Peloponneso, tra cielo e mare

Questa è l’esperienza di un viaggio “disorganizzato” (nel senso: senza l’aiuto di alcun tour-operator) di una famigliola alla prima (e non ultima) avventura “on the road”. La meta di questo esperimento è stata estratta “per esclusone”, ossia abbiamo preso una cartina dell’Europa e, una volta raccolte le opinioni di tutti i...
Scritto da: marimila
peloponneso, tra cielo e mare
Partenza il: 31/08/2001
Ritorno il: 09/09/2001
Viaggiatori: fino a 6
Ascolta i podcast
 
Questa è l’esperienza di un viaggio “disorganizzato” (nel senso: senza l’aiuto di alcun tour-operator) di una famigliola alla prima (e non ultima) avventura “on the road”. La meta di questo esperimento è stata estratta “per esclusone”, ossia abbiamo preso una cartina dell’Europa e, una volta raccolte le opinioni di tutti i membri del consiglio casalingo (padre, madre e figlio –cioè io-), abbiamo trovato l’itinerario ideale, per un settembre tutto speciale! I requisiti dovevano essere: innanzitutto una meta non troppo lontana (papà si è preso soltanto 10 giorni di licenza); tanto sole (quindi viene automaticamente esclusa l’Europa centro-settentrionale); possibilità di fermarsi al mare (bacino Mediterraneo); possibilmente somigliante a Creta (isola da dove i miei sono tornati entusiasti) e, soprattutto, in un luogo dove non abbiamo mai messo piede (e non troppo caro). Allora: Spagna no, Turchia no, Dalmazia no, Provenza non ancora, Sicilia cara, Sardegna e Corsica idem…Rimaneva solamente quella penisola a forma di mano nell’estremo lembo meridionale dei Balcani. E’ il Peloponneso, “la patria degli eroi omerici”, una regione che non avremmo mai pensato di trovare nel raggio di un paio di ore d’aereo, così affascinante, così ospitale, così ricca di sorprese architettoniche e naturali….

Venerdì 31 agosto Sveglia alle 4.00 A.M., perché l’agenzia ha trovato disponibilità soltanto sugli aerei che partono dalla Malpensa (ma dovevano costruire un aeroporto proprio al confine con la Svizzera????). Fortunatamente il traffico sulla A4 non è “impossibile”, e quindi arriviamo al check-in e ci imbarchiamo con sufficiente anticipo. Il viaggio comincia male: l’aereo sta fermo un’ora intera sulla pista perché deve aspettare (così dicono le hostess) una coincidenza da Amsterdam, e per il caldo che comincia a farsi sentire, la mamma diventa impaziente e una signora francese addirittura sviene! Visto che serviva un dottore per rianimarla, e dato che papà (guarda caso!) fa il rianimatore, l’umano senso civico lo ha indotto ad intervenire. Sembrava di essere sul set di un film catastrofico: hostess che correvano avanti e indietro urlando “state calmi” nel bel mezzo di una tempesta, dottori che andavano su e giù alla ricerca di uno sfigmanometro (quell’oggetto che serve per misurare la pressione, credo)…Fortunatamente tutto si è risolto per il meglio, e papà ha ricevuto per premio una bottiglia di spumante! Siamo atterrati nel nuovissimo aeroporto di Atene, dove subito ci ha accolto una temperatura atroce (ma l’aria era ventilata), e le pubblicità per le Olimpiadi 2004, evento che gli ateniesi si sono conquistati con fatica e che sono orgogliosi di sbandierare ad ogni occasione. L’aeroporto (Eleftherios Venizelos, ma in città troverete segnaletiche che sembra indichino un “pueblo” messicano: El Venizelos) è abbastanza piccolo per servire una città di 5.000.000 di abitanti, altrettanti turisti e un’esercito di sportivi che arriveranno per le Olimpiadi, ma tutto sommato è facile orintarcisivici..Vi..Si… , ed inoltre collegato al centro città da numerosi mezzi pubblici, soprattutto da una marea di economicissimi taxi che attendono i turisti all’ingresso! Pensate che il tragitto da El Venizelos all’hotel (prenotato via internet, per non avventurarci in una vana ricerca nel caos cittadino) costava appena 5.000 dracme (30.000 £)… Per un’ora e1/4 di strada trafficatissima, mica male! Arriviamo all’hotel Arethousa verso le 2:30 del pomeriggio. Siamo proprio nel centro storico di Atene (anche se non sembrerebbe, visto il gran numero di costruzioni moderne), e da qui cominciamo la visita della capitale greca, un po’ prevenuti nei confronti di una città che tutti definiscono “orrenda”. Ed infatti, appena usciamo dall’albergo, incontriamo una chiesetta inglobata nei portici di un palazzone neo-fascista. Ma più ci avviciniamo all’Acropoli, alta sulla infinita distesa di case ateniesi, più l’atmosfera ricorda “l’Atene di una volta”: pergolati, ristoranti e bar (l’unica cosa cara ad Atene ed in tutta la Grecia), donne con le classiche tonache nere, resti archeologici popolati di gatti…Tutto molto bello, anche se troppo irreale rispetto al resto della città! La cattedrale di Atene è molto carina, come la piccola e più antica chiesetta retrostante. La Plaka, il quartiere “dei turisti” sopra descritto è molto piacevole, ma nulla è tanto spettacolare come quell’immenso monumento alla Storia che è l’Acropoli. La salita è meno faticosa di quanto ci si aspetti, e lungo il percorso si hanno magnifiche vedute sulla città e sull’Agorà, dove si distingue il tempio dell’Efastheion, secondo soltanto al tempio della Concordia di Agrigento per lo stato di conservazione. L’Acropoli si delinea man mano, con le colonne quasi intatte dei suoi templi. Una volta pagato il biglietto, si scorge il bel teatro di Erode Attico, dove una coppia di vicentini ci ha dato qualche “dritta” per il nostro tour nel Peloponneso, poi si entra nella vera e propria “collina degli dei” attraverso la scalinata dei propilei (templi grandiosi quanto il Partenone). Qui compare improvvisamente uno dei luoghi più suggestivi del pianeta, uno di quelli per cui “vale la pena vivere” (come confermeranno coloro che hanno già visitato l’Acropoli): il Partenone, immenso, bianchissimo, sproporzionato rispetto all’infima statura dell’uomo, ma sapientemente studiato per rispettare i canoni della bellezza e della perfezione classica: colone rigonfie, leggermente piegate verso l’interno, lati concavi…Una meraviglia unica…Indescrivibile!!! E poi tutti i templi che fanno da cornice alla casa di Atena: l’Eretteion, la loggia delle Cariatidi (gli originali sono custoditi nel piccolo museo dell’Acropoli), il tempietto di Atena Nike…Noi che li abbiamo visitati di pomeriggio, verso il calar del sole, li abbiamo ammirati nei loro colori più smaglianti, e sono uno spettacolo da non perdere assolutamente, soprattutto se si soggiorna o si è di passaggio in città. Soltanto da questa postazione privilegiata (e forse anche dal Licabetto) si gode il panorama più completo della vallata di Atene: una conca naturale letteralmente occupata da una marea di edifici, palazzi e casermoni che nascondono le poche, alte colline che punteggiano di verde, qua e là, il piatto grigiore cittadino…Sembra di essere in un’isola, ed il panorama è veramente impressionante! Siamo rimasti a lungo a riflettere di fronte alla Storia, a formularci quelle domande che ci si pone soltanto qui, ed in pochi altri luoghi nel mondo… Scendiamo dalla collina al tramonto: dobbiamo ritornare in albergo perché alle 9.00 verrà un ex-compagno di università del pa’, che ci porterà a scoprire l’Atene by night! Naturalmente, da buon greco, Panos (così si chiama l’amico) arriva con 3 quarti d’ora di