On the road nel vecchio west
Ø DAY 3 Mercoledì
Partenza da Venezia in orario, dopo aver fatto la solita intervista preliminare da parte di personale americano. Volo tutto sommato normale, ma non riesco proprio ad abituare le mie gambe e il mio sedere agli angusti posti che ci sono sugli aerei. Chiaro! E’ la classe economica, ma un pochino più larghi no? Mi chiedo sempre come facciano gli americani a starci. E di americani ce n’erano molti in aereo. Anche un po’ di italiani, che facevano però scalo ad Atlanta per andare in altre parti. In effetti, nell’aereo per Dallas eravamo gli unici italiani.
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Arriviamo quindi a Dallas Fort Worth e seguiamo le frecce Rental-Car Center. Usciamo dall’ultima porta e siamo sconvolti dal caldo. Sembra essere entrati in un forno. Ed è sera! Sono quasi le 9 ore locali (le 3 di notte da noi!). Ma se fa questo caldo infernale alle 9 di sera, come sarà di giorno?
Prendiamo il bus navetta e dopo circa 20 minuti arriviamo al Rental Center. Andiamo alla National e velocemente ci assegnalo l’auto prenotata da casa. Ci consegnano una magnifica Dodge Durango nuova fiammante. Il contachilometri segna 10000 miglia e si sente ancora l’odore di nuovo uscire dalle bocchette dell’aria condizionata.
Collego il Tom Tom e mi infilo sulla highway verso il primo motel, circa 40 km fuori, per risparmiare strada l’indomani. Dopo aver sbagliato strada e fatti 20 km in più, solo per aver messo N invece di S sull’indirizzo, arriviamo finalmente al motel. A dire il vero un po’ deprimente, ma era il più economico in quell’area e va bene così. Collassiamo a letto che sono quasi le 5 a casa nostra.
Ø DAY 4 Giovedì
Come previsto, ci alziamo presto che la tappa è piuttosto lunga, direzione San Antonio. Sono le 4 e partiamo. Notte fonda. Sempre come previsto, dopo poco ci fermiamo a fare la spesa al Burleson Walmart Supercenter Store #220 – 951 Sw Wilshire Blvd – Burleson, TX. Sono aperti 24/24 e pensavamo di essere gli unici pazzi a fare la spesa di notte. Mica vero! Non tanti, ma altra gente ce n’era! Avremo fatto qualche km fra gli scaffali. Anche i supermercati sono come tutte le cose in America. Grandi, ma grandi grandi! P.S.: c’èra anche l’angolo dove si vendevano armi. Pistole e fucili, fra alimentari, pannolini, ecc. This is Texas! Compriamo tassativamente anche un contenitore frigo che riempiamo subito con ghiaccio e bibite. E’ l’accessorio più importante per un viaggio on the road.
Ripartiamo, e siamo già fuori tabella di marcia. Google Maps mi ha fregato. Le previsioni sui tempi di percorrenza non corrispondono. E qui non è che si può accelerare. I limiti di velocità sono ferrei!
I cartelli a messaggio variabile in autostrada avvisano di non sprecare l’acqua che è un periodo di siccità molto accentuata.
Traversiamo territori piatti che a onor del vero non sanno di nulla. Solo qualche curiosità tipicamente americana ogni tanto, per giustificare le poche foto fin qui.
Fa niente. Direzione quindi Enchanted Rock State Natural Area, Fredericksburg, TX. Dovevamo arrivare alle 9 ma sono le 11. Comunque sia, arrivati al parco, scopriamo che è solo un mega-sassone di pietra e il caldo infernale che c’è non ci fa minimamente pensare di azzardare un hiking per morire bruciati come la carta di una sigaretta. Due foto e decidiamo di andare a Fredericksburg e pranzare lì. Cittadina simpatica, di chiare origini germaniche (ma va?), e dove trovi un ristorante di nome “Altdorf Biergarten” che ti dice wilkommen. Mangiamo in un bel saloon, il Crossroads Saloon & Steackhouse, questo sì tipicamente americano. Abbiamo mangiato bene.
Devono anche stare benino qui, dalle macchine che vedo. Oltre ai soliti pickup e SUV, comunque tutti fiammanti, vedo Ford Mustang, Chevrolet Camaro e Dodge Challenge che sono una bellezza.
Avanti, che con il salto dell’Enchanted Rock abbiamo recuperato tempo sulla tabella di marcia, ma siamo comunque in ritardo. Direzione Pedernales Falls State Park, Johnson City, TX. Pomeriggio. Sole verticale. Sulla porta del visitor center un avviso informa che non c’è tanta acqua, ma proviamo comunque. Paghiamo 5 dollari a testa e partiamo a piedi verso l’area swimming. Allucinante il caldo. Arriviamo e… fregatura! Acqua appena per lavarsi i piedi, e anche calda come il brodo di pollo! Torniamo su al parcheggio, in salita, sperando di non collassare prima! Ci spostiamo verso l’area delle cascate, dove comunque sappiamo che sono praticamente assenti e ci sono solo delle sacche d’acqua. Qui la strada da fare a piedi è 2,5 volte quella di prima e sinceramente non vale la pena tentare il suicidio per due pozze d’acqua. Ci accontentiamo di averle viste online. Cominciamo a intuire che agosto forse non è il periodo ideale per venire in Texas, specialmente al sud.
Proseguiamo verso San Marcos, dove c’è la tappa prevista per gli acquisti. Siamo infatti partiti con bagaglio ridotto all’essenziale, con l’obbiettivo di rimpinguare qui il guardaroba. A San Marcos ci sono due mega-outlet, Il Premium Outlet e il Tanger Outlet. Grandi grandi!
Fatto spese da Polo Ralf Lauren e Lacoste, comprata una valigia, scarpe Reebock per Manu, e il tempo vola! Siamo quasi 2 ore in ritardo. Direzione San Antonio, al Travelodge Alamo-Riverwalk – 405 Broadway St – 78205 San Antonio – TX, che è a due passi dal RiverWalk e da Alamo, prenotato da casa. Ottima posizione e buon prezzo.
Percorsi 729 Km in 16 ore di tragitto (non di guida. Erano previsti 560 Km e 7 ore).
Siamo cotti dal viaggio ma dobbiamo pure mangiare qualcosa. Andiamo al River Walk, che così abbiamo l’opportunità di goderne un po’ l’atmosfera notturna. Singolare, folcloristico, carino e divertente. Bello! Filetto texano per me e salade per Manu poi a nanna. Sul percorso vediamo anche un‘auto della polizia che ferma un‘altra auto, con lampeggianti da ufo accesi, più avanti invece un‘altra già ferma, con 4 ragazzi seduti a terra appoggiati a un muro e ammanettati. This is Texas!
Arriviamo al motel e schiantiamo subito.
P.S.: ma perché, dato che tutte le cose in Texas sono grandi, il vater del motel è così piccolo? O ci sta il “walter” o ci sta il didietro! Difficile!
Ø DAY 5 Venerdì
Ci svegliamo alle 8 di mattina (le 2 di pomeriggio da noi). Però, abbiamo già perso tutto il jet-lag! Colazione e via, verso il downtown. Arriviamo alla missione di Alamo e prendiamo un trolley (bus tipico, vecchio stile) per un tour guidato hop-off. Visitiamo la missione di San Josè, molto ben tenuta e molto bella. Vediamo anche un filmato che spiega la storia dai frati Francescani in poi. Ripartiamo quindi per la missione Concepciòn e quindi il Market Square, un’area folkloristica piena di negozietti stile mexican, dove anche pranziamo, messicano ovviamente. In effetti, la città di San Antonio, oltre che essere di origini spagnole, è per il 60% abitata da ispanici. Scopriamo anche che il nome Texas deriva dalla parola spagnola Tejas, storpiata poi dagli americani. Compriamo qualche “pistolata”, qualche souvenir per gli amici, e per me una bella cintura texana e un berretto, per proteggere my cabeza dal sole. Su qualche t-shirt vediamo anche lo spirito texano, con scritte del tipo “io non chiamo il 911”, e una pistola disegnata sopra, oppure “puoi anche mandarmi all’inferno….sto andando in Texas”.
Facciamo poi il giro dei canali del RiverWalk con il tipico barchino taxi. Proprio un’idea “gagliarda” quella di imbrigliare con delle chiuse il San Antonio River e fare così questo giochino con l’acqua e i barchini. Un sacco di locali e una notevole economia gira attorno a questo! Chiaramente, la città ha tutto l’interesse dei risvolti storici legati alle missioni e alla famosa battaglia di Alamo.
Sono ore che girovaghiamo e ogni tanto ci rifugiamo dentro a dei locali, per abbassare la temperatura corporea prima di morire dal caldo. Aria condizionata a mille dappertutto, e un sacco di bevute di roba con ghiaccio o birroni ristoratori. Se non ci tempriamo stavolta!
Alla sera una cena mexican, ma il locale non si è dimostrato all’altezza, poi al motel che domani sarà un’altra bella tappa di trasferimento. Prima di dormire, avanti a scrivere il diario che altrimenti mi dimentico le cose.
Ø DAY 6 Sabato
Siamo svegli prestino e alle 6 siamo già in viaggio. Ci aspetta un trasferimento da 360 miglia verso Alpine, previsto in 6 ore e mezza, ma credo che Google mi darà buca anche oggi.
Passiamo la periferia di San Antonio e vediamo in che misere casette vive la gente, abbastanza malmesse ma quasi sempre con un macchinone fuori, sempre bello pulito luccicante. Sembrano più dei bungalow che delle case! In effetti è un po’ deprimente.
Prendiamo la US90 e dopo circa 3 ore di territorio desolato di pascoli e sterpaglie passiamo per Del Rio, che traversiamo solo guardando di qua e di la. Poi avanti ancora finché, dopo un’oretta, vediamo un’indicazione per il Seminole Canyon. Riemergono ricordi dei Seminoles, visti da piccolo su qualche numero di Tex, e ci andiamo. Non è lontano. Diamo un’occhiata al canyon completamente asciutto e poi al visitor center, dove c’è un piccolo museo e una Ranger che con occhio truce ci fa capire che anche solo per essere lì bisogna pagare una fee di 3 dollari a testa. Va beh, si dovrà pur guadagnare la giornata, no? Ne valeva comunque la pena. Il territorio è di un desolato e arso che più non si può. Ci si chiede come della gente possa vivere in queste lande desolate, con un caldo infernale e il deserto.
Più avanti troviamo il Pecos River, che scorre dentro un bel canyon. Prima del ponte, una piccola deviazione scende verso l’imbarcadero, dove si gode una bella prospettiva del fiume. Poi via ancora, fermandosi sul ponte per delle foto, che lo scenario è molto bello.
Il navigatore indica ancora 260 Km e 4 ore di strada. Ripartiamo, nel nulla più assoluto, e dopo un’oretta troviamo Langtry, che chiamarlo paese è veramente troppo. Quattro case, mezze diroccate, però c’è un Comunity Center. E chi ci va? Da qualche parte avevo letto “isolated village with a historic past, beside the Rio Grande” e la parola più azzeccata è “isolated”, anche se non esprime appieno l‘isolamento in cui si trova la town.
