On the road: Yucatan e Chiapas in moto

"E' proprio la possibilità di realizzare un sogno che rende la vita interessante" (P. Coelho, L'Alchimista) LA PARTENZA: così, come per incanto, mi ritrovo in sella ad una moto in giro per la Peninsula dello Yucatan: stiamo andando in Chiapas per prima cosa a recuperare il tour operator, due moto e una jeep al seguito. Secondo i nostri...
Scritto da: Marco Lotito
on the road:  yucatan e chiapas in moto
Partenza il: 02/11/1999
Ritorno il: 06/11/2000
Viaggiatori: fino a 6
“E’ proprio la possibilità di realizzare un sogno che rende la vita interessante” (P. Coelho, L’Alchimista) LA PARTENZA: così, come per incanto, mi ritrovo in sella ad una moto in giro per la Peninsula dello Yucatan: stiamo andando in Chiapas per prima cosa a recuperare il tour operator, due moto e una jeep al seguito.

Secondo i nostri piani testeremo il tour e faremo le foto che poi serviranno per la stampa della brochure. In sella ad una Yamaha Diversion (mio malgrado, considerando le mie ben note preferenze verso tutt’altro genere di moto) il mio viaggio ha inizio da Cancun, la Las Vegas dei carabi messicani, sotto il sole cocente e con la testa che scoppia rinchiusa com’è in quel casco: il prezzo della festa in spiaggia della notte scorsa. I 20 chilometri della zona hotelera sono un pezzo di america, li percorro e immagino soddisfatto decine di moto targate Roma, Mi, Na, FI, AA, AE, AB, che sfilano tra torri di vetro, campi da golf e pacchiane insegne luminose, facendo torcere in sincronia i colli di poliziotti e gringos. E’ un brivido quello che scende lungo la mia schiena, sogno ad occhi aperti così come sognai quel giorno che tutto cominciò. Superiamo “la mia” Playa del Carmen attraversandola lungo la carrettera federal, il moderno spartiacque tra quella babilonia colorata fatta di turismo, locali, fiestas e delle atmosfere un po’ bohemienne e quella porzione di terzo e a volte quarto mondo che sono le colonie Ejido e Colosio, baraccopoli sconfinate senza acqua né luce ma in compenso con tanta polvere. Schivando qua e la insetti grossi come passerotti, giungiamo a Tulum: questa località famosa per le rovine archeologiche incantevoli, le spiagge bianchissime e per i simil-freaks che vi si sono trasferiti, è soprattutto un pueblo polveroso e disordinato che ancora tarda a svilupparsi. Sono già stati archiviati 130 chilometri, tranquilli tranquilli, ed un caffè ci sta bene… Ci starebbe bene, se fosse davvero un caffè! Per cancellare il sapore di questa schifezza assaggio un bel calapegno, famoso e temuto chile picante ammazza-turisti: via il sapore, ma ecco che mi mancano le parole, gli occhi sono due fontane, il naso un rubinetto… solo dopo aver divorato una cesta di tortillas si riparte. Percorriamo strade rurali a ridosso della spiaggia del caribe messicano, dove specie enormi di pennuti sembrano giocare una sorta di roulette russa spostandosi solo all’ultimo momento dalla strada (a volte gli avvoltoi non si spostano proprio e rimangono a sfamare i loro simili..). Arriviamo tre ore più tardi con le visiere completamente coperte di mosquitos a Chetumal. L’ordinata capitale dello stato è un porticciolo abbastanza triste, degno di essere citato forse solo per il museo (che non abbiamo però avuto modo di visitare, considerato l’orario). Qui comunque si mangiano dei tacos super. La gioventù del posto, osservata dal tavolino della taqueria, non sembra avere molto da fare: passano il tempo facendosi trasportare avanti e indietro sul lungomare da un bus a cielo aperto che pompa musica latino-americana ad un volume che farebbe impallidire il Cocoricò, e chi non è a bordo segue in carovana a bordo di fantastici maggioloni pesantemente customizzati che suonano la stessa musica allo stesso volume. Sembrano giovani di livello medio-superiore, istruiti e ordinati, ma profondamente annoiati. Forse più dei coetanei delle povere colonie Maya. Dormiamo in un bianco residence che in realtà è un motel. Ci addormentiamo