Pechino… val bene una messa di oh no! ancora 2° pt

18 AGOSTO Il volo aereo è davvero sorprendente. Chissà perché, ma immaginavamo gli aerei delle linee interne cinesi come delle vecchie carrette tenute assieme con il fil di ferro, invece non solo sono nuovissimi, ma anche molto confortevoli. A dispetto della statura media dei suoi passeggeri, i sedili sono decisamente più larghi rispetto ai...
Scritto da: Luciano M.
pechino… val bene una messa di oh no! ancora 2° pt
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18 AGOSTO Il volo aereo è davvero sorprendente. Chissà perché, ma immaginavamo gli aerei delle linee interne cinesi come delle vecchie carrette tenute assieme con il fil di ferro, invece non solo sono nuovissimi, ma anche molto confortevoli. A dispetto della statura media dei suoi passeggeri, i sedili sono decisamente più larghi rispetto ai normali standard occidentali. L’unico neo, che purtroppo rispecchia un vizio che riscontreremo dappertutto, è l’aria condizionata a regimi pazzeschi.

Pensavo che gli americani, in questo particolare settore, fossero campioni indiscussi, ma, come al solito, i cinesi riescono a fare di meglio. Sembra assurdo, ma nonostante il caldo sia intenso (ed in alcuni momenti quasi insopportabile), siamo costretti a girare con un maglioncino nello zainetto, perché entrare sudati in un qualsiasi luogo chiuso vuol dire sfidare la sorte.

E’ probabile che anche un esquimese avrebbe i suoi seri problemi con le gelide temperature prodotte dai condizionatori cinesi. Ed infatti, io, che esquimese non sono, mi ammalo. Per fortuna Stefano, da buon medico previdente, viaggia con una specie di farmacia ambulante, così riesco a tenere sotto controllo il mio stato influenzale.

L’arrivo all’aeroporto di Shanghai ci riserva una nuova gradita sorpresa. Franca e Andrea, accompagnati da Chang, il fido autista, ci sono venuti a prendere. Cominciamo a sentirci un po’ viziati. L’utilizzo dell’autista, per gli occidentali che lavorano in Cina, non è una reminiscenza coloniale, ma una pura necessità, in quanto non avendo qui la patente europea alcun valore, è questo l’unico sistema per potersi spostare sulle lunghe distanze del posto. Per la verità Andrea, dovendo soggiornare per un lungo periodo, aveva fatto un pensierino a prendere la patente cinese, ma dopo aver constatato il sistema di guida locale, ha deciso che un autista (soprattutto se pagato dall’azienda) era una soluzione più che accettabile.

Franca ci informa che abbiamo scampato un uragano per un paio di giorni ed in effetti il cielo non promette niente di buono.

La strada dall’aeroporto di Shanghai a Suzhou è nuova e ben tenuta (lo spartitraffico sembra un giardino, su cui lavorano incessantemente decine e decine di operai e giardinieri), e costeggia un susseguirsi senza fine di fabbriche, capannoni e sedi di grandi industrie, neanche a dirlo, tutte occidentali. E’ uno spettacolo che davvero non ci aspettavamo, ma ormai stiamo cominciando ad intuire cosa stia succedendo di questi tempi in Cina. Andrea, infatti, conferma le nostre supposizioni. Lui lavora come responsabile di cantiere per conto di una industria italiana che sta costruendo una fabbrica nel neonato polo industriale alle porte di Suzhou, quindi, ha, come dire, il “polso della situazione”. “Se non stiamo attenti, tra poco questi ci mangeranno in testa” è il suo poco ortodosso, ma estremamente chiaro commento.

“Non potete avere idea di che ritmi di lavoro si seguono da queste parti. C’è cosi tanta gente da impiegare, che si fanno i turni per 24 ore al giorno, sette giorni la settimana. Qui la domenica non sanno neanche cosa sia” “L’unica difficoltà è ottenere i permessi, c’è una burocrazia da far impallidire un morto – continua con le sue colorite metafore – Una volta sistemato tutto, però, vanno come i treni. Basta dargli da mangiare e da dormire …” “Come da dormire?” interviene Daniela sorpresa.

“Certo. La macchina ce l’hanno solo i boss, e con i turni che fanno, gli operai non si possono permettere di andare avanti ed indietro con la bicicletta per decine di chilometri al giorno. Molti vengono anche dai paesi qui attorno. Così abbiamo costruito un prefabbricato con dei letti a castello” “E loro vivono sempre nel cantiere?” “Certo. Se vuoi lavorare è così. Qui non ci sono sindacati. E poi, ti assicuro che molti stanno meglio che a casa loro” “Per svagarli un poco, organizziamo molte attività ricreative. Per esempio, qui vanno pazzi per il calcio, così gli ho organizzato un torneo aziendale. Tra tecnici, operai, contabili e noi italiani, abbiamo messo assieme diverse squadre. Ho fatto venire dall’Italia delle tenute da gioco complete e giochiamo ogni settimana. Ti assicuro che sono impazziti. Ogni partita abbiamo più pubblico di una squadra di serie C!” Affascinati dai racconti di Andrea, trascorriamo le due ore del tragitto senza neanche accorgercene, ed arriviamo a casa che è già sera.

Il primo impatto con quella che sarà la nostra residenza per i prossimi quattro giorni, mi lascia un po’ interdetto. Sono sincero, non è proprio come me l’aspettavo. Nelle mia mente ingenua mi ero fatto l’immagine di una bella villetta stile cinese con un grazioso giardino attorno, ma la realtà delle cose è leggermente diversa. Arriviamo, infatti, in un agglomerato di palazzoni ultramoderni che al pian terreno ospitano esclusivamente ristoranti, bar e locali vari. Veniamo subito a sapere che si tratta di un vero e proprio quartiere sorto, negli ultimi due o tre anni, appositamente per ospitare uffici ed abitazioni di tutti gli occidentali che lavorano da queste parti.

Per accedere al nostro palazzo dobbiamo superare un cancello dove un cinese in uniforme, al nostro passaggio, ci accoglie con un saluto militare ed un largo sorriso.