Comunque troviamo un piccolo distributore (2 pompe di almeno 50 anni fa) che sembra anche un locale (locale?!) dove mangiare. Da fuori non sembra, ma un cartello con scritto “Yes, we’re open” ci spinge ad entrare. E’ mezzogiorno passato e un certo languorino l’abbiamo. Una stanzina, con poche cose e dei frigo con bibite. Chiediamo se si può mangiare qualcosa e sì, per fortuna. Due panini con bar-b-q (boh!) e della salsa piccante, con una birra a buttare giù il tutto. Ma è di un folcloristico più che mai. Più immersi di così nel territorio non si poteva. Comunque la pancia è sufficientemente piena (e brucia dal piccante) e ripartiamo rincuorati tuffandoci ancora nel nulla più assoluto. Non c’è un cane. Si incrocia una macchina o un camion ogni tanto, sufficiente per sentirsi meno dispersi. Credo proprio che siamo gli unici Italiani nel raggio di 500 Km, e forse anche gli unici turisti non americani.
Da Del Rio in poi, la highway è sempre costeggiata da 2 strade sterrate e recinzione continua. E’ lì che passano continuamente dei gipponi della Border Patrol, che fa un pattugliamento del confine con il Messico.
Il territorio è veramente desolato, ma comunque con il suo fascino. Cerco di immaginare le fatiche dei pionieri, con i loro carri su un terreno che oggi è complicato anche per un grosso 4×4.
Di qua e di là della highway ci sono ogni tanto i cancelli dei ranch che si trovano dentro il deserto. Bel posto! Uno magari dice “mi sono comprato un ranch in Texas” e tu pensi “mazza che figata”. E invece sono (almeno qui) di un desolato da ansia. Piano piano il territorio si fa meno piatto e cominciano dei rilievi, sempre desertici, finché finalmente arriviamo ad Alpine. Però! C’è anche una università. Da non credere. Qui in mezzo al nulla! E chi ci viene?
La cittadina è comunque un paesotto da 6000 anime, abbastanza ben tenuto e ordinato. Essendo dei “cavallari” notiamo subito una “saddlery” ed entriamo a curiosare. Un sacco di bella roba da veri cowboy! Comprerei di tutto e di più, ma mica posso portarmi a casa una sella! Mi limito ad un bel paio di guanti di pelle d’alce, così alla prossima cavalcata con gli amici potrò dire “comprati in Texas”!
Alloggiamo al The Maverick Inn, 1200 East Holland Avenue, prenotato da casa, ed è stata una scelta ben azzeccata. Molto carino, in stile pueblo.
Percorsi circa 600 Km di strada in 7:30 ore di guida e 10 ore totali di viaggio. Non male!
Dopo un bel riposino, durante il quale si scatena un temporale con tuoni stratosferici, andiamo a mangiare alla Longhorn Steackhouse poi un giro per la cittadina, una birra da Harry’s Tinaja, un localino veramente molto ma molto particolare. Poi non c’è tanto altro da vedere e andiamo a nanna, che siamo anche stanchini. Aggiornamento del diario di viaggio e collegamento con il server a casa. Incredibbbile. Dal confine col Messico al server in Italia, come se fossi connesso dall’ufficio. Mi chiedo se serva proprio essere fisicamente in ufficio! Domani altra tappona, con la visita al Big Bend NP.
Ø DAY 7 Domenica
Siamo svegliati alle 6 da un treno lunghissimo che strombazza ad un volume incredibile per tutta la città.
Abbiamo comunque dormito come sassi, nonostante il letto abbia un materasso a molle, pur comodo ma con dei micidiali scrink-cronk, stile western, a ogni minimo movimento. Guardo fuori ed è buio pesto. Forse anche perché abbiamo passato da poco una linea di fuso orario. Dopo un leggero breakfast partiamo alle 7:30 che comincia ad albeggiare. Il tragitto di avvicinamento al Big Bend NP mostra paesaggi brulli con niente di particolare. Qualche indicazione di ranch di qua e di la, ma che comunque non si vedono da quanto lontani sono all’interno. Piano piano il paesaggio si movimenta con le montagne e la strada diventa “scenic”. Arrivati a sud, poiché tutto sommato è ancora presto, prendiamo a sx per Rio Grande Village. Sono 20 miglia e si arriva a un villaggio che non dice nulla e a un overlook dove finalmente vediamo il Rio Grande, che poi in questa stagione e con questa arsura è solo “Rio” ma non così “grande“. Il territorio è completamente desertico e ci chiediamo ancora come sia possibile vivere qui. Torniamo a ovest e prendiamo una piccola strada sterrata a sx per delle “spring” ma arrivato in fondo c’è poi da camminare, e con il caldo che fa sarebbe un suicidio. Riprendiamo direzione Santa Elena Canyon e più avanti prendiamo la Ross Maxwell Scenic Drive che ci porta a sud sul confine col Messico. La strada è veramente molto scenografica e anche l’obbiettivo finale, cioè il Rio Grande che passa per il bellissimo canyon di Santa Elena. Questo canyon rompe una lunga linea di massiccio roccioso a parete verticale che inizia in Messico e termina in Usa. E’ mezzogiorno, sole a picco e 38 gradi. Siamo in pieno territorio desertico che sembra di essere su un altro pianeta. Continuiamo a chiederci cosa fanno dei ranch qui e come ci possa vivere della gente, che è tutto secco e arso, e fa un caldo infernale. Se gli extraterrestri sbarcano qui non possono che dire “porca miseria. E’ uguale a casa nostra!” Partenza quindi per Terlingua e anziché andarci per la strada asfaltata, che sono circa 50 miglia, prendiamo a sinistra una Dirt Road, uno sterrato di 14 miglia, la Old Maverick Road, che ci fa risparmiare parecchio tempo. Abbiamo o no un mega SUV 4×4? Lo sterrato è per la maggior parte molto buono, salvo alcuni punti più malmessi dove ci sono i “wash”. Niente di particolare comunque, ma da non fare con una berlina.
Arrivati a Terlingua (o Study Butte che sembra essere la stessa cosa) riparte la stessa domanda: ma che ci fa la gente qui e come ci vive? E ci sono anche dei campeggi (con Wi-Fi), sotto un sole cocente che non oso pensare come sia l’interno di un camper o di una tenda. E anche le case dei residenti non devono essere gran belle da viverci. Con i loro tetti in lamiera mi sa che l’interno è come il forno del pane! Hanno però una scuola, una libreria gigante, ecc. Mah! Qui non troviamo nulla da mangiare. O sono chiusi oppure addirittura diroccati (il Lakiva citato sulla Lonely di 6 anni fa ha ancora il cartello “open 5PM” ma è un ammasso di rovine). Proseguiamo quindi per Terlingua Ghost Town, che essendo più turistica dovrebbe darci qualcosa. Troviamo infatti l’hotel El Dorado, dove riusciamo a mangiare un bell’hamburger. Ma non c’era altra scelta! E pensare che la Lonely diceva che qui c’è una marea di ottimi ristoranti. Probabilmente chi l’ha scritto aveva preso qui un’insolazione. Avanti quindi direzione Lajitas, quattro case (case?!) in mezzo ad un deserto che sembra l‘anticamera dell‘inferno! Capisco quando queste erano cittadine di frontiera, con una fiorente attività mineraria, ma ora cosa ci sta a fare la gente qui? Ancora mah! E arriviamo a toccare il record di 44 gradi. Urrah! Costeggiamo il Rio Grande, dove di là è Messico, e dal punto di vista scenografico la strada e il paesaggio meritano veramente. Si tratta della Lajitas Texas Scenic Byways, descritta come “one of the most scenic drive in America“. Ma comunque nello Utah ne ho viste di molto più belle. Vedendo il fiume, e di là il Messico, ci chiediamo cosa serviva pattugliare la US90 più a nord, quando qui il confine è e due bracciate a nuoto, o forse anche solo a piedi! Va bé che dopo il guado ci sono ore di deserto, ma ci sono anche le strade, dove uno può salire in auto e via!
Arrivati a Presidio, dove non c’è nulla da vedere, prendiamo a Nord direzione Marfa e poi Van Horn, dove dobbiamo trovare poi un buco dove dormire. Anche su questa strada a un certo punto troviamo un posto di controllo della US Border Patrol, dove ispezionano auto e documenti. Arriviamo a Marfa e, data l’ora e i chilometri fatti decidiamo di rimanere lì, perché arrivare a VanHorn diventa troppo lunga. Cerchiamo in giro e ci fermiamo al Thunderbird Hotel. Non proprio economico (120$) ma tutto sommato dignitoso. Cerco su internet un posto per mangiare e non trovo nulla. Non ci rimane che il ristorante dell’hotel Paisano, famoso perché ci hanno pernottato Elizabet Taylor, James Dean e Rock Hudson durante le riprese del film “Il Gigante”. Percorsi 534 Km di strada in 8:40 ore di guida e 12 ore totali di viaggio.
Ø DAY 8 lunedì
Anche dietro a questo motel passa la ferrovia, e i treni strombazzano sempre a manetta. Partiamo alle 7 e poco dopo, in paese, facciamo colazione a un distributore, dove fuori c‘è un nonnino che dorme beato in macchina (poveracci, che vita che fanno!). Bene o male i distributori hanno sempre il bar e un po’ di market. Un caffettone, riempiamo di ghiaccio il frigo e via, direzione El Paso. Anche qui vediamo le misere case (case o baracche?) dove vive la gente. Considerato l’arsura che c’è decidiamo di saltare le Hueco Tanks, per non rischiare una fregatura come alle Pedernales Falls. Con sto caldo mi sa che acqua ce n’è poca. Passiamo per Van Horn e Fort Hancock e sono 2 ore e mezza di nulla, con orizzonti infiniti, come i treni che vediamo passare. Da qui si comincia a vedere un po’ di pascolo più decente e poi anche delle coltivazioni, lungo il Rio Grande. Dopo circa 5 ore arriviamo nei pressi di El Paso e, non previsto, decidiamo di entrarci per vedere com’è. Non credevo fosse così grande. Facciamo un paio di tappe del Mission Trail con le chiese in classico stile spagnolo poi entriamo in città. Vediamo le recinzioni di confine con la Border Patrol che perlustra continuamente e il ponte pedonale con al centro le bandiere Usa e Messicana, con un sacco di gente che ci cammina sopra. Poi puntiamo il downtown. La città è praticamente tutta messicana, nella gente e nella sostanza. Ci fermiamo nei pressi di una folcloristica via di negozi e mercati delle pulci e andiamo a pranzare da Taco Bell.
Usciti dalla città vediamo molte coltivazioni di piante che capiamo dopo essere di Pecan (una noce americana). Lo spostamento verso le White Sand è ancora lungo e il paesaggio non è granché scenico. Arriviamo alle White Sand alle 3 e mezza, con sole a picco e un caldo bollente. Comunque ci facciamo un giro e al baldacchino dei ticket troviamo chiuso, con un cartello con scritto “passate pure avanti”. Quindi gratis! Fatto il giro (sono circa 8 miglia) e una serie di foto, decidiamo di tornare anche più tardi, prima del tramonto, perché adesso col sole alto non ci sono ombre marcate e si perdono i dettagli dei lineamenti delle dune, oltre al fatto che sulla sabbia bianca, con 40 gradi e sole a picco si rischia di incenerire in poco tempo. Alamogordo è a circa mezz’ora e scegliamo il Motel 6, ricordo del precedente viaggio Usa. Una catena di motel economica e più che dignitosa. Riposino e doccia ristoratrice, quindi ritorniamo sulle dune. Stavolta la ranger al botteghino c’è, e il biglietto lo dobbiamo fare. Nel giro di meno di un ora il sole scende fino a sparire all’orizzonte, e in quest’arco di tempo l’atmosfera diventa sempre più affascinante, diventando, dopo il tramonto, addirittura surreale. Ne escono delle belle foto! Rientriamo ad Alamogordo e mangiamo qualcosa al Ihop, quindi a nanna. Percorsi 636 Km di strada in 9:30 ore di guida e 11 ore totali di viaggio.