ritardo… Normalissima routine per chi vive nella città più incasinata d’Europa! E noi testiamo immediatamente il traffico ateniese, impiegando almeno un ora per raggiungere una trattoria “ottima”, a sentire Panos, ma che non saprei proprio dirvi dove si trova. Dopo la cena a base di souvlaki (gli spiedini di carne che vi propinano in ogni angolo della Grecia), antipastini tipici, pane (ottimo) e, ovviamente, l’allegria di una “rimpatriata” fra 2 amici che non si vedevano da 25 anni, ritorniamo verso l’hotel, compiendo un tragitto interminabile che ci porta a scoprire il nuovo quartiere olimpico, il Pireo e chissà quanti altri posti ancora. Finalmente arriviamo, stanchissimi dopo un’intensa giornata vissuta da veri “turisti per caso”. La mamma si dirige immediatamente in camera, noi ne approfittiamo per passeggiare con Panos lungo gli stretti e romantici vicoli della Plaka, con una luna quasi perfettamente sferica che illumina le basse case colorate, i musicisti che allietano le cene dei turisti, le mura impenetrabili dell’Acropoli… Tutto ciò in compagnia di un “esperto” del luogo, che ama avventurarsi ogni domenica mattina alla ricerca di oggetti antichi nel mercatino di Monastiraki, nostalgico dell’Atene di suo padre e della sua infanzia, dei cieli tersissimi dell’Attica e dei venti impetuosi, quando ancora non esisteva quella maledetta cappa di smog che ricopre oggi tutta la città ed i suoi sobborghi, dalle montagne all’isola di Salamina. Torniamo in hotel distrutti (perché reduci non solo di una giornata faticosa, ma anche di una ben più massacrante passeggiata sulle montagne di Alleghe). Siamo stanchi, sì, ma non tanto da rinunciare ad una riflessione: Atene è il prodotto dei suoi abitanti, non perché sia brutta (anzi, a papà, che è nato ed ha vissuto in Nicaragua, ricorda tantissimo le atmosfere latino-americane). Atene è gioiosa, viva, ottimista, orgogliosa, politicamente attiva, storicamente soggiogata dal peso della Storia: i suoi gioielli affiorano, con la prudenza della discrezione, tra banalità, volgarità, mostruosità architettoniche. Il tutto soffocato da 4 milioni di persone (quasi mezza popolazione greca) che assediano incessantemente l’Acropoli, in un disperato abbraccio di desiderio e di riscatto. Insomma, Atene non è bella, non asseconda i tipici canoni estetici del nostro immaginario turistico, ma è vera, affascinante, solare, patriottica, mediterranea: proprio la via di mezzo (geograficamente e culturalmente) fra Napoli ed Istanbul! Ad ognuno le proprie considerazioni, ma non fatevi illusioni prima di partire: è sempre meglio credere che Atene “non sia una bella città”, per non rimanerne delusi….

Sabato 1 settembre Stamattina dobbiamo andare via da Atene…AIUTO!!!!!!!! La nostra macchina (prenotata dall’Italia, categoria C) arriva in hotel dopo un piccolo (ma immancabile) ritardo. L’auto è una Hyundai Accent 1300 cavalli con aria condizionata… Perfetta per affrontare il nostro tour! Lasciamo l’auto momentaneamente nel parcheggio e decidiamo di raggiungere il museo archeologico con il taxi, tanto per non ri-incasinarci nelle vie della città! Arriviamo proprio davanti al parco del museo(uno dei pochi della città). L’ingresso è gratuito per gli studenti, non per gli adulti, ma il prezzo del biglietto ne vale proprio la pena: un’immensa enciclopedia di storia greca, la più completa collezione di manufatti micenei, cicladici, sculture, ceramiche e gioielli che fanno di questo museo, come recita la nostra guida Mondadori, “uno dei più prestigiosi al mondo”. Grande e bellissimo, sì (meravigliose le anfore e i bronzi), ma non “interminabile” come dicono le guide: a noi, che pure non abbiamo completato la visita alla raccolta delle ceramiche, ricorda tanto, come dimensioni, il museo archeologico di Napoli. Ciò non ne sminuisce sicuramente l’importanza, e merita senz’altro una visita di mezza giornata. Unico difetto: la disposizione delle opere d’arte, che risale a mezzo secolo fa: volevamo vedere la celebre “maschera di Agamennone”, ma si trova in mezzo a centinaia di manufatti d’oro micenei che non ne risaltano l’importanza… Insomma… Ci siamo passati in parte e non l’abbiamo nemmeno guardata! Un’altro taxi, molto folkloristico, ci ha riportati in hotel entro mezzogiorno (abbiamo chiesto il permesso di abbandonare la camera mezz’ora più tardi). E, proprio come avevamo previsto, siamo partiti alle 12:30, in direzione di Corinto. La strada non è lunga, ed è anche molto buona, se non fosse per il tragitto “Atene centro- Atene ovest”, che fa perdere, al turista più inesperto, due buone orette. Noi siamo stati abbastanza fortunati e, grazie al navigatore (il sottoscritto), abbiamo abbandonato in fretta l’infernale traffico ateniese, con i suoi spericolati automobilisti, per dirigerci verso una delle poche autostrade del paese, non affollatissima e circondata da un paesaggio che spazia dalle gialle colline dell’entroterra al blu dell’Egeo, intervallato purtroppo dalle ciminiere che spuntano qua e là e che hanno deturpato Eleusi ed il celeberrimo golfo di Salamina. Lungo la strada scopriamo che la macchina non fa più dei centodieci all’ora in discesa e dei sessanta in salita… Il che non è male, di per sé, ma manda in bestia tutti gli assi del volante. Superiamo lo stretto di Corinto, che è talmente stretto ma talmente stretto che non sappiamo nemmeno se lo abbiamo attraversato o no, e siamo costretti a domandare se siamo o meno nel Peloponneso. La risposta è sì, ci siamo, siamo arrivati nella terra di Agamennone e di Leonida, di Micene e di Sparta, delle avventure di dei ed eroi… Che emozione! Il nostro arrivo nella penisola-isola del Peloponneso coincide con quella che chiameremo “maledizione di Corinto”: un vero e proprio maleficio che ci impedisce di raggiungere la città antica. Innanzitutto, appena entrati in Argolide (la regione di Corinto), prendiamo la prima direzione con su scritto il nome della città, e ci ritroviamo lungo la costa orientale, verso Epidauro. Dopo aver domandato per il sito archeologico ad almeno dieci persone diverse ed avere sbagliato strada altrettante volte (colpa del papà: pretende di comunicare in inglese meglio di me, che mi ci spediscono a Dublino apposta per impararlo!), finalmente una gentile signora capisce ciò che cerchiamo, e ci indica una stradina proprio accanto all’autostrada (quando mai non siamo usciti dopo!). Il sito archeologico, come volevasi dimostrare, era a fianco dell’autostrada, separato da quest’ultima dall’imponente mole dell’Acrocorinto (la brulla montagna sacra ad Apollo). Le rovine di Corinto meritano davvero una sosta: sono immerse in un paesaggio fantastico, fra il terreno riarso dal sole, il verde golfo di Corinto ed il cobalto del cielo. Appena dopo l’ingresso c’è un piccolo museo che venne derubato, dieci anni or sono, dei suoi reperti più preziosi. Qui si innalzano le tre colonne del tempio di Ottavia; più avanti si estende l’immenso spazio dell’Agorà, dove San Paolo lesse le sue “lettere ai Corinzi”, e dove, immerse fra ulivi e cipressi, si elevano le sette colonne del tempio di Apollo, in puro stile dorico: sono l’unica testimonianza greca sopravvissuta ai “pacchiani fasti dell’impero romano”. In effetti la semplicità delle forme stimola molto la fantasia (e la macchina