La casa è davvero bella. Grande e dotata di ogni comfort. Compresa una TV satellitare che prendo subito d’assalto per vedere qualche immagine delle Olimpiadi in corso. Ma non c’è tregua. E’ ora di cena e Andrea ha prenotato un tavolo in uno delle decine di ristoranti che affollano il quartiere. Conoscendo la sua avversione per la cucina cinese, temiamo per la sua scelta. Infatti, nel giro di pochi minuti ci troviamo seduti attorno ad un tavolo di … un ristorante italiano.

L’ambiente tende al raffinato e la clientela è piuttosto standardizzata: uomo occidentale, per lo più di mezza età, accompagnato da giovin donzella cinese (a volte anche più di una) in ghingheri. Mangiamo filetto e beviamo perfino una bottiglia di Chianti. Poi, ci ritiriamo strategicamente a letto.

Oggi, il (nostro) programma prevede la visita al Tempio del Cielo. Anche qui, più che di un tempio isolato, si tratta in realtà di un complesso molto vasto comprendente più templi immersi in un gigantesco parco. A parte le strutture architettoniche, interessanti per i loro significati simbolici, ma dall’estetica piuttosto standardizzata, il vero motivo di interesse del sito lo troviamo nella gran quantità di persone che affolla il parco, ognuna intenta a praticare una attività fisica o ricreativa differente, ma sempre di grande fascino od originalità. Tanto per capirci, il primo che incontriamo è un signore in mutande e canottiera che muove il bacino come se stesse facendo roteare un “hula-hop” virtuale, al fianco del quale un gruppo di signore attempate si esibisce in un articolato coro polifonico, quindi abbiamo alcuni anziani che eseguono all’unisono, come legati da una corda invisibile, i lenti ed ipnotici movimenti del “Tai-Chi”. È tutto un susseguirsi di strane attività, alcune affascinanti, come quella di due giovani signore che, con in mano una specie di racchettone da mare colorato, invece di colpire la pallina, se la passano lentamente ammortizzandola con gesti plateali, altre veramente incomprensibili, come quella di un gruppo consistente di persone che, seguendo gli ordini perentori impartiti da un registratore portatile, con grande serietà e concentrazione si tirano ritmicamente le orecchie! Stefano, nella vita medico, guarda incuriosito, forse pensando di inserire questa terapia tra quelle da lui abitualmente praticate.

E poi ancora, suonatori di Pipa, uno strano strumento a corda suonato come un violoncello; giocatori di Go accucciati attorno alle loro scacchiere; persino due signore, una vecchia ed una giovane, che intonano arie di operetta accompagnate dall’immancabile registratore.

Siamo così rapiti che dopo un’ora che siamo lì, non abbiamo ancora iniziato la visita dei templi.

All’uscita incontriamo l’ennesimo strano personaggio: un vecchio il quale gira con un pennellone gigante che, intinto continuamente in un secchio d’acqua, usa per scrivere a terra degli eleganti idiogrammi cinesi. Dopo tanto assistere, non resisto, chiedo al signore di provare e, sotto il suo sguardo divertito, mi lancio nella composizione di una frase in italiano che sigillo con un mio autografo. E’ ormai giunto il momento di abbandonare momentaneamente Pechino (ci torneremo alla fine del viaggio) per dirigerci verso Shanghai, e di qui a Suzhou, a casa di Andrea.

Il volo aereo è davvero sorprendente. Chissà perché, ma immaginavamo gli aerei delle linee interne cinesi come delle vecchie carrette tenute assieme con il fil di ferro, invece non solo sono nuovissimi, ma anche molto confortevoli. A dispetto della statura media dei suoi passeggeri, i sedili sono decisamente più larghi rispetto ai normali standard occidentali. L’unico neo, che purtroppo rispecchia un vizio che riscontreremo dappertutto, è l’aria condizionata a regimi pazzeschi.

Pensavo che gli americani, in questo particolare settore, fossero campioni indiscussi, ma, come al solito, i cinesi riescono a fare di meglio. Sembra assurdo, ma nonostante il caldo sia intenso (ed in alcuni momenti quasi insopportabile), siamo costretti a girare con un maglioncino nello zainetto, perché entrare sudati in un qualsiasi luogo chiuso vuol dire sfidare la sorte.

E’ probabile che anche un esquimese avrebbe i suoi seri problemi con le gelide temperature prodotte dai condizionatori cinesi. Ed infatti, io, che esquimese non sono, mi ammalo. Per fortuna Stefano, da buon medico previdente, viaggia con una specie di farmacia ambulante, così riesco a tenere sotto controllo il mio stato influenzale.

L’arrivo all’aeroporto di Shanghai ci riserva una nuova gradita sorpresa. Franca e Andrea, accompagnati da Chang, il fido autista, ci sono venuti a prendere. Cominciamo a sentirci un po’ viziati. L’utilizzo dell’autista, per gli occidentali che lavorano in Cina, non è una reminiscenza coloniale, ma una pura necessità, in quanto non avendo qui la patente europea alcun valore, è questo l’unico sistema per potersi spostare sulle lunghe distanze del posto. Per la verità Andrea, dovendo soggiornare per un lungo periodo, aveva fatto un pensierino a prendere la patente cinese, ma dopo aver constatato il sistema di guida locale, ha deciso che un autista (soprattutto se pagato dall’azienda) era una soluzione più che accettabile.

Franca ci informa che abbiamo scampato un uragano per un paio di giorni ed in effetti il cielo non promette niente di buono.

