Namibia, spazi vuoti e strade… ‘assassine’
Tutte – e dico proprio tutte – le guide della Namibia si dilungano per pagine e pagine sulla fattoria dei Gariganus.
Sul suo terreno si trova la cosiddetta foresta di aloe dicotoma, una delle maggiori attrazioni turistiche del paese.
Questa pianta, che si presenta come un albero che può raggiungere svariati metri d’altezza, in realtà è una liliacea, endemica in tutto il sud della Namibia. E’ una specie di tronchetto della felicità affetto da manie di grandezza e le sue foglie, callose come quelle di una pianta grassa, sono sufficientemente grandi e resistenti da essere utilizzate dai boscimani come contenitori per le frecce. Da questo uso deriva il nome in inglese di quiver tree, albero faretra.
In Namibia, la si trova un po’ ovunque a sud del tropico del Capricorno. E’ però una pianta che, per lo più, cresce solitaria. Al massimo la si vede in compagnia di altre due o tre piante, mai in gruppi di una certa consistenza. E’ così ovunque tranne che qui, all’interno della fattoria dei Gariganus, dove si trovano quattro o cinquecento piante, per lo più molto vecchie, concentrate in un area abbastanza ristretta, cui è stato dato l’appellativo altisonante di foresta.
Silvia ed io siamo arrivati alla fattoria direttamente da Windhoek, la capitale, dopo sei, sette ore di strada asfaltata, con la Corolla ormai coperta da un sottile strato della polvere color ocra degli ultimi dieci chilometri di sterrato.
Mentre superiamo l’ultimo cartello, che da il benvenuto alla proprietà, è come se passassi in rassegna con la mente tutte le mie aspettative su quanto ci attende al di là del cancello sgangherato, che si apre sul terreno sassoso della farm.
Le guide che descrivono l’Africa australe, però, sono tutte troppo impregnate di retorica stile “African sunset”; le descrizioni di questa zona del paese, quindi, sono concentrate sulla foresta – che poi si è rivelata un posto surreale, a cavallo fra la superficie di Marte ed un panorama da Inferno dantesco – dimenticando, così, di dare almeno una piccola, breve descrizione della fattoria in quanto tale, per quello che è.
Ed è una dimenticanza che, alla fine, si rivela essere vantaggiosa. Leggere troppe guide, vedere documentari, sfogliare riviste fa sì che, in qualche modo, ci si sia già fatta una idea abbastanza precisa del paese che si sta per visitare. Non c’è più molto spazio per le sorprese.
Ma noi, arrivati solo il pomeriggio precedente in Namibia dopo un viaggio aereo estenuante, mentre sappiamo più o meno già cosa aspettarci dalla foresta, siamo del tutto impreparati al primo contatto con una “tipica” fattoria namibiana.
Il cancello – l’ho già scritto – è decisamente sgangherato ed immette su un ampio slargo polveroso, già parzialmente in ombra, vista l’ora tarda del nostro arrivo. Il nostro programma di viaggio, infatti, ha un ritmo decisamente troppo serrato e ci ha subito imposto un lungo spostamento, costringendoci ad arrivare alla fattoria solo nel tardo pomeriggio. Cosa, peraltro, assolutamente consigliata da tutte le guide in commercio.
“La foresta va vista al tramonto, è più suggestiva”.
Parcheggiamo la macchina accanto alla staccionata bassa che separa dal beige polveroso, che regna ovunque, il verde stentato del piccolo giardino che circonda la bassa casetta di legno. Ci dirigiamo verso quest’ultima, seguendo l’indicazione scritta a mano – “office” – per pagare la modesta cifra d’ingresso alla proprietà (cito sempre le guide); cifra che, considerato tutto, proprio modestissima non è.
Appena scesi dall’auto, dirigiamo lo sguardo verso i sette, otto igloo color rosso mattone, che, disposti a semicerchio, accolgono i pochi viaggiatori decisi a passare la notte vicino agli alberi faretra. L’effetto è strano, un misto fra “la casa nella prateria” ed un film di fantascienza; curioso ed insolito.
E non è che l’inizio.