fotografica). Anche qui la natura si fonde con l’arte, anche qui il tempo la fa da padrone, e l’uomo, in tutta la sua vulnerabilità, non può far altro che guardare… Concludiamo la visita attraversando la strada lastricata che un tempo univa Corinto al mare, fiancheggiata dalla fonte di Priene, dove Bellerofonte catturò Pegaso, il mitico cavallo alato. Usciamo verso il paesino che è sorto attorno alle rovine di Corinto, stracolmo di ristoranti e negozi di souvenir. Entriamo nel locale meno affollato, che possiede sul retro una terrazza panoramica, dove c’eravamo solo noi tre, un traliccio di vite, due leoni di pietra l’uno di fronte all’altro ed il mare, in lontananza, preceduto da piantagioni di ulivi, boschetti di macchia mediterranea e assolate distese di grano…Uno spettacolo molto suggestivo, gustato con un’ottima insalata greca e, ancora una volta, souvlaki con patate fritte. Abbandoniamo Corinto verso le 4:00 del pomeriggio, ma non l’infausta “Maledizione”! Troviamo sì il percorso che dall’autostrada porta alle rovine, ma non quello che percorre il tragitto opposto! E così ci perdiamo ancora una volta, incontriamo gentili aborigeni che tentano di aiutarci, scandendo molto bene ogni lettera in greco… Ma non capiscono che per noi la loro lingua è difficile quanto il cinese! Infine, guidati da quel briciolo di buon senso che ci è rimasto, riusciamo a raggiungere l’autostrada da soli, direzione Nauplia (Nafplio, in greco), la prima capitale della repubblica moderna. Controlliamo sulla mappa stradale se l’uscita è giusta… Sembrerebbe di sì, quindi partiamo: fra mezz’ora saremo già nel porto più suggestivo della Grecia! Sennonché, dopo mezz’ora: tragica visione! Che ci fa a Nafplio l’Acrocorinto?? Sembra impossibile, ma siamo tornati ancora in quel sito archeologico che tanto avevamo cercato! Noooooooo! Basta, abbiamo deciso: stavolta, maledizione o no, non sbaglieremo più strada. E così fu. Siamo arrivati, seppure un po’ tardi, nella cittadina su mare, molto carina di primo impatto. Purtroppo dobbiamo accontentarci di una sistemazione mediocre, in una camera piccola di un hotel pseudo-fatiscente (hotel Victoria, se a qualcuno interessa). Beh, dopotutto, anche questo è viaggiare! Ci riposiamo un poco nella cameretta singola con tre letti, e mentre io dormo, papà e mamma vanno in perlustrazione nel centro storico di Nauplia. Quando ritornano sono piacevolmente soddisfatti: non era la località di spiagge ed ombrelloni che si aspettavano, ma sono rimasti comunque sorpresi dall’ordinatissimo centro storico stile veneziano (simile ai nostri centri di villeggiatura del lago di Garda), dagli innumerevoli negozi e bar, dallo splendido lungomare affacciato sulla fortezza-isola di Bourtzi, da tutti quei gatti, ristoranti e bouganville che sommergono (nel senso romantico della parola) le fameliche orde di turisti, per lo più comitive greche “over 60”. Andiamo alla ricerca di un ristorante, verso il crepuscolo. Giriamo in lungo e in largo i vicoli della cittadina, ansiosi di trovare il menù che più fa a caso nostro, ma alla fine ripieghiamo in una piccola trattoria accanto all’albergo. Non è esattamente in riva al mare come immaginavamo, ma la cucina è buona. Poi, una volta lasciato papà in camera, io e mamma continuiamo il nostro tour: ripercorriamo il lungomare, straripante di ragazzi in ogni bar lungo la passeggiata; qui compriamo una cartina dettagliatissima (ci sono indicate persino le cascine del Peloponneso), così, domani, non ci saremmo certamente persi… Poi arriviamo nella piazza principale, dove gustiamo un gelato completamente estraneo al gusto del nostro palato, ma incredibilmente ottimo! Infine allunghiamo gli occhi verso l’aguzzo profilo della vetta di “Palamidì”, una fortezza a strapiombo su Nauplia. La luna è piena e luminosa, l’atmosfera magica, il clima invidiabile… Certo, non è il posto più bello del mondo, ma è sicuramente il modo migliore per augurarsi la buonanotte! Domenica 2 settembre Stamattina facciamo colazione in un bar dove appena ieri sera c’era la coda per sedersi. La posizione è ottima, con vista sulle placide acque del porticciolo turistico, così ne approfittiamo immediatamente per scatenarci con le foto-ricordo. Lo stesso non si può dire per la colazione, carissima, servizio scadente e, per di più, cattiva (ma forse è soltanto una nostra impressione). Infine, last but not least, una bella macchia di cioccolato ha rovinato il “tallieur” della mamma! Che rabbia!!! Partiamo, sotto il sole abbacinante del Peloponneso, ripercorrendo inizialmente (con cartina a portata di mano) la strada dell’andata, fino al bivio dopo Argo, dove tutti i turisti svoltano per visitare l’antichissima città di Agamennone: Micene. La strada sale e sale, la nostra auto arranca ed arranca, ma arriviamo, senza problemi, al parcheggio davanti alla biglietteria… Utilissimo, per carità (sennò dove parcheggiano i turisti?), ma un po’ fuori luogo, come qualsiasi colata di cemento in un paesaggio ancora (quasi) vergine… E per di più attira il calore, che qui proprio non scherza! Le mura di Micene sembrano confondersi con le pietre della collina su cui sorge. Oltre la curva di un sentiero in terra battuta, segnalata dall’incessante presenza dei turisti, si innalza la Porta dei Leoni, l’unico ingresso per raggiungere le rovine della città, e quasi unico esempio al mondo di architettura micenea. Tentiamo per qualche minuto di afferrare il discorso di una guida americana, ma ci arrendiamo ben presto, e decidiamo di continuare la nostra visita oltre le mura ciclopiche, così chiamate perché (si credeva) fossero state costruite dai Ciclopi. Percorriamo la lunga scalinata che taglia tutte le rovine, cercando, sotto suggerimento della guida, di immaginare le sensazioni che provavano coloro che un tempo si recavano alla corte dell’influente sovrano. In effetti non è un’impresa facile immaginare una città di tremilacinquecento anni fa (di cui rimangono soltanto sassi, come dice il papà). Nonostante tutto, su queste “quattro pietre” aleggia, qui come in ogni altro sito archeologico della Grecia, la costante presenza della Storia e dei suoi eroi, come se Micene continuasse a vivere, ed i pavimenti risuonassero ai passi di re Atreo, come se le pareti, distrutte dal tempo, riecheggiassero i sussurri di Clitemnestra ed Egisto… Chi non riuscisse a soddisfare la propria immaginazione può comunque appagarsi lo sguardo con il panorama che si apre dalle altissime rovine del palazzo reale: la vista spazia, da un lato, verso le nitidissime e brulle colline , simili a ritagli di giornale incollati al blu del cielo, mentre dall’altro si apre la pianura dell’Argolide, con l’Acropoli di Argo che sembra contendere a Micene il predominio della vallata, incorniciata anch’essa dall’intenso azzurro del mare. Naturalmente è d’obbligo qualche piccola precauzione: innanzitutto le scale, corrose nei secoli, sono abbastanza sconnesse; inoltre il sole picchia “sul serio”, come si suol dire, quindi è necessario almeno un cappello (l’ombra è scarsissima e quella poca frescura data dagli arbusti e dagli anfratti della roccia è spesso occupata da turisti “accaldati”). Micene è questa… Anzi… Questa è l’Acropoli: dobbiamo ancora goderci il meglio! Infatti, ad appena 1 km dalle rovine, troviamo il “Tesoro