New York, che sorpresa!
IL VOLO
Il disastro avvenuto in Giappone ci ha convinti, con molto strazio da parte mia, ad annullare il nostro viaggio programmato per Aprile. Alitalia per circa un mese ha concesso ai possessori di biglietti aerei per Tokyo (solo per Tokyo, chi aveva deciso di tornare via Osaka ha perso il valore di quella tratta) di poter cambiare destinazione, partendo entro maggio 2011 e mantenendo la classe di prenotazione, senza pagare la penale prevista dal loro regolamento; abbiamo deciso di approfittarne. L’offerta sembrava allettante, ma nascondeva un piccolo inghippo che proverò a spiegarvi brevemente.
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Quando si acquista un volo, a seconda che la prenotazione avvenga mesi o pochi giorni prima, di lunedì piuttosto che di sabato, alle otto del mattino piuttosto che a mezzanotte, il prezzo per avere lo stesso identico servizio cambia. La cosa è dovuta a una serie di studi compiuti dagli psicologi-addetti marketing di Alitalia che hanno creato all’uopo la “tabella delle classi di prenotazione”.
Tali classi sono contraddistinte da una lettera che vi ritroverete nella vostra bella mail di conferma, che al momento non vi dirà più di tanto e che, se riuscirete a partire, potrete dimenticarvi per sempre e senza rimpianti. Io ho dovuto affrontare il problema della classe quando ho deciso di cambiare tratta.
Ho scoperto che ogni classe di prezzo possiede differenti caratteristiche, per farvi capire, la mia che era la classe N, aveva quella di poter sempre cambiare destinazione senza pagare la penale.
In pratica, io a settembre 2010 ho comprato due biglietti per un volo andata e ritorno da Tokyo per aprile 2011. La tariffa N mi permetteva, essendoci di mezzo così tanti mesi, di poter cambiare idea. E questo, mi direte voi, è buono.
L’unico problema è che io ho cambiato la mia tratta ad aprile 2011, commutandola con una per Maggio 2011, i 7 mesi di distanza fra prenotazione e volo sono diventati 1 e la mia possibilità di cambiare idea è diventata a questo punto molto, molto più cara.
In soldoni, se il mio primo acquisto era stato conveniente (600 euro a testa per andare e tornare da Tokyo), il totale del secondo non lo è stato per nulla (760 euro a testa per andare e tornare a New York).
D’altronde, annullare la prenotazione e basta mi sarebbe costato 300 euro quindi a questo punto abbiamo deciso che almeno avremmo avuto un viaggio con cui poterci consolare.
Veniamo dunque al volo per New York.
Il bello di prenotare direttamente con Alitalia è che c’è la possibilità di fare il check-in on-line e di scegliersi i posti sull’aereo prima di tutti gli altri.
Entrambe le operazioni, a quanto dice il sito, sono eseguibili a partire dal giorno precedente la partenza (io ci ho provato anche una settimana prima ma naturalmente non c’è stato verso).
Dovendo partire di sabato, già dalla prima mattina di venerdì mi sono messa a compilare tutti i campi dei dati necessari al check-in per vedermi però fallire l’operazione alla fine di ogni tentativo.
Chiamando il call center è saltato fuori che c’erano problemi al sistema informatico “Riprovi più tardi, signora”. E così ho fatto, fino a sera, non riuscendo a ottenere nulla di fatto.
Alla fine, giusto per non lasciare nulla di intentato, ho richiamato il call-center e, facendo due chiacchiere con l’operatrice, è saltato fuori che avrei comunque dovuto fare il check-in al banco (il sistema informatico era ancora impallato) ma che i posti me li poteva riservare lei. Tesoro!
“Quali posti preferisce?”
“Finestrino, il più avanti possibile, grazie”
“Oh, guardi, mi dispiace, ma l’aereo è già pieno, gli unici posti vicini che ho sono centrali e alla fila 29” (su 40 totali nda)
“Ma, scusi, com’è possibile? Il check-in on-line si poteva fare solo oggi e il sistema è impallato da stamattina…”
“Non saprei proprio, ma a me risulta tutto pieno, glieli assegno lo stesso?”
L’alternativa era rischiare di trovarci con due sedili separati, quindi ho accettato. Per il ritorno siamo riusciti a riservare i posti addirittura alla fila 21, un vero lusso. Posti centrali, of course.
Pensate che sia finita qui? Oh no. Sabato mattina andiamo al check-in, consegnamo i documenti alla hostess e ci sentiamo dire “Io qui ho l’assegnazione di un posto”
“Si” rispondo io “Ieri ho chiesto l’assegnazione dei posti al vostro call-center”
“Ma qui ho assegnato un posto solo, non due”
“Beh, mi dia anche quello accanto allora, la sua collega ha detto che era libero”
“Eh, mi spiace, ma non lo è più, vi cerco altri due posti?”
In breve ci siamo ritrovati oltre la fila 30, sempre posti centrali, naturalmente.