Ø DAY 9 Martedì
Sveglia al solito alle 6, ma stavolta non è buio, ma è bello chiaro. Effettivamente siamo appena al di la del fuso orario delle “mountain”. Prendiamo un caffè e ci avviamo a nord per fare il Billy The Kid Trail. Si sale per le montagne, il paesaggio diventa prettamente alpino e la temperatura cala fino a 15 gradi. Per strada consideriamo che l’americano non butta via nulla, ma lascia tutto in cortile. E che si tratti di una casa, di un motel o di un distributore, nel caso lo si abbandona lì a marcire. Perché demolirlo? Per fare posto a qualcos’altro? E perché poi? Posto ce né tanto intorno! Strani gli americani. E più avanti sarà anche peggio!
Le montagne fanno comunque percepire una qualità della vita superiore rispetto alle pianure desertiche. I paesaggi che vediamo sono “menego per 1000” (è un mio modo di dire, da cavallaro, e vuol dire “la piana di Marcesina, sull’altopiano di Asiago, moltiplicato per 1000 volte”). Però rischia di diventare troppo grande e di farti venire “dos cocones”. Vediamo comunque dei bei ranch, ben migliori di quelli in pianura. Passiamo per Ruidoso Down, poi Hondo verso Lincoln. A metà strada vediamo un bel centro equestre, dove dei cowboys si allenano al roping. Mi fermo, entro chiedendo il permesso e guardo da vicino “il vero west”. Quello che sembra essere il capo siede fiero su un bel cavallo, con lazo visibilmente usato, baffoni e sguardo “da duro”. Anche la cacca di cavallo era “vero west”! Proseguiamo e arriviamo a Lincoln, dove c’era lo sceriffo Pat Garret che uccise Billy The Kid, e facciamo il ticket per la visita dei palazzi storici. Vediamo dai registri dei visitatori che i precedenti italiani erano passati a giugno, e da allora hanno firmato sì e no 50 persone. Ripartiamo verso Capitain e prendiamo a sud verso Ruidoso, dove c’è una ricostruzione turistica di un villaggio western. Doveva esserci! Ad ogni modo è una turistata da circo e apre solo la sera. Decidiamo di non tornare verso Alamogordo e Las Cruces per fare il Camino Real, poiché ci par di capire che sarà di nuovo tutto deserto, e invece tagliamo direttamente sulla 380 verso San Antonio e Socorro, dove c’è la Quebradas Back Country Bywas che avremmo dovuto fare l’indomani mattina. Dopo aver mangiato qualcosa a Carrizoso passiamo per un’area di lava, la Valley Of Fires, che ha un aspetto fantastico. Cerchiamo poi l’accesso sud della Backway ma non riusciamo a trovare dove sia. Proseguiamo quindi a nord quasi rassegnati ma cercando fra le strade interne, fra Escondida e Lemitar troviamo finalmente l’accesso Nord della Backways. Sono circa 25 miglia di sterrato e 1 ora e mezza di tempo su una “dirt road for high clearence vehicle” che traversa delle zone selvagge (Quebradas vuol dire breaks cioè fratture). Gli scenari sono fantastici e per fortuna che l’abbiamo trovata (anche se non è assolutamente ben segnalato l’accesso) perché è una delle poche belle cose viste dopo quasi 3000 km. Sono comunque delle lande così desolate che dopo un po’ ci chiediamo dove andiamo a finire. Ci rincuora trovare un ranch a circa metà strada (ma come fanno a vivere ad almeno 20 km di nulla da qualsiasi altra parvenza umana?) e finalmente usciamo sulla 380. Capiamo perché non avevamo trovato l’accesso sud: l’indicazione è sulla stradina di accesso “Co Rd A126” ed è alquanto misera. Ci saremmo aspettati qualcosa di più grande, come abbiamo invece trovato più all’interno. Probabile che non venga “divulgata” eccessivamente e che chi proprio la vuole vedere se la deve cercare esplorando l’area, come noi. Ne valeva sicuramente la pena.
Saliamo quindi a nord direzione Albuquerque e, in mancanza di altro, ci fermiamo a Belen. Un misero paesetto dove per fortuna c’è un (uno solo) motel. Solo un Super8, e un’altro che era completamente abbandonato in rovina! Sono le 6:30 e cerchiamo un posto per mangiare più tardi, escludendo tutti quelli che fanno le solite “schifezze” americane, cioè i soliti hot dog (i nomi di tutte le solite catene, come Mc Donald, Burger King ed altri ci sono tutti, sempre e dappertutto). Individuiamo un localino con scritto Bbq. Non facciamo in tempo ad avvicinarci alla porta per vedere che orari hanno, che una signora esce praticamente correndoci dietro e invitandoci a entrare che alle 7 chiudono. Va beh. Ci sembrava scortese rifiutare (magari eravamo gli unici clienti di oggi) ed entriamo, anche se la fame non era ancora al massimo. Mangiamo “qualcosa” di non meglio identificato, comunque Beef con french fries e verdure, oltre all’onnipresente sprite. Andiamo al motel e come al solito non c’è problema a trovare una stanza (ma chi vuoi chi venga in questo posto abbandonato da Dio?). Percorsi 515 Km di strada in 8:40 ore di guida e 11 ore e mezza totali di viaggio. Totale 3057 chilometri.
Ø DAY 10 Mercoledì
Partiamo da Belen tranquilli poco prima delle 8 e ci dirigiamo a sud-est verso l’area di Salinas Pueblo Missions National Monument, da dove parte il Salt Mission Trail Scenic Byway. Usciremo a est di Albuquerque e punteremo poi a ovest direzione Gallup, passando prima per Acoma Pueblo. Diciamo che è come partire da casa (Vicenza), andare a Venezia, poi girare in su e andare a Cortina, poi girare a ovest e andare a Torino. Fa un po’ impressione, vero?
Visitiamo prima le Abo Ruins, un pueblo che risale al 1300 e dove poi sono arrivati i frati Francescani, come peraltro un po’ dappertutto nell’area. A est di qui ci sono delle saline e per questo la densità di insediamenti è piuttosto alta. Passiamo quindi per la cittadina di Salinas, il cui aspetto western è enfatizzato dalla quasi fatiscenza di alcuni locali tuttora in attività. Vedo un barbiere che sembra quello del vecchio west e quantomeno il locale lo è, considerando quanto è malmesso. Proseguiamo quindi per Quarai Ruins, anche questo sito molto bello. Entrambi hanno la classica forma costruttiva dei pueblo di questa zona, completamenti rossi. Poi avanti sulla byway, con i suoi paesaggi sconfinati e lungo la quale vediamo, come un po’ dappertutto fin qui, case abbandonate con anche l‘auto vecchia lasciata lì, ma anche dei bei ranch, terreni in vendita (ma chi li compra qui?) e baraccamenti stile rom con di tutto e di più buttato in cortile. Ci chiediamo come vivono, dove vanno a scuola i figli, dove vanno a fare la spesa, considerando che i centri più vicini sono ad almeno 40 km. Capito perché qui hanno tutti il pick-up? A noi basta il carrello della spesa, e ci pare scomodo se il supermercato è a qualche chilometro. A loro serve tutto il cassone e fanno decine (molte) di chilometri. Il territorio è montuoso, ci sono i pini. Qui sembra stiano oggettivamente meglio che non in pianura, cioè nelle lande desertiche. In alcuni punti lungo la strada vediamo gruppi di cassette postali, uno anche con 160 posti caselle, per cui vuol dire che disperse (ma tanto disperse) all’interno ci sono 160 nuclei famigliari. Sinceramente non riesco a concepire un isolamento di vita così. Vero che noi italiani siamo mammoni, con un altissimo senso della famiglia unita, ma qui ci sono molti che probabilmente vedono qualcuno si e no una volta la settimana, e dopo aver percorso chilometri su chilometri. E poi, anche in un paesetto sperduto, come Chilili lungo la byway, troviamo un parcheggio con almeno 15 bus scolastici, ma non pulmini piccoli, bensì bus da almeno 40 posti. Ma dove sono tutti sti bambini? E dove li vanno a pigliare? E dove poi li portano? Mi sa che qui stanno più tempo sul pulmino che a scuola. E capisci perché appena possono li sbattono al college, almeno è finita la storia. Comunque la strada è molto scenografica, con i suoi saliscendi e un’infinità di scorci paesaggistici.
Usciti dalla byway sulla I40 traversiamo Albuquerque per piombare nuovamente in territorio desertico. In alcuni punti siamo proprio sulla vecchia Route 66. Più avanti deviamo a sud direzione Acoma Pueblo. Il territorio è fatto di mesas e pinnacoli rocciosi che si stagliano sulla pianura. Il pueblo è arroccato sopra un massiccio roccioso, è tuttora abitato e si entra solo accompagnati da una guida, dopo aver pagato il ticket d’ingresso e una fee per ogni macchina fotografica che ci si porta appresso. Il villaggio è molto bello e caratteristico. La grande chiesa della missione è suggestiva, con il pavimento in terra, ma qui non si può fotografare Pure quello che si vede guardandosi attorno è di una bellezza mozzafiato. Le mesas, i massicci, i colori, gli spazi, gli orizzonti. Comincia anche un temporale con impressionanti saette che cadono al suolo. Ripartiamo direzione Gallup dove alloggiamo al Rancho Hotel, uno dei più storici, dove hanno alloggiato grandi attori, come John Waine, Humpry Bogart (la nostra camera), Robert Mitchum, Elizabet Taylor, Spencer Tracy, Henry Fonda e molti altri. Il look è veramente old style e sembra di essere catapultati nel passato. Un giretto poi per la città, per orientarsi, dato che domani siamo tutto il giorno qui. Ci aspetta the 90th Annual Inter-tribal Indian Ceremonial. Percorsi 495 Km di strada in 7:10 ore di guida e 11 ore totali di viaggio. Totale 3552 chilometri.