La strada dall’aeroporto di Shanghai a Suzhou è nuova e ben tenuta (lo spartitraffico sembra un giardino, su cui lavorano incessantemente decine e decine di operai e giardinieri), e costeggia un susseguirsi senza fine di fabbriche, capannoni e sedi di grandi industrie, neanche a dirlo, tutte occidentali. E’ uno spettacolo che davvero non ci aspettavamo, ma ormai stiamo cominciando ad intuire cosa stia succedendo di questi tempi in Cina. Andrea, infatti, conferma le nostre supposizioni. Lui lavora come responsabile di cantiere per conto di una industria italiana che sta costruendo una fabbrica nel neonato polo industriale alle porte di Suzhou, quindi, ha, come dire, il “polso della situazione”. “Se non stiamo attenti, tra poco questi ci mangeranno in testa” è il suo poco ortodosso, ma estremamente chiaro commento.

“Non potete avere idea di che ritmi di lavoro si seguono da queste parti. C’è cosi tanta gente da impiegare, che si fanno i turni per 24 ore al giorno, sette giorni la settimana. Qui la domenica non sanno neanche cosa sia” “L’unica difficoltà è ottenere i permessi, c’è una burocrazia da far impallidire un morto – continua con le sue colorite metafore – Una volta sistemato tutto, però, vanno come i treni. Basta dargli da mangiare e da dormire …” “Come da dormire?” interviene Daniela sorpresa.

“Certo. La macchina ce l’hanno solo i boss, e con i turni che fanno, gli operai non si possono permettere di andare avanti ed indietro con la bicicletta per decine di chilometri al giorno. Molti vengono anche dai paesi qui attorno. Così abbiamo costruito un prefabbricato con dei letti a castello” “E loro vivono sempre nel cantiere?” “Certo. Se vuoi lavorare è così. Qui non ci sono sindacati. E poi, ti assicuro che molti stanno meglio che a casa loro” “Per svagarli un poco, organizziamo molte attività ricreative. Per esempio, qui vanno pazzi per il calcio, così gli ho organizzato un torneo aziendale. Tra tecnici, operai, contabili e noi italiani, abbiamo messo assieme diverse squadre. Ho fatto venire dall’Italia delle tenute da gioco complete e giochiamo ogni settimana. Ti assicuro che sono impazziti. Ogni partita abbiamo più pubblico di una squadra di serie C!” Affascinati dai racconti di Andrea, trascorriamo le due ore del tragitto senza neanche accorgercene, ed arriviamo a casa che è già sera.

Il primo impatto con quella che sarà la nostra residenza per i prossimi quattro giorni, mi lascia un po’ interdetto. Sono sincero, non è proprio come me l’aspettavo. Nelle mia mente ingenua mi ero fatto l’immagine di una bella villetta stile cinese con un grazioso giardino attorno, ma la realtà delle cose è leggermente diversa. Arriviamo, infatti, in un agglomerato di palazzoni ultramoderni che al pian terreno ospitano esclusivamente ristoranti, bar e locali vari. Veniamo subito a sapere che si tratta di un vero e proprio quartiere sorto, negli ultimi due o tre anni, appositamente per ospitare uffici ed abitazioni di tutti gli occidentali che lavorano da queste parti.

Per accedere al nostro palazzo dobbiamo superare un cancello dove un cinese in uniforme, al nostro passaggio, ci accoglie con un saluto militare ed un largo sorriso.

La casa è davvero bella. Grande e dotata di ogni comfort. Compresa una TV satellitare che prendo subito d’assalto per vedere qualche immagine delle Olimpiadi in corso. Ma non c’è tregua. E’ ora di cena e Andrea ha prenotato un tavolo in uno delle decine di ristoranti che affollano il quartiere. Conoscendo la sua avversione per la cucina cinese, temiamo per la sua scelta. Infatti, nel giro di pochi minuti ci troviamo seduti attorno ad un tavolo di … un ristorante italiano.

L’ambiente tende al raffinato e la clientela è piuttosto standardizzata: uomo occidentale, per lo più di mezza età, accompagnato da giovin donzella cinese (a volte anche più di una) in ghingheri. Mangiamo filetto e beviamo perfino una bottiglia di Chianti. Poi, ci ritiriamo strategicamente a letto.

19 AGOSTO Questa mattina, il mio raffreddore sta cominciando a dare chiari segni di imminente esplosione, ma il programma è implacabile. Dopo un’abbondante colazione europea, scendiamo in strada, dove troviamo Chang ad attenderci intento a lucidare con grande cura il suo fiammante pullmino Buick. Andrea è al lavoro, così ci ha “prestato” l’autista fino a sera. Dopo l’esperienza con Zhou, pensavamo che qualsiasi altro rapporto con la popolazione locale sarebbe stato “rose e fiori”, ma Chang ci smentisce immediatamente. Non solo non conosce una parola di inglese, ma è così riservato che non prova nemmeno a comunicare. Si limita a fare dei cenni col capo quando ha capito le nostre richieste, ma il suo viso non lascia mai trasparire alcuna espressione. Dopo il primo giorno lo ribattezziamo Bernardo, come il servo sordomuto di Zorro.

La nostra meta odierna è Hangzou. La gita non parte con i migliori auspici. La strada che ci accingiamo a percorrere, infatti, è oggetto di alacri lavori di sistemazione ed il traffico è paralizzato. Quando finalmente riusciamo a raggiungere la zona del cantiere capiamo il perché del caos. La strada, in realtà non la stanno sistemando, come pensavamo, la stanno proprio costruendo davanti a noi. E’ incredibile. Attraversiamo il cantiere e ci ritroviamo su un percorso quasi sterrato, pieno di buche ed avvallamenti che mettono a dura prova il nostro mezzo.

Tra sobbalzi vari, ci ritroviamo all’improvviso di fronte ad una vera e propria voragine che, dopo una breve esitazione, decidiamo di affrontare di petto. Lo schianto che produciamo attraversandola non è per nulla incoraggiante e persino l’imperturbabile Chang, per la prima volta, si lascia sfuggire una appena percettibile smorfia di disappunto.

Per fortuna il mezzo non riporta danni e riusciamo ad arrivare a destinazione senza ulteriori intoppi, anche se con grande ritardo sulla tabella di marcia.

La maggiore attrattiva di Hangzou è il grande lago Xihu, attorniato da giardini e templi vari, sul quale sono adagiate diverse graziose isolette.