E al ritorno?
Al ritorno della mia assegnazione non c’era proprio traccia, aereo pieno, naturalmente. Siamo finiti nei posti centrali della fila 29.
Io non avevo mai volato con Alitalia prima.
Sarò sincera, ogni volta che ho telefonato al call-center sono sempre stata trattata con cortesia e ogni volta ho trovato disponibilità e risposte (anche se non quelle che speravo).
Gli aerei erano entrambi nuovi, puliti, con monitor su ogni sedile.
Il cibo all’andata è stato persino buono e non ci è mancato nulla in entrambe le tratte.
Però il personale a terra lascia veramente a desiderare. A entrambi i check-in la questione della mia assegnazione fallita è stata liquidata con sprezzo, persino con atteggiamenti scocciati e il personale di volo è decisamente un po’ rude, anche se efficiente.
Lo so che non volavo in business class, ma il fatto di aver speso ben più del valore del mio volo mi ha portato a essere un tantino insofferente.
E dopo aver chiuso la centesima telefonata con Alitalia per chiarire l’ennesimo qui-pro-quo, vi assicuro che ne avevo le scatole davvero piene, nonostante la gentilezza delle addette.
GUIDE E HOTEL
Abbiamo scelto New York perché Alitalia, fra le sue mille clausole, imponeva che il volo rimanesse intercontinentale, e le alternative non è che fossero infinite.
L’abbiamo scelta perché una città grande come lei richiede almeno una settimana per visitarla e, avendo accorciato le nostre ferie, questo ci concedeva di dover prenotare solo un hotel e nient’altro.
Vi assicuro che, dopo aver trascorso quasi un anno a studiare e organizzare un viaggio in Giappone e averlo visto andare in fumo, nonostante la mia passione per questo genere di cose, neppure io avevo la minima voglia di riprendere una guida in mano.
Così le ho comprate (Routard e Chat@win), ma le ho lasciate lì per un bel po’ di giorni, dimenticate sul tavolo.
A New York si può andare anche senza una gran programmazione. Anzi, a parte informarsi un po’ riguardo a come ci si muove e a quali siano le principali attrazioni, mi sento (incredibile!) di consigliare di viverla un po’ così, alla giornata, seguendo i dettami del meteo e della vostra voglia.
Per la prima volta ho deciso di “tradire” la Lonely Planet.
Le guide Routard le conoscevo già e devo dire che anche questa non ha deluso, è un libro divertente da leggere, pieno di notizie e curiosità e, a differenza della LP è molto più precisa riguardo alle tariffe.
La Chat@win mi è stata consigliata dall’amica che gestisce la libreria del viaggiatore dove l’ho presa. Ha un formato molto accattivante che riprende le mitiche moleskine ed è organizzata in “itinerari”, veramente molto particolareggiati, forse persino troppo se non si ha molto tempo a disposizione come noi. Però le sue mappe sono utilissime e molto precise.
In entrambe, abituata troppo bene dalla LP, ho trovato solo un po’ carente l’aspetto dell’indice: reperire le informazioni non è immediato e si perde tempo a sfogliarle.
Per quanto riguarda l’albergo abbiamo deciso di cercarlo più “centrale” possibile, cioè a Midtown.
Dormire a New York non è economico, ma si può risparmiare scegliendo zone di Manhattan più periferiche come Harlem o addirittura optando per gli altri boroughs come per esempio Brooklin o il Queens collegati al “centro” con la metropolitana.
La metro è pulita, veloce ed efficiente ma, se è la vostra prima volta qui, mi sento di consigliare di rimanere a dormire a Manhattan perché i treni notturni offrono servizio 24h solo al suo interno e di sera i collegamenti con “l’esterno” sono più rari.
Si risparmia anche affittando un appartamento, ma per quelli è meglio muoversi con un anticipo che noi purtroppo non avevamo a disposizione.
Tornando a noi, abbiamo gironzolato qualche giorno fra le offerte di Booking.com, abbiamo confrontato le opinioni di Tripadvisor.it e alla fine abbiamo scelto un design hotel sulla 47th street, fra la 6th e la 7th avenue, letteralmente a due passi da Time Square: lo Stay Hotel.
I viaggiatori su internet ne lodavano la posizione criticandone però le stanze piccole e rumorose ai piani bassi a causa del disco club sito al piano terra.
Al nostro arrivo in effetti la mia unica preoccupazione era quella del silenzio, ed ero già pronta a chiedere, nel caso ci fosse stata assegnata una camera “bassa”, se fosse possibile cambiarla.
Quando la gentilissima receptionist ci ha consegnato le chiavi elettroniche di una stanza all’ottavo piano eravamo talmente sollevati che, per non rischiare di perdere quel colpo di fortuna, abbiamo rifiutato l’offerta di cambiare la nostra camera “very small” con una più grande.