di Atreo”, uno dei primi esempi di falsa cupola (come il Pantheon di Roma, quindi, ma molto più antico) e dalle dimensioni colossali. A prima vista può sembrare una collina, poi si distingue il lungo corridoio d’accesso alla camera di sepoltura, che assomiglia alle tombe etrusche dell’Italia centrale. In fondo a questo camminamento si spalanca l’enorme stanza a cupola, priva ormai dei suoi ornamenti (custoditi al museo archeologico di Atene) ma ancora “regale” in tutta la sua imponenza. Abbandoniamo le vestigia di Micene per nulla delusi, soprattutto perché non siamo incappati, come avvertiva la guida, nelle code chilometriche di turisti giapponesi; contenti di avere ammirato cose che voi turisti “non potete nemmeno immaginare” e consapevoli che le sorprese della giornata non sarebbero ancora terminate! Ritorniamo infatti sulla “celebre” statale di Argo, e deviamo non appena compaiono le prime indicazioni per Epidauro, il famoso (e chi l’aveva mai sentito prima??) santuario del Dio della medicina. Ci addentriamo in sconosciute colline ammantate di verde, fino al sito archeologico, immerso in una natura completamente diversa dall’arida scenografia micenea. Entriamo in un microcosmo color verde smeraldo, fitto di pini marittimi e punteggiato dalle fondamenta di antichi templi e palazzi. Proviamo, o meglio, provo ad obbligarmi una piccola visita ai resti dell’antico santuario, ma niente d’eccezionale; così ci fiondiamo, come banalissimi turisti incapaci di leggere la Storia tra un mucchio di pietre, verso il teatro di Esculapio, una delle sette meraviglie della Grecia antica. Beh, io non conosco le esperienze altrui, ma per me che non ho mai visitato Taormina o Siracusa, la fantascientifica visione di questo “colosso” della tecnica mi ha lasciato a dir poco a bocca aperta… Penso che non dimenticherò mai quella cavea di marmo intagliata, come uno spicchio d’arancia, nell’androne della montagna! Grandissimo (55 ordini di gradini per una capienza di 14.000 spettatori) e perfetto, perché dotato di un’acustica straordinaria, non può non far pensare all’incredibile ingegno degli architetti di 2.500 anni or sono, capaci di creare un microfono naturale dal nulla, senza particolari apparecchiature moderne, ma soltanto con l’aiuto della matematica e della scienza di allora… Vuol proprio dire che l’uomo, dopo i greci, non ha inventato proprio niente! Mentre la mamma se ne stava seduta sulle prime panche, incredula di avere davanti un semicerchio tanto perfetto quanto una figura nei testi di geometria, io ed il papi saliamo sino all’ultimo “girone” di marmo, dove gli scalini si fondono con la montagna. Da qui, come se non bastasse, si gode un panorama incredibile sulla vallata di Epidauro e si può “partecipare” all’esperimento che ogni accompagnatore turistico propone ai visitatori: lasciando cadere una moneta in un punto preciso nel mezzo dell’orchestra, il tintinnio risuona in qualsiasi parte del teatro voi vi troviate. Per confermare la tesi, ognuno provoca un piccolo rumore all’interno del circolo, chiedendo poi agli amici se lo avessero sentito. Un gruppo di ragazze nordiche ha poi intonato una canzone, e l’applauso finale se lo sono davvero meritato! E’ già ora di pranzo (purtroppo! Nessuno di noi vorrebbe abbandonare questo luogo d’incanto, ma i nostri stomaci ce lo impediscono!). Ci rifocilliamo in un bar dentro le rovine ed usciamo a malincuore dall’incredibile teatro, reduci di una scoperta davvero inconsueta. Alcuni manifesti all’uscita mostrano Isabella Rossellini e Gérard Depardieu che reciteranno stasera in un’antica tragedia greca… Beati loro, e beati quelli che vedranno il teatro di notte, sotto la rassicurante lampara della luna piena…Senza togliere nulla ai due attori, per carità, ma per compensare quello che mille scenografi non riuscirebbero nemmeno ad immaginare. E’ presto: sono ancora le quattro del pomeriggio e siamo già di ritorno a Nauplia: una breve consultazione fra i membri del consiglio casalingo “in trasferta”, e decidiamo di proseguire oltre la cittadina di mare, costeggiando la costa orientale del Peloponneso alla ricerca di una sistemazione adeguata ai nostri bisogni. Inutile dire (anzi, da segnalare) che il paesaggio verso la Laconia (l’estremo lembo sud-est della penisola) non ha paragoni, o perlomeno, non è paragonabile alle coste a cui siamo abituati: è come Creta, ma di più (rubando un’espressione a Patrizio Roversi), o come la Liguria, ma mooooolto di più! Attraversiamo alcuni paesini aggrappati alla roccia come grappoli su un traliccio di vite, percorriamo i tornanti a strapiombo sull’Egeo, chiusi da piccole calette all’interno delle insenature. Il viaggio è abbastanza lungo e la stanchezza comincia a manifestarsi con segni di irrequietezza e di sconforto, a causa dell’ingiustificabile assenza di strutture ricettive… Non dico hotel a 5 stelle o villaggi turistici, ma anche soltanto un appartamento, oppure una pensioncina (anche se saranno contenti gli appassionati di roulotte e camper: se c’è una cosa che proprio non manca lungo questa costiera sono i camping!). Durante il tragitto ci viene consigliato un mini complesso autoctono che può offrire (a prezzi stracciati) una cameretta vista mare… Ed effettivamente troviamo questi mini-appartamenti in affitto, in fondo ad una baia dall’acqua cristallina e dalla natura incontaminata: un sogno! Finalmente, in questo remoto angolo d’Arcadia, si materializza la tranquillità che andavamo cercando. Senza pretese, né decori superflui… Soltanto quel poco che basta alla specie umana per lavarsi ,dormire e mangiare, e nient’altro. La vita era concentrata tra la ghiaia della caletta ed il ristorante-camping ancorato nel mare, gestito unicamente da loro, dai greci più autentici, che qui hanno il loro habitat . Preso possesso della nostra nuova residenza (destinata ad ospitarci per poco, purtroppo), scendiamo in spiaggia e ci godiamo il nostro primo assaggio del mare Egeo. Verso il tramonto rientriamo in appartamento, ci riposiamo ed andiamo a mangiare nel ristorantino di fronte, perché qui davvero non c’è nient’altro. Il meltémi, vento caldo d’agosto, spira sulle tovaglie di carta e le panche di legno abbarricate sulle onde. Il sole ha ceduto il posto alla luna, ancora piena, che riflette la scia d’argento nell’immensa, calma superficie del mare. Il proprietario, cordiale, ci accoglie come suoi famigliari e, nonostante la difficoltà di comunicazione, soddisfa tutti i nostri desideri, o almeno quello primario di mangiare. Una luce soffusa illumina la terrazza, l’aria si profuma del pesce e della salsedine, i nostri pensieri abbandonano il corpo, l’anima, la mente, per unirsi nell’intrigante delirio dei sensi che avvolge in un’aurea magica questo lembo di Grecia, a dimostrazione che i turisti non hanno snaturato tutta la costa e, si spera, la lascino in eredità ai suoi abitanti per tanto tempo ancora. Torniamo in camera e salviamo alcuni indumenti che stavano volando via dalla terrazza, a causa del vento impetuoso. Forse qualcosa ci è scappato dalle mani; forse una piccola parte di noi è fuggita con il vento, e non tornerà più… Dormiamo, con la triste consapevolezza di dover abbandonare questo paradiso, con la dura certezza di avere perduto il cuore nella aria turgida di stelle.