Visitiamo un paio di bei giardini, quindi ci imbarchiamo per un giro delle principali isole. E’ una bella giornata e fa un discreto caldo. La nostra piccola crociera è allietata da un altoparlante, sistemato dentro l’imbarcazione, che vomita miliardi di parole al minuto, al punto che, quando riusciamo a sbarcare, siamo completamente rintronati.

Giusto il tempo di sgranocchiare qualche strano intruglio in una delle tante bancarelle, e dobbiamo già ripartire. Chang deve andare a riprendere Andrea alle sei ed abbiamo il tempo di fare solo un’altra sosta a Zhouzhuang, una antica cittadina ancora intatta. La giornata, nata male, però, finisce peggio e Chang sbaglia strada saltando clamorosamente l’uscita per Zhouzhuang. Pazienza, ci rifaremo domani.

Data la discreta lontananza del nostro quartiere da qualsiasi altro luogo più o meno civile, siamo costretti a passare anche la nostra seconda sera cenando praticamente sotto casa. Stavolta però ci buttiamo dentro un bel ristorante giapponese dove mangiamo divinamente, per appena sette euro a testa, in Italia sarebbe stata necessaria l’accensione di un mutuo.

20 AGOSTO La giornata odierna sarà interamente dedicata alla visita di Suzhou, Nel frattempo il mio raffreddore è al culmine ed il caldo, oggi quasi asfissiante, non aiuta certo la mia respirazione.

Suzhou è una città sicuramente più graziosa, raffrontata a realtà quali Pechino, ma non rispecchia ancora l’idea che me ne ero fatto leggendo le guide. Purtroppo, constatiamo che qui in Cina non esistono città “di provincia” come le intendiamo noi. Anche località, indicate come centri minori, contano pur sempre milioni di abitanti e lo sviluppo edilizio ha necessariamente soffocato quanto di caratteristico era rimasto. Vista in quest’ottica Suzhou, appare sicuramente più attraente e si apprezza lo sforzo fatto per preservare quantomeno una certa atmosfera originaria. L’edilizia è meno invasiva e sembra ci sia maggior cura per la conservazione dei vecchi quartieri.

Ci facciamo lasciare da Chang in pieno centro cittadino, ma capiamo subito di aver commesso un errore. Le distanze, che sulla piccola cartina appaiono facilmente percorribili a piedi, sono in realtà molto più lunghe e non è facile camminare con il caldo che fa.

Optiamo quindi per un taxi, anzi due (alla faccia della miseria). E’ curioso, vista la scarsa criminalità presente, come i taxisti cinesi si proteggano con uno strano gabbiotto di tubi e plexiglas che li isola dal resto dell’abitacolo. Un’altra curiosità è che indossano tutti degli eleganti guanti bianchi. E’ in effetti una contraddizione, ma sembra quasi che i cinesi, nonostante la loro propensione per i rapporti interpersonali, abbiano una specie di idiosincrasia per il contatto fisico in genere.

Arriviamo a destinazione come sempre assiderati (è inutile dire che anche le automobili hanno l’aria condizionata a palla), una mano santa per il mio raffreddore.

Dovremmo essere nei pressi del “Giardino del Maestro delle Reti”, ma non ne vediamo l’ingresso. Una piccola freccia ci indirizza verso l’interno di un “hutong”, nel mezzo del quale si trova l’anonimo ingresso a quello che risulterà essere uno dei luoghi più ameni che ci capiterà di vedere a Suzhou.

Il giardino non è grandissimo, ma con abili costruzioni sceniche, dà l’impressione di essere molto più vasto. Regna sovrana una pace impensabile appena fuori le sue mura e, nonostante i molti visitatori, si viene immediatamente presi da un senso di benessere e rilassatezza. Rinfrancati dalla visita, ci rituffiamo all’esterno dove, attraversate le immancabili “forche Caudine” dei venditori di paccottiglia che ti assalgono da ogni dove, subiamo la seconda ondata d’assalto da parte dei guidatori di “risciò”. La nostra seconda meta è il “Giardino dell’Umile Amministratore” che, a dispetto della solita illusione ottica della cartina, è piuttosto distante. Quindi, ci facciamo convincere ad usufruire, per lo spostamento, di questo folkloristico mezzo.

Devo dire che durante il tragitto non mi sento perfettamente a mio agio nel vedere il poveraccio che mi trasporta, arrancare sudato in piedi sui pedali, ma, come spesso accade qui in Cina, il senso di pietà viene subito meno quando al termine della corsa veniamo “gentilmente” convinti a subire un inopinato aumento sul prezzo pattuito, ad opera di un gruppo di compari che ci attendevano all’arrivo. Il “Giardino dell’Umile Amministratore” è molto più vasto del primo e, anche se ugualmente bello, è meno poetico. Certo che l’Amministratore (che tanto umile non doveva essere) si era piazzato proprio bene.

Il caldo è mitigato dalla folta vegetazione, ma prima di uscire, ci concediamo una pausa in un baretto per bere qualcosa. Annesso al locale c’è un negozio di articoli un po’ più raffinati di quelli soliti, quindi ci fermiamo a guardare. Dopo aver passato in rassegna ventagli e dipinti vari, la mia attenzione si rivolge ad alcuni CD di musiche tradizionali. Decido di aggiungerne uno alla mia collezione e, con una lunga contrattazione, riesco a spuntare un prezzo che all’inizio ritenevo impossibile. Sono soddisfattissimo del successo, quando Daniela mi raggiunge con in mano un CD simile al mio, che ha pagato la stessa cifra. C’è solo un piccolo particolare: è doppio. Mi cascano le braccia, così, da questo momento, decido di cambiare tattica. Il prossimo acquisto vedrà un Luciano molto più battagliero.

E’ ora di pranzo e, nella nostra tappa di avvicinamento al centro commerciale della città, facciamo una sosta alle “Pagode gemelle”, due alte pagode, piuttosto malridotte, immerse in un giardino, anch’esso memore di tempi migliori.