Già prima di superare la porta d’ingresso della casupola sono arrivate le prime sorprese.
La prima sono tre bambini di età compresa fra i tre e gli otto, forse nove, anni. Hanno i colori chiari di chi è nato sulle rive del mare del nord – però non parlano olandese, ma afrikaans – e sono intenti a saltare beati su un tappeto elastico fissato al terreno.
La seconda sorpresa è il primo incontro con un animale… domestico. Ma niente Fido o Fuffi sotto la Croce del sud; quel piccolo, indifeso – almeno in apparenza – animale che grufola con energia sul prato che circonda la casa dei Gariganus è un cucciolo di facocero.
E gli struzzi? Sembra l’aia di una fattoria delle nostre parti in cui si faccia un uso smodato di ormoni. Sul retro della casa, infatti, gironzolano pacificamente due enormi struzzi. Non ci degnano del minimo sguardo, presi come sono a beccare piccoli semi, piantine ed insetti nella polvere rosa del tramonto ormai vicino.
E’ curioso. Li guardiamo da lontano, intimoriti dalle dimensioni dei due animali e, soprattutto, da quelle del loro becco. Non si sa mai… Rimaniamo alcuni istanti, fermi, ad ammirare da pochi passi quegli strani esseri, buffi e sgraziati. Per qualche istante il tempo si ferma; come l’aria, immobile e sempre un po’ più fresca, a mano a mano che il sole scende dietro alle rocce.
E’ una scena così surreale, se rapportata alle nostre comuni e quotidiane esperienze, che riesce persino a farci dimenticare la “calorosa” accoglienza riservataci dalla padrona di casa. Altro particolare, questo, che le guide dimenticano di aggiungere al paragrafo dedicato alla quiver tree forest.
Si, perché la signora Gariganus, nel momento in cui le dico che desideriamo solamente visitare la proprietà, senza passare la notte in uno degli igloo vicini al cancello, immediatamente mi liquida con uno sbrigativo “trenta dollari namibiani a persona, per la visita”.
Un dollaro namibiano vale quasi trecento lire.
Novemila lire a persona. E nemmeno uno straccio di sorriso… Ma, a parte la meschina divagazione a carattere economico, torniamo agli struzzi. Abbiamo lasciato la macchina, per avvicinarci, affascinati e divertiti, a quegli animali enormi. Passo dopo passo li seguiamo, mentre, sempre intenti a beccare in terra, si allontanano da noi. Ci avviciniamo ad un recinto. Ora gli diamo le spalle, senza degnarlo del minimo sguardo. Il tipico recinto che, dalle nostre parti, circonda i pollai.
Solo un po’ più grosso.
Molto più grosso.
Siamo talmente presi dallo spettacolo di quell’aia che ancora rosseggia degli ultimi raggi di sole, che nemmeno ci accorgiamo dell’ombra che si muove veloce, pochi metri alle nostre spalle.
Ci riporta sulla terra un improvviso trambusto, seguito dalle risa di un bambino, proveniente proprio da lì, pochi metri alle nostre spalle.
Ci giriamo di scatto ed uno dei tre bambinetti che prima saltavano sul materasso elastico sta correndo lungo il perimetro del recinto. Inseguito – per fortuna dall’altra parte della rete – da un ghepardo dalle proporzioni ragguardevoli. Ripensandoci bene, doveva trattarsi di un cucciolo, sia per la furia vitale che metteva nella corsa, che per la voglia di giocare che trasmetteva. Ma vedermelo lì, inaspettato, ad appena pochi metri di distanza me lo ha fatto vedere come dietro ad una lente d’ingrandimento. Era sì un ghepardo, forse anche giovane, ma lì per lì m’è sembrato più grande d’un leopardo.
Lo guardiamo senza parole. E’ ad appena qualche passo e non sembra particolarmente interessato a noi, preso com’è dal gioco, ma mi sento a disagio. Guardo in alto, verso la cima della rete. Non mi sembra abbastanza alta per contenere un eventuale salto dell’animale; che, intanto, continua a seguire, correndo avanti ed indietro, il bambino divertito.