Lunedì 3 settembre Il sole ci coglie di sorpresa, bussa alle ante del balcone e ci impone prepotentemente l’inizio di una nuova, meravigliosa giornata. Dopo avere ritirato i panni stesi ad asciugare ed aver preparato le valigie, scendiamo nel ristorante sull’acqua, che per l’occasione si è trasformato in una tranquilla terrazza dove poter consumare la colazione. E stavolta non c’è alcun pretesto per lamentarsi: la colazione è buonissima, abbondante, nutriente, genuina… Rispetto al lussuoso bar di ieri mattina, la nostra misera, spartana locanda è cento volte meglio! Siamo pronti a ripartire, a salutare tutti e a ringraziare, ripromettendoci di tornare. Poi saliamo in macchina e… Un attimo! Pare che la ruota sia sgonfia e, guardando un po’ meglio, capiamo che non avrebbe resistito per altri dieci chilometri! Che fortuna essersene accorti prima di partire, così i proprietari del mini-complesso ci hanno potuto aiutare, chiamando il meccanico della città più vicina e lasciandoci godere il panorama per un’ultima volta. Dopo un’ora, risolto il guasto, riprendiamo il tragitto con una gomma tutta nuova, e via! Destinazione: Monemvassia , la Gibilterra greca. La strada si preannuncia faticosa, tanto che papà e mamma si alterneranno alla guida (e, come spesso accade dopo parecchie ore d’auto, si preannuncia un furibondo litigio famigliare!). Dapprima ci accompagna una lunga successione di tornanti, alti e ripidi sul blu-zaffiro dell’Egeo… Magnifico “happy end” per una costa d’autore. Poi, all’altezza di Leonidio, ci addentriamo in un pianoro fluviale che conduce gradualmente verso la catena montuosa laconica; infine ci inerpichiamo su paesini dove il tempo sembra non esserci mai passato, dove le macchine sono rare come il sole, dove ogni tanto si sfiora una parete di roccia rossa, un monastero irraggiungibile, una foresta di pini d’aleppo; ed è una festa di emozioni quando si attraversa un borgo, serrato fra la roccia ed il baratro, con le strade tanto strette da costringere a fermarsi se un gatto arriva nella direzione opposta… Fascino e magia di una terra desolata, ostile, dal carattere rude e spigoloso; come la sua gente, del resto. Ovviamente l’andatura frenetica del papà e quella incerta della mamma non ci hanno fatto apprezzare appieno il panorama e l’atmosfera quasi “alpina” che avremmo potuto assaporare, anche perché la strada richiedeva la massima precauzione. Ma dopo un’ora e mezza di apprensione, il tragitto si fa più dolce e la carreggiata spaziosa, proprio come piace a noi “gente di pianura”. Le montagne sono ormai un ricordo, e davanti a noi compaiono, come in processione, una serie di paesini riarsi dal sole e di sudate colline dai colori tipici dell’estate mediterranea, senza niente e nessuno che ostentasse la presenza dell’uomo. Soltanto un anziano si fa avanti, chiedendoci un passaggio (desiderio che accontentiamo facilmente), poi più nulla… Anch’egli svanito nei miraggi della Laconia, nel mesto silenzio della sua gente. Accendiamo la radio per consolarci di questa calma quasi “contagiosa”, ci fermiamo dopo una decina di chilometri in una piccola piazza battuta soltanto dallo scirocco, dove papà intreccia immediatamente amicizia con il proprietario di un bar, che ci mostra le fotografie di suo figlio in Australia. Nell’ultimo tratto di strada incontriamo i primi (ed unici) pullman turistici della giornata, diretti presumibilmente nella nostra stessa destinazione; infine, rieccola la costa, ed in lontananza, il nitido profilo “a cappello” dell’isolotto di Monemvassia. Scegliamo di accomodarci al di fuori delle mura antiche, nel paesino-ponte ancorato sulla terraferma e decidiamo di trascorrere la notte in uno dei tanti appartamenti che proliferano in questa zona: si tratta dell’hotel “The flower of Monemvasia”, vicino alla spiaggia e discreto nel comfort e nella pulizia, ottimo per l’ampia superficie delle camere. Di negativo aveva però l’odore di scarico nel bagno, grossa pecca che caratterizza un po’ tutti gli hotel del Peloponneso, ma il prezzo stracciato dell’affitto ripaga più che bene questa piccola “distrazione”! Trascorriamo il pomeriggio tra il mare e la battigia, dilettandoci con i mille colori del paesaggio e del rassicurante, gigantesco pendio di Monemvassia riflesso nelle onde… Inoltre approfittiamo dell’assenza di un bagnino per accaparrarci le migliori sdraio ed ombrelloni della spiaggia, gratis naturalmente! Purtroppo però il sole si sta abbassando verso l’orizzonte, e la nostra giornata volge, come lui, al termine. Tentiamo di catturarne gli ultimi bagliori luminosi, prima che scompaia definitivamente oltre i monti; quindi scompariamo nell’appartamento, per poi ricomparire al tramonto in tenuta turistico-notturna, diretti all’antica città-fortezza bizantina, musulmana, franca, veneziana, turca e greca: è questo il biglietto da visita di Monemvassia, “città dall’unico ingresso”. La benigna imponenza dell’Acropoli naturale è pienamente apprezzabile dal ponte, passaggio obbligato per chi voglia recarsi in città. Ma il borgo è ancora nascosto: soltanto dopo aver percorso il perimetro dell’isolotto, invisibile dalla terraferma, compare il portale d’ingresso color della montagna, che cela una delle perle medievali della Grecia. Da qui si diramano le strette vie lastricate che percorrono il cuore di Monemvassia, simili ad un complicato labirinto di pietre. Intorno alla lunga via centrale si affacciano i pochi monumenti cittadini, oltre ad un’infinità di bar, ristoranti e negozi. La piazza “Christos Elkomenos”, circondata da pergolati di bouganville, è il cuore geografico del borgo; attorno ad essa non vi è nulla. A Monemvassia regna un’atmosfera da dopo-terremoto che la fa sembrare appena abbandonata dalle millenarie popolazioni che qui hanno risieduto, e nulla all’interno delle mura è tanto spettacolare quanto l’armonia e la serenità che accolgono il visitatore. Usciamo dalle arterie turistiche, ritorniamo all’epoca dei pirati, dei mercanti, delle 50.000 persone che abitavano nelle altissime e fatiscenti case-torri. E pensare che oggi qui vivono soltanto 800 anime, incastrate fra il dirupo e la scogliera, strette all’interno delle mura come 500 anni fa. E proprio i bastioni difensivi, che con la loro imponenza determinarono lo sviluppo di questo lontanissimo promontorio, hanno creato una sorta di “gabbia” che ha imprigionato per sempre le sue genti, rendendoli tutt’uno con la montagna a cui sono aggrappati, e con l’immenso cobalto spazio che li abbraccia in eterno. Ci spostiamo verso est, in un paesaggio surreale, fatto di cataste di mattoni e di fiori che nascono un po’ ovunque. In prossimità della porta orientale, affacciata su una spianata nera e desolata che si tuffa nel mare, rimaniamo come allibiti dalla perfetta fusione tra arte e natura; poi percorriamo le mura, e ci sentiamo sospesi sul filo del ballatoio, tra le cupole luccicanti e la gente che si concede l’ultimo bagno all’ombra delle secolari fortificazioni. Bellissima è la “Stellaki”, un’antichissima casa oggi adibita ad appartamento che si affaccia, con le sue terrazze e gli archi rampanti, sulle onde dell’Egeo. A saperlo prima ne avremmo approfittato… Ma non importa: giusto per dare un’occhiata al prezzo, visitiamo l’hotel Malvasia, che affitta stanze in tutto il borgo. L’hotel è splendido, in posizione suggestiva, dall’arredamento arcaico e dai soffitti bassi, in pietra. Inoltre scopriamo che la “Stellaki” non è affatto cara, e ce ne innamoriamo perdutamente. Ormai è buio: siamo costretti a ritornare sui nostri passi per cercare un ristorante. Incontriamo una trattoria adorna di garofani, su una terrazza fronte-mare. Questo ristorante, a nostra insaputa, ci ospiterà per tante sere ancora, perché