Lo Stay Hotel ha una reception di design, arredata con opere d’arte, con un acquario che arriva al soffitto e con poltroncine di pelle bianca illuminate da led blu.
Ha solo due ascensori che, in effetti, sono un po’ lenti. Le camere sono moderne, dotate di un grande televisore a parete, di un bagno piccolo ma comodo e, cosa non scontata a New York, sono molto pulite.
La nostra era effettivamente molto piccola, con un letto a una piazza e mezza e senza armadio, sostituito da un appendigrucce di metallo cromato. Avendo però a disposizione un tavolo, un grande comodino e una sedia (pitonata), siamo riusciti a incastrare tutte le nostre cose. In fondo, qui ci tornavamo solo per dormire.
Il mio giudizio complessivo per questo hotel rimane positivo. Il personale è sempre stato gentile, gli asciugamani venivano cambiati ogni giorno, la nostra stanza era silenziosa e la postazione internet gratuita dalla reception è utile. E beh, naturalmente la posizione è la migliore che si possa trovare.
L’Aspen Club offre colazioni, brunch e cene ma non posso dare giudizi perché abbiamo sempre mangiato fuori. Però sappiate che il locale è arredato come una baita alpina con tanto di finto caminetto con perenni fiamme digitali.
PRIMO GIORNO
Siamo atterrati all’aereoporto JFK di New York verso le 16:30, con un’ora di ritardo rispetto alla tabella di marcia e per questo ci siamo trovati in coda ai cancelli dell’immigrazione insieme a qualche migliaio di persone.
In pratica, quando è stato finalmente il nostro turno di parlare con l’agente di polizia, rispondere alle sue domande e lasciare le nostre impronte digitali, erano ormai passate le sette di sera.
Vi dico solo che la nostra valigia era stata ormai tolta dai nastri trasportatori e abbandonata in giro sul pavimento della grande sala del terminal 1. Però c’era e, dopo averla recuperata, siamo usciti alla ricerca di indicazioni sull’Air Train.
Consiglio pratico:
Per andare dall’aereoporto JFK a Manhattan avete tre soluzioni:
1) Il taxi – costoso e lento a seconda dell’orario e del traffico
2) Lo shuttle bus – un servizio offerto dall’aereoporto che carica un certo numero di viaggiatori e poi li porta direttamente davanti all’albergo. Non conosco le tariffe ma anche questo mi dà l’idea di essere piuttosto lento
3) L’Air Train abbinato alla metro.
Naturalmente abbiamo scelto la terza che si è rivelata piuttosto vincente. Le indicazioni, precise e frequenti, ci hanno condotto in breve alla fermata del treno, che, dopo aver fatto tappa in tutti e 8 i terminal dell’aeroporto, ci ha portato a Jamaica Station, da dove parte anche la metropolitana.
Qui ci è bastato pagare 5 dollari per il passaggio con il treno e 2 dollari per acquistare una corsa semplice della metro.
Dovendo arrivare sulla 49esima, a Queens Plaza abbiamo cambiato dalla linea blu a quella gialla e in pochi minuti siamo arrivati a destinazione, uscendo a due passi dall’ingresso del nostro hotel.
E in quei due passi abbiamo avuto il nostro primo vero incontro con New York.
Era ormai buio, le nove se non ricordo male, e siamo sbucati in una strada illuminata a giorno, circondata da grattacieli le cui facciate erano completamente ricoperte di megaschermi luminosissimi e letteralmente gremita di gente.
Welcome to Time Square!
Dopo aver appoggiato le valigie e fatto una doccia veloce siamo subito tornati a tuffarci in quell’atmosfera surreale.
Tutte quelle luci, quella gente, e poi le sirene della polizia (abbiamo assistito a un arresto in diretta!) e quel cielo nero in cui le cime dei grattacieli scomparivano inghiottite dalle nubi.
Indescrivibile.
SECONDO GIORNO
Oggi è domenica e il programma prevede un giro in mattinata ad Harlem per cercare una messa gospel e la visita alla “succursale” del Metropolitan Museum sito nella parte più settentrionale di Manhattan.
Facciamo colazione allo SBARRO che c’è all’angolo subito fuori dall’hotel con due muffin sproporzionati e un the e un caffè dalla temperatura molto vicina ai cento gradi.
Un giro veloce all Tourist Information di Times Square, dove la famosa palla del countdown capodannesco viene conservata per gli altri 364 giorni e dove c’è una piccola mostra dedicata a Broadway.
Iniziando a prendere un po’ confidenza con lo stradario a griglia di New York, alla ricerca della fermata della linea arancione, ci imbattiamo nel Rockfeller Center con i suoi imponenti grattacieli, le sue belle statue di Prometeo e Atlante e con un fantasmagorico negozio della Lego attraversato da un infinito dragone (fatto di Lego, of course).