Ø DAY 11 Giovedì
Alzata una volta tanto tranquilla. Colazione e passeggiata lungo la Route66, tappezzata di fabbricati old style e negozi vari. Entriamo in uno di abbigliamento western, Zimmermann, che è una bellezza. Cominciamo a guardare di qua e di là e parte la febbre da shopping. Mi faccio stivali Justin, cinture, jeans e camice Wrangler. Se teniamo conto che i Wrangler costano almeno ¼ che da noi, la camicia costa una pippa e gli stivali almeno 1/3 rispetto a un qualsiasi negozio western da noi, direi che ho fatto un affare. Entriamo poi in un negozio di roba indiana gioielli e mille altri manufatti, con un reparto di tappeti bellissimi, ma con prezzi astronomici. Un tappeto piccolo 90×150 circa costava più di 3000 dollari e un bel tappettone da 2×3 metri costava 54.000 dollari. In pratica, il negozio conteneva qualche milione di dollari. Ci spostiamo quindi verso the Red Rock Park dove c’è la manifestazione, ma non ci sembra troppo affollata. Paghiamo il parcheggio, 5 dollari, poi il ticket d’ingresso, 10$ a testa, ed entriamo. Scopriamo che il rodeo “was canceled” e in sostanza non c’è niente. Solo una mostra di dipinti e nient’altro. Incontriamo altri turisti delusi e arrabbiati come noi. Ci siamo fatti migliaia di km per una ciofeca simile. Mi sa che scrivo una lettera di “complain” al major della città. Chiediamo se il biglietto a questo punto potesse valere anche l’indomani, casomai ci fermiamo un giorno in più, ma non è possibile. Al diavolo! Una bella fregatura. Ci rimane la parata che ci sarà stasera fra il downtown e parte della 66. Decidiamo quindi di riempire la giornata andando a vedere Zuni Pueblo che dista 40 miglia. Un paesotto sperduto in mezzo al deserto. Chiediamo una mappa al visitor center e su questa ci indicano alcuni edifici, ma che non hanno niente a che fare con un pueblo antico, dove dovrebbe esserci anche la missione Nuestra Señora de Guadalupe. Delusi, puntiamo (32 miglia) verso El Morro National Monument, un massiccio di roccia dove i nativi hanno fatto da secoli delle iscrizioni rupestri. Bello, ma è sempre e solo un grosso sasso! Complessivamente circa 200 km e 2 ore e mezza di strada praticamente per nulla. Sfiniti torniamo in albergo per una dormita ristoratrice. Ci fermiamo a vedere un lungo treno che passa (almeno uno ogni mezz’ora) ed è composto di 4 motrici e 136 carri con 2 container sopra. Infinito! Dopo cena andiamo quindi alla downtown dove c’è già un sacco di gente, polizia e transenne e aspettiamo. Alle 9 e mezza cominciano a sfilare i diversi gruppi etnici, le varie reginette (da quelle baby alle regine nonne) e gruppi danzanti con i loro abbigliamenti folcloristici nei colori e nelle forme. Finalmente, dopo una giornata di delusioni, un evento che gratifica l’essere qui. Quasi al termine (per fortuna) della parata cominciano a vedersi dei mega fulmini e tutto d’un tratto inizia una tempesta di vento e acqua, con conseguente fuggi fuggi degli spettatori. Un caos. Ci rifugiamo sotto un riparo di fortuna e aspettiamo. Uscire ora, con tuoni e fulmini, e pioggia che va di traverso, non è il caso. Dieci minuti di thunderstorm e, veloce com’è arrivata, smette. Comunque siamo zuppi. Fine della giornata! Percorsi 237 Km di strada. Totale 3789 chilometri.
Ø DAY 12 Venerdì
Lasciamo l’hotel El Rancho un po’ tardi, perché ho avuto un po’ d’insonnia, e considerato anche che le tempistiche calcolate da Google sono state spesso cannate, i tempi sono stretti e fa caldo, decidiamo di saltare Chaco Canyon, che comunque è molto simile a Mesa verde o al Canyon de Chelly, che abbiamo già visto. Sarebbe stata una bella tirata offroad, ma sicuramente ne faremo ancora. Ci dirigiamo quindi verso nord sulla 491, e dopo Newcomb deviamo a dx direzione Bisti Badland. Usciamo sulla 371 e andiamo un po’ verso sud fino a trovare a sx la strada per Bisti. Non c’è anima viva. Ci addentriamo nella Wilderness Area fino al gabbiottino che contiene il registro dei visitatori. Wow. C’è un’altra macchina. Sfogliamo il registro e gli ultimi sono degli australiani (quelli dell’auto?) ma comunque ad agosto sono stati qui anche altri tre italiani. Usciamo sulla 371 e andiamo ancora 7 miglia a sud fino alla deviazione per De-Na-Zin Wilderness Area. La strada è una dirt road, una Navajo Service Route (Co Rd 7500). Incrociamo sì e no 3 auto. Circa a metà troviamo il sito, ma rispetto alla strada è piuttosto lontano e richiede una scarpinata che a mezzogiorno con 40 gradi non è il caso di fare. Comunque, si tratta di un ingresso più a nord della stessa area di Bisti. Proseguiamo quindi a nord-est fino alla 550 e saliamo a Bloomfield per poi puntare a Farmington. Motel6 anche qui (stavolta non eccelso, ma sempre economico) e riposino. A metà pomeriggio, con ancora 38 gradi e sole cocente, facciamo un giro in paese sulla main street, poi andiamo in un supermercato country, il “Big R“, e anche qui con tutto il ben di dio che c’è ci prende la febbre da shopping. Camice, cinture e cappelli, ovviamente tutto stile western. La sera ci spostiamo 5 miglia a est direzione Bloomfield per la San Juan Country Fair, che avevamo già un po’ visto l’altra volta. Un sacco di gente, parcheggi zeppi di pick-up e un estratto di vera vita western. Dalla country music live al rodeo (purtroppo a quell’ora solo il roping youth), delle gare tipicamente americane di torte e decoupage vari (orribilmente kitch) alla fiera campionaria. Insomma una specie di “fiera del socco” (a Grisignano di Zocco) o di fiera campionaria di Lonigo. Solo che da noi non c’è né il country né il rodeo. Pazienza. Notiamo con rammarico che gli indiani non sono messi tanto bene, in quanto ad aspetto. Non che gli americani siano messi meglio, ma mi par di capire che l’uomo bianco non ha portato poi tanto bene ai nativi americani. Prima li ha invasi, poi li ha sottomessi, poi gli ha tolto la dignità. Adesso ci sono chiese in giro di tutti i tipi, anche disperse nel deserto, e questo vuol dire che la gente si lascia condizionare psicologicamente. Potevano lasciarli ai loro dei che forse era meglio. Inoltre, ci poniamo una domanda: se la gente è così malmessa, vive in delle baracche, geneticamente stanno andando a rotoli (obesi, ecc), mentalmente sono deboli, considerate appunto tutte le chiese e tutti i predicatori che fanno proseliti, senza contare tutti i casinò che ci sono in giro con i parcheggi sempre pieni, come hanno fatto a essere la prima potenza industriale, tecnologica e militare? Percorsi 331 Km di strada in 6:30 ore di guida e 7 ore. Totale 4120 chilometri.
Ø DAY 13 Sabato
Partiamo con direzione Shiprock per rivedere la meravigliosa omonima montagna lavica. Per strada altre considerazioni sugli americani. Hanno impianti elettrici da terzo mondo. Gli interruttori della luce sono quelli di mio nonno e le spine sembrano ben lungi dall’essere a norma di sicurezza. Eppure sono la più grande (almeno finora) potenza industriale e tecnologica. Arriviamo nei pressi della Shiprock ma la luce della mattina non è ancora ottimale. C’è foschia. Porca miseria, che facciamo? Aspettiamo! Trovo una strada sterrata con varco aperto e nessuna indicazione o divieto e mi butto dentro. Va in direzione Shiprock e in effetti mi ritrovo più avanti a meno di un chilometro dalla montagna, in posizione relativamente elevata sulla prateria. Insomma, una posizione fa-vo-lo-sa. Rimaniamo per buoni ¾ d’ora ad ammirarla poiché la sua maestosità emette qualcosa di mistico. Capisco perché per gli indiani Navajo sia una montagna sacra. Mano a mano il sole, il cielo e la luce diventano perfetti e riesco a scattare una marea di foto fa-vo-lo-se. Torniamo sulla strada principale e ci spostiamo un po’ a ovest, dove la strada taglia la lunga cresta rocciosa che fa da coda alla Shiprock. Guardatevi le foto su internet e capirete. Essere lì è però molto ma molto più spirituale. Fa impressione pensare alla frattura sulla crosta terrestre che ha creato quella lunga muraglia di lava che termina con quel meraviglioso sbuffo verso il cielo che è la Shiprock. Magico. Ritorniamo verso la cittadina omonima ed entriamo in un Farmer Market lungo la strada. Saremo sicuramente stati gli unici turisti in mezzo a tutti quegli indiani, ed è stato un bel momento di folclore. In un edificio a margine dell’area c’è un predicatore con tanto di altoparlanti che snocciola una predica ininterrotta, mescolando le parole Joshua, Jesus, Bible, Heaven con ogni tanto degli urli ahi-ahi-ahi-ahi-ahi-ahi-ahi! Facciamo la spesa al market del paese e rimaniamo stupiti a vedere lo scaffale dei medicinali. Comunque ne approfittiamo comprando bottiglioni di aspirine, moment e antiacido. Ne avremo per dieci anni. Facciamo il pieno e… non è possibile! La pompa ha anche gli spot pubblicitari audio! Questo conferma ulteriormente che la gente è molto condizionabile. Ci spostiamo quindi verso Kayenta per poi salire verso la Monument Valley. Un’altra considerazione: lungo le strade, fin da quando siamo partiti, corre sempre una recinzione. Chissà quante migliaia di chilometri di reticolato ci sono in America? Ci avviciniamo alla Monument Valley e il cielo è coperto. Imprecando sottovoce penso già che mi fermerò anche domani perché non posso perdere anche stavolta i meravigliosi scenari e i colori che devono esserci con il sole. Quasi per miracolo (mi hanno sentito imprecare) esce il sole e si apre un bel cielo azzurro con le nuvolette. Foto fa-vo-lo-se. Facciamo quindi il round-trip della valle e le condizioni meteo tengono fin quasi alla fine. Soddisfatti ci spostiamo a Mexican Hat che pernottiamo lì. Lungo la strada traversiamo, causa il vento, una perfetta tempesta di sabbia rossa. Arrivati a Mexican Hat abbiamo la fortuna di trovare l’ultima stanza sull’unico motel, il Hat Rock Inn, che esponeva ancora il cartello “vacancy”. Mangiamo una eccezionale NewYork Steak al Mexican Hat Motel & Steackhouse, cotta su un singolare braciere che fa l’altalena sul fuoco, e andiamo in camera (molto bella). Fuori sibila un vento fortissimo, suggestivo per proseguire con il diario di viaggio. Percorsi 376 Km di strada in 7:30 ore di guida e 11 ore totali di viaggio. Totale 4496 chilometri.
Ø DAY 14 Domenica
Spostamento direzione Moab. Poco dopo Mexican Hat facciamo comunque una capatina al Gooseneck State Park, già visto ma che ha sempre il suo fascino. Più avanti, a Bluff, ci fermiamo a visitare Fort Bluff, un insediamento di pionieri mormoni che hanno fatto un trasferimento epico per insediarsi qui. Vediamo le case arredate, i carri usati e altre cose, oltre ad un filmato che ci fa capire quante difficoltà sono stati costretti a passare quei pionieri con le loro carrozze. La fermata ne è valsa la pena. Proseguiamo quindi e arriviamo a Moab circa all’una. Fissiamo la camera al Motel6 e partiamo per il mitico trail fuoristrada che inizia con la Potash Road Scenic Byway e prosegue con il Shafer Trail. La strada è prima asfaltata e costeggia il Colorado River, in basso dentro alla gola con le belle alte pareti verticali di roccia rossa, poi diventa “dirt” e comincia ad addentrarsi nel territorio, traversando canyons e wash e risalendo mano a mano i vari step dei diversi livelli dei canyons. Si passa per Dead Horse Point, non il viewpoint ufficiale del parco, ma un livello più basso, proprio sopra il Colorado River. Gli scenari che si susseguono sono magici. Purtroppo il tempo non è granché, il cielo è coperto e manca il sole, per cui i colori non sono così accesi come dovrebbe. Pazienza!