con le moto posteggiate fuori dalla porta e le orecchie tese. SECONDO GIORNO: il giorno dopo sveglia di buon mattino, colazione al sacco e subito in moto per andare in Chiapas. Il mitico Chiapas. Il paesaggio è completamente diverso da quello che eravamo abituati a vedere: ovunque sempre e solo campagna, povera, brulla, piena di pietre e con poche misere abitazioni qua e la. Sostiamo in distributori di carburante veramente di frontiera: polvere e enormi trucks, cani randagi “trasparenti” a fare la posta al venditore ambulante di tacos e tortas. Scattiamo le prime foto, che già mi immagino ingigantite e posterizzate… Si sale e si scende, ma molto si sale. Passiamo da uno stato all’altro sorpassando pericolosi taxi collettivi (i Combi Volkswagen bianchi e verdi) dalla svolta facile. Ogni volta che ci facciamo prendere la mano e ci rilassiamo, regolarmente compare un famigerato tope a farci rallentare… PICCOLA FILOSOFIA DEL TOPE (ne incontri talmente tanti che quasi ci parli..): I topes sono come le parentesi, si aprono e si chiudono vicino a un centro abitato. Ma sono anche come le disgrazie: non vengono mai da sole. E quindi come le donne: quando pensi di aver capito come funzionano è la volta che non hai capito niente! Dicono che siano stati inventati per costringere i messicani (che ottengono la patente dietro versamento su conto corrente) a rallentare loro malgrado. Poco male, a me piace andare piano ed il Messico è proprio il posto adatto se vuoi rallentare! il bombardamento di sensazioni al quale mi sottopongo tenendo le antenne ben alzate è da choc: odori, sapori, suoni, immagini. Non starò qui a ripetere cose che tutti conosciamo benissimo, ma che voi sappiate esiste un modo più libero e completo di viaggiare? Dico: passi nel piccolissimo pueblo e senti l’odore di quel povero pasto che la famiglia è riuscita a mettere insieme anche oggi (in certi posti anzi ti chiedi da dove vengano anche le più scarse risorse); il cane che ti abbaia per abitudine e ti sfiora legato alla catena mentre sei costretto a rallentare; il cavallo che scappa nei campi dopo aver galoppato al tuo fianco per qualche decina di metri; superi lentamente una macchina malconcia che in tempi più gloriosi probabilmente circolava in America e senti l’odore pesante del sudore del campesino che la guida (baffi e pancia di tutto rispetto, canottiera, con una birra in mano e il resto di un “six” sul sedile, la Virgen de Guadalupe tatuata sulla spalla, il rosario appeso allo specchietto, il cruscotto ricoperto di moquette color marrone-e-polvere : un’icona dei luoghi comuni che ci hanno portato sin qui). Ma soprattutto una cosa accomunerà tutti i posti che lungo questi 2700 e più chilometri attraverseremo: la presenza degli angelitos, questi bambini dallo sguardo così adulto e disilluso da farti sentire un’idiota, loro lì in mezzo alla strada a sperare nel gesto generoso di un turista di passaggio, tu abituato a allontanare seccato il polacco che ti lava i vetri e troppo lontano dal loro mondo per capire al momento quanto potrebbe essere importante un tuo moto di generosità. Quando lo capisci è troppo tardi, sei già lontano a bordo della tua moto, e ti porti via anche i loro sogni. Superiamo le curve e le cascate di Agua Azul e Misol-Ha nel primo pomeriggio, il sole ed il verde fanno sembrare questi boschi ordinati un pezzo di Svizzera. Qui ci fermeremo lungo la via del rientro. Tutto sembra filare liscio, a parte la mia scarsa attitudine ad affrontare pieghe veloci, che mi impedisce di godermi quei tornanti dallo stesso punto di vista di B., che mi deve spesso aspettare. Io sono fatto così, anzi ogni tanto alzo la schiena e stendo le braccia immaginandomi appeso ad un hape hanger altissimo: non mi chiedete di cambiare proprio ora, per favore! Curva che ti ricurva, ecco però che la catena della moto di B. Si spacca, facendo danni un pò a tutto meno che alla sua gamba. Me lo ritrovo dopo una curva circondato da tanti bambini che neanche