Compriamo la nostra metrocard, abbonamento settimanale valido per treni e autobus e arriviamo fino ad Harlem, dove seguiamo l’itinerario a piedi consigliato dalla Chat@win attraverso questo quartiere che ci è apparso ordinato, pulito e tranquillo. Le tipiche case di mattoni rossi con scale antincendio e porte sopraelevate rispetto alla strada ci hanno ricordato tanto i telefilm degli anni ’80 come i Robinson.
Davanti alle numerose chiese i fedeli in abiti eleganti iniziavano già a entrare per la messa, accolti uno a uno dalla stretta di mano del pastore.
Ammiriamo l’elegante struttura del campus della Coumbia University, attraversiamo il parco di St. Nicholas e arriviamo alla chiesa più famosa per il suo coro, l’Abyssinian Baptist Church. La fila di turisti in coda per entrare è lunga tanto quanto un block quindi abbandoniamo l’idea e ci limitiamo a sbirciare i “veri” fedeli, che qui sono ancora più eleganti.
La voglia di assistere a una messa gospel però è rimasta.
Ci ritroviamo davanti alla Salem United Methodist Church dove campeggia il bel cartello “Everybody’s welcome”, insieme a una coppia di turisti francesi, con il pastore che ci invita a entrare. Visto che non resteremo fino al termine della funzione (che dura più di tre ore) chiediamo di poterci fermare dietro alle vetrate del corridoio di ingresso, ma una gentile “big mama” ci dice di di sederci negli ultimi banchi, così potremo andarcene senza disturbare.
La chiesa è enorme e assomiglia molto a un teatro. Sul muro vengono indicati i salmi del giorno con cartelli di legno appesi a ganci uguali a quelli usati nelle partite di baseball per segnare i punti.
La funzione inizia con gli avvisi e si parla di chi si è sposato, di chi ha bisogno e di chi può fare cosa per chi. Le comunità qui devono essere molto unite.
Quando il coro attacca capiamo perché la chiesa è semivuota e ci sono pochi turisti… in effetti non è un granchè, però si impegnano un sacco e il capocoro è una copia esatta anche se più secca di James Brown.
Lasciata Harlem riprendiamo la metro in direzione nord, scendiamo alla fermata Cloisters e, visto che il tempo tende al grigio piovigginoso, aspettiamo l’autobus che dovrebbe portarci al museo. Dopo pochi minuti ci stanchiamo di aspettare e ci avviamo a piedi attraversando un bel parco che di sicuro durante la fioritura e con il sole deve regalare begli scorci.
Consiglio pratico: questo museo è fratello del MET ed è compreso nel carnet del NYC Pass. La mia idea era di acquistare il carnet qui, ma ho scoperto che non è possibile. Inoltre la visita è gratuita solo presentando la spilletta giornaliera del MET, quindi per risparmiare l’unica scelta è di visitare entrambi i musei nello stesso giorno (anche se personalmente, viste le dimensioni e la distanza fra i due, non lo ritengo troppo fattibile).
The Cloisters è un vero e proprio chiostro fatto a pezzi e portato qui dall’Europa, riempito con cimeli di arte medievale, dall’arte sacra a quella militare, dai quadri ai calici, dalle sculture ai codici miniati, dalle armature ai crocifissi.
Tutti i reperti sono stati acquistati da facoltosi americani in un’Europa affamata dalle guerre mondiali. E’ stata addirittura portata qui un’intera abside affrescata.
Per il ritorno verso Midtown decidiamo di provare l’autobus ma, dopo venti minuti e pochissimi chilometri percorsi (causa traffico e fermate poste ogni dieci metri) siamo scesi e ci siamo riaffidati alla metropolitana.
Dopo un veloce pranzo da McDonald (quantità di ghiaccio nel bicchiere a parte, molto simile allo standard europeo) abbiamo dedicato il resto della giornata fra H&B e Macy’s. Niente shopping, solo un veloce giro di ricognizione in questi due templi dell’acquisto sfrenato.
Per cena siamo usciti tardi e abbiamo seguito il consiglio dei turisti internettiani andando da Virgil’s BBQ, sempre nei pressi di Time Square.
Porzioni giganti, carne buona e servizio simpatico.
TERZO GIORNO ARTE MODERNA, ARCHITETTURA E STORES
Stamattina il cielo è grigio e le nubi si ingoiano le cime dei grattacieli.
Colazione da Starbucks, dove ci viene subito insegnato che a New York devi essere veloce, di movimenti e di comprendonio, sennò la gente che va di fretta si innervosisce.
Essendo i pochi tavolini già occupati consumiamo il nostro croissant camminando verso la prima destinazione della giornata: il MoMa. (il the no, non riuscirò a berlo, perché nel tempo occorso per arrivare a piedi fino al museo la sua temperatura nucleare non è diminuita neanche di mezzo grado).
Finalmente acquistiamo il nostro NycPass, un carnet di biglietti valevoli per le principali attrazioni della città che vi risparmieranno alcune code e qualche dollaro rispetto alla somma dei singoli ingressi ($ 79,00).