La strada continua a inerpicarsi, con alcuni tratti veramente dissestati e che mettono a dura prova il veicolo, io che guido e Manu che si tiene forte, senza parlare. Speriamo che quelli della National non abbiano messo il rilevatore Gps sul veicolo, altrimenti prendono paura! Dopo circa un’ora e mezza inizia il tratto finale, che s’inerpica con una scaletta di tornati quasi in verticale sulla parete circolare del canyon per proseguire poi in alto costeggiando il bordo dello strapiombo. Complessivamente questo trail richiede circa 2 ore. Non me lo ricordavo così dissestato e in albergo mi hanno poi spiegato che hanno avuto un inverno molto nevoso che si è “mangiato” molto le strade sterrate interne. Beh, meglio così poiché è stato ancora più bello e impegnativo di quel che mi aspettavo. A parte il meteo che non mi ha regalato le foto che avrei sperato. Arrivati alla sommità di Island in The Sky, sulla strada asfaltata di accesso al parco, andiamo a Grand View Point per vedere la mesa dove iniziano le crepe dei canyons. Ritorniamo verso Moab che è un po’ tardi, ma comunque ci fermiamo di qua e di la ai vari viewpoint per delle foto. Andiamo anche all’overlook del Dead Horse Point State Park, una vista in più sui maestosi gooseneck del Colorado River. Rientro in motel, doccia, poi a cena da Eddie McStiff’s, dove la birra se la fanno loro ed è molto buona, poi a nanna, non prima di aver completato il diario di viaggio e scaricato le foto. Percorsi 450 Km di strada in 8:40 ore di guida e 13 ore totali di viaggio. Totale 4946 chilometri.
Ø DAY 15 Lunedì
Giornata con sole e cielo favolosi. Impossibile lasciare l’area senza rifare la Potash Road/Shafer Trail con queste condizioni meteo. Si parte e si rifanno le 2 orette e mezza di trail, stavolta con foto dai colori belli saturi. Spirito completamente appagato, salvo aver sbagliato esposizione di alcune foto, accidenti! Risalito lo Shafer Canyon ci spostiamo verso Moab per imboccare la U128, Upper Colorado River Scenic Byway, che segue il Colorado per un bel po’ dentro il suo gorge. Strada molto scenografica. Attraversiamo Dewei e Cisco, due Ghost Town. Lo storico ponte di legno di Dewei, che avevamo fotografato l’altra volta, ora non c’è più. E’ stato bruciato da un ragazzino nel 2005. Usciamo quindi a Fruita per imboccare la scenic drive del Colorado National Monument, molto spettacolare con i suoi canyon. Sbuchiamo a Grand Junction e prendiamo a sud sulla US50. L’orario è un po’ tardo, sicuramente non arriviamo a Silverton e decidiamo quindi di fermarci a Montrose. Ci sono molti motel e scegliamo il Country Lodge, molto carino e tutto sommato economico. Bel bagno in piscina, è la prima volta, dato che siamo soli. Faccio delle foto a un sacco di colibrì che svolazzavano intorno e poi a mangiare una bella e buona Rib Eye al Red Barn Restaurant & Lounge. Percorsi 395 Km di strada in 8 ore di guida e 10 ore totali di viaggio. Totale 5341 chilometri.
Ø DAY 16 Martedì
Partiamo con l‘obbiettivo di arrivare nell‘area intorno a Taos, ma forse non cela faremo, dato che siamo indietro con la tabella di marcia. Direzione quindi verso le Red Mountains, che cominciamo poco dopo a risalire. La strada è la U550, una scenic drive chiamata anche Million Dollar Highway e la prima town che troviamo è Ouray, una bella cittadina montana in stile squisitamente western. Da queste parti, sulle montagne o in prossimità di esse, non si vedono più case da misericordia ma abitazioni più dignitose e bei ranch, segno che qui si vive nettamente meglio che non le zone desertiche. Facciamo una bella passeggiata in paese, già visto la volta scorsa ma che merita comunque uno striscio lungo la main street. Proseguiamo quindi verso Silverton risalendo le montagne. Il torrente a valle è di un colore giallo oro e poco prima del passo troviamo le meravigliose cime delle montagne con le loro sfumature rossastre, e troviamo i resti di torri di escavazione e case risalenti all’epoca delle miniere d‘oro. Superiamo il Red Mountain Pass a 11.018 piedi, cioè poco più di 3600 metri e poco dopo arriviamo a Silverton, anche questa in stile old-west. L’unica strada asfaltata è la main street, mentre tutte le laterali sono ancora sterrate. La cittadina è piena di edifici che risalgono a fine 800 inizio 900, fra i quali la prigione e il bordello oltre a molti altri. Mangiamo in un vecchio saloon e poi facciamo un giro lungo le vie principali, piene di negozi e locali. Arriva anche il treno a vapore che fa la spola da Durango. L’ambiente è sicuramente turistico ma l’atmosfera è veramente western. Spostandoci con l’auto da una parte all’altra per vedere delle cose, Manu dimentica il portellone dietro aperto. Che figura da polli! Fortuna che non abbiamo perso roba nel bel mezzo della main street. Ripartiamo scendendo di quota e prendendo due gocce di pioggia, tanto che la temperatura scende fino a 14 gradi. Rimaniamo sempre comunque in zona montuosa e dappertutto si vedono belle case e bei ranch con un sacco di cavalli. Proprio un bel posto per venire a fare una vacanza a cavallo. Traversiamo Durango senza far nulla, ma non ci sarebbe comunque granché da vedere, e proseguiamo sulla U160 verso Pagosa Spring. Qui decidiamo di fare tappa poiché l’eventuale proseguo è troppo lungo e con zone a rischio di motel. L’Econolodge che scegliamo è buono e mangiamo poi, io la solita bisteccona da cowboy, al Boss Hogg’s Restaurant & Saloon. Percorsi 302 Km di strada in 6:20 ore di guida e 10 ore totali di viaggio. Totale 5643 chilometri.
Ø DAY 17 Mercoledì
Oggi trasferimento panoramico lungo. Entriamo nelle Carson National Forest e ne usciamo dopo più di 8 ore di saliscendi, vallate e paesaggi alpini. Siamo sempre rimasti in quota fra i 2000 e i 2500 metri e abbiamo superato per ben 3 volte i 3000 metri di quota, 3200 il passo più alto, con pini dappertutto (8 ore di pini!). Strano, da noi i pini arrivano più o meno a quota 2000 metri. Il percorso è indubbiamente scenografico (per forza, sono delle scenic bayways), fatto di ampie aperture di pascolo pianeggiante circondate da cime coperte di pini. Pochissime macchine per strada. Un trip un po’ lunghino. Il tragitto da Pagosa Spring inizia dalla 84 per Chama, poi la 64 direzione Taos passando per Tres Piedras. Arrivati vicino a Taos iniziamo un giro circolare in senso orario, chiamato Enchanted Circle Scenic Byway, che passa per Arroyo Seco, una graziosa cittadina (cittadina? meglio definirla contrada), poi passa per Questa, RedRiver, Eagle Nest, Shady Brook, Taos Pueblo, Taos. Prima di arrivare a Taos passiamo per un’area con delle case dalle forme strane e stravaganti. Sono le Earthships, abitazioni costruite solo con materiali riciclati e autosufficienti sia a livello energetico sia per l’acqua, raccolta su grandi cisterne interrate. Per questo non pagano nessuna tassa al governo. Ce lo spiega un giovane architetto di origini Italo-Argentine che è lì per studiare questa edilizia bio-sostenibile. Poco dopo siamo di fronte al Rio Grande Gorge Bridge, un bel ponte degli anni 60, il secondo ponte sospeso degli Stati Uniti, come altezza. Passeggiata sul ponte, che balla in maniera impressionante quando passa un camion. La vista del baratro è mozzafiato. Là in fondo c’è gente su delle camere d’aria gonfiate che si fa trascinare dalla corrente giù per le rapide, e da come schiamazzano sembra si divertano un sacco. A questa facciamo una deviazione per vedere la confluenza (la “junta”) dei fiumi Rio Grande e Red River che scorrono entrambi dentro i loro maestosi canyon. E’ la Wild Rivers Back Country Byway. E siamo bene o male sempre almeno 2000 metri. Dalla strada, visto a livello di orizzonte il canyon non si vede. Solo grandi pascoli pianeggianti e cime attorno. Posso immaginare quei pionieri che pensavano di avere una prateria continua davanti a loro e si sono trovati davanti all’improvviso una voragine invalicabile profonda oltre 200 metri. E adesso? Come passiamo? Proviamo a destra o a sinistra a vedere dove c’è un guado? Una vita veramente dura! Riprendiamo il “circle” traversando ski areas e paesaggi prettamente alpini. A Eagle Nest si apre un meravigioso altipiano, con fattorie, ranch e stables. Per chi conosce l’altipiano di Asiago equivale alla piana di Marcesina moltiplicato 100. Prendiamo anche un bel po’ di pioggia e a un certo punto la temperatura è scesa anche a 13 gradi. Arriviamo a Taos Pueblo che esce uno sprazzo di sole e dei buchi di cielo azzurro fra i nuvoloni neri. Giusto in tempo per la visita. Il villaggio e fatto di costruzioni di terra rossa intrecciata di paglia, a più livelli sovrapposti, tipiche dei pueblos di quest’area vicina a Santa Fé. Ci spostiamo quindi verso Española, la destinazione finale per oggi. Non stanchi di montagne e pini facciamo la High Road to Taos Byways, una scenic byway che passa per Peñasco e Chimayò. Sfiniti approdiamo al Motel6 (stavolta di qualità appena sufficiente) e mangiamo da “El Paragua”, un bel localino messicano dove abbiamo mangiato ottimi camarones. Percorsi 523 Km di strada in 8:30 ore di guida e 11:30 ore totali di viaggio. Totale 5643 chilometri.
Ø DAY 18 Giovedì
Oggi trasferimento con pochi chilometri ma molte tappe. Iniziamo con una sorpresa: la strada di accesso alle Puye Cliff Dwellings è chiusa, causa “a big fire”. Ci spostiamo quindi verso Los Alamos, che credevo una piccola town mentre è una bella cittadina, con l’università e un sacco di laboratori governativi di ricerca. Non ho idea di cosa facciano oggi. Meglio non saperlo, dato che qui è stata messa a punto la prima bomba atomica, fatta poi esplodere vicino alle White Sand Dunes di Alamogordo. Probabilmente ci saranno un sacco di posti come quelli visti nei film, con ascensori che vanno sottoterra e chissà cos’altro. Anche lungo la strada ci sono molti siti racchiusi da reticolati con cartelli “danger”. Ci sarebbe anche il museo da vedere, quello che ripercorre la storia della bomba atomica, ma non ci attira granché poiché, come abbiamo letto in giro, “trascurano“ troppo spudoratamente di accennare, anche solo per la storia, a quello che è stato il seguito più drammatico di questa invenzione: Iroshima e Nagasaky. Proseguiamo direzione Bandelier National Monument e prima passiamo a White Rock all’Anderson Overlook per vedere una bella panoramica del Rio Grande nel suo canyon. Arrivati a Bandelier la ranger del punto di accesso ci dice che è gratis ma che si può vedere solo un punto. Scopriamo poi che il “big fire” è stato un enorme incendio di quest’anno che ha distrutto gran parte delle foreste qui intorno, ed è lo stesso che ha determinato la chiusura di Puye Cliffs. Un’estensione enorme di vegetazione andata in fumo. Possiamo fare solo un trail di circa 1 miglio che porta a un overlook dal quale si vedono le rovine del pueblo e una parte delle cave scavate nelle cliffs dove vivevano gli antichi indiani Anasazi. Piuttosto che niente va bene anche questo.