la sorpresa più grande è la moltitudine di gatti che prendono appuntamento ogni sera, tra questi tavoli. Intanto compare una leggera brezza, accompagnata da larghe nuvole che per la prima volta in tanti giorni fanno capolino sul nostro percorso. Che sia di buon auspicio per gli abitanti, dopo tanti mesi di siccità?? Noi non lo sappiamo, e non rimpiangiamo certo l’umidità della pianura Padana. Torniamo in macchina, lungo una strada color notte fonda (cosa che spaventa un po’ la mamma). Ripercorriamo in silenzio la costa di Monemvassia e scopriamo la magica atmosfera notturna della sua baia, ben lontana dall’inquinamento acustico e luminoso delle nostre città. Anche il quartiere moderno non è male, così affollato e sofisticato rispetto alla zona vecchia, zeppo di bar e di turisti. Ma non appena si oltrepassa la frontiera del turismo di massa, è come un ritorno al passato, un inno alla vita rurale. I rumori sono quelli della quotidianità: i bambini e gli anziani, i fruttivendoli ed i pescivendoli, il vento ed il mare… Incredibile barriera di omertà che divide Monemvassia dal resto del mondo, la rupe solitaria dal cataclisma caotico dell’occidente, il sogno dalla realtà… Il tutto avvolto da un mare profondo come la notte, “da torbidi flutti d’un incommensurabile silenzio”.

Martedì 4 settembre Non riesco a svegliarmi di buon’ora, nonostante il sole tormenti le zanzariere della stanza. Papà e mamma escono, fanno colazione sul lungomare, inebriati dal profumo dei polpi stesi ad essicare come scialli rossi gocciolanti. Quando apro gli occhi, tutto è sistemato nelle valigie; tutti attendono di partire e di immergersi in un soggiorno “full relax” sulla costiera laconica. Quindi partiamo, prendiamo la strada che va nell’estremo sud della penisola, e nulla lascia credere che avremmo rivisto ancora, quella stessa sera, le brune rocce di Monemvassia, convinti com’eravamo di trovare un complesso alberghiero che ci avrebbe ospitato per le tre notti successive. Così abbandoniamo pian piano la costa, e saliamo ancora su quelle montagne, che qui costituiscono le estreme propaggini meridionali, ma che non sono meno aspre e disabitate. Lentamente, sorvegliati da un cielo sempre più minaccioso, attraversiamo alcuni sonnacchiosi paesi ammantati di verde: Lira, Ellenikò, Kriovrissi. Qui, tra l’altro, ci fermiamo mezz’ora per colpa di un gregge che ci taglia la strada e per un trattore intento a scaricare la merce. Poi, miracolosamente, il mare riappare all’orizzonte, ma qui si chiama “golfo di Laconia”, e le nuvole si diradano, lasciando spazio al consueto azzurro del cielo. Lo spettacolo è magnifico, emozionante, e ci rammarichiamo per quei nostri amici che non sono potuti venire: non sanno cosa si perdono! La strada si congiunge con un’altra più grande, che costeggia la baia dall’alto, in un paesaggio color ocra, interrotto dal nastro argenteo dell’asfalto. Il contrasto cromatico è sorprendente. In un impeto di emozioni, dimentichiamo di svoltare a destra, e siamo costretti a fare retromarcia per imboccare lo stretto pianoro che ci conduce all’imbarco dei traghetti per Elafonissos, l’isola del vento, dei gigli selvatici e delle spiagge tropicali. Ma non immaginavamo ancora tanta bellezza, o meglio, almeno fino alla passerella per le auto, circondata da un mare con le tonalità di colori più intense che la tavolozza di un pittore possa contenere. Anche il vento incessante contribuisce al fascino di questo isolotto a poche centinaia di metri dalla costa, e dal capoluogo laconico, Neapoli.

E’ come un fragile sogno, uno di quei momenti che raramente la vita concede, e che non bisogna lasciarsi sfuggire per nulla al mondo. Sull’imbarcadero ci siamo soltanto noi, ma ben presto altre macchine e camion ci raggiungono e rimaniamo ad aspettare la nave che pian piano ritorna al molo. Mentre papà è agitato ed emozionato per il primo traghetto della sua vita, io e la mamma scrutiamo la spiaggia con le sue minuscole conchiglie, e le lontane vele che sfiorano il mare come uccelli. Poi il traghetto arriva, saliamo sul ponte con qualche centinaio di manovre e, dopo una breve attesa, il motore si accende e davanti a noi sfilano le sagome dell’isola e della terraferma, del mare e del vento e dei mille colori della Grecia, che qui sembrano essersi dati appuntamento. E’ bellissimo, nonostante la riva opposta si possa raggiungere quasi a nuoto. Ma non siamo i soli a contemplare il paesaggio: altri turisti, soprattutto coppie e famigliole, si contendono il posto in prima fila sul balcone di poppa. Poi ci sono i camion, gli “aborigeni”, una strana turista americana vestita di colori sgargianti tutta sola, un gruppo di anziani di Elafonissos che sanno di vecchi lupi di mare. C’è un mondo intero che osserva il basso orizzonte e dice “ecco, quella è casa mia”. E chi non vorrebbe vivere in un posto incantato come questo? Arriviamo in meno di mezz’ora sulla terraferma, dove subito un bivio ci impone di seguire una delle due strade perimetrali dell’isola. Scegliamo quella che va a ovest, si addentra prima in paese (strade sterrate, gatti, bouganville), ma poi si inoltra in paesaggi disabitati, fino ad un villaggio dove c’è una spiaggia molto bella, occupata dai campeggiatori. Oltre a questo, il nulla. Allora pensiamo di aver sbagliato: nonostante il paesaggio sia bellessimo, noi stiamo cercando “Simos bay”, la spiaggia più bella del Mediterraneo, di cui persino l’armatore Niarchos se n’era innamorato, e trent’anni or’sono veniva in questo magico luogo, bevendo champagne e consumando caviale in completa solitudine… Ritorniamo indietro e, senza alcuna alternativa, imbocchiamo la costiera orientale, in un paesaggio intatto, meraviglioso, ma… ‘ndo stanno gli alberghi?? Poi fiancheggiamo una discarica a cielo aperto, che evidenzia lo scarso rispetto che gli isolani hanno di uno dei luoghi più belli al mondo. Non sarà mica stata un’illusione, credere che questo fazzoletto di terra adagiato ai bordi del Peloponneso fosse un paradiso? No, non ci sbagliavamo: Superiamo un dosso ed ecco che compaiono l’Egeo e la lontana isola di Citera, coronati da un blu d’ogni tonalità. Costeggiamo piccole cale d’un azzurro abbagliante e deviamo non appena compare la scritta “residence-bungalow baia di Simos”. L’ingresso del residence assomiglia molto al set cinematografico di un film western; all’interno tutto è ben ordinato e suddiviso in spazi destinati ai campeggiatori e piccoli appartamenti che costituiscono il residence. Sembra molto carino, quindi chiediamo al proprietario di poter alloggiare per due o tre notti. La risposta arriva inattesa: tutto occupato! Eppure dovremmo sapere che accade sempre così, quando si trova un luogo ideale dove stanziarsi c’è sempre qualcosa che va storto! Pazienza, ci ricorderemo di raccomandare a tutti i turisti sprovveduti come noi che in questo luogo da favola occorre prenotare. Ma la mamma no, non si rassegna, e vuole comunque vedere se questa spiaggia meriti davvero un viaggio così faticoso ed una ricerca tanto estenuante: così l’accompagno: usciamo da un cancello e il mare ancora non si vede, in compenso ci sono alte dune di sabbia soffice, bianche come un deserto di neve. E poi i gigli… Quanti gigli profumati, che crescono su questa soffice distesa sterile. Infine il mare, bellissimo, quasi struggente. Non ci sono parole… Avevamo la sensazione di vedere quest’angolo di paradiso per la prima e ultima volta, e di abbandonarlo per sempre, perché il destino ci aveva impedito di fermare il nostro viaggio e ci aveva costretto ad abbandonare un’altra fetta di cuore nell’angolo più silenzioso del mondo. Silenzio. Vento. Sale e sabbia che ti entrano nella pelle, ti lasciano solchi e odori indelebili. Emozioni.