adesso posano le pesanti cataste di legno che trasportano sulla testa. La moto è ferma… E dobbiamo caricarla su un camioncino dello stato del Chiapas A BRACCIA, per trasportarla fino al paese più vicino. Questo stop oltre a rovinare la nostra giornata ha ovviamente condizionato i nostri tempi. Mentre i pigri abitanti del minuscolo pueblo si sono radunati nella piazza intorno a noi e ci guardano senza assolutamente intervenire, se non per tentare di scroccare un refresco, la moto viene smontata pezzo per pezzo per essere finalmente caricata sulla jeep quando il sole è già tramontato. Alternandoci alla guida della unica moto superstite e della jeep arriviamo nella notte più scura a San Cristobal de Las Casas, località già teatro della rivolta zapatista nel 94, che ci accoglie con appena 2 gradi sopra lo zero ed un gelido vento che esce dalle curve, durante la discesa dall’altipiano. E sì che fino a ieri ero al mare… . Sono troppo stanco per andare in giro, giusto il tempo di mangiare qualcosa di caldo (che goduria) e tracannare due tequilas insieme al proprietario del Mision Colonial: una persona eccezionale che ti fa entrare in Chiapas dalla porta principale, grazie ai suoi consigli preziosi e accorati. In questa circostanza di amichevoli scambi di battute scopro che il nostro meccanico in realtà è… un fabbro che costruisce inferriate per le finestre: andiamo bene! Quella notte ho dormito veramente bene. Un pò per la sensazione di calore che ti dà una coperta quando hai freddo davvero, una cosa che non provo da anni, da quando passo l’inverno al mar dei caraibi. Un pò perchè San Cristobal per me rappresenta un luogo emozionante, particolare. Lo sarebbe comunque per chiunque, ma è qui che ho trascorso un Natale veramente “mistico” l’anno scorso, quando sono partito da Playa per sentirmi più coinvolto dalle feste e meno dai festeggiamenti. Capitano quei momenti così, e qui ho trovato veramente cibo per l’anima. Quei giorni avevo incontrato dei ragazzi di Venezia che stavano attraversando il Messico in bicicletta .. Evidentemente le due ruote si sentono ispirate da queste carreteras… Il mio pensiero va anche a loro che devono aver faticato non poco, ma che soddisfazione! By the way, al mattino ci aspetta il pick up del cliente e del tour operator (con relativa famiglia). TERZO GIORNO: in mancanza della moto andiamo a prendere i compagni di viaggio all’aeroporto di Tuxtla Guiterrez (90 km) in jeep. Affidiamo non senza qualche timore la moto al meccanico del posto, che poi è presidente di un club che riunisce secondo logiche oscure motociclisti filo-jap di Chiapas e Guatemala (si sfidano sulle curve che li separano) e possessori di Volkswagen maggiolini customizzati. Ci rechiamo direttamente a visitare il canyon del Sumidero. Uno spettacolo naturale: 1200 metri di strapiombo, il fiume si naviga con le lance dei pescatori ed è popolato di coccodrilli, uccelli di ogni tipo, e circondato di meraviglie. Mezza giornata se ne va così, senza moto ma con un bel giro da fare. Rientriamo passando a fianco delle comunità amerindie di etnia tzotzil. Ognuna con il suo colore, i propri rituali, ma in linea di massima tutte accomunate dal credo nella naturalezza e dalla chiusura verso le contaminazioni. Se conoscete i nativi americani vedrete quanto hanno in comune con queste etnie, solo apparentemente distanti, in realtà solo molto più conservatrici. Certo è che vivono di molto poco, e quando viene l’inverno o la stagione delle piogge queste persone danno veramente l’impressione di passarsela male.. Torniamo a SCLC nel primo pomeriggio, dopo aver visitato delle belle grotte sotterranee (spettacolari!) e aver fatto una cavalcata molto tranquilla con dei somari travestiti da cavalli su e giù per una vallata a monte della città (centauri a tutti i costi..). Pomeriggio in libertà: shopping, in giro per SCLC, io bloccato all’internet cafè. O meglio, uno dei 40 internet cafè che non ti aspetteresti di trovare qu. Per strada c’è