“Hanno un che di decadente” afferma Daniela dopo una attenta osservazione.

“A me sembrano più cadenti, che decadenti” è la risposta di Stefano.

Il tempo di fare una passeggiata lungo i canali che hanno fatto di Suzhou una delle centinaia di “Venezia del …” sparse per il mondo, e ci tuffiamo alla ricerca di un localino dove mettere qualcosa sotto i denti.

La nostra scelta cade su un bel ristorante che annovera tra le sue specialità i gamberi di fiume. Per fortuna, la carenza linguistica dei camerieri viene sopperita da belle fotografie dei piatti stampate sul menù, così non abbiamo difficoltà ad identificare i gamberi, i quali ci vengono serviti, dentro un pentolone, immersi in una salsina piccantissima. Per impedirci di ungerci fino ai gomiti con la salsa, veniamo forniti di guanti di plastica, del tipo monouso, e la pesca ha inizio.

I gamberi, per inciso, sono buonissimi, e la mitica Tsigtao gelata (la birra più diffusa in Cina) scorre a fiumi.

Andrea, la sera precedente, aveva “velatamente” espresso il desiderio di mangiare un buon pasto italiano fatto in casa, così decidiamo di ringraziare il nostro ospite dedicandogli una serata gastronomica. Dobbiamo “solo” risolvere il problema di trovare ingredienti italiani, o simil tali. Su Chang non possiamo contare e stiamo già disperando, quando la fortuna ci viene incontro. Appena fuori Suzhou incontriamo un gigantesco Auchan che, come un’astronave sbarcata sulla terra appositamente per noi, ci invita ad entrare.

L’esperienza ha un ché di surreale. Proprio in Cina tastiamo con mano l’effetto più eclatante della globalizzazione. Infatti, appena entrati abbiamo la netta sensazione di essere in un posto familiare, poi, man mano che ci addentriamo, ci rendiamo conto che è tutto identico ad un Auchan di casa nostra. Perfino la disposizione delle merci è la stessa, cosicché riusciamo subito ad orientarci senza neanche dover chiedere informazioni. Chiaramente, ho detto che la disposizione delle merci è la stessa, ma per quanto riguarda le merci in sé, il discorso cambia un pochino. Per rimanere fedeli alla precedente similitudine con un’astronave, quanto esposto sui banchi del supermercato sembra veramente provenire da un altro mondo. Per rintracciare degli articoli di nostra conoscenza, dobbiamo attraversare chilometri di banconi pieni di insalate con strani tentacoli, di frutta corazzata, di buste piene di misteriosi animali secchi. Per non parlare del banco di vendita del pesce, dove il bestiario esposto, tutto rigorosamente vivo, comprende anche rane e tartarughe marine. Pare incredibile, essendo in un Auchan, ma la difficoltà maggiore la troviamo nella ricerca del formaggio. Sembra che i cinesi non abbiano latte o, nella migliore delle ipotesi, non sappiano lavorarlo, perché dopo attente ricerche, l’unica cosa somigliante a del formaggio che riusciamo a reperire è una bustina di parmigiano grattugiato, che paghiamo quanto il resto della spesa messo assieme. Al rientro a “casa”, un curioso episodio ci consente di approfondire il quadro psicologico della popolazione cinese. Il ragazzino in divisa, lo stesso di ieri, al nostro arrivo davanti al cancello di ingresso, ci chiede, con il solito largo sorriso, il tesserino di riconoscimento. Franca, che non ritenendolo indispensabile, lo ha lasciato a Andrea, cerca di spiegare, anche con l’aiuto di Chang, che siamo le stesse persone che entrano ed escono dal palazzo ormai da svariati giorni e che lui, quindi, conosce perfettamente. Ma è tutto inutile. Il tizio, con grande gentilezza, ma eguale fermezza, non ha alcuna intenzione di farci passare se non gli mostriamo il tesserino. La scena è tragicomica e ci ricorda in modo sorprendente quella famosissima di “un Fiorino …” nel film “Non ci resta che piangere” di Troisi e Benigni.

La cena, nonostante tutto è apprezzata e, ci concediamo un po’ di relax con una buona bottiglia di grappa cinese davanti al televisore che trasmette in diretta una finale di tiro con l’arco dove si scontrano un italiano ed un coreano. E’ un evento inusuale, dato che la TV cinese non sembra essere molto interessata agli atleti di altre nazionalità. A dire il vero non sembra avere un grande interesse neanche per le gare in genere, visto che le uniche cose che trasmettono in continuazione sono le premiazioni dei moltissimi atleti locali, con immancabile e lunghissimo inno nazionale implacabilmente proposto in tutta la sua durata.

In merito alla TV cinese c’è da dire che sembra rispettare fedelmente le contraddizioni del paese. La metà dei moltissimi canali, infatti, trasmette sceneggiati in costume sulla vita di grandi rivoluzionari (Deng Xiaoping, Zhou Enlai ecc.) e concerti di bande militari. Ma, tolti questi inevitabili rimandi totalitaristici, ci sono molti altri canali dedicati ai giovani, che trasmettono spettacoli musicali con i divi locali assaliti da ragazzine scatenate, sfilate di moda ed un mare di pubblicità in tutto e per tutto simili alle nostre. Ci avevano detto che i canali stranieri erano oscurati, ed in effetti c’è un solo canale in inglese, ma è gestito dalla televisione cinese.

21 AGOSTO La mattina successiva il gruppo si ricompatta. E’ il giorno di riposo di Andrea ed anche lui ci accompagna alla scoperta di Shanghai. Il bollettino medico vede il mio raffreddore al culmine ed è una giornata così umida che faccio fatica a respirare.

L’arrivo a Shanghai è, se possibile, ancora più scioccante di quello a Pechino. Sembra di essere piombati sul set di “Metropolis” di Friz Lang. Nel mio curriculum di viaggiatore non mancano certo le grandi città, ma qualcosa di simile non l’avevo mai vista. Sempre guidati dal fido Chang “Bernardo” ci addentriamo nella metropoli attraverso strade sopraelevate che si incuneano tra selve di grattacieli di ogni tipo. Centinaia e centinaia di grattacieli. La cappa di umidità che sovrasta la città, poi, la rende ancora più inquietante.

