Namathe Saathi – Diario di un viaggio

Un meraviglioso trekking nella regione del Kumbu in Nepal attraversando i passi più alti della catena Himalayana fino ad arrivare al campo base dell'Everest per poi proseguire e sfidare l'Island Peak. Un'esperienza fuori dal tempo, dove le difficoltà uniscono persone mai conosciutesi prima
Scritto da: Alessio58
namathe saathi - diario di un viaggio
Partenza il: 08/10/2012
Ritorno il: 27/10/2012
Viaggiatori: 1
Spesa: 3000 €
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Namastè Saathi

Un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo.

Lao Tzu

Dedicato a G

Grazie di cuore a Gabriella e Jaime

Itinerario percorso nei ventuno giorni di trekking

Verso Kathmandu. 14

Arrivo a Kathmandu. 17

Un giorno a Kathmandu. 23

Da Lukla a Phakding. 34

Da Phakding a Namche Bazaar (3.440m). 45

Namche Bazaar. 52

Da Namche Bazaar a Dole (4.110 m). 57

Da Dole a Machhermo (4.470m). 61

Da Machhermo a Goyko (4.800m). 67

Da Gokyo Ri (5.360m) a Thaknak (4.750m). 73

Da Thaknak per Cho La (5.420m) a Lobuche. 80

Da Lobuche a Kala Pathar (5.545m) fino a Gorak Shep (5.170m). 88

Da Gorak Shep per E.B.C. (5.354m) a Lobuche. 97

Da Lobuche (4.940m) per Kongma La (5.535m) a Chhukung (4.730m). 102

Chhukung (4.730 m). 108

Da Chhukung al campo base di Imja Tse (5.200m). 114

Da Imja Tse (5.200m) a Chhukung (4.730m). 119

Chhukung (4.730m). 126

Da Chhukung (4.730m) a Namche Bazaar. 133

Da Namche Bazaar a Phakding. 143

Da Phakding a Lukla. 148

Partenza da Lukla. 157

Kathmandu. 173

Prefazione

Non ho le pretese di essere uno scrittore, me ne guarderei bene, il mio è solo il desiderio di