l’esercito ovunque, la città è semi-blindata e lo stato è praticamente rastrellato di continuo. Ma se c’è la rete c’è libertà, e questo mi fa riflettere.. In serata ci ritroviamo per una mega grigliata a base di carne di cavallo nella parte alta della città, poi ci rechiamo nella discoteca Las Velas, dove una specie di Manu Chau ci fa passare qualche oretta in compagnia del suo vasto repertorio di cover. Stasera si festeggia il compleanno di una ragazza del posto, il cui nome scopriamo essere quello della dea dell’amore maya… Si parla (un pò sottovoce) del subcomandante Marcos, ma non c’è verso neanche stavolta di trovare un suo supporter. A quanto pare, sono tutti con lui nella selva, gli altri sono molto scettici circa il suo ruolo di mediatore-guerrigliero. Se ne dicono tante e non ve le voglio ripetere, ognuno fa bene a credere in ciò che preferisce.. e io ne so ancora troppo poco. QUARTO GIORNO: la mattina successiva la moto avrebbe dovuto essere pronta, ma il meccanico non ha neanche aperto all’ora dell’appuntamento, così con una moto ed una jeep andiamo a visitare le comunità. In questi luoghi ti senti veramente un extra terrestre. A Zinancantan entriamo in chiesa mentre si sta celebrando un rituale che mi ipnotizza, ma la cosa che mi lascia più allibito è il fatto che nessuno ci ha rivolto lo sguardo. Esco dalla chiesa pervaso da un senso di profondo rispetto, e mentre vago pensieroso nella piazza lontano dal nostro gruppetto ignorato anche dai cani del paese, un grido corale mi scuote: uomini in costume tradizionale partono scalzi correndo alla volta di Città del Messico per portare il testimone alla Vergine di Guadalupe! Date un’occhiata alla cartina e capirete il mio stupore! Dopo aver tentato invano di ottenere dei prezzi “non da turista” dalle signore delle bancarelle, andiamo a visitare San Juan Chamula. Questo si che è un posto sconvolgente. Immaginate la scena: vedi la statua al lato della piazza: un uomo in costume con un bastone a tracolla. Guardi il cartello che proibisce di scattare le foto. Ti giri e vedi ovunque gli indios anch’essi in costume ..E con il bastone. Ricordi ciò che ti hanno raccontato. Metti via la macchina fotografica. La sequenza non potrebbe essere diversa: volenti o nolenti, qui si rispettano le tradizioni, e due anni fa due tedeschi hanno ricevuto una durissima lezione durante gli alcolici festeggiamenti del carnevale. All’interno della chiesa ecco alcune cose su cui soffermarsi, fatelo in silenzio: 1. Il suolo è ricoperto di aghi di pino per evitare il contatto diretto 2. Le statue dei santi portano al collo uno specchio, affinchè tu possa vedere rispecchiata la tua anima 3. Sulle croci non c’è Gesù crocifisso ma una spiga di mais 4. Candele ovunque, dai colori e significati diversi 5. Provate ad accostare l’orecchio al tubo che sostiene la cassetta delle offerte e sentirete il suono di un suggestivo vento (in realtà la vibrazione trasmessa da una “famiglia” di campane posate in terra). Uscite dalla chiesa e guardatevi intorno: ecco come sentirsi ancora una volta di un’altro pianeta. Via da San Juan con la voglia di capire di più, di tornare ma anche sollevati dal fatto di andare via. Una foto irriverente scattata senza di me vicino al pur caratteristico cimitero in sella alla moto mi riporta con i piedi per terra, e ci allontaniamo con goffi passi turistici verso il confine con il Guatemala. Qui abbiamo ricevuto una lezione sulla produzione dei manufatti da una signora disponibilissima. Il momento del pranzo ci regalerà piaceri dei sensi e la soddisfazione di spendere pochissimo. Rientro e serata alla ricerca di pezzi di ricambio per la moto, e spunti fotografici. QUINTO GIORNO: oggi purtroppo si lascia San Cristobal. A colazione l’ingegnere proprietario dell’hotel ci regala del pane molto particolare, che porteremo anche con noi. Giusto il tempo di una visita al mercato di Santo Domingo (dove i prezzi sono quasi raddoppiati rispetto all’anno scorso, ma non rinuncerò