Sul museo in sé non sto a dilungarmi, vi deve interessare l’arte o, in questo caso, almeno il design. Io l’ho trovato molto bello e ben strutturato. In compenso vorrei consigliare a tutti almeno una visita nei due stores del MoMa (uno si trova dall’altra parte della strada). Vi si possono acquistare libri d’arte e oggetti di design, dai giocattoli, all’elettronica, all’oggettistica per la casa.
Io avrei comprato tutto. Peccato un po’ per i prezzi non sempre accessibili.
Pranzo in una bella brasserie scovata durante la passeggiata che dal museo ci porta sulla 59° dove inizia Central Park. Concediamo solo una breve contemplazione al parco più famoso del mondo, torneremo a esplorarlo nei prossimi giorni, scegliendone uno con un meteo migliore.
Raggiungiamo la 5° avenue e iniziamo il nostro tour che ci porterà a vedere tutti i “classici” di Midtown.
Si comincia dall’Apple Store con il suo bel cubo di vetro e l’allestimento posto sotto al livello della strada. Gli appassionati avranno il loro bel daffare per provare tutte le novità tecnologiche. Comoda una visita anche nel caso vi serva una connessione internet gratuita.
Si prosegue con il negozio di giocattoli Fao Schwarz, quello della celeberrima scena del pianoforte gigante nel film Big con Tom Hanks. Il piano c’è ancora e insieme a lui tre livelli di giocattoli, dolciumi e peluches. Un paradiso. Qualunque età abbiate uscirete da qui con il sorriso stampato in faccia e avrete l’irresistibile tentazione di fare una foto insieme al soldatino di piombo in carne e ossa che, oltre a essere il simbolo del negozio, fa anche da usciere all’ingresso.
Pochi passi e sarete davanti a Tiffany & Co., proprio dove Audrey guardava le vetrine e passeggiava in abito nero interpretando Holly in Colazione da Tiffany, il luogo dove, come diceva il personaggio “Non può accadervi nulla di male”.
E il bello di New York è che anche noi turisti in sneackers possiamo entrare da Tiffany, sbirciare i gioielli che non potremo mai comprare e farci portare su e giù in ascensore da un gentilissimo signore in livrea, perché nessuno vi giudicherà, o perlomeno nessuno vi darà l’impressione di farlo.
A me questo aspetto dei newyorkesi, fossero commessi o passanti, è piaciuto un sacco.
Proseguiamo la nostra discesa della 5th ammirando la pacchiana imponenza della hall della Trump Tower, l’elegante austerità new-gotica di St. Patrick, la labirintica complessità del Rockfeller Center e la maestosità della facciata della Public Library (purtroppo chiusa al pubblico a causa di una qualche manifestazione).
Abbandoniamo la quinta avenue girando a sinistra e imboccando la 42° strada.
Qui si trovano la bellissima Grand Central Station, pulitissima e sfavillante nei suoi marmi e nel suo soffitto stellato, con le fiumane di persone a ogni ora del giorno e con i suoi passaggi dalle basse volte a crociera.
Proseguendo in direzione dell’East River incontrerete prima il celebre Chrysler Building dall’inconfondibile guglia e infine la sede dell’Onu che noi, visto ormai l’orario, abbiamo trovato chiusa.
Raggiunta l’altezza della 49th l’abbiamo percorsa tutta fino all’hotel attraversando prima un parco alberato pieno di statue di bronzo e alluminio, poi la zona in cui sono raccolti tutti i gioiellieri e venditori/compratori d’oro di Manhattan.
Siamo distrutti. Cena in camera acquistata dal Deli 24h proprio sotto l’albergo.
QUARTO GIORNO – PASSEGGIANDO PER MANHATTAN
Il meteo migliora leggermente, ma non è ancora abbastanza bello per dedicare la giornata alle isole di Manhattan, così optiamo per i quartieri “centrali”, tutta l’enorme zona che sta fra Midtown e il Financial District.
Iniziamo da Chinatown che, a leggere le guide, mi aspettavo molto più cinese.
Si, in giro vedi tanti occhi a mandorla, sulle insegne compaiono gli ideogrammi al fianco delle scritte in inglese, ma l’architettura, le strade e… boh, in generale l’atmosfera è sempre quella di New York, dove comunque già sei abituato a vedere facce di tutte le etnie e respirare odori di tutte le cucine.
Le differenze comunque si notano, prima fra tutte la presenza di questi meravigliosi stormi di vecchietti in tuta e scarpe da ginnastica che in ogni ritaglio di parco alla mattina si cimentano con il Tai-Chi. Alcuni sembrano avere più di cent’anni, i loro gesti sono lentissimi e tremolanti, ma trasmettono una forza e una pace che mi ipnotizza per lunghi minuti.
L’altra differenza è data dalla pulizia, decisamente più sommaria rispetto ai quartieri “uptown”.