La prima tappa la facciamo da un sarto il quale sta realizzando alcuni vestiti a Andrea. “E’ incredibile. Basta che gli porti un tuo vestito e, nel giro di un paio di giorni, te lo rifà identico. E con stoffe di grande qualità. Visto che costano la metà che in Italia, gliene ho commissionati tre” ci spiega.

A questo riguardo Franca ci racconta un divertente aneddoto. La grande industria presso cui lavora in qualità di architetto, aveva deciso di commissionare ad una azienda cinese la realizzazione di un ingente numero di espositori per i prezzi, da sistemare nei negozi affiliati. Studiato il prototipo, ne avevano mandati due campioni come modello ad una ditta in Cina che avrebbe dovuto realizzarli. Durante la spedizione, però, uno dei due campioni si era piegato.

“Non ci crederete, ma ci sono arrivati cinquemila pezzi giusti e cinquemila piegati esattamente come quello che si era rovinato. Avevano riprodotto fedelmente perfino l’angolo di curvatura!” Espletata la formalità del sarto, ci avviamo verso una visita più approfondita della città. Una volta scesi dalla macchina, l’impressione che se ne ricava è decisamente migliore. Il paragone con Pechino, la grande capitale, viene spontaneo. Mentre Shanghai sembra concepita e nata come una grande metropoli moderna, Pechino appare più come una “metropoli per caso”, costretta dagli eventi a darsi un volto che in realtà non le appartiene.

Shanghai, inoltre, forse perché abituata da sempre ai contatti con l’esterno, non vuole imitare l’occidente, come fa un po’ goffamente Pechino, ma è occidente in tutto e per tutto. Lo vedi dovunque, perfino nella gente che gira per strada. Meglio vestita, meno chiassosa, apparentemente più benestante. Insomma, meno cinese. Non so se questo è un bene o un male, ma una realtà che balza agli occhi con una certa evidenza.

A questo proposito, un sintomo evidente del maggiore benessere della popolazione di Shanghai è la straordinaria concentrazione di telefoni cellulari presente. E’ un fenomeno che avevamo già notato a Pechino, ma qui assume proporzioni inimmaginabili. Non si incontra una persona per strada che non abbia un telefonino all’orecchio. Eppure, i prezzi che abbiamo visto nei negozi, non si discostano di molto da quelli nostrani.

La meta finale di questa mattina è il mitico Bund, il lungofiume della città che conserva le memorie storiche della Shanghai coloniale, ma la marcia di avvicinamento si fa difficoltosa. Dopo la tappa del sarto, infatti, Franca si ricorda di avere visitato qualche giorno prima un mercatino proprio nei paraggi. Vogliamo perderci il mercatino? Non sia mai detto. Così penetriamo in un vicoletto laterale, dove su entrambi i lati ci sono bancarelle con la solita messe di merce contraffatta. Il vicolo è corto, ma si dirama in una tal quantità di traverse e cunicoli, che dopo poco, complici anche il caldo e la calca, abbiamo completamente perso l’orientamento. “Watch? Bag? DVD?” è la litania continua a cui si viene sottoposti da praticamente ogni persona che si incontra lungo la via (e sono centinaia). Ma non c’è mai fine al peggio, infatti, al termine del percorso, sfociamo in un grande capannone dove il mercato continua al chiuso. Il caldo, già notevole all’esterno, qui diventa infernale. C’è una tale umidità che i miei vestiti sono praticamente da strizzare. Come se non bastasse, il raffreddore mi impedisce di respirare e mi sento quasi svenire. Non vedo l’ora di uscire da quel girone dantesco, ma purtroppo le mie compagne di viaggio non sembrano patire le mie stesse pene, perché si sono rinchiuse in un gabbiotto dove contrattano a spron battuto per l’acquisto di borse e camicette di seta.

Visto che le cose sembrano andare per le lunghe, mi metto a guardare distrattamente la merce esposta nel box di fronte. Gravissimo errore. Vengo immediatamente circondato dai venditori che mi tirano da tutte le parti. Uno soprattutto è particolarmente insistente e continua a chiedermi se voglio orologi. Non ho la forza per sottrarmi, così acconsento alla visione della mercanzia. Gli orologi che vuole farmi vedere, però, non sono, come pensavo, quelle poche patacche che ha esposte sul bancone. Con fare molto circospetto mi indica di seguirlo sul retro dove, sotto una catasta di merci varie, c’è una cassapanca di legno che, una volta aperta, mi toglie il fiato residuo. Ci sono centinaia di orologi di grandi marche, letteralmente perfetti. Mi metto ad ammirarli stupefatto, mentre il tizio mi porge una specie di catalogo fotografico dal quale capisco vuole che scelga il modello che preferisco. La tentazione è forte, e infatti cedo quasi subito. “Visto che la devi fare, almeno falla bene” diceva mia nonna, così punto ad un fantastico Rolex da svariate decine di migliaia di Euro e, con una contrattazione che stupisce anche me, riesco a spuntarla per 80 yuan (circa 8 euro). Dati al cinesino 100 yuan, lui fa finta di non avere spiccioli, così accetto come resto una penna Mont Blanc (tanto per gradire), anch’essa perfetta. E qui accade un fatto strano. Sto per prendere il mio orologio, quando dal fondo del capannone comincia ad arrivare un gran trambusto. Come una fila di pedine del domino che cadono a catena, i box si chiudono uno dopo l’altro, interrompendo qualsiasi tipo di contrattazione. Pur colto di sorpresa, faccio appena in tempo a prendere al volo l’orologio prima che venga chiuso irrimediabilmente al di là della serranda. Superato lo sbigottimento iniziale, non ci vuole molto per comprendere l’accaduto. Dopo qualche secondo, infatti, un gruppo di poliziotti, con alcune valigette sottobraccio, ci passa davanti trascinando quasi di peso un poveraccio. Si è trattato di una “retata” nei confronti di venditori di merce contraffatta. Certo, a noi la cosa appare ridicola, in quanto tutto qui è chiaramente contraffatto, ma probabilmente queste dimostrazioni di forza servono per tenere sulla corda i commercianti e per mostrare una certa efficienza ai visitatori stranieri.