per questo a comprare delle maschere di legno per me, sacrificando i regali per gli amici) e si riparte, destinazione Palenque. A me tocca la moto, riparata alla bell’e meglio, che potrebbe rompersi da un momento all’altro (e speriamo non lo faccia durante uno strappo in velocità). Per di più la ruota posteriore è liscia, così l’avventura è servita su un piatto d’argento! Andiamo verso Palenque correndo contro il tempo, ma la media su queste strade di montagna piene di traffico pesante è molto bassa e lo stomaco di chi sta in jeep chiede spesso pietà. Fatto sta che in un modo o nell’altro arriviamo alle bellissime cascate di Agua Azul. Ricordo di quel posto la bellezza, la bontà del pranzo, l’astuzia delle angelitas nel venderti qualsiasi cosa e.. Una coppia di bikers americani che nonostante siano “appiedati” sono riconoscibili a pelle da chilometri di distanza. La barba di lui mi fa invidia: è uno stagionato zztop in regola fin nei più piccoli dettagli. Ci osserviamo a distanza comunicandoci una complicità che in caso di necessità saprebbe manifestarsi, affidata alle aquile delle nostre t-shirts. Parole zero, piuttosto quelle che sulla sua maglietta ricordavano l’ultimo viaggio di un amico che non c’è più. Lascio questo posto pensando che vorrei essere riconosciuto dai miei simili ovunque mi trovassi nel mondo, come è successo a questo grande personaggio, che non ho conosciuto e di cui potrei comunque parlare a lungo sbagliando molto poco. La visita alle cascate di Misol-Ha dura il tempo che ci separa dal tramonto, così precoce in questa stagione. Dopo, arriviamo a Palenque solo per una doccia, una cena, e un blitz in un locale notturno frequentato da rotonde chicas per palati facili, generose nel dispensare sorrisi agli ospiti stranieri. Si dorme in un comodo bungalow con aria condizionata, all’interno di un villaggio dalle pacchiane ambientazioni “neo-maya”, visitato in compenso dagli animali della foresta circostante, fra cui simpatiche scimmie. “Certi uomini vedono le cose come sono e dicono: Perchè?. Io sogno le cose mai esistite e dico: Perchè no?” (George Bernard Shaw) SESTO GIORNO: Palenque, finalmente. Eccoci al sito più intrigante che abbia mai visitato. Bello. Maestoso. Misterioso. Silenzioso (quando anche noi stiamo zitti). PACAL & co: Bisognerebbe aprire un’ampia parentesi su Pacal, sulle sue profezie, sui misteri che circondano provenienza e soprattutto destinazione degli abitanti di Palenque. Gente che pur non conoscendo la ruota ha costruito piramidi maestose, ha posto una lapide pesantissima a sigillo della tomba e dei segreti di Pacal. Gente che conosceva alla perfezione la mappa astrale. Gli abitanti di Palenque per non disperdere il proprio patrimonio genetico praticavano l’incesto, per cui spesso nascevano figli con 6 dita. Gli abitanti di Palenque deformavano le ossa del cranio affinché si creasse una linea unica con la curva del naso. Gli abitanti di Palenque si facevano segare i denti a forma di punta. A chi assomiglia un essere con 6 dita, la testa a forma di uovo e i denti appuntiti? Mah.. Passo da una prospettiva all’altra scattando foto con la macchina e col cuore. Sento davvero qualcosa di positivo. So che sono stato preparato a queste sensazioni dalle informazioni che ho ricevuto da più parti in questi anni, ma questo non è un posto qualsiasi per nessuno. A un certo punto mi siedo per godere profondamente di questo feeling, e vengo raggiunto da uno dei suoni più incredibili che abbia mai udito. Un vento subdolo, qualcosa di inedito. Come mi spiegherà un venditore di artigianato maya è il verso che emettono le scimmie urlatrici ballando nella foresta. Un flash. In tanti vengono qui per i funghi, per il peyote, per viaggiare. Per i raves. Ma sanno veramente perchè arrivano fin qui e non altrove? Vagando disordinatamente nella selva finiamo in una zona ancora inaccessibile, e all’arrivo degli archeologi ci tocca guadare un torrente per salvare il posto del guardiano consenziente. Tornerò