Stradario alla mano cerchiamo Little Italy, ormai ridotta a un paio di incroci dove si srotola una serie di ristoranti dai nomi italiani, ma dove a preparare i tavoli vediamo solo camerieri dalle chiare origini sud-orientali. Le bandiere tricolore appese a ogni palo della luce non sono sufficienti a rendere questo minuscolo lembo di Italia oltreoceano convincente.
La nostra passeggiata prosegue attraverso il Greenwich Village, ormai divenuto un ambito, tranquillissimo, quartiere residenziale.
Fra i viali alberati bordati di boutique ci siamo imbattuti nella vetrina di una pasticceria che esponeva delle cupcakes dall’aspetto a dir poco delizioso. Una pasticceria minuscola, dove ci impacchettano i dolcetti in una confezione che sarebbe adatta quasi a un gioiello e che, solo uscendo, riconosciamo come una delle Magnolia Bakery rese famose dal telefilm Sex and The City.
Il mio muffin al cioccolato ricoperto di glassa al caramello comunque era fa-vo-lo-so.
Si passeggia bene qui, il traffico è quasi assente rispetto a Midtown, le strade sono piccole e ordinate e finalmente è arrivato anche il sole. In quest’atmosfera rilassata ci si sente quasi in un’altra città, i passi rallentano, viene spontaneo fermarsi più spesso e si può chiacchierare a voce bassa.
Trascorriamo un po’ di tempo a Washington Park dove ci riposiamo e osserviamo l’arco di trionfo, le tate con le schiere di bambini palesemente non loro, i dog-sitter e gli immancabili carinissimi scoiattoli.
Di nuovo in cammino diamo un’occhiata al MeatPack District e, con un po’ di metro, raggiungiamo il cosiddetto Flatiron building. E’ uno dei più antichi grattacieli di New York che, nonostante le critiche mosse al suo ideatore, ancora oggi resiste, donando all’incrocio su cui è costruito una regale e romantica eleganza.
Raggiungiamo il Gugghenheim giusto all’ora di pranzo e finalmente assaggiamo un’altra delle istituzioni newyorkesi: l’hot dog comprato dal carrello. Sarà stata la fame dopo la lunga passeggiata ma che dire… buonissimo (anche se un po’ piccolo).
Il museo (compreso nel carnet del NYC Pass) è davvero caratteristico con la sua forma a spirale che si apprezza all’esterno ma molto di più visto dall’interno. L’idea di un’esposizione continua, lungo una passeggiata senza gradini, che conduce dalle opere d’arte più antiche a quelle più moderne è molto affascinante. Peccato che non permetta di esporre contemporaneamente molti quadri alla volta.
Prima di tornare in albergo ci concediamo una passeggiata a Central Park attorno al lago del cosiddetto Reservoir voluto da Jacqueline Kennedy.
Cena in un altro BBQ dove gustiamo il vero hamburger americano: una cosa di proporzioni inenarrabili, molto molto buono.
Il cielo si è finalmente fatto limpido quindi decidiamo di dedicare la serata alla salita sull’Empire State Building.
Giriamo attorno alla sua base con il naso all’insù ammirando la sua cima illuminata quando, prima di riuscire a guadagnare l’ingresso, veniamo fermati da una serie di figuri che ci domandano chi siamo, cosa facciamo lì e se vogliamo comprare una specie di upgrade del nostro biglietto. Scansiamo tutti e ci infiliamo direttamente per le scale che portano al piano dove avvengono i controlli. Qui c’è un po’ di fila perché ogni ospite viene perquisito e scansionato come in aeroporto.
Dopo aver dribblato gli addetti della foto ricordo ci impossessiamo dell’audioguida a cui il nostro carnet dà diritto e premiamo play per ingannare l’attesa.
Io sono sempre favorevole alle audioguide perché sono accompagnatori discreti che ti fanno scoprire aneddoti e curiosità dei luoghi che si visitano con il pregio di non dover loro pagare il pranzo e di poterle spegnere quando si è stanchi.
Nel caso dell’Empire credo che sia veramente necessaria, non solo perché racconta in modo divertente tutta la storia del grattacielo e spiega minuziosamente tutto ciò che si estende sotto i vostri piedi una volta raggiunta la cima, ma anche perché è stata creata per far comprendere al turista un po’ meglio lo spirito “americano” che, soprattutto a New York, permea ogni cosa e ogni persona.
Il racconto è lungo e ce lo godiamo in silenzio affacciati ai quattro lati della terrazza, con il vento che ci scompiglia i capelli e quel tripudio di luci e vita che si muove sotto di noi.
Molto bello.
QUINTO GIORNO: LOWER MANHATTAN AND THE ISLANDS
Finalmente una mattinata limpida e serena. Nessun dubbio sul programma: Liberty e Ellis Islands!
Per riuscire a imbarcarci sul primo traghetto ci svegliamo presto e prendiamo subito la metro per Battery Park. Compriamo la colazione in un chiosco e ci gustiamo la nostra coloratissima e frittissima donut in fila, sul molo.