Comunque, una volta usciti i poliziotti, i box riaprono all’unisono e tutto ricomincia come prima.

Per fortuna l’evento sembra aver sbloccato la contrattazione delle nostre “gentili signore” e riusciamo a riprendere il giro, infilandoci nella città vecchia cinese. Ultimo baluardo di antico all’avanzare imperante della metropoli, nel dedalo di vicoli che caratterizzano questo quartiere, si può ritrovare (non so ancora per quanto) un po’ della Cina tradizionale. Bisogna dire che anche qui, tra le case fatiscenti di alcuni vicoli, si sta facendo strada una smania di ristrutturazione che, se da un lato sta portando migliorie dal punto di vista igienico-sanitario, dall’altro lascia una sgradevole sensazione di artificioso. Guardandosi attorno, però, è ormai chiaro che le grandi città cinesi, nel loro futuro prossimo, non contempleranno spazi per strutture urbane tradizionali, se non per minuscoli aree ridotte a luna park per turisti.

D’altronde, ci dice Andrea, gli abitanti di questi quartieri, soprattutto i giovani, non vedono l’ora di andarsene, preferendo di gran lunga vivere in casermoni di periferia, ma dotati di moderni comfort.

Dopo aver visitato lo splendido Giardino Yu, inaspettata oasi di pace nel clamore della città, ed aver gustato degli ottimi spaghetti con carne e verdure in un chiosco sulla strada, siamo finalmente pronti per dirigerci verso il Bund.

L’impatto con il lungofiume è davvero esaltante. Con le eleganti architetture di inizio secolo e gli avveniristici grattacieli di Pudong che si fronteggiano, quasi a sfidarsi, dalle due sponde del fiume.

Per quanto mi riguarda, nonostante le obiezioni dei molti architetti presenti, decreto la vittoria ai punti per le “vecchie signore” del Bund.

Forse per proteggerla dal caos del traffico, la passeggiata sul lungofiume è stata rialzata rispetto al piano stradale, il che impedisce la vista del fiume a chi passeggia tra i palazzi antichi. Ed è un vero peccato, perché lo Huangpu è davvero affascinante, con l’incredibile traffico di imbarcazioni che l’attraversa incessantemente. Navi, barche ed una grande quantità di chiatte vanno su e giù trasportando merci di ogni tipo dentro e fuori la città. E’ uno spettacolo d’altri tempi, al quale non siamo più abituati.

Per godere ancora un po’ dell’atmosfera retrò del posto, entriamo nel mitico Cathay Hotel (oggi ribattezzato Peace Hotel), dove gli eleganti interni “Art Decò” erano animati da finanzieri, gran dame ed avventurieri che accumulavano e disfacevano fortune a ritmi vertiginosi. Nelle sue stanze, una diversa dall’altra, hanno alloggiato Charlie Chaplin e Bernard Shaw ed ancora oggi non sorprenderebbe di vedere scendere dalla grande scalinata distinti signori in smoking o eleganti dame in lungo. Per nulla rispettoso dalla sacralità del luogo, il nostro gruppo di pellegrini italiani, opta per una più prosaica, ma davvero indispensabile, visita ai bagni.

Pronti per nuove avventure, vogliamo andare a visitare il quartiere di Pudong e, siccome siamo ormai viziati, abbandoniamo subito l’idea di passare il fiume attraverso il lungo tunnel pedonale, preferendo un più comodo passaggio in auto guidati dal fido Chang.

La nostra meta è l’immenso grattacielo Jin Mao, una delle tre torri più alte del mondo. Vogliamo vedere il panorama di Shanghai dall’alto, ma l’unica cosa che riusciamo ad intravedere nella densa cappa di umidità è l’Oriental Pearl Tower, l’avveniristica torre della TV cinese, proprio di fronte a noi. Ci consoliamo con una proiezione del panorama a visibilità normale e con una impressionante visione del pozzo interno della torre, che scende a strapiombo fino al 53° piano e su cui si affacciano le camere dell’Hotel Hyatt, il più alto del mondo.

Il testimonial del grattacielo, riproposto in ogni dove con foto, filmati e sagome di cartone a grandezza naturale, è il gigantesco Yao Ming, il primo cestista cinese ad essere divenuto una stella dell’NBA. Un vero mito in Cina.

Ridiscesi con i piedi per terra, siamo pronti per nuove avventure … gastronomiche. Infatti, si è fatta quasi ora di cena (ora cinese, ovviamente. Sono solo le sei e mezzo) e cominciamo a consultare le nostre preziose guide per cercare di orientarci nello sterminato panorama dei ristoranti di Shanghai.

Stavolta vogliamo convincere Chang, sempre molto discreto, a cenare con noi. Si tratterebbe di un compito improbo, se non fosse per l’intervento di Andrea che, mettendo in campo la sua autorità di capo, obbliga il nostro amico ad accettare l’invito.

Il ristorante che scegliamo è situato in una villa coloniale, le cui stanze, arredate con mobilio originale, sono state tramutate in salette da pranzo indipendenti. Certo, il locale avrebbe bisogno di una bella rinfrescata, ma il tutto è molto suggestivo. Data la consistenza del nostro gruppo, ci viene riservata una intera stanzetta ed in questo ambiente coloniale, con aggiunta di servitù cinese, ci sentiamo quasi trasportati nel diciannovesimo secolo.

Le ordinazioni, rese come al solito difficoltose dal menù formato enciclopedia, non sono di certo facilitate da una cameriera che con un vocabolario di circa venti parole in inglese, cerca di far fronte alla spaventosa mole di richiesta di informazioni. L’andamento della conversazione è pressappoco il seguente: Domanda: “Scusi, cos’è il Gali Jirou?” Risposta: “Pollo” Domanda: “E il Songshu Guiyu cosa sarebbe?” Risposta: “Pesce” E così via.