a Palenque, da solo, con calma e quando sarà il momento. Adesso si va. Uscendo dal sito-mito incrocio ancora una volta il mio amico zztop e “ci facciamo i fari” con gli occhi, forse sotto il barbone ha anche sorriso, sicuramente l’ha fatto la moglie che mi è sembrata anche un pò mamma.. Acquisto delle collanine di semi da alcuni lacadoni (un popolo dalla sessualità apparentemente indefinita: sono donne con i baffi o uomini con la gonna?). Ci mettiamo sulla strada perchè c’è ancora un programma da onorare. Il viaggio da Palenque alla volta della città di Campeche è un susseguirsi continuo di cambiamenti di paesaggio. A poco a poco i tornanti panoramici degli altopiani del Chiapas, le profonde vallate all’interno delle quali timide fumate bianche rivelano la presenza di comunità tzotzil (e di accampamenti zapatisti), si trasformano in terreni faticosamente destinati alla produzione di tabacco e caffè. La natura qui è quasi preistorica, le piante indisturbate da millenni hanno potuto sviluppare dimensioni abnormi, ma anche gli insetti che si spappolano sulla visiera costantemente abbassata e i rettili che capita di incontrare lungo la strada sembrano usciti dal centro della terra. Maciniamo chilometri preceduti dalla Suburban di appoggio, è raro incontrare altre macchine su questa diagonale d’asfalto, ma certo bisogna tenere gli occhi aperti perché si sa, le strade del Messico sono aperte a tutti e .. A tutto. E infatti, dopo una cavalcata indisturbata di più di un’ora, lungo un rettilineo notiamo un gruppo di militari che ci fa segno di rallentare. Un ultraleggero (probabilmente un aereo spia dell’esercito messicano, considerata la situazione) è atterrato su uno sterrato, ma evidentemente non ha calcolato bene le distanze ed è finito sulla strada .. In questa lunga tappa di trasferimento incontriamo pochissime case, la zona è evidentemente troppo povera per chiunque, ma come a voler sfatare i luoghi comuni che spaventano chi affronta un viaggio del genere, le strade sono in condizioni quasi perfette (molto meglio di quelle di Roma, ad esempio), e quando c’è una buca nell’asfalto è puntualmente segnalata. Per di più ci sono distributori di carburante quasi ovunque, cosicché le diverse autonomie dei mezzi non preoccupano nessuno. Dopo l’esperienza pressoché mistica di Palenque, non avrei chiesto nulla di più a questa giornata, se non un lungo trasferimento che mi permettesse di metabolizzare le emozioni del mattino. Ma non era ancora tutto. Identificati all’ultimo dei tanti posti di blocco, usciamo dallo Stato del Chiapas, e già si sente l’odore del mare. Il mare … ovvero il Golfo del Messico, quell’acqua calda così importante per gli avvenimenti climatici di mezzo mondo, ora era a poche centinaia di metri da noi. Se un regista avesse dovuto sceneggiare questo momento probabilmente non avrebbe avuto tanta fortuna come noi, che ci troviamo ad attraversare una immensa laguna lungo un lunghissimo ponte sospeso, proprio al momento del tramonto. Fermarsi è un obbligo che assolviamo con piacere. Dalle barche dei pescatori che proprio in quel momento fanno rientro dalla ricca pesca, sale l’odore del mare e di pesci enormi (peseranno anche 40 chili). Il tempo è ancora tiranno, si riparte. Prima di immetterci nel lungo rettilineo un civile campechano ci mette in guardia sulla pericolosità della strada, dovuta alla forte velocità di chi la percorre e alla nutrita presenza dei camion. In realtà la cosa di cui tener più conto è la densità di mosquitos, che all’ora del tramonto aumenta vertiginosamente. Dobbiamo fermarci due volte in pochi chilometri per liberare almeno uno spicchio di visiera … e scrollare il colletto del giubbotto dai fastidiosi “passeggeri”. Sarà per l’avvertimento ricevuto, o per un eccesso di fantasia, ma a un certo punto incrociando un pick-up del tutto simile a quello che chiude la cavalcata verso la libertà di Fonda in Easy Riders provo una sensazione strana, come di pericolo, dalla quale