Mi sento a disagio.
Ci sentiamo a disagio.
Almeno fintanto che il cucciolo biondo – che continua a ridere, al di qua della rete, insieme agli altri due – non decide di averne abbastanza del gioco. E finché il cucciolo al di là della rete non si calma.
Ci sentiamo a disagio.
Sì, finché non abbiamo raggiunto la macchina.
Non è come al circo. E non è nemmeno come nei safari, in cui ti senti sicuro e protetto, all’interno dell’alto e robusto fuoristrada da cui ammiri gli animali.
Qui c’è quell’animale che soffia e che sbuffa, correndo indiavolato a pochi metri da te. Ti guarda; e tu lo guardi. E non puoi fare a meno di pensare all’eventualità in cui la rete si rompe e, improvvisamente, fra i tuoi ed i suoi occhi non c’è più quel reticolato rassicurante.
Continuiamo a guardarlo da dentro la macchina mentre ancora si agita all’interno di quel recinto che, ora che non serve più a rassicurarci, mi sembra solo una cattiveria.
Superiamo il cancello e ci allontaniamo lentamente.
Si sta facendo notte e già le prime stelle luminose si sono impadronite del cielo.
Ci aspettano solo una ventina di chilometri per arrivare al nostro albergo, il Canyon Hotel di Keetmanshop, bello e confortevole, in puro stile sudafricano, un misto di lusso cafone e di finto selvaggio, per capirci.
Passando accanto agli igloo, rossi per il tramonto, però rimpiangiamo di non aver scelto quella fattoria per passare la nostra seconda notte sotto il cielo dell’Africa australe. Nonostante l’assurdità di quelle costruzioni e la “gentilezza” della padrona di casa.
Ce la siamo lasciata alle spalle lentamente, come in una scena finale di un film, la nostra prima farm namibiana, la “mitica” fattoria dei Gariganus, nascosta dalla nuvola di polvere che solleva la macchina.
Ah sì, poi c’è la foresta dei quiver tree.
Ma quella è un’altra storia; la si può leggere su una qualsiasi guida dell’Africa australe… Garub, cavalli selvaggi ed uccelli suicidi Anche Garub è presente sulle guide della Namibia.
E’ una piccola stazioncina abbandonata, a poche decine di metri di distanza dalla strada che, dall’interno arido ed infuocato del paese, porta alle nebbie mattutine ed al mare burrascoso che circondano Luderitz.
Garub è a circa cinquanta chilometri dalla costa, all’interno del territorio delle concessioni diamantifere della NamDeb, una zona, per ovvie ragioni, proibita e sorvegliata con le armi. Lungo la strada questa cosa è ricordata di continuo dai cartelli che, di tanto in tanto, invitano a non allontanarsi dal tracciato.
“Lo fate a vostro rischio e pericolo”, minacciano le scritte nere su fondo giallo.
Da Garub, secondo le guide, dovrebbe essere possibile avvistare i famosi cavalli selvaggi del deserto; quattro, cinquecento animali che, sempre secondo le guide, scorazzerebbero da queste parti, alla ricerca dei rari pascoli e degli ancora più rari pozzi d’acqua.
Mito? Leggenda? Qualche guida riporta addirittura delle foto.
Per quanto ci riguarda, comunque, niente cavalli.
Solo uno spettacolare cielo azzurro, velato di tanto in tanto da qualche sottile pennellata di bianco. Solo il luminoso giallo oro della sabbia, punteggiato dal verde pallido di qualche sparuto ciuffo d’erba. Ed una casetta dalle linee semplici, quasi jugendstil; pareti bianco latte e tetto grigio, che viene giù spiovente, a difendere la costruzione dal peso improbabile di una ancor più improbabile neve.
Una stazione abbandonata potrebbe richiamare alla mente immagini spettrali, cupe, oscure; questo, invece, è il regno di una calma totale e luminosa.
La strada vuota che corre verso il nulla assoluto che ci circonda, l’aria ferma, l’assenza di un qualsiasi movimento. In una luce accecante che costringe gli occhi a sforzi enormi per rimanere aperti senza occhiali da sole.