Proseguiamo sulla Jamez Mountain Scenic Byway e saliamo fino a circa 2500 metri. Siamo su un vecchio vulcano e costeggiamo per un po’ l’enorme caldera, ora una magnifica vallata, dove vediamo anche una mandria di alci.
Scendiamo quindi la vallata che porta a Jamez Pueblo. Passiamo per Jamez Spring, dove poco prima vediamo la Soda Dam, una bella formazione rocciosa di chiara origine vulcanica che passa sopra al Jemez River. Scopriamo che l’acqua nel torrente è completamente nera e calda, e spiega chiaramente la presenza di stabilimenti termali in zona. Di là della strada esce da un buchino, con un gorgoglio, uno zampillo di acqua chiara bollente che lascia poi una scia giallognola. Mangiamo al Los Ojos Restaurant & Saloon, un locale tipico e d’epoca. Vediamo poi lo stabile in rovina dei primi stabilimenti termali.
Scendiamo e al visitor center di Jemez Pueblo scopriamo che dentro il pueblo ci possono entrare solo gli indigeni. Ma allora? Perché nominarlo sulle mappe per far venire due poveri turisti italiani fino a qui? Nel piccolo shop prendiamo atto di un’altra evidenza del declino, secondo me, dell’America. Tappeti indiani, belli ma “made in India”. Non ci si può più fidare di nulla. Il cappello western di Manu era “made in China” mentre il mio era “hecho in Mexico”. Ricordo che l’ampolla con pagliuzze d’oro comprata l’altra volta in una miniera d’oro lungo la Route66 aveva sotto un bollino “made in China”.
Considerazioni: ma ‘sti americani sono ancora capaci di fare qualcosa di loro o hanno ormai perso tutta la capacità manifatturiera, che dovrebbe essere alla base di un’economia? Sembra che si siano ridotti a fare solo i commercianti, oltre che muovere la finanza mondiale. Per quanto tempo potrà durare questo? Cosa faranno le nuove generazioni se non saranno più in grado di “costruire” realmente qualcosa, visto come oggi sono ridotti a “vivacchiare”. E quando vedi molti “nonnini” che ancora lavorano alla cassa di un supermarket o in un misero shop ti viene da pensare dove stia andando questo mondo.
Chiusa parentesi e ripartiamo. Con questi salti di programma siamo in abbondante anticipo sulla tabella di marcia.
Ad ogni modo la vista sul pueblo conferma quanto visto in precedenza nelle altre aree dove vivono i nativi. Purtroppo si nota un grande disordine, baracche sgangherate, rottami dappertutto, insomma un gran casino. Sembra un campo Rom. Oppure sembra di vedere un villaggio del terzo mondo, o dei villaggi dell’America latina. Se penso bene, in alcune aree del Madagascar costruivano case con mattoni di terracotta, e avevano i forni per la cottura. Qui hanno moltissima manifattura di “pottery” in terracotta? Non potrebbero quindi farsi anche quattro mattoni per costruire delle case un po’ più solide? E si che le fatture dei pueblo sono costruzioni in tipica muratura rossa. Ce ne sono, certamente, ma sembra che stia diventando più comodo usare una casa su ruote poggiata su dei blocchi di cemento.
Passiamo per San Ysidro, quattro case ma una chiesetta molto bella. Proseguiamo per Zia Pueblo e alla strada di accesso c’è il Tribal Access Point, dove bisognerebbe registrarsi e pagare per entrare.
A questo punto decidiamo che Acoma Pueblo e Taos Pueblo ci bastano, e smettiamo di girare per pueblos, dove comunque non puoi fare nulla.
Altra considerazione: ma tutta questa ristrette tradizioni di pueblo non cozzano un po’ troppo con i golf courses e i casinò che ci sono, e che sono gestiti dai nativi? Forse tutto sommato il business che porta la civiltà moderna non dà poi così fastidio, sembra.
Ne abbiamo abbastanza e puntiamo a Santa Fè. Alloggiamo al Motel6 downtown, a circa 1 miglio dalla Plaza, dove andiamo per vedere un po’ il centro. Un sacco di gente, un concerto in piazza, locali zeppi ma riusciamo a trovarne comunque uno per mangiare. Sembra che la gente sia per la maggior parte un po’ naif o New Age, ma è comunque una caratteristica di questa città, molto folcloristica.
A fermarci per visitare musei non ci pensiamo (non facciamo parte del turismo “colto”, sorry). Domattina si riparte.
Percorsi 326 Km di strada in 6:30 ore di guida e 8 ore totali di viaggio. Totale 6492 chilometri.
Ø DAY 19 Venerdì
Iniziamo con l’andare al Kasha-Katuwe Tent Rocks National Monument, vicino a Cochiti Pueblo. Sono due trail, uno circolare panoramico di 1,2 miglia e uno che entra nello slot canyon e poi sale su una cima per vedere tutto dall’alto, che è da 1 miglio a fondo chiuso. Complessivamente ci facciamo una passeggiata di circa 5 Km. C’è un bel sole ma per fortuna è ancora freschino e ventilato. Durante il ritorno comincia effettivamente a fare un po’ caldo. L’area è molto suggestiva, formata da pinnacoli a punta, fatti di materiale sedimentoso, coperti da una roccia e con belle sfumature di colore. Sono molto simili alle piramidi di Percha in Alto Adige. Suggestivo è anche l’attraversamento dello slot canyon. Ripartiamo con l’intenzione di fare il Turquoise Trail ma, causa un’errata interpretazione di un evento che Manu legge su una rivista, puntiamo a Pecos. Ormai siamo lì, è mezzogiorno e quindi mangiamo qualcosa in una simpatica trattorietta messicana. Non ci resta che andare almeno a visitare il Pecos National Historic Park, un sito dove esistevano un pueblo e una chiesa francescana.
Ritorniamo sui nostri passi e andiamo a imboccare il Turquoise Trail, area di ghost town e di miniere abbandonate. Passiamo per un paesetto di nome Madrid che a chiamarlo strano è poco. Le case sono fra il folcloristico, il naif e il kitch. Tutti vendono di tutto, ma cose così strane che uno non penserebbe mai. Uno aveva tutti vestiti vecchi, anche in stile liberty, in cortile, un altro vendeva stivali da cowboy usati, altri le cianfrusaglie più strane. Si vendevano ovviamente turchesi e gioielleria indiana (ma ci fidiamo con tutto sto made in Cina?). Qui passava anche una ferrovia ma oggi resta solo una vecchia locomotiva a vapore arrugginita. Ripartiamo e a Tijeras imbocchiamo la I40 direzione Santa Rosa, la cittadina più adeguata per fare una sosta. Vedremo domani se andare a fare un bagno nel Blue Hole che c’è qui. La cittadina è una classica città di passaggio (più di 20 motels) ed è attraversata dalla famosa Route 66. La strada e punteggiata da cimeli abbandonati, edifici, distributori, auto, che ricordano l’epoca passata. Mangiamo al Route 66 Restaurant, e ci sembra di essere nel locale dei telefilm Happy Days. Mancava solo che saltasse fuori Fonzie. Pernottiamo al Travelodge, che da fuori è bellino e la camera di buon livello.
Percorsi 459 Km di strada in 6:30 ore di guida e 11 ore totali di viaggio. Totale 6951 chilometri.
Ø DAY 20 Sabato
Iniziamo con l’andare a vedere il famoso Blue Hole, una bolla di acqua limpidissima larga 80 piedi e fonda altrettanto, con temperatura costante sui 17 gradi e dove ci sono diversi sub che fanno immersioni (sub nel mezzo del New Mexico!). Direzione Tucumcari, come andare da Venezia a Brescia senza nulla in mezzo. Come sempre, fra una città (degna di essere chiamata tale) e un’altra c’è infatti in mezzo il nulla, fatto da una striscia di asfalto costellato dai grossi camion a 18 ruote, molte decine se non centinaia di miglia, e tante cose abbandonate che fanno un po’ tristezza. Tanti cartelloni pubblicitari sotto cui qualche mucca si mette all’ombra. Percorriamo a tratti il percorso originale della Old Route 66 dove troviamo qualche ghost town, e certe volte lo scenario sembra post-atomico.
Tucumcari: un paese che inizia con edifici abbandonati e roba vecchia, prosegue poi con anche qualche edificio nuovo in mezzo a quelli vecchi e finisce con la zona più nuova. Facciamo qualche spesa di roba da cavallo in un negozietto per “farmers”. Compro anche un bel portafoglio da cowboy, anche se rimango deluso quando vedo scritto “made in cina”. Non ci si può proprio fidare più di nulla e di nessuno. E gli americani sono effettivamente solo dei commercianti.
Fatalmente la mamma del padrone è una “ex italiana”, come si definisce lei, originaria di Udine, venuta qui col marito militare americano subito dopo la seconda guerra. L’arzilla nonna Emma ci racconta, a volte con un tono di tristezza e rimpianto, di questo e di quello e scambiamo una piacevole chiacchierata. Ci fa notare che il sabato, dietro al negozio, fanno il BBQ per i cowboy e farmers che arrivano in paese per compere. Ci fermiamo lì a mangiare. Il localino è quanto di più western e folk si potesse sperare. Quattro tavole inchiodate e un tetto in lamiera sono la “trattoria”, con cimeli vecchi dappertutto e cowboys, cowgirls e gente del posto che si strafoga, compresa nonna Emma e noi, dei bei sandwich imbottiti di tutto, in tipico stile Usa. E’ stato uno dei più bei momenti del nostro viaggio. Certamente non saremmo mai entrati spontaneamente in un posto simile. Salutata la nonna e scambiati gli indirizzi usciamo e troviamo in cortile una folla di gente che imbastisce un’asta dove vendono un trattore agricolo e una motrice di camion. Rimaniamo ad ammirare il teatrino del battitore d’asta che con la tipica cantilena, impossibile da descrivere (guardate su YouTube se trovate qualcosa) conduce il gioco.
Ripartiamo alla volta di Amarillo e ancora ripercorriamo parte del tragitto vecchio della 66. Passiamo per Glenrio, altra ghost town, dove sembra che siano scappati tutti lasciando lì tutto, la casa, il distributore e pure la cadillac davanti alla porta.
A trenta miglia da Amarillo, a Wildorado, vediamo un campo eolico. La prima volta che vediamo qualcosa di moderno ed ecologico.
L’area è prettamente agricola e la I40 passa in mezzo a campi immensi intercalati ogni 1 o 2 miglia da strade nord-sud ed est-ovest in un reticolo perfetto (per capire meglio dare un’occhiata con Google Earth).
Poco prima della città la tappa obbligata è al Cadillac Ranch. In pratica, in mezzo ai campi ci sono 12 Cadillac piantate a terra per metà. Fa ridere il cartello che vieta di scrivere o dipingere sulle auto, e poi vedere le stesse ridotte come il metrò di Milano, con 52 strati di colore e 1000 bombolette di colore sparse tutto attorno.