Per una decina di minuti il caos regna sovrano. C’è anche chi cerca di spiare con discrezione le ordinazioni di Chang, confidando sulla sua maggiore conoscenza dell’argomento. Poi, all’improvviso, come per miracolo tutte le ordinazioni sono fatte ed ognuno attende con ansia il proprio destino.

Come per aumentare la suspence, i piatti ci vengono serviti coperti, ed ogni “scoperchiamento” viene seguito con grande partecipazione dal gruppo. Applausi di felicitazione e risate di scherno si susseguono fino all’ultima portata.

La cena è nel complesso buona, ma con qualche “perla” che merita di essere immortalata da foto ricordo. Degne di nota sono le mie zampe di pollo ubriache (che in realtà sono le zampette del volatile, con tanto di unghie annesse, immersi in un brodino freddo) ed una non meglio identificata massa informe e gelatinosa di colore marrone che toglie l’appetito solo a guardarla.

Complice anche la birra, la serata prosegue gradevole e rilassata (persino Chang accenna a qualche sorriso di compiacimento), se non fosse per l’eccessiva invadenza dei camerieri che, in gran quantità entrano ed escono dalla sala compiendo tutta una serie di operazioni per lo più inutili, quali riempire di continuo i bicchieri (anche quelli già pieni) e spostare i piatti da una parte all’altra del tavolo, forse per soddisfare il loro senso estetico.

22 AGOSTO Questa mattina dobbiamo tornare a Shanghai per accompagnare Franca che deve ripartire per l’Italia. Noi, per non creare ulteriori fastidi a Andrea, dormiremo in un hotel del centro e partiremo la mattina seguente alla volta di Guilin. Accomiatatici dai nostri gentili ospiti, ci rituffiamo nella città. Il programma giornaliero prevede la visita del museo di Shanghai in piazza del Popolo, quindi l’attraversamento di Nanjing Donglu, la “China’s n. 1 street”, fino al Bund, dove prenderemo un battello per una breve crociera sul fiume.

Malauguratamente, le operazioni di preparazione bagagli di Franca sono più lunghe del previsto, così arriviamo in città che è già quasi ora di pranzo e non abbiamo più il tempo di visitare il museo. Diamo una rapida occhiata all’immensa piazza ed alle sue moderne architetture, che non hanno nulla da invidiare a quelle di Pudong (il Teatro dell’Opera, l’Urban Planning Exhibition Hall e svariati altri grattacieli), e ci immergiamo nella folla di Nanjing Donglu. Purtroppo la cappa di umidità si è infittita, ammantando tutto di un tetro grigio, ed il cielo non promette nulla di buono. A metà strada, infatti, veniamo colti da un acquazzone così violento da rendere del tutto inutili i miseri ombrellini che abbiamo comprato da uno dei tanti ambulanti.

Nostro malgrado, ci vediamo costretti a fare la spola tra i numerosissimi negozi della via e, giusto che ci siamo, ne approfittiamo per fare qualche altro acquisto: delle strane forbici, caratteristiche del posto, dei maglioni di chachemire a prezzi imbarazzanti e, finalmente, delle pellicole diapositive introvabili persino a Pechino.

Arriviamo sul Bund in tempo per prendere il battello che sta partendo per il suo giro sul fiume. Il traffico è impressionante. Paragonabile a quello stradale e, detto fra noi, non ci starebbe male neanche qualche semaforo. Infatti, fa veramente impressione vedersi sfilare da tutte le parti barche e barconi di ogni dimensione che sembra sempre di riuscire ad evitare solo all’ultimo secondo. Nonostante la giornata tetra, il giro ci consente una visione insolita della città e in definitiva stare un po’ al coperto dopo tutta la pioggia presa non ci dispiace. Facciamo rientro in albergo per cambiare i vestiti fradici, quindi ripartiamo in taxi alla volta dello Shanghai Centre Theatre, dove assisteremo ad una esibizione di acrobati.

Lo spettacolo è previsto per le 17,30 e alle 17,30 in punto le luci si spengono lasciando a gattonare nel buio, alla ricerca del proprio posto, un buon terzo degli spettatori. Ovviamente quelli occidentali, non abituati a questa puntualità.

L’esibizione è puramente circense e lo show strizza molto l’occhio al turista, ma gli artisti sono notevoli ed il tempo scorre gradevolmente.

All’uscita vorremmo fare quattro passi fino al ristorante, ma i tempi sono, come sempre, ristrettissimi, così prendiamo uno dei numerosi taxi che stazionano sulla strada in fiduciosa attesa del termine dello spettacolo, e ci facciamo portare al ZhuoMa Restaurant. Stasera cambiamo genere: si mangia tibetano.

Il locale è piccolo e fumoso e all’ingresso veniamo accolti da una minacciosa scarpiera piena di calzature di ogni genere. Non saremmo molto propensi a privarci dell’utile capo di vestiario, ma un tizio, che sembra appena uscito da una comune hippie anni 70, ci fa capire che non sono previste alternative. Quindi ci accompagna al piano superiore, dove, attorno ad un bassissimo tavolino, ci adagiamo a gambe incrociate sopra un cumulo di cuscini. E diamo inizio alla tortura.

Io e Stefano, per quei motivi fisici tipici di chi ha superato la quarantina, abbiamo qualche problema a mantenere una posizione tanto scomoda. Siamo perciò costretti ad una specie di “ballo di San Vito” continuo che ci terrà impegnati per tutta la serata. L’antipasto lo gustiamo a gambe incrociate, il primo in ginocchio, il secondo a gambe allungate ed il dolce letteralmente distesi a mò di triclinium romano.

Impegnato come sono in altre occupazioni, il pasto mi passa un po’ in secondo piano, ma, a parte l’eccessiva piccantezza di alcune portate, non mi sembra di aver mangiato male.

(2-CONTINUA)



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