mi libererò solo scendendo dalla moto. Devo assolutamente smettere di vedere certi film…Si finisce per confonderli con la realtà. La sosta è nei pressi di un porticciolo, dove abbiamo il piacere di assaporare un cocktail di scampi eccezionale .. E di lavare le visiere con l’acqua già utilizzata per lavare il pavimento della pescheria … sempre meglio della nostra saliva .. Ma non siamo ancora a Campeche: superiamo questo porto militare pedinati da un auto dei federales che ci lascia solo quando andiamo a percorrere un piccolo tratto di autopista (l’autostrada), durante il quale veniamo sottoposti all’intermittente mitragliamento di sassolini sollevati dalle macchine che ci precedono (un incubo). Al final, Campeche, un tempo rifugio dei bucanieri e oggi ordinato centro moderno sorto a ridosso del centro fortificato. Veniamo “scortati” fino all’hotel da un poliziotto motociclista che prima ci riempie di domande e poi corre con l’entusiasmo di un bambino a cercare i bikers locali per raccontargli tutto. Dalla finestra della comoda stanza dell’hotel si vede un lungomare molto ampio, con piste ciclabili e, sorpresa, discoteche. Il tempo di una cena e vedrò ben poco altro di Campeche, provato e appagato dai 380 km che anche oggi ci siamo regalati. SETTIMO GIORNO: La giornata si presenta subito calda e umida, ma ormai non rinuncerei alla mia visiera per tutto l’oro del mondo. La moto emette sospetti rumori di ferraglia ma regge ancora, così dopo il rifornimento ed un rapido check andiamo. La strada di oggi è larga poco più della Suburban, praticamente viaggiamo sotto una galleria di alberi che si abbracciano da un lato all’altro. Si vola sui dossi infiniti che si susseguono rendendo divertente il veloce trasferimento, nonostante qualche buca vista troppo tardi perché viaggiavamo attaccati alla jeep. Penso di continuo alla catena della moto prima o poi si romperà ancora e così mi ritroverò catapultato in un campo di banane… Siamo in piena zona maya: qui molti degli abitanti non parlano altro che un dialetto fatto più di consonanti, ma neanche nel villaggio più piccolo mancano le insegne della Coca Cola! Andiamo un po’ di fretta perchè le visite alle Grutas di Loltun (dove siamo diretti) sono ad orario fisso. Chiaramente giungiamo in ritardo, ma con la classica mordida si risolve tutto: visita-guidata-personalizzata. Queste grotte sono qualcosa di veramente speciale: “quando le donne avevano la coda” i nostri progenitori vivevano al loro interno, e si capisce anche il perchè: sono molto fresche ma non umide grazie ai nove ingressi dell’aria, consentono un accesso diretto alle fonti sotterranee d’acqua ed erano riparo sicuro da animali e popoli nemici. Eruditi sul significato dei disegni tracciati sulle pareti migliaia di anni fa e su stalattiti e stalagmiti, completiamo questo giro all’interno delle viscere della terra visitando la trappola per mammuth (vedere per credere!). Dopo la sosta per il pranzo è la volta di veloci ma interessanti visite a due siti minori (solo per notorietà): Labna e Sayil. In questi assolati siti regna la calma più assoluta, e viene spontaneo chiedersi perché non siano tappa fissa del peregrinare dei turisti. L‘ultima tappa della giornata è Uxmal, un sito archeologico tra i più noti e, secondo me, ben più suggestivo di Chicen-Itzà. Arriviamo poco prima della chiusura, ma per me che sono già stato qui altre tre volte non è un gran rammarico. Ne approfitto per lasciarmi ipnotizzare dal fantastico tramonto, impreziosito dalla maestosa piramide, che si dice sia magica (ed io sono uno che ci crede). Pernottamento a Ticul, insignificante piccolo centro custode di una spettacolare tradizione gastronomica. Anche oggi, ridendo e scherzando, ci siamo lasciati alle spalle 300 km, e la voglia di una doccia e di un bel riposino arriva dopo il terzo giro perimetrale dell’unica piazza. OTTAVO GIORNO: Oggi è l’ultimo giorno di questo lungo e strano viaggio. Quasi mi pesa il fatto di sapere che torneremo