Entriamo nella città, che scopriamo veramente grande considerato il numero di uscite della I40 che ci sono. Facciamo uno spostamento a sud verso Canyon, dove dovrebbe esserci una gara junior di bull riding che non troviamo, e non troviamo nemmeno un posto libero per dormire nei 3 motel della cittadina. Entriamo in un bel negozio, dove compriamo delle belle camice Wrangler in stile western a poco più di 15 euro cad.
Ritorniamo ad Amarillo, prendiamo una camera al Motel 8 Central e andiamo a mangiare al famoso Big Texan Ranch, famoso per la bistecca da 2 kg che mangi gratis se riesci a finirla in meno di 1 ora, con tutti i contorni compresi. Io mi accontento di un bellissimo filetto da mezzo chilo e due birrone.
Percorsi 403 Km di strada in 6:30 ore di guida e 9:30 ore totali di viaggio. Totale 7354 chilometri.
Ø DAY 21 Domenica
Anziché proseguire sulla Route66 che ormai è tutta uguale, puntiamo in anticipo a Denton, vicino a Fort Worth. Prima però facciamo un giro sulla vecchia Route66 che passava in mezzo ad Amarillo, ma sinceramente non c’è tanto da vedere. Bene o male ormai le solite cose, e fra l’altro la domenica mattina la città è deserta. La periferia mostra sempre delle case (case?) non proprio messe bene, mentre nel centro vedi una classica città commerciale americana. Da queste parti ci sono praticamente solo allevamenti e producono gran parte della carne destinata al consumo umano.
Facciamo poi tutto un tiro di 500 km fino a Denton sulla 287 e, a parte Wichita Falls e un altro paio di cittadine degne di essere chiamate tali, in mezzo c’è il nulla, e niente che valga proprio la pena di fotografare. Altri paesetti miseri, di quattro case, e vedo la targa di uno con scritto “population 136”. Da noi queste sono contrade! Vediamo delle zone con tanti piccoli pozzi che ciucciano petrolio ma per il resto sono lande desolate. Alcune verosimilmente coltivate, dato che ogni tanto ci sono dei mega silos lungo la strada, altre desolatamente brulle. E il caldo aumenta sempre più, superando i 40 gradi. Metti la mano fuori dal finestrino e l’aria scotta, e il clima dell’auto ce la mette tutta a fare il suo lavoro.
Fermiamo la stanza (puzzolente di fumo) al Motel6 e andiamo direttamente alla fiera. C’è un caldo bestiale e non c’è granché di gente. Speriamo non ci tirino un bidone come a Gallup. Gironzoliamo fra i trattori e i pickup in mostra, e dentro il capannone con gli stand e ci guardiamo in faccia. A parte il luna park, il rodeo e il mercato del bestiame, la fiera campionaria di Lonigo è più grande! Comunque, piano piano la gente comincia ad affluire e ci troviamo un posto sugli spalti dell’arena. Inizia il carosello delle amazzoni con le bandiere, e due fanno anche un bello scontro con i cavalli, cadendo rovinosamente a terra. Inizia poi il rodeo vero e proprio con tutte le specialità, Bareback Riding, Tie-Down Roping, Steer Wrestling, Saddle Bronc Riding, Team Roping, Barrel Racing e per finire Bull Riding. In mezzo ci mettono anche la sfilata a cavallo per l’elezione della reginetta del rodeo, tipica americanata. Comunque, finalmente un rodeo. Non è certamente di quelli top, come spero vedremo a Mesquite venerdì, ma comunque è uno spettacolo appassionante e pieno di adrenalina, specialmente il Bull Riding dove un cowboy dopo essere stato disarcionato è stato anche caricato dal toro. Percorsi 561 Km di strada in 6:30 ore di guida e 8 ore totali di viaggio. Totale 7915 chilometri.
Ø DAY 22 Lunedì
Iniziamo la giornata spostandoci a Fort Worth per visitare lo Stockyards District, dove una volta si tenevano le aste di scambio del bestiame e dove i cowboys portavano le mandrie in transumanza dai loro ranch. Purtroppo di lunedì non ci sono manifestazioni, né rodei né trenino, ma ad ogni modo due volte al giorno fanno spostare una piccola mandria di longhorn, le mucche tipiche della zona con corna lunghissime, attraverso la via principale scortata da comparse in abbigliamento tipico da cowboy. Dopodiché la visita si traduce in un dentro-e-fuori da tutti gli shop dell’area, per fare incetta di souvenir per parenti e amici e per abbassare ogni tanto la temperatura corporea scroccando l’aria condizionata dei locali. Sono sempre 40 gradi o più, e il sole picchia fortissimo. Mangiamo una delle solite “schifezze” americane, piene di salsine varie, in uno dei locali presenti. Un’altra birra visitando il Billy Bob’s Texas, un mega locale dove si beve e si ascolta musica honkey-tonk e western, ma certamente la mattina non si suona, e in particolare di lunedì.
Usciamo da lì e notiamo una scena tipicamente americana. C’era una famiglia con una bambina che aveva preso una piccola botta in testa. Non urlava quindi supponiamo le solite cose da bambini. Ad aspettarli fuori c’era il camion dei pompieri da cui sono scesi in quattro e uno con un valigione per il primo intervento. Neanche il tempo di notare la scena che sentiamo delle sirene avvicinarsi e di lì a poco è arrivata l’ambulanza. Bambina e resto della famiglia sono saliti a bordo e intanto i pompieri se ne sono andati. Roba da telefilm tipo Er.
Ad ogni modo, alle 2PM non sapevamo più che cavolo fare e siamo anche in anticipo di 3 giorni sulla tabella di marcia pianificata a casa. Fare tre giorni a Fort Worth e Dallas non è il caso. Entrare e uscire da musei e simili non è da noi, e poi in ogni caso non c’è granché da dare qui.
Che facciamo? Studiamo un po’ la cartina e la Lonely e puntiamo alla capitale Austin. Tanto cosa vuoi che siano 300 chilometri? E’ come dire: andiamo a Torino che sotto un ponte del fiume ci sono milioni di pipistrelli messicani che al tramonto spiccano il volo. E dopo? Dopo niente altro! Poi da lì faremo una capatina a Huston.
Arriviamo quindi ad Austin e alloggiamo al La Quinta, a due passi dallo State Capitol Building, il Campidoglio del Texas, sede del Parlamento dello Stato e di fronte al quale parte la Congress Avenue che porta a un ponte sul fiume Colorado del Texas, che ovviamente non è il Colorado quello del Grand Canyon. Per questo specificano “del Texas”.
Percorriamo l’Avenue ammirando lo skyline e i riflessi dei grattacieli gli uni sugli altri e arriviamo al ponte. Lì sotto ci sono milioni di pipistrelli che al tramonto prendono il volo. Non appena il sole sparisce all’orizzonte alle nostre spalle cominciano a uscire stormi di pipistrelli. Nuvole nere che si allontanano e che partono a gruppi, tanto che sembrano organizzati quasi secondo una logica strategica o militare. Rimaniamo lì a guardare queste continue uscite che formano delle macchie nere all’orizzonte, tanto che a volte sembra un film di Hitchcock. Finito lo spettacolo mangiamo molto bene da Sullivan, sulla 3a strada. Ripercorriamo il viale, ammirando stavolta lo skyline in notturna, e torniamo in albergo. Tutto qui per quanto riguarda Austin, e d’altro canto anche sulla Lonely non c’è granché.
Percorsi 382 Km di strada in 5 ore di guida e 10 ore totali di viaggio. Totale 8297 chilometri.
Ø DAY 23 Martedì
Traversiamo il solito nulla che c’è fra due città, passando paesetti che spesso sembrano più morti che vivi, come ad esempio Carmine, con edifici che dall’aspetto sembra proprio che risalgano al Far West.
A Brenham intravvediamo un negozio con una bella scritta “Brenham Saddle Shop” e ovviamente mi fermo. Ci sono solo quattro case intorno ma entrati nel negozio vediamo che è enorme. Chissà fin da dove vengono a fare spese qui. Scaffali e scaffali pieni di stivali western di tutti i colori, cappelli da cowboy in quantità indescrivibile, cinture e ogni tipo di accessori per il cowboy. Mi viene la bava alla bocca e non resisto. Compro un cappello, delle cinture, altri ammennicoli e degli stivalini per la nipotina, ovviamente manco a dirlo tutta roba da vero cowboy. Manuela riesce a fermarmi lì ma avrei voluto fare manbassa di molte altre cose.
Arriviamo a Houston ed è effettivamente una città enorme (la quarta degli states). Nella ragnatela di highway a 3-4-5 non so quante corsie e sopraelevate a 4 piani che s’intersecano come ragnatele, sbagliamo “solo” un paio di volte degli svincoli ma per fortuna il buon Tom Tom riesce a recuperare e a portarci a destinazione in mezzo ad un traffico caotico con auto che sfrecciano a destra e a manca. Bisognava tenere gli occhi ben aperti come se si guidasse in mezzo a un campo minato. Vediamo lo skyline del downtown con i grattacieli immersi in un po’ di foschia, che di fatto è più smog che altro.
La città è sicuramente diversa rispetto a quanto si vede nel countryside. Qui girano più auto normali e Suv rispetto ai pickup, veicolo indubbiamente più da lavoro. Si vede chiaramente un’anima commerciale con “Inc” dal nome chiaramente tecnologico.
Arriviamo allo Space Center della Nasa. Sei dollari di parcheggio e quasi 25 a testa di ingresso, con relativo check control quasi come all’aeroporto. Il padiglione è chiaramente un parco divertimenti con simulatore di volo, ilo cockpit dello shuttle, roba spaziale dappertutto, giochi elettronici, area giochi per bambini, shop e fast food. Ma dove sono le cose “vere” relative alla Nasa?
Prendiamo un trenino che fa il giro dentro all’area del centro aerospaziale, ma prima bisogna che ci facciano una foto per motivi di “security”. Passiamo gates di sicurezza, vediamo palazzoni tutto attorno, sfiati enormi di aria condizionata poggiati per terra, che ti fanno chiedere “ma cosa ci sarà sotto lì?” e arriviamo alla prima tappa: la “Historic Mission Control”, la sala di controllo delle missioni Apollo, dove si è risolta la drammatica emergenza dell’Apollo 13. Una sala enorme con una serie di consolle di comando con monitor e una manciata di pulsanti, e tre megaschermi sulla parete frontale. Poi un capannone enorme, la “Space Vehicle Mockup Facility”, con tutti pezzi di stazione spaziale e una navetta shuttle in grandezza reale, per esperimenti e training, e dove vediamo anche roba Alenia, ma sinceramente non mi sembra di vedere attrezzature o computer così sofisticati. Ci sono ancora monitor non Lcd!
Un minuto di raccoglimento poi nei pressi di un’area con un cerchio di alberi, che è il Memorial per gli astronauti morti durante le missioni Shuttle.
Fermata quindi al “Rocket Park” dove ci sono un paio di missili e dei motori in esposizione e poi un altro mega capannone, il “Saturn V Facility”, con dentro il vettore Saturn V, un bestione immenso con 5 motori enormi, un serbatoio primario indescrivibile e poi tutto il resto. Imponente è un termine che non riesce ancora a descrivere adeguatamente la dimensione. Mi fermo a fotografare dei particolari fra un modulo e l’altro, con matasse di fili e circuiterie che ci si chiede se questo coso possa veramente aver mai volato.
Alla fine scopriamo a cosa serviva la foto di “security”. Come a Gradaland ti vendono poi il fotomontaggio a tema, alla modica cifra di 35 dollari. Ammazza!