Ricordi.

E’ passato un anno da quando mi sono bloccato su queste ultime frasi, nella descrizione della spiaggia di Elafonissos. A un anno di distanza, ho riscoperto in una cartella polverosa (del computer!) la magia che mi ha regalato quel viaggio. Eppure ne è passato di tempo, altri viaggi si mescolano nella memoria, non ne cancellano il ricordo, però… Come dire… I pensieri non possiedono la stessa genuinità di quelli recenti, e non mi sento all’altezza di continuare un manoscritto dettagliato come il precedente. Maledetta indolenza! Oggi racconto ciò che mi ricordo, soprattutto le mie impressioni, con il solo ausilio di foto e guide, perchè di appunti non ne avevo. Casualmente è l’11 settembre 2002. Non lo dico per farvi sembrare il tutto più importante- il numerone 11/9 attira sempre l’attenzione, e potrebbe essere un’abile manovra pubblicitaria per gli occhi- ma per denunciare il martellamento continuo di televisioni e giornali, che parlano soltanto di “un anno fa”, ed inevitabilmente riportano alla luce i ricordi che si credevano sepolti, eppure così vivi nella pelle, impressi per sempre nella retina degli occhi, che li rivedrà e rivivrà ogni volta come se fosse la prima. E i ricordi di viaggio, quando iniziano le brume d’autunno, sarebbe meglio dimenticarli, se non si vuol piangere. Ma come si fa? Parliamo di Elafonissos ancora una volta, la cui bellezza mi ha lasciato per un anno senza parole, senza scrivere niente. Mi ricordo il vento e la sabbia che entrava dappertutto. Mi ricordo i colori del mare, la potenza delle onde, le continue suppliche ad una qualche divinità- o a qualche multinazionale del turismo- con la speranza che nessuno costruisca ai margini della distesa di sabbia più di quanto sia edificato ora- fortunatamente pochissimo- e che nulla cambi, perchè quella era la mia spiaggia, in quel momento solo mia. Mi è appartenuta per pochissimo, ci ho smarrito il cuore in quell’isola, e quando siamo riapprodati nel continente, a quel punto sono stato assalito da mille pensieri. Primo fra tutti che la Laconia non mi volesse, mi rinnegasse, come se il suo silenzio impenetrabile volesse nascondere il segreto di tanta tranquillità. Volevo rimanere in quell’isola giorno e notte, perchè c’era qualcosa di magico: lì ho trovato in un colpo tutta la Grecia. Ma la Grecia non mi voleva, gridava di essere lasciata in pace, diffidava dagli stranieri, i pastori ti guardavano come per dirti: “che ne sai tu della Grecia?” e i pescatori, con gli occhi fissi ad un orizzonte troppo lontano per dirsi tale, custodivano il loro segreto, egoisti. Certo però che avevano capito tutto della vita! Credevo di impazzire in quel momento. Dovevamo tornare a Elafonissos, ne eravamo tutti e tre stregati! Quella notte l’abbiamo trascorsa a Monemvassia, abbiamo cenato nello stesso ristorante, con i gatti della sera prima. A Monemvassia credi che tutto ti appartenga, perchè è intima come una casa, e non dici: “andiamo al ristorante”, ma “andiamo al nostro ristorante”; “i gatti” diventano “i miei gatti”. Ci entri subito in confidenza con la Grecia, come se la conoscessi da tanto tempo, ma fra lei e te ci sarà sempre una distanza incolmabile, perchè nulla ci accomuna. Innanzi tutto, di fronte alla sua semplice bellezza, ci si sente infinitamente più brutti.

Il giorno successivo siamo rimasti fermi, in stato di convalescenza per lo shock ricevuto il giorno prima. E mentre la mamma se ne è stata tranquillamente sulla spiaggia ciottolosa di fronte all’isolotto, al di qua del ponte, papà ed io siamo andati “al di là”: in mattinata per vedere la città alta di Monemvassia, sulla cresta dello scoglio, di cui rimangono le fondamenta delle case e sorgono, qua e là, alcune chiese bizantine. La più bella è Agia Sofìa, costruita su modello dell’omonima moschea di Istambul. Le scale per salire alla cittadella sono abbastanza faticose, ma una volta in cima il panorama è indescrivibile, come la vegetazione e i burroni a strapiombo sul mare. Di pomeriggio, invece, siamo tornati nel borgo (è da una traversa della piazza principale infatti che si raggiungono le antichissime rampe in pietra che conducono alla cittadella). Abbiamo fatto il bagno a ridosso delle mura: tramite una porticina, credo l’unica in tutto il paese, si accede ad una piattaforma naturale di scogli in cui prendere il sole e da cui tuffarsi nell’Egeo (quanto vorrei trovare le parole adatte per descrivere l’intensità del blu!), e nuotare in mezzo ai pesci, addirittura quelli volanti, sino ad allontanarsi un poco più dalla riva ed ammirare Monemvassia come soltanto i pirati e i mercanti del passato riuscivano a vederla: dal mare. E’ straordinario! Inutile poi dire dove abbiamo cenato quella sera… Ma in più abbiamo intravisto fra i vicoli del borgo la turista americana, quella del traghetto, che era vestita strana! Il giorno successivo siamo ripartiti verso la “nostra” isola, a recuperare quel che n’era rimasto del cuore. Stesso tragitto, anche se all’andata abbiamo evitato i villaggi rurali e le strade strette, optando per la più lunga (ma comoda) statale che porta a Neapoli, dopodichè imbarcadero (si saranno chiesti perche scarrozzavamo avanti e indietro la macchina come due giorni prima!) ed eccoci arrivati! Giornata di spiaggia goduta in santa pace: bagni dentro un mare più simile all’oceano, che non al “Mare Nostrum” e fotografie di rito sulla battigia, per immortalare la farinosità della sabbia al tatto, l’odore del mare, il vento incessante del golfo… Cose che in fotografia non rendono, purtroppo, perchè le occasioni di “vivere” un luogo con tutti e cinque i sensi, raramente si ripetono nel corso di una sola esistenza. E al ritorno, una lacrima è scappata a tutti: la mamma mi ha insegnato a salutare ogni posto, perchè sarà l’ultima volta che lo vedremo; papà invece è sempre ottimista: “l’anno prossimo ci torniamo!”, dice. E quella sera la tristezza è ricomparsa sul “nostro” balconcino affacciato sul tramonto. Non avremmo più rivisto i gatti, Monemvassia. Ma soprattutto il sole non sarebbe stato lo stesso, o meglio, non con i medesimi colori.