Ci siamo fermati a Garub per una ventina di minuti. Gli sguardi persi in quel nulla perfetto.
Il cartello che indica la stazione – caratteri gotici neri su fondo bianco – è stato pitturato di fresco. E’ soltanto a pochi metri da una struttura rossa di metallo arrugginito che, una volta, doveva servire per il carico e lo scarico dei vagoni merci e testimonia, in silenzio, quale eredità di precisione ed attenzione teutonica abbia lasciato dietro di sé la breve e lontana dominazione tedesca (e, forse, anche il più recente governo sudafricano).
Ci siamo fermati a Garub solo per una ventina di minuti.
Giusto il tempo di rilassarci un po’, assaporando quella calma irreale, fatta del rumore lieve della sabbia sotto le scarpe e della brezza leggera nelle orecchie. Solo il clic della macchina fotografica ad interrompere, ahimè, quell’atmosfera sospesa.
Di cavalli, comunque, nemmeno l’ombra.
Ci siamo rimessi in macchina, pronti ad affrontare gli ultimi cinquanta chilometri, verso Luderitz.
Solo pochi chilometri e allora sì che abbiamo avuto una sorpresa, altro che cavalli selvaggi… La strada corre verso l’infinito, dritta e grigia come la canna di un fucile, e sembra perdersi nella caligine tremolante che nasconde l’orizzonte, quando… Le guide, cosi piene dei particolari più inutili, dovrebbero dedicare almeno qualche riga a questo strano fenomeno; a questi… beh, chiamiamoli uccelli suicidi di Garub.
Decine, poi centinaia, poi migliaia di uccelli che, lungo un tratto di strada di una trentina di chilometri, si beano del calore dell’asfalto – questa la nostra teoria – e non si spostano.
Non si spostano.
Crollasse il cielo o, meglio, passasse anche un camion pesante svariate tonnellate, non si spostano. Solo i più attenti – e non sono moltissimi – lo fanno, ma all’ultimo momento e, soprattutto, molto lentamente.
Le abbiamo provate tutte.
Abbiamo suonato il clacson ad intermittenza.
L’abbiamo suonato di continuo.
Abbiamo rallentato fino quasi a fermarci.
Abbiamo cominciato a zigzagare, tentando di schivare i piccoli gruppi di uccelli fermi sull’asfalto.
Le abbiamo provate proprio tutte e… non c’è stato niente da fare: non si spostano. Continuano a beccare sull’asfalto – che cosa, poi? – incuranti delle macchine che arrivano a tutta velocità.
In realtà, di macchine ne passeranno sì e no una ogni dieci minuti. Ma sono sufficienti a trasformare l’asfalto in un tappeto di uccellini morti.
Nonostante il continuo impegno di Silvia con il clacson e la velocità ridotta a trenta, quaranta chilometri all’ora, ne abbiamo preso più d’uno; con le ruote, sul cofano, sul parabrezza. Tutti accompagnati da un brivido, da una lieve sbandata della macchina (che volete? è difficile farci l’abitudine) e dagli “oddio!!” agghiacciati di Silvia.
Fortunatamente, dopo una ventina di minuti, quasi all’improvviso, gli uccellini sono scomparsi dalla strada. Proprio quando, stressato dalla continua alternanza fra colpi di clacson, slalom e frenate improvvise, mi stavo giusto ponendo l’alternativa tra l’accelerare al massimo e lo scendere dalla macchina, per proseguire a piedi.
Allora sì, abbiamo accelerato, ancora stupiti ed un po’ scossi per lo spettacolo incredibile appena attraversato e – almeno io – affaticato da quella decina di chilometri di gimcana. Abbiamo accelerato e, mezz’ora dopo, siamo entrati a Luderitz.
Unica testimonianza visibile della strada appena percorsa, due piccole macchie rossastre sulla macchina bianca. Sul paraurti e sul parabrezza, in alto a destra.
Il pomeriggio stesso, passeggiando per la piccola cittadina affacciata sul grigio scuro dell’Atlantico in tempesta, siamo passati accanto ad una macchina, rossa. La targa è sudafricana.