L’abbiamo presa, dato che non verremo certamente qua un’altra volta, e pensiamo così che con la nostra visita abbiamo contribuito a pagare un po’ del carburante dello Shuttle. Ad ogni modo, ci aspettavamo ben di più da questo posto, sicuramente di poter entrare più addentro ai lati tecnologici dell’ambiente. Nella pratica dà l’impressione di essere invece un grande teatrino. Peccato!
Mangiamo un’ottima New York Steak al SaltGrass Steackhouse e poi a nanna al Motel8. Abbiamo deciso di non usare più Motel6 perché, come già detto, ci sembra che la qualità sia peggiorata rispetto a 6 anni fa.
Percorsi 357 Km di strada in 5 ore di guida e 6 ore totali di viaggio. Totale 8654 chilometri, e non sappiamo cosa fare domani.
Ø DAY 24 Mercoledì
Ci spostiamo verso l’isola di Galveston e traversiamo aree dove ci sono zone residenziali a destra e a sinistra, tutte contenute in un muro perimetrale e alcune con tanto di cancelli all’ingresso.
Qui è facile: ogni tanto scelgono un pezzo di landa desolata e decidono di piantarci alcune decine o più spesso qualche centinaio di case, tutte uguali fatte come fotocopie. Provate a guardare con Google Earth la periferia di una qualsiasi città americana e capirete come son fatte queste lottizzazioni.
Entriamo a fare un giro in una di queste, fatta appunto di case in sostanza tutte uguali. Qui uno non può tornare a casa sbronzo: rischia di sbagliare casa molto facilmente. Tutte le case hanno il loro spazio, un bel giardino rasato e non ci sono recinzioni: tutto sommato l’aspetto di queste zone residenziali è molto buono e gradevole. Ci sono zone visibilmente di livello superiore e anche zone più da “poveracci”. Poi ci sono le periferie con le solite baracche e case su ruote, perlopiù sgangherate e in pessimo stato, quasi da campo nomadi.
Attraverso un bel ponte ad arco saltiamo sull’isola, dove sullo sfondo c’è uno stabilimento petrolchimico che Marghera non ha a che fare. Percorriamo gran parte della strada costiera verso sud-ovest, tutta disseminata di case su palafitte, sia vecchie e abbandonate sia nuove con l’auto parcheggiata letteralmente “sotto casa”, dalle forme più strane, alcune belle con colori sgargianti e ovviamente tutte fatte di legno. Ne vediamo una in costruzione e in pratica è un enorme ammasso di legno intrecciato su cui poi inchiodano le pareti, sempre di legno. Poi una tinteggiata ed è finita lì. Probabilmente qui l’acqua alta capita spesso, se tutte ma proprio tutte sono piantate su pali e cominciano dal primo piano. Ci sono anche residence di case tutte uguali e alberghi. E’ particolare e simpatico da vedere, ma sinceramente non ha l’aspetto di un’area balneare di alto livello. In effetti, questa parte del golfo del Messico non è particolarmente fortunata per quanto riguarda la qualità delle acque per le balneazioni.
Raggiungiamo la cittadina di Galveston e ci fermiamo al Pier 21, un vecchio molo con area circostante fatta di vecchi palazzi d’epoca, riconvertiti in negozi e ristoranti. Mangiamo al Fiscerman’s Wharf, locale molto caratteristico con vista su un cantiere dove costruiscono parti di piattaforme petrolifere.
Visitiamo un museo lì vicino, fatto come una piattaforma petrolifera con tanto di elicottero parcheggiato sul tetto e di torre di trivellazione e articolato su tre livelli. E’ stata una visita molto piacevole e interessante e si è quasi percepita qui molta più ricerca e tecnologia che non allo Space Center, tanto che compriamo anche un Dvd in tema. Una passeggiata poi lungo il molo e un giretto per le vie della città, fatte di grandi abitazioni arzigogolate in stile liberty (o vittoriano, non so bene), alcune molto belle altre molto decrepite, poi ripartiamo con obbiettivo Nacogdoches, la più antica città del Texas.
Usciamo dall’isola e cerchiamo di percorrere delle strade interne evitando autostrade e superstrade, per vedere meglio cosa c’è in giro. Passiamo di franco a enormi raffinerie, industrial parks e aree commerciali. Insomma, qui si produce anche, sembra. Ma è tutt’altra cosa rispetto alle nostre zone industriali. Qui i capannoni sono dei grandi casermoni di lamiera, quasi tutti uguali, mentre da noi si vedono realizzazioni ben più solide e molto spesso anche con aspetto architettonico di tutto rispetto. A un certo punto però riprendiamo l’autostrada, perché altrimenti avremmo impiegato 2 giorni a bypassare Huston. Prendiamo la 59, traversiamo Cleveland e, dato che si sta facendo tardi, decidiamo di fermarci a Livingston, sotto a un thunderstorm eccezionale. Scegliamo l’Holiday Inn perchè gli altri pochi motel presenti sinceramente non avevano proprio un buon aspetto. Fortunatamente il motel offriva anche il dinner, così la giornata finisce semplicemente qui.
Ascoltiamo alla tv tutti i comunicati di allarme per l’arrivo dell’uragano Irene sulla costa est. Tutto è in allarme e molte città sono in procinto di essere evacuate. Su gran parte della costa est i trasporti verranno interrotti. Speriamo non ci siano problemi con i voli da Dallas, perché probabilmente dovremo passare sopra a Irene.
Percorsi 365 Km di strada in 6:40 ore di guida e 9 ore totali di viaggio. Totale 9019 chilometri.
Ø DAY 25 Giovedì
Spostamento verso Mesquite. Facciamo prima un giretto sulla costa del lago Livingston, chiaramente un posto di villeggiatura o forse anche per pensionati. L’area è dentro alle Texas Forest. Lungo la costa ci sono molte case (anche carine, ma le solite di legno, quanto possono durare?) immerse nel verde, con pontile, motoscafo, motoscooter, erbetta rasata per bene, gente che fa manutenzione e macchinoni parcheggiati fuori. Nei pressi vediamo anche un enorme carcere, con reticolati e torrette di vedetta. Riprendiamo il viaggio e si traversa un’area forestale con sparse qua e la delle case mobili, baraccamenti vari che sembrano campi nomadi, cittadine che finiscono subito dopo essere cominciate e cittadine un po’ più consistenti. Ogni paese appena un po’ decente ha comunque tutto quello che serve: distributori, motel, centri commerciali, concessionari auto, fast food, chiese, ecc. Tutto lungo la via principale, in tipico modo western.
Lungo l’autostrada vediamo a un certo punto polizia, carri attrezzi e camion che si apprestano a rimuovere una vecchia casa (mobile). Che si tratti di rimozione forzata per parcheggio in zona vietata? Hi, hi!
Arriviamo quindi a Nacododches, la prima cittadina del Texas. Entriamo nel visitor information nel downtown, ci guardiamo un po’ in giro e passeggiamo lungo la via principale fatta di palazzi d’epoca di fine 800 inizio 900. Certamente carino e caratteristico, ma per venirci tocca fare un sacco di miglia!
Qui in America, con 100 anni di storia di qualcosa ti fanno un monumento nazionale. Se penso bene, la contrada dove viveva mio nonno aveva sicuramente ben più di 100 anni, ma non ci hanno certo fatto un visitor center!
E poi ci sono chiese. Tante chiese, di tutti i tipi, come le cattoliche, battiste, metodiste, presbiteriane, settimo giorno, luterane, apostoliche, e con i nomi più fantasiosi come family church, church of love, nazarene church, believe bibble church, harvest faith, church of christ. Molte sono molto grandi e con il vero e proprio aspetto da chiesa, ma tante altre sono delle semplici case anche piccoline! Ma ‘sti americani sono sempre tutti in chiesa o si fanno preda dei vari predicatori?
E poi ancora tanti venditori di case mobili, tanto che ci fermiamo da uno e sfacciatamente entriamo e con il nostro “perfetto” inglese Wall Street diciamo: siamo turisti italiani e saremmo curiosi di vedere una di queste case per capire come vive un americano che vi abita. La tizia rimane prima visibilmente un po’ perplessa, ma poi gentilmente ci accompagna dentro ad una casa in esposizione e ci spiega molte cose. Effettivamente è molto carina e spaziosa, a vederla. Ma è pur sempre fatta di pannelli, pensiamo noi. Una casa di circa 200 mq, con 3 camere, 2 bagni, cucina grande, soggiorno di più, stanza armadio, ecc, modello 2009 (anche!) costa circa 80.000$. Ok. Non tantissimo. Ma quanto potrà durare, considerando che durante il viaggio ne abbiamo viste in giro di messe veramente male? Certamente non come le nostre! Comunque ci spiega che anche qui esistono case fatte di mattoni, e specialmente nelle città. Fuori nel countryside sono molto usate queste, e uno se le può anche portare dietro in caso di trasloco da un’altra parte!
Arriviamo quindi a Mesquite, che sembra un po’ la zona bronx, e alloggiamo a due passi dalla Resistol Arena, in un Super8 che si dimostra di basso livello qualitativo. Il decantato free hi-speed wifi non funziona un cavolo. Il segnale bisogna andarlo a prendere in cortile! Ci va bene per preparare e organizzare i bagagli, perché siamo a piano terra con il dietro dell’auto puntato sulla porta della camera.
Percorsi 454 Km di strada in 6:50 ore di guida e 10 ore totali di viaggio. Totale 9473 chilometri.
Ø DAY 26 Venerdì
La decantata Superbreackfast di questo Super8 si riduce a un caffè ed eventualmente a una scatoletta di cereali! Proprio una ciofeca!
Andiamo all’arena a fare i biglietti e poi puntiamo un paio di megastore di western wears (Sheplers e Cavenders) per altri regali. Negozi immensi con ogni ben di Dio, jeans che da noi costano 4 volte tanto, camice western, stivali, cappelli, cinture e non so quant’altra roba. Eccezionali!
Non volendo fare il centro di Dallas, per evitare il casino, puntiamo per perdere un po’ di tempo al Southfork Ranch, a Plano, 30 miglia fuori Dallas. I non più giovani si ricorderanno di JR e della saga degli Ewing, la serie di telefilm Dallas degli anni 80 che ha accompagnato per 13 anni le serate degli Italiani. E’ chiaramente un’americanata, ma un po’ di ricordi, anche se di cellulosa, ogni tanto non fanno male. Fa sempre un caldo infernale e dalle crepe sul terreno comprendiamo come possa essere dopo più di due mesi che non piove. Una visita alla villa, quattro foto in stile JR e raccomandiamo che, contrariamente a quanto dice la Lonely, NON vale assolutamente la pena di mangiare qualcosa “da Elly’s”.
Diremo anzi che la Lonely ha fin qui “toppato” in diverse occasioni e che probabilmente è stata tradotta in modo MOLTO grossolano.
Rientriamo al Motel per un riposino prima del rodeo. Sulla highway un banale incidente fra due auto e, come il solito all’americana, un camion di pronto intervento, due camion dei pompieri, due della polizia, e non sappiamo chi sia arrivato poi.
Percorsi 122 Km di strada in 2:40 ore di guida e 5 ore totali di viaggio. Totale 9595 chilometri.
Ø DAY 27 Sabato
Spostamento da Mesquite a Fort Worth Aeroporto, quindi, partenza per tornare a casa.
Totale 9639 chilometri.