I controlli per la sicurezza anche qui sono abbastanza maniacali quindi passiamo un bel po’ di tempo ad aspettare sotto il sole, ma è fantastico che ci sia un tempo così bello e non ci lasciamo demoralizzare.
Il tragitto fino a Liberty Island è breve e ci godiamo lo spettacolo della Statua che si avvicina e di Manhattan che si allontana, galleggiante sull’acqua resa specchio dal sole.
Non abbiamo un biglietto valido per entrare all’interno della statua quindi, armati di audioguida, ci concediamo una lenta e istruttiva passeggiata ai piedi di quella imponente signora di bronzo.
Come per l’Empire, anche qui la guida è fatta bene e fornisce un sacco di notizie interessanti. Lady Liberty è davvero bella, nonostante l’avessi sempre considerata con sufficiente indifferenza, vederla dal vivo mi ha affascinato.
Seconda tappa a Ellis Island. Qui l’audioguida a mio parere è necessaria e il museo dedicato all’immigrazione è veramente emozionante.
Finito il giro, negli occhi ancora le foto di tutte quelle persone arrivate qui piene di speranze, disperazione e sogni, trascorriamo una mezz’oretta a cercare notizie di uno zio di mio nonno, passato proprio in queste sale nel lontano 1901.
Torniamo a Manhattan e facciamo un bel giro fra i grattacieli del Financial District, visitiamo la gotica St. Patrick, la celeberrima ma un po’ deludente Wall Street e l’arcinota statua del toro presa letteralmente d’assalto dai turisti e quindi impossibile da fotografare (però una toccatina ce la siamo concessa anche noi… si sa mai!!).
Una visita d’obbligo anche a Ground Zero, dove nel cantiere fervono lavori e già si vedono almeno un paio di nuove costruzioni e alla piccola chiesa di St. Paul, scampata al disastro e divenuta ormai sede del memoriale alle vittime (il vero e proprio monumento aprirà a settembre di quest’anno).
Sul far del tramonto seguiamo il consiglio di altri turisti e con la metro andiamo a Brooklin. L’idea è di percorrere a piedi il ponte omonimo per godersi lo skyline di Manhattan in una delle sue migliori vesti.
Purtroppo la magia fallisce per diversi motivi. Nonostante l’ora è ancora troppo presto e il sole, invece che creare giochi di luce con le finestre dei grattacieli, non fa altro che ostacolare le nostre foto essendoci proprio di fronte, oltre che farci sciogliere di caldo.
Aggiungiamo che l’orario scelto è evidentemente quello di punta (l’uscita degli impiegati dagli uffici) e che il ponte è per gran parte transennato e coperto per lavori di manutenzione, e capirete come quella che avrebbe dovuto essere una romantica passeggiata davanti a uno degli spettacoli più suggestivi offerti da New York, purtroppo non sia stata un’esperienza così esaltante.
SESTO GIORNO: CULTURA E NATURA
Anche oggi c’è un bel sole e New York ci conferma il suo clima infame: umidità al 100%, afa e aria condizionata a 0° in ogni negozio e su ogni treno della metro.
Decidiamo di fare colazione in un ristorantino proprio a due passi dal nostro hotel: nei giorni scorsi avevamo notato quanto fosse sempre affollato al mattino e questo non poteva che essere una garanzia. Il locale è proprio come nei film, americanissimo, gestito da una famiglia di messicani, pieno di foto autografate di celebrities, con gli sgabelli al bancone, i tavolini di fòrmica e i memorabilia legati al baseball.
Optiamo per la più americana delle colazioni: pancakes e crispy bacon. Spazzolare quella montagna di frittelle degne di Homer Simpson, enormi e spugnose e le fette croccantissime (pure troppo per i miei gusti) di bacon non è stato facile, ma siamo riusciti nell’impresa.
Oggi binomio natura e cultura.
Iniziamo con la visita al piano terra del Metropolitan, neanche da dire, immenso, strapieno di opere, reperti e persone.
Il patrimonio conservato in questo museo è incalcolabile, le sale sono ben allestite e non è difficile orientarsi. L’unica cosa che a me personalmente fa storcere un po’ il naso è l’abitudine (già notata a Cloisters) di utilizzare senza pudore reperti architettonici antichissimi fondendoli con noncuranza nella struttura moderna del museo stesso. Vedi le sfingi assire usate come base per colonne di cemento, o un’intera tomba egizia “completata” nelle parti mancanti da mattoni sempre in cemento o in cartongesso.
Dopo qualche ora di storia, scultura e pittura, meravigliosa ma piuttosto stancante, ci concediamo un hot dog e un gelato seduti al sole sui gradini del museo.
Siamo fortunati e un quartetto armato solo di violoncello e voce ci delizia con un concerto soul veramente piacevole.