La mattina abbiamo fatto colazione presto, in un bar con i polpi appesi in terrazza e i bambini che nutrivano banchi immensi di pesci con pochi tozzi di pane. Siamo ripartiti verso nord, iniziava il cammino del ritorno. Quella mattina abbiamo visitato Mistrà, rovine di una città bizantina aggrappate per miracolo al monte Taigeto. Per raggiungere la cittadina abbiamo attraversato Sparta, con la statua di Leonida che troneggiava in mezzo ad una strada cittadina, ma nulla di più. Mistrà invece è una meraviglia. Il panorama sulla valle dell’Eurota, il fiume che ha dato vita alla civiltà spartana, in cui rivivono le mezze leggende e le mezze verità di iloti e spartiati, mozza il fiato. I cortili delle chiese di Mistrà sono altrettanto belli (gli edifici di culto ortodossi sono le uniche attrattive sopravvissute fino ad oggi, diffuse lungo tutto il versante della montagna). Interessante la cattedrale (Mitropoli), con il patio colmo di cespugli fioriti, il palazzo dei Despoti nella città alta e la vista che si gode dal crinale che conduce dalla porta di Monemvassia al monastero della Pandanassa (dove alcune suore –che vivono tuttora nel convento- vendono abili ricami fatti a mano).

Siamo ripartiti ancora nel primo pomeriggio, ed avevamo intenzione di pernottare nei pressi di Corinto, senonchè il poco traffico e la viabilità facilitata dall’autostrada che collega Tripoli, a nord di Sparta, ad Atene, ci ha fatti ritrovare in poco tempo alla periferia della capitale. Il difficile iniziava ora: siamo arrivati alle porte di Atene alle 4 del pomeriggio. Ebbene: alle 7 e mezza di sera eravamo ancora intrappolati nel traffico cittadino. Oltre al tempo che si impiega per arrivare al Pireo, ci siamo persi proprio fra i vicoli e i sensi unici del porto. Poi, con un po’ di fortuna, ci siamo allontanati in direzione est lungo la costa, ed abbiamo visitato alcuni alberghi (anzi, credo tutti!). Uno addirittura, aveva lampadari multisfaccettati con cristalli e vetrate abnormi affacciate sulla baia privata e su un tramonto da favola. Se capitate da quelle parti verso, quando il sole è basso e rosso, entrateci: lo spettacolo che si ha dalla hall è traumatizzante, i prezzi invece ti mandano in coma definitivamente… Non mi ricordo esattamente il costo di una tripla, ma si aggirava intorno alle 800.000 delle vecchie lire. Il papà ha avuto la facciatosta di domandare se il prezzo era “a testa o all-together?” E la signorina “No sir, all together”. La mamma in quel momento avrebbe trucidato il papà. Siamo scappati. Dopo varie ricerche protratesi fino all’oscurità totale, abbiamo trovato alloggio in un alberghetto molto carino, gestito presumibilmente da polacchi, con un gatto che scorrazzava avanti e indietro per la mia camera (se non si è capito, adoriamo i gatti!). Il nome CREDO fosse “hotel Plaza”, è riconoscibile perchè fronteggiato da un club e da diverse discoteche. Attraversato lo stradone, però, si accede ad una spiaggia (cara anche questa, ma tenuta benissimo!), la posizione è comoda, periferica ma molto molto elegante. Quella sera abbiamo cenato (senza gatti, ahimè!) in un ristorante italiano parecchio pretenzioso ma buono, gestito da un bresciano. Non ne potevo proprio più di mangiare souvlaki e pesce fritto! Infine, abbiamo approfittato dell’ultima mattina per goderci la spiaggia: sveglia tardi, asciugamani, costumi e… Tutti al mare, a gozàr un inaspettato giorno di relax fuori-programma! La spiaggia era bella, molto “Rimini” ma più pulita e meno affollata. Il mare era STRANISSIMO: il fondale sembrava ricoperto di moquette, ma in realtà era la sabbia levigata che provocava quest effetto. Nel pomeriggio è tornato a farci visita Panos, l’amico di papà, che ci ha portati al tempio Capo Sounio, “vicino”, secondo lui (in realtà si trova a più di un’ora di macchina). Dedicato al Dio Apollo, sorge in posizione isolata, presso un promontorio che si allunga verso le isole Cicladi. L’atmosfera è incantata: se volete concludere in maniera spettacolare un viaggio altrettanto spettacolare, andate a visitarlo al tramonto: le sue bianche colonne che si stagliano contro il mare e il cielo, soltanto mare e cielo, ed un frammento di Storia approdato in quel luogo per caso, creano contrasti e suggestioni meravigliose. Il mare e il cielo, ecco i sgreti della Grecia! Panos ha parcheggiato la macchina, il baule è colmo di macchine fotografiche d’importazione russa, pagate una cicca, che non userà mai, nemmeno per immortalare il bellissimo sito archeologico verso cui stiamo camminando. Tanto lui è figlio di questa terra: cicerone di amici e turisti in visita al “suo” patrimonio. Ricordi- Che sensazione vedere Panos “il greco” e il papà che additano l’orizzonte, e forse invocano anche loro, qui, come vecchi Ulisse misteriosamente e inconsapevolmente sbarcati ad Itaca, il loro passato. Ricordi andiamo al baretto, qui si chiacchiera, i succhi di frutta sono ottimi, peccato i turisti e le cartoline dappertutto. Non voglio perdermi le colonne bianche, così tetre e nere quando riflesse in controluce, ricamate in un acquerello di rosa e di oro. Si sente la Storia a fior di pelle. Ricordi- torniamo alla macchina, faccio una foto, mentre gli altri avanzano disinteressati e parlano degli antichi pregi del politeismo: loro qui sono già passati, io ci dovrò passare prima o poi. Ricordi- la mamma, anche Panos, infine tutti guardiamo il mare e il cielo, come se fosse l’ultima volta. Che lavoro fa Panos? Boh, non l’ho capito, forse aiuta la moglie, ma in pratica non fa quasi niente tutto il giorno. La prende tranquilla, non è come noi, non ha i nostri ritmi. Noi siamo la burrasca, lui è la bonaccia. Ci accomuna l’aria azzurra. Ci accomuna l’umore del mare –oggi calmo, domani, chissà?- Siamo tutti uguali sotto questo aspetto. Siamo noi cielo e mare. La Grecia è soltanto un palcoscenico di ricordi.

Adriano H. Habed@inwind.It



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche