rapita); Micky (e la voce sommessa); Fabiozzo (viva sant’imodium!); Kikka (laviamo, puliamo, DISINFETTIAMO!); Francis (pericolo attentati-intossicazioni-maremoti-catastrofi ambientali…e il suo...
Scritto da: LunaB
pennellate di marocco
Partenza il: 26/08/2007
Ritorno il: 09/09/2007
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
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ITINERARIO: Roma-Casablanca-Rabat-Volubilis-Meknès-Fes-Marrakech(??)-Agadir.

LE PERSONE CHE HANNO CONDIVISO L’AVVENTURA: Chiarina (e l’arancia rapita); Micky (e la voce sommessa); Fabiozzo (viva sant’imodium!); Kikka (laviamo, puliamo, DISINFETTIAMO!); Francis (pericolo attentati-intossicazioni-maremoti-catastrofi ambientali…E il suo rassicurante ottimismo!); Marco1 (e le sue risate); Carmencita (e il braccialetto che suona); Eugenio (e il suo inseparabile Mp3); Ary (e le lezioni di italiano); Paoletta (e le provvidenziali salviettine profumate); Serena (un test per tutti); Andre ( cappuccino e uva contro il mal d’auto..); Luc (e la lotta al virus intestinale a suon di “fettuccine” marocchine); Judith (bella e impeccabile anche in mezzo alla medina di Fes); il mitico Rashid (e un sacchetto sempre pronto…).

E QUELLE CHE NE HANNO SOLTANTO SFIORATO IL CAMMINO: Marco2 (e l’impassibilità di fronte alle tragedie); Hassan (parole, parole parole…); “Er valigia” (come sopravvivere con un solo cambio per quasi una settimana, andare alla ricerca di un negozio a Rabat per procurarsene almeno un altro, sbagliare strada e infilarsi in un vicolo malfamato con una sola, vecchia e sfornitissima merceria ignorando che appena girato l’angolo esiste una via, bella e centralissima, strapiena di negozi…); “Lo sveglione” (amico del precedente); il bambino dolce e silenzioso (come stai??); la strega malefica ( 2000 trattative e 2 acquisti in tutto, pranzi e cene luculliani, assaggi di ogni sorta e unica, eroica immune al virus intestinale: alla larga pure lui!!!).

CASABLANCA: E’ il cielo grigio e afoso di una giornata plumbea. Lo smog e i clacson di un traffico impazzito fatto di calessi trainati da cavalli stanchi e rassegnati, vecchi mercedes sgangherati, miriadi di Fiat Uno tinteggiate di un improbabile azzurro-cielo e trasformate in “petit taxi”. E’ l’immensa piazza Mohammed V, affollata di strampalati personaggi che dei tradizionali venditori d’acqua hanno soltanto i costumi tipici e le ciotole d’ottone penzolanti da una catenella del gilè. E’ il richiamo lento e assonnato del muezzin sulla spianata della colossale moschea Hassan II. Tasselli di ceramica smaltata, mosaici coloratissimi, spruzzi d’acqua, giochi di luce e il mare, splendido contrasto, sullo sfondo. Passi lenti di fedeli che si avviano all’entrata, tolgono le scarpe, pescano un sacchetto di plastica in cui riporle da appositi cestoni e vengono inghiottiti dall’oscurità di quell’ edificio bello e mastodontico. Le guardie permettono a noi non musulmani uno sguardo fugace all’interno prima che inizi la preghiera e si chiudano le porte: sul limite della soglia, prima del pavimento di tappeti calpestabile solo a piedi nudi e dopo le abluzioni di rito. Dal lato della moschea in cui ci troviamo non riusciamo a scorgere quello opposto. Soffitti altissimi ospitano cascate di cristalli, le pareti sono di legno intarsiato, dai tappeti spuntano marmi e graniti pregiati. La voce del muezzin è la colonna sonora di questa luogo affascinante, strano, quasi irreale.

RABAT: E’ la marcia svogliata e scomposta dei soldati al cambio della guardia davanti al Palazzo reale, che ci fa sorridere un po’. Sono i giardini labirintici della Kasbah degli Oudaia, con le splendide siepi di ibiscus e gli intricati cespugli di rosmarino. E’ il tè alla menta della terrazza sul fiume, con i venditori delle collane “Sole/Luna” ( 30 euro, argento vero!!, 15 euro, 10…Ok: 5 completa anche di bracciale coordinato…) Sono i vicoli strettissimi delle case bianche e blu, come passeggiare nella vasca vuota di una piscina: le manine di Fatima alle porte, i bambini che giocano a rincorrersi sulle salite e si mettono in posa per farsi fotografare, le macchie lilla di rigogliose piante di bouganville. E’ lo sfarzoso mausoleo di Mohamed V con la bellissima cupola di luci e intarsi: i cavalli bianchi all’entrata costretti a stare immobili su un rettangolo di terra grande appena come loro, tenuti faticosamente a bada da guardie anch’esse vestite di bianco. Sono le colonne della spianata su cui sorge la Torre Hassan, le ragazze in jeans e velo in testa che ti rincorrono armate di strane “penne” e ti scarabocchiano il braccio prima ancora che tu possa rendertene conto, spacciando per tatuaggi all’ hennè ghirigori improvvisati di un misterioso intruglio verde-arancio. “Solo 10 euro”, ma un tatuaggio all’ hennè è ben altra cosa: un’arte vera e un ornamento importante, ma il turismo inquina anche quello… Rabat è anche la città moderna e vitale: i lunghi viali alberati con giochi d’acqua di belle fontane e fiumi di gente che si incontra dopo cena. E’ il tabellone con le scritte in arabo fotografato alla stazione centrale; è la rissa fra due ragazze, sì due donne, scoppiata dopo un alterco animato (avente per oggetto, con ogni probabilità, un uomo leggermente discosto che osserva impassibile e quasi divertito, tutta la scena..) e seguita con tifo e incitamenti da una folla eccitata radunatasi nel giro di pochissimi secondi… Sono le file di giornali e di libri disposti ordinatamente sull’asfalto del marciapiede: fantasmi di immaginari chioschi di edicole. E’ la stanza minuscola e asfissiante dell’albergo in pieno centro con la hall dalle grandi promesse, un bicchiere di tè alla menta BOLLENTE messo in mano per cortesia e grande senso di ospitalità: non trovare un solo posto in cui appoggiarlo per scongiurare il pericolo di un’ustione e sorridere nonostante tutto ringraziando di cuore e apprezzando, comunque, il gesto! E’ il richiamo del muezzin, alle cinque del mattino, che anticipa di poco il suono della sveglia e ne sostituisce, in modo originale, il consueto bip bip metallico.

VOLUBILIS: E’ il caldo soffocante di una collina sotto il sole a picco di mezzogiorno. Sono gli strani venditori che, leggeri e silenziosi, ti seguono lungo tutto il tragitto, cambiando magicamente articolo dopo ogni curva…Ti compaiono da dietro mostrandoti i loro articoli senza parlare e senza troppo insistere, contando sulle probabilità enormi che il turista sprovveduto o eccessivamente zelante abbia effettivo bisogno di tutto quello che propongono: batterie di ricambio per le macchine digitali, bottiglie d’acqua fresca, cappelli traforati per proteggersi dal sole implacabile e poi anche guide del Marocco (in italiano perché siamo italiani!), libri di cucina maghrebina, sia mai che in quella landa deserta venga in mente di cimentarsi… E’ la guida strampalata, simpatica e coltissima e soprattutto innamorata di quei posti, che illustra segreti e sorprese, mosaici e angoli nascosti e invisibili a occhi poco attenti. Sono gli enormi e affascinanti nidi di cicogna sulla sommità delle colonne. (Quanto sarà grande un cucciolo di cicogna per aver bisogno di un nido così?) MEKNÈS: E’ la porta Bab el Mansour che compare all’improvviso, maestosa e ricca di decori, all’uscita di una curva: per fotografarla bisogna mettersi al di là della strada e aspettare pazientemente il momento propizio in un flusso incessante di macchine. Sono gli antichi granai con i muri così spessi che lì dentro la temperatura è sempre costantemente bassa; gli archi delle scuderie che si rincorrono uno dopo l’altro in corridoi senza fine. E’ la fila variopinta di sandali e babbucce davanti alla moschea Moulay Ismail: entrarci non regala particolari emozioni, una moschea è perlopiù vuota e disadorna, ma vale la pena infilarci il naso per soddisfare la curiosità e godere la vista dei giochi di colore, davvero belli, dei tasselli di ceramica sulle pareti e attorno alla piccola vasca per le abluzioni. E’ la foto di rito nella nicchia riservata al muezzin, che prega con il volto rivolto verso la Mecca, quindi dando le spalle all’uditorio, naturalmente contravvenendo a questa regola e guardando dritti verso l’obiettivo… FES: è tutto ciò che non ti aspetti. Quello che va ben oltre ogni tipo di immaginazione. E’ l’esperienza che ti avvolge, ti centrifuga e ti rimane dentro, nel bene e nel male. Fes è il contrasto nettissimo tra la metropoli moderna e tecnologica degli alberghi extralusso e del McDonald’s e i gironi infernali del labirinto della Medina, la parte vecchia delle città arabe. Questa di Fes la leggi descritta sulle guide, ti sembra di vederla, di riuscire a immaginarla, invece poi ti accorgi che è molto molto di più: i suoi vicoli sono più stretti, i muli che ti passano acanto stracarichi costringendoti ad appiattirti sul muro o contro altre persone sono più numerosi, il buio di qualche vicolo è molto più intenso, l’odore acre delle concerie, degli animali in vendita, delle spezie, del pesce e della carne pieni di mosche, è molto più penetrante e difficile da sopportare. Un ghetto, un quartiere medievale dove con questo aggettivo non ci si riferisce all’architettura, ma proprio allo stile di vita, ai mestieri, agli usi e costumi. Un mondo completamente a parte, chiuso come una mano serrata a pungo, affascinante quanto incredibile, al punto di avere l’impressione di trovarsi su un set cinematografico. E guardare tutto rapiti ed increduli perchè invece è realtà. Alla Medina ci si avvicina pian piano, la si guarda prima dall’alto di una collina sovrastante da cui anche i tetti delle case perdono i loro contorni e sembrano fondersi in un’unica, enorme macchia di colore. Si pensa sia solo un gioco di prospettiva, invece no: lì dentro è esattamente così, amalgama indistinto di case e vicoli, tetti e vecchie travi che sorreggono mura pericolanti, stuoie di bambù sospese tra un edificio e l’altro a riparare dal sole e formare il soffitto mobile di un’unica, affollatissima abitazione. Spicchi di cielo solo ogni tanto; vicoli su cui il sole, invece, non batte proprio mai, dove perdere la cognizione del tempo è facile e quasi inevitabile. E le persone: fiumi di gente che corre da una parte all’altra, affaccendata, intenta; ti sposta, chiede permesso, si fa strada comunque, o che al contrario sta ferma immobile su un gradino polveroso o in un buco asfissiante pieno di cianfrusaglie da vendere, riparare, forgiare, tessere. Si susseguono falegnami, sarti, ciabattini, tintori, venditori di spezie, di colorati e stucchevoli dolciumi animati da api e mosche, di carni ormai scure, di pesci asfittici e con l’occhio appannato buttati lì, su un banchetto, in balia di sciami di insetti. Impossibile addentrarsi in questo labirinto senza una guida, semplicissimo trovarne una disposta, per pochi dirham a condurre l’impresa di riuscire a districarsi e in più guardarsi attorno per non perdere nulla. Ogni vicolo ha la sua peculiarità e i rappresentanti di un mestiere. Polli e tacchini già rassegnati alla loro sorte e tenuti buoni chissà come giacciono intontiti in file composte, su luridi scampoli di tappeti berberi in attesa che arrivi il cliente a sceglierne uno, indicarlo e passarlo al carnefice che, con un gesto rapido, gli torce il collo e lo mette in una macchinetta elettrica per spennarlo. Poi lo taglia, lo incarta e lo consegna. Un attimo: un passaggio rapido che immobilizza i pensieri e colpisce come un pugno nello stomaco. Fes è anche l’orrore di chioschi con quarti di bue appesi e le teste degli animali disposte sul lastrone di pietra centrale a fare da vetrina e richiamo. Sono i muli che lì rappresentano l’unico mezzo di trasporto (indicati anche in fantasiosi cartelli stradali: indimenticabile il divieto di transito con l’asinello nel centro!) e viaggiano carichi di ogni cosa: casse d’acqua, sacchi di farina, ceste di lana da cardare, perfino (incredibilmente) scatole di televisori imballati. Loro hanno la precedenza su tutto: il turista qui conta poco o niente, anzi è un fastidio, un’inutile e indiscreto osservatore. Al grido di “Balak!” (Attenzione!) i conducenti dei muli si fanno largo tra la folla in budelli di strada in cui mai si crederebbe che possano trovare spazio per passare. Il grido è un imperativo, non una richiesta: che ci si sposti o no, il mulo passa lo stesso! Bambini scalzi giocano fra la polvere e all’ora di pranzo si mettono in fila davanti a carretti che distribuiscono una brodaglia colorata in ciotole di plastica: lumache! O anche ceci bolliti. Teche sporche e unte custodiscono file di dentiere davanti a quello che, senza ombra di dubbio, deve essere lo studio di un dentista. Ce ne sono diversi, qui nella medina di Fes: ognuno con la sua stravagante vetrina e l’insegna inequivocabile di una bocca che sorride. Porticine minuscole introducono in seminterrati bui dove file di panini e pagnotte sostano, in larghe teglie poggiate a terra, prima di scomparire dentro bocche di forni a legna. Questo profumo famigliare e rassicurante è un’oasi paradisiaca in mezzo a una girandola di odori cui è davvero difficile abituarsi e il cui nucleo magmatico è rappresentato dalle vasche dei conciatori di pelli. Quando si arriva sulla terrazza sovrastante da cui osservarle, si viene dotati di un rametto di menta da mettere sotto il naso. Ma il fetore insopportabile assale molto prima di salire in cima alle scale. L’immagine di uomini immersi fino alle gambe in liquidi putridi e vagamente colorati (tutti colori naturali, spiega la guida!) è il più fedele possibile a quella di un girone dantesco. Il nostro scudo di menta è un peso che pungola dentro all’idea del luogo insalubre e inconcepibile in cui quegli uomini lavorano, a mani nude e senza mascherine. Senza protezioni di sorta. Su quello che appare come un quadro dipinto, tanto è irreale, spicca il bianco delle vasche di calce viva, primo passaggio della lavorazione, le uniche dove, solo per ovvie ragioni, i lavoratori a cottimo si immergono con stivali e guanti di gomma. Seguono quelle melmose di escrementi di piccione e, via via, quelle colorate. L’odore fortissimo di pecora in decomposizione ci seguirà e colpirà ogni volta, solo più attutito, durante tutto il resto del viaggio, a ogni incontro con un oggetto in pelle: una borsa, un portafogli, un paio di babbucce, tutto avrà questo inconfondibile e nauseabondo fetore che ci farà desistere da ogni più vaga idea di acquisto. Ma Fes sono anche le bellissime Mederse di Bou Anania e Attarine che si aprono inaspettatamente dietro alti e anonimi portoni a nasconderle e quasi a proteggerne la pace e la tranquillità. Antichi rifugi di studiosi di teologia coranica, hanno al centro una grande vasca per le abluzioni con mosaici belli e solo appena intaccati dall’usura del tempo. Alle finestre, magnifici intarsi su pannelli in legno di cedro.

E’ il cortile grande e ombroso del Museo Dar Batha, splendido anche per il ristoro che offre a una gita così densa di forti emozioni.

MARRAKECH: La città magica, che cambia colore nelle varie ore del giorno, sempre diversa e ogni volta affascinante, con le case rosse e i tramonti infuocati…È invece, per me, lo spicchio di cielo visibile da una finestra al primo piano dell’Hotel Atlas, centralissimo, a due passi dalla piazza Djemaa El Fna. I 39° di febbre e l’intossicazione alimentare presa chissà come, chissà quando, nonostante tutte le solite precauzioni del caso. L’acqua comprata a Fes? Era sigillata, sì, ma hanno voluto darci le bottiglie che dicevano loro, conservate in un vecchio frigorifero, non quelle delle confezioni da 6 ancora da aprire che chiedevamo con insistenza. E l’acqua sapeva di capretto. Suggestione? Tant’è! Il ristorante della medina, bellissimo ma con 10 gatti che gironzolavano indisturbati al suo interno? Un mistero! Il virus intestinale: l’unica certezza…Ma nella vita nulla accade per caso e se una cosa deve succedere, non ci sono regole-precauzioni-fermenti lattici preventivi che tengano.

Marrakech è la cena a base di “boiled potatoes” e “hot tea” consegnata da un incredulo (e divertito…) addetto al servizio in camera. E’ la famosa piazza, appena intravista, con l’incantatore, il suo flauto e un serpente che fa capolino da una cesta ai suoi piedi. Attimi rubati a un’emergenza da affrontare: Carmencita, pure lei vittima della congiura intestinale, che sviene davanti a una farmacia, nella piazza più bella del Maghreb, fra l’indifferenza generale. Tamburi che suonano, un vocio indistinto, piramidi di arance, scimmie che giocano con la corda che le tiene ancorate ai loro padroni…E i sali minerali, le labbra bianche, bevi un po’ d’acqua, torna in albergo, l’antibiotico ti butta giù, gli sbalzi di temperatura sono un massacro…

Marrakech è però anche l’ipermercato della catena Marjane, gli scassatissimi e divertenti petit taxi presi per raggiungerlo. Se non fossimo stati male e non avessimo avuto bisogno di alcune cose, né desiderio di tenerci il più lontano possibile dai souk e dagli odori, probabilmente non ci sarebbe mai venuto in mente di girare in un supermercato. A Marrakech! E non avremmo visto la pasta venduta sfusa accanto a quella classica nei pacchi confezionati; gli enormi contenitori di spezie di ogni tipo, sfuse anche quelle, nel reparto di frutta e verdura; i quaderni arabi con le righe “strane” e l’apertura al contrario; le piramidi di barattoli e lattine di miele, anche da 5kg, accatastate nella corsia centrale. Avremmo visitato probabilmente il celebre palmento, i giardini Majorelle, la moschea Koutoubia, le tombe saadiane e il Palazzo Bahia. Avremmo ammirato la piazza nelle diverse ore della giornata; ci saremmo gustati un tramonto su una delle sue celebri terrazze sorseggiando un tè alla menta; avremmo gironzolato nei souk e contrattato l’acquisto di qualche bel bracciale berbero. Invece abbiamo preso atto soltanto di un lungo viale che taglia in due la città, intravisto i contorni sfumati del bellissimo edificio del teatro reale dal finestrino di una macchina in corsa, conosciuto l’ipermercato di sabato pomeriggio all’ora di punta, studiato i dettagli della camera dell’hotel con cura e precisione scientifiche, guardato malinconicamente la punta di un minareto che svettava dalle palazzine di fronte alla finestra e salutato le carrozzelle con i cavalli davanti all’entrata dell’albergo. Volti insoliti e sicuramente poco noti di Marrakech! AGADIR: è, prima di tutto, la strada che la collega a Marrakech, dove il paesaggio cambia a ogni curva spaziando dalle montagne, alle lande deserte, vuote di qualsiasi cosa, ai tornanti costeggiati da rocce di un rosso abbacinante, agli alberi su cui le capre, disperate per la mancanza di un solo filo d’erba nel raggio di chilometri, si arrampicano incredibilmente leste. Capre volanti, le chiamano qui: e sembrano finte, tanto suona strano anche all’evidenza dello sguardo. Paesaggi bellissimi e mozzafiato: sfrecciano paesi fatti di un pugno di case e nessuna traccia di asfalto, tranne quello della strada su cui transita il nostro mezzo. Agadir è poco altro: una città in costruzione, un cantiere aperto con belle palazzine ancora da completare e un quartiere turistico, quello alla fine del lungomare, tenuto rigorosamente separato da tutto il reso. Alberghi e villaggi uno dopo l’altro, il Casinò al centro del viale, una manciata di negozietti di souvenir a completare il quadro. E’ però anche la spiaggia interminabile, ancor più dilatata dalla bassa marea, lambita dalle acque di un oceano che immaginavo più freddo, più torbido, meno affascinante. Da uno qualsiasi degli alberghi sulla costa si abbraccia con lo sguardo tutta la baia di Agadir fino alla montagna con la scritta in arabo “Allah, patria, re” che si illumina di notte. E’ l’artificiale medina polizzi, costruita in anni recenti e adibita a centro artistico e culturale (e di negozi di souvenir..) in cui per entrare si paga un ingresso di 40 dirham a persona (circa 4 euro). Sono le piscine paradisiache rialzate di acqua salata, dell’hotel riu, a picco sull’oceano.

CONCLUSIONI: Un viaggio in Marocco è, prima di tutto, un viaggio sensoriale. I colori, i suoni, gli odori: dolci, forti, penetranti, qualche volta nauseabondi, colpiscono e rapiscono rendendo difficile tradurli in parole. L’unanime disavventura vissuta nostro malgrado ha intaccato solo in parte la bellezza di un’esperienza sicuramente unica nel suo genere. E’ un viaggio di cui si recuperano i dettagli e se ne riscopre il valore solo una volta che si è tornati, nei flashback della memoria, con il giusto distacco. Fintanto che si è lì, infatti, è come trovarsi su una giostra vorticosa e inarrestabile da cui è impossibile scendere perchè, nonostante tutto, coinvolgente e piena di fascino. Senza cadere in paranoia, conviene tenere molto alta la soglia di attenzione riguardo alle norme igieniche, pochissimo rispettate anche nei locali meno economici. Ci ha spiegato una guida che il governo a più riprese invita la popolazione a lavarsi le mani prima di cucinare, pratica quasi scontata ma evidentemente poco diffusa. Valgono le solite raccomandazioni e molte di più: lavarsi spesso le mani e sempre prima di portare del cibo alla bocca, evitare frutta e verdure crude, ghiaccio nelle bibite, succhi di frutta (perchè vengono diluiti), il caffé espresso perchè l’acqua non è bollita e la carne poco cotta. Bene: noi tutto questo l’abbiamo scrupolosamente osservato compresa l’abitudine di lavarci i denti con acqua imbottigliata. Ma non è bastato a metterci al riparo da tutto quanto appena narrato. Soluzione? Armarsi di enterogermina e fermenti lattici, antibiotici intestinali (prevederne una dose sufficiente se si è in coppia!), antipiretici e un termometro. Dopodichè…Vada come deve andare ma almeno non si avrà il rammarico di aver trascurato qualcosa! In ogni caso la sola medina di Fes, così strana e surreale, impossibile da dimenticare, vale, a mio avviso, l’intero viaggio.

Luna



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