La calandra e la parte anteriore del cofano sono completamente cosparse di sangue e di piume d’uccello.
Chissà, forse è una di quelle poche macchine che ci hanno superato a tutta velocità durante la mattinata, incuranti di quello che a noi agghiacciava il sangue.
Ma, del resto, provo a mettermi nei panni di una persona di queste parti, costretta a fare, magari tutti i giorni, quello stesso tratto di strada.
Quanto tempo avrei impiegato, io stesso, a decidere di affondare un po’ di più il piede sull’acceleratore, imparando a far finta di niente? Quanto tempo avrei impiegato a trasformare il ribrezzo provato quella stessa mattina, in un’indifferenza simile a quella che proviamo nel fare strage d’insetti, d’estate, con il parabrezza della nostra macchina? C28 Abbiamo lasciato l’Haruchas Guest Farm di buon ora, come ogni mattina. Dopo una notte passata con ancora negli occhi le dune rosse del deserto di Sesriem, la terra spaccata di Sossusvlei e lo spettacolo affascinante di un deserto che cambia continuamente colore col passare delle ore.
La prima cosa che abbiamo fatto, ieri, una volta entrati nel parco Namib-Naukluft, è stato scalare la duna 45, un cumulo di sabbia enorme che costeggia la strada che dal cancello del parco porta alla zona di Sossusvlei.
Quando siamo arrivati, circa mezz’ora dopo l’alba, abbiamo trovato solo un ragazzino di una dozzina d’anni a precederci. Italiano. I genitori ad attenderlo ai piedi della duna. E’ lui che ci ha scattato una delle poche fotografie in cui io e Silvia siamo ritratti insieme. E’ stato sempre lui a guardarci dalla cima della duna, quando, col fiato mozzato dalla fatica – io – e col timore per l’altezza e per le pareti quasi verticali della duna – Silvia – ci siamo accasciati sulla sabbia già tiepida.
Sossusvlei, invece, è stata meno spettacolare di quanto ce l’aspettassimo e di quanto sarebbe potuta essere. Verso le otto, infatti, lo splendido cielo azzurro dell’alba è stato coperto improvvisamente da uno strato di nuvole spesse e grigie, che hanno smorzato i colori del catino naturale, meta finale della nostra visita nel parco.
Sossusvlei è un lago.
Di tanto in tanto ci si può trovare anche dell’acqua. Normalmente, però, è una superficie grigiastra, crepata profondamente dalla siccità, circondata da un anfiteatro naturale di sabbia rossa. E’ un posto indescrivibile. Si rischia di essere, come al solito, scontati, scomodando paragoni con la superficie della Luna o di Marte. Ma bisogna esserci. Anche sotto quel cielo grigio che cancella le ombre e le distanze. E’ incredibile.
Abbiamo camminato una buona mezz’ora per attraversarlo tutto. Poi ci siamo fermati accanto ad una delle poche acacie che crescono sulla “riva”, guardando indietro, verso il parcheggio che si è andato pian piano riempiendo di fuoristrada. Nel silenzio assoluto, gruppetti sparuti di persone si sono sparpagliati in tutte le direzioni. Chi per dedicarsi alla scalata della impressionante, enorme duna rossa che domina il panorama. Chi per cercare sassi, pietre o chissà cosa in giro. Chi, come noi, per godersi, con calma, lo spettacolo.
Naturalmente, come tutte le cose che riguardano la Namibia, anche sul concetto di “riempirsi” e di “gente” occorre capirsi. In quel momento, nella prima mattina di Sossusvlei, il concetto più vicino a quello di folla è esattamente quella cinquantina scarsa di persone, in gruppetti di due o tre, sparsa su una superficie pari a svariati campi di calcio.
Comunque – tornando all’inizio – eravamo ancora “impregnati” di tutte le sensazioni vissute il giorno precedente, quando abbiamo lasciato, di buon ora, l’Haruchas Guest Farm, una modesta fattoria, sperduta in mezzo alle rocce nella zona di Bullsport.