Dopo pranzo attacchiamo il secondo piano del Met e, sfiniti, arriviamo a visitare le ultime sale con gli occhi ormai un po’ distratti. La guida dice di non perdere il terrazzo quindi ubbidienti saliamo sul tetto dove troviamo molta gente, molto caldo e siepi troppo alte per godere davvero lo spettacolo di Central Park.
In un attimo salutiamo il mastodontico Met e ci gettiamo grati fra i freschi sentieri del polmone verde di Manhattan.
Central Park è immenso. Abbiamo provato a seguire la pseudomappa fornita dalle guide ma, neanche dirlo, ci siamo persi, quindi a cuor leggero ci siamo goduti la passeggiata all’ombra fra prati, laghetti e statue di personaggi fiabeschi.
Dopo aver incontrato Alice nel paese delle meraviglie e il Signor Andersen in persona, dopo aver guardato le barchette a motore gareggiare in un lago e le coppiette su quelle a remi navigare in un altro, dopo aver visto tre coppie di sposi fare foto contemporaneamente intorno alla grande fontana dedicata alle divinità dell’acqua, siamo arrivati a Strawberry Fields e al mosaico dedicato a Imagine e a John Lennon, ucciso proprio all’uscita del palazzo che sorge dall’altra parte della strada.
Per cena seguiamo il consiglio della Routard e mangiamo da Pam, a Hell’s Kitchen, che offre, come dice il nome “Real Thai Food”.
Ed eccoci proiettati in un altro americanissimo scorcio di vita che si fa beffe di tutte le nostre europee leggi sulla sicurezza e l’igiene. I tavolini sono piccoli e si sta gomito a gomito con i vicini, il bicchierone che si trova già sul tavolo pieno di ghiaccio serve per l’acqua che il cameriere continuerà a versare per tutta la sera, mentre le birre arrivano da noi già aperte e, nella migliore delle tradizioni, vanno bevute direttamente dal collo della bottiglia! Il mio amore per la rilassatezza americana cresce ogni giorno di più.
SETTIMO E OTTAVO GIORNO: THE END
Per colazione torniamo in quello che rimarrà il nostro ristorante preferito a New York per assaggiare un’altra tipica colazione americana: bagels e scrumbled eggs. Anche questa mattina l’impresa di vuotare il piatto è ardua ma ne usciamo vittoriosi e ingrassati almeno di un paio di chili. Ma ci aspetta l’ennesima scarpinata quindi scacciamo con leggerezza i sensi di colpa.
Oggi ci dedichiamo allo shopping e ai souvenirs, ripercorriamo la 5° e rientriamo in hotel a pranzo per riposare i piedi, posare le shoppers e mangiare un po’ di frutta fresca.
Nel pomeriggio ci spostiamo nel West Side e andiamo a vedere l’High Line Park, ricavato da quella che avrebbe dovuto essere una linea del treno sopraelevata ma che, dichiarata pericolosa, non fu mai messa in funzione.
Oggi le traversine sono parzialmente coperte da un camminamento in legno e circondate da aiuole verdi e fiorite. Ci sono panchine, tavolini, sdraio e persino una specie di micro-torrente-zen dove potersi rinfrescare i piedi. Il tutto a circa quindi metri di altezza fra vecchi palazzi in mattoni rossi, magazzini e grattacieli. Un’idea molto bella, architettonicamente suggestiva, da non perdere davvero. Per cena ci infiliamo in una steak house che si rivela essere di cucina italiana.
Ultimissimo giorno a New York.
Colazione con french toast, uova e bacon, poi di corsa a fare le valigie che l’hotel ci terrà in custodia fino all’ora della partenza. Ultimi giri intorno a times square, visitiamo il negozio Disney (me-ra-vi-glio-so), un altro negozio giocattoli dotato niente popodimenoche di una ruota panoramica e di un T-Rex animato e ruggente a grandezza naturale. Ci perdiamo nei meandri in penombra dell’Hard Rock Cafè, e nel negozio di souvenirs del Ristorante Bubba Gump. Pranzo leggero con un’insalata in un “Prèt à manger” proprio dietro al Rockfeller Centre.
Torniamo allo Stay a prelevare le valige e, un po’ mesti, riprendiamo la metro per l’ultima volta per raggiungere il JFK.
La vacanza è davvero finita…
E così salutiamo New York, la città dove non si è mai soli, e che non conosce il silenzio.
Una città ordinata anche se non sempre pulita, una città efficiente e sicura.
Una città dove c’è posto per tutti e per ogni mestiere. Una città dove tutti sono immigrati e tutti sono cittadini.
Una città di grattacieli e negozi dove il lusso conta ma talvolta è liso e invecchiato. Una città piena di cose da fare e persone da vedere.
Salutiamo i newyorkesi cordiali ma sempre di corsa, eleganti ma mai snob. Quei newyorkesi che vivono la loro città godendosela nei suoi ampi ritagli di cultura e di verde.
Salutiamo gli americani che con noi sono stati sempre sorridenti e mai invadenti e che ricorderemo con affetto e piacere.