alle nostre pur belle abitudini di vita sulle spiagge del Mar dei Carabi. Questo viaggio, come ogni viaggio, è una parte di me che mi seguirà anche quando stasera mi ritroverò sulla spiaggia a bere birra e mezcal con gli amici. Forse l’unico nesso tra questi mondi sono io, che ho bisogno del Messico per voler tornare in Italia e dei difetti dell’Italia per andarmene in Messico, del Chiapas per amare Playa e di Playa per innamorarmi del Chiapas, di stare mesi senza moto per desiderare un viaggio in moto. Lottando contro i miei contrasti attraversiamo gli ultimi contrasti del Messico. Ci avviciniamo a zone frequentate dal turismo cosiddetto di massa eppure poverissime. Queste colonie maya si sono svuotate per ingrossare l’esercito di albaniles che sta lavorando alla costruzione di alberghi, condomini, villaggi turistici in questa fase di esplosivo sviluppo che non ha pari al mondo. Le donne, votate al sacrificio, vedono tornare questi uomini con pochi soldi, abituati come sono a spendere buona parte della paga quindicinale in alcolici, e spesso irreparabilmente cambiati dalla nuova realtà che hanno conosciuto. La ricchezza di entità turistiche come la Riviera Maya non coinvolge chi l’ha materialmente costruita: secondo lo stile tipico dell’America Latina qui i ricchi sono molto ricchi e i poveri sempre più poveri. L’ennesima visita alla pur pregevole Chicen-Itzà quasi mi infastidisce. Un luogo così importante per la conoscenza della storia dei maya è stato talmente spettacolarizzato che sembra di entrare in un supermercato dell’archeologia: il campo della pelota, il cenote, la piramide, le colonne, il tempio dei guerrieri, il bar e il ristorante hanno tutti lo stesso freddo stile post-restauro. Dall’alto del Castillo (la famosa piramide presente in tutti i cataloghi) osservo questa archeo-disneyland e i gringos che la oltraggiano con grida, lattine di cocacola e grasse pance, ostentate in onore dei braccialetti colorati che li giustificano (secondo loro) in tutto e per tutto. Fa sempre più caldo e ci muoviamo alla volta di Valladolid, per visitare un cenote (tipica grotta sotterranea con piscina naturale di acqua dolce) e fare ottimi acquisti di artigianato mayan-style. Lungo una scorciatoia che è forse stata la strada peggiore mai incontrata in questi giorni, passiamo Cobà (un tempo la più importante città maya, 70 chilometri quadrati di estensione) per visitare Tulum, l’unico sito archeologico sul mare. A quest’ora non ci sono più i turisti, è quasi il tramonto e si sta veramente bene. La nostra sete di cultura ha avuto di che godere in questi giorni, ma ora quel che più ci appaga è il sodalizio tra natura e storia che qui si manifesta in ogni angolo. Il valore estetico del momento che stiamo vivendo è aumentato dalla presenza di alcune modelle che stanno realizzando un servizio fotografico stile “anni 70”. Nel complesso mi sento bene, ho “fatto pace” con tutti i pensieri di qualche ora fa e con ritrovato entusiasmo racconto del nostro viaggio a un’amica argentina che incontro sulla spiaggetta, e che non vedevo da due anni perché ora vive a Miami. C’è ancora il tempo per un caffè (questa volta un vero caffè) che sgorga dalla moka di Fabrizio, un amico napoletano di Puerto Aventuras che ha un bar affacciato sulla splendida marina privata.Lo ammetto, tutto sommato mi sento di nuovo a casa, questi posti ormai mi sono così familiari che non me ne staccherò mai, neanche volessi. Col buio della sera e sotto la pioggia (la prima di tutto il viaggio!) arriviamo a Playa del Carmen. Il Barrio Latino ci accoglie con una piccola festa: ad attenderci c’è anche il presidente del BMW Club Mexico che casualmente (?) era passato a cercare una stanza, ed un ragazzo di Roma che ritroverò quest’estate a Roma al banco di Geronimo’s: quant’è piccolo, ‘sto mondo. “Chi ha respirato la polvere delle strade del Messico , non troverà più pace in nessun altro paese” (Malcom Lowry)



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