Ancora una lunga tirata, per arrivare, a metà pomeriggio, a Swakopmund.
La prima sosta l’abbiamo fatta alla stazione di servizio di Solitarie.
Strano posto Solitarie.
E’ indicata su tutte le carte stradali come un centro importante. Il “pallino” che la contraddistingue sulle mappe non è dei più piccoli ed è una delle tappe fisse per chi, come noi, dal sud vuole dirigersi verso la costa o, viceversa, verso Windhoek e l’interno del paese.
Comunque, è un posto importante; quanto meno perché c’è una stazione di servizio. Di fondamentale valore in un paese immenso e spopolato come la Namibia.
Ma, come al solito, le guide e le mappe non dicono tutto. Anche Solitarie, come quasi tutti gli altri luoghi che abbiamo visitato in Namibia, non è come ci si aspetta. E’ diversa, inaspettata. Riesce a sorprendere.
Solitaire, dice il cartello al lato della strada, una freccia che indica una svolta alla nostra sinistra. Tre, quattrocento metri e si arriva alla stazione di servizio. Ed è solo allora, una volta parcheggiata la macchina, che ci si rende conto che la stazione di Servizio è Solitarie.
Non è una cittadina con le casette in stile tedesco, come Keetmanshop o Rehoboth. Non è nemmeno un posto abbandonato da Dio come Helmeringhausen, quattro case, un albergo – chiuso – ed una pompa di benzina – chiusa, la domenica – vicino al crocevia tra la C13 e la C14.
Solitarie è la stazione di servizio.
La stazione di servizio, un’area per il campeggio, qualche stanza – immagino spoglia – per chi si vuole fermare per la notte e la possibilità di mangiare qualcosa.
Dietro al bancone una signora sudafricana sulla sessantina. Figli, separata, ha deciso di mollare tutto per gestire il bar, ristorante, alimentari che rappresenta l’unica possibilità di rifocillarsi in un raggio di decine di chilometri.
Il tè è buono e la torta, ancora calda, lo è ancora di più.
Lasciata Solitarie – so di non essere originale, ma mai nome è stato più adatto – ci siamo diretti verso nord. Abbiamo passato il Kuiseb Canyon, dove faticosamente ci siamo arrampicati, con la macchina, lungo i tortuosi saliscendi cui è costretta la strada per farsi largo attraverso le rocce nere e devastate di rilievi che sembrano una specie di asteroide per caso finito lì, in Africa australe.
Poi, pian piano, la strada ha cominciato a scendere. Le rocce hanno fatto spazio alla sabbia. Ci siamo illusi che il peggio fosse passato.
Invece no.
Ancora qualche ora in mezzo a panorami sempre uguali e sempre diversi, come sanno essere solo quelli di questa parte dell’Africa.
Poi, finalmente, la C28.
Una striscia di terra battuta che, passando attraverso il Namib, collega Windhoek a Swakopmund.
Ancora “solo” un centinaio di chilometri, una breve sosta per vedere qualche pianta di welwitschia e finalmente ci potremo fare una doccia sulle rive dell’Atlantico.
La C28. Una striscia di terra battuta. Dritta e piatta come la pista di un aeroporto.
Ho appena finito di pronunciare queste parole, quando colpiamo – per lo meno, credo – con la ruota posteriore sinistra un lastrone che spunta appena per pochi centimetri dal fondo stradale.
L’urto è stato quasi impercettibile. La ruota si alza, forse solo di poco.
Ma abbastanza.
Così mi sono trovato a tentare di governare la macchina, improvvisamente lanciata a cento chilometri all’ora su una lastra di ghiaccio.
A nulla valgono i trentacinque gradi di temperatura delle tre del pomeriggio.
E’ ghiaccio.
Quando giro lo sterzo, per tentare di dare nuovamente un’andatura rettilinea alla macchina che sbanda sullo sterrato, le ruote non rispondono.
Sto attento a non frenare. Vorrei scalare la marcia, ma le mani sono entrambe impegnate a tentare di governare lo sterzo.
La coda della vettura gira verso destra.
Quando usciamo di strada, la macchina ha ormai già compiuto un giro di 180 gradi.
Proseguiamo per qualche metro ancora, ormai completamente fuori controllo, perdendo rapidamente velocità.
Fortunatamente – penso – non c’è una grande differenza tra il fondo stradale e la piatta distesa sabbiosa che si stende, per centinaia di chilometri, intorno a noi. Non un masso, non una pianta, nemmeno il più piccolo dei rilievi.
Quasi lascio lo sterzo, aspettando che la macchina, terminata la sua scivolata infinita, si fermi.
Che fortuna, non ci sono ostacoli attorno a noi.
Non faccio nemmeno in tempo a finire di pensarlo, che la macchina si appoggia, quasi con leggerezza, contro un piccolo cumulo di sabbia.
Le ruote dalla mia parte si bloccano all’improvviso.
E la macchina si gira a testa in giù.
Mi volto verso Silvia – fortunatamente legata, come me, ai sedili – mentre i finestrini esplodono. Poi, quel mondo alla rovescia, assurdo come uno di quei sogni agitati che si fanno in dormiveglia, si rimette al suo posto.
Un altro sussulto e la macchina si gira di nuovo. Questa volta per fermarsi, definitivamente, sulle quattro ruote.
Scendiamo subito. Un po’ intontiti, completamente coperti di polvere, ma illesi. Senza un graffio. Attorno a noi, vestiti, bottiglie d’acqua, scatole di biscotti. Una borraccia. Il sedile posteriore era coperto di roba, prima della giravolta. E ora quella roba è sparpagliata in giro, tutto attorno alla macchina.
Mi chino a raccogliere la Nikon, fortunatamente intatta, mentre si sta fermando una Land Rover, che, da lontano, ha assistito al nostro show.
Sono turisti italiani, che subito ironizzano sull’incidente e sul mio cognome. Sono gentili e ci trattano quasi con circospezione. Sembrano, in qualche modo, più spaventati di noi. Noi che, adesso, a freddo, cominciamo a renderci bene conto di quanto è accaduto.
E, soprattutto, di quanto sarebbe potuto accadere.
Il loro autista è di Swakopmund. Ed ha una sorella che lavora – guarda caso – alla sede Avis della città, che dista solo sessanta chilometri da dove ci troviamo.
Riesce anche a prendere – nel bel mezzo del deserto del Namib – la linea col cellulare. Per farlo è costretto a salire sul tetto del fuoristrada. Però, non so come, ma ci riesce.
Dopo poco più di un’ora arriva il carro attrezzi.
Scendono tre uomini, due bianchi ed un nero. Il nero – non si può sbagliare – è l’uomo di fatica. Troppo ancora dovrà passare prima che, in Namibia, bianchi e neri siano veramente uguali. Il potere politico è in mano alla maggioranza, nera, della popolazione, ma l’economia è in mano ai bianchi. Sicché il rapporto è ancora, troppo spesso, padrone-servo.
Comunque, indipendentemente dal colore della pelle, i nostri tre soccorritori sono, indistintamente, molto antipatici.
A stento ci rivolgono mezza parola. Tirano fuori un piccolo compressore, gonfiano i due pneumatici che, nel conficcarsi nel cumulo di sabbia, si sono completamente svuotati dell’aria. E il gioco è fatto.
Il bianco più anziano si siede alla guida, gira la chiave dell’accensione e il motore si mette in moto immediatamente.
Senza rivolgerci parola, scambiate poche incomprensibili frasi con gli altri due, chiude la portiera e parte, con la nostra macchina, verso Swakopmund.
Noi lo seguiamo, a bordo del carro attrezzi.
Corre veloce, la Corolla, persa in una nuvola di polvere ocra davanti a noi. Forse anche più veloce di quanto non stessimo andando noi al momento della capriola.
Maledico, dentro di me, la sfortuna e la mia imprudenza, mentre, fuori dal finestrino, scorrono le prime piante di welwitschia; che degniamo solo di un rapido sguardo distratto.
E mentre Silvia mi si stringe al fianco, ancora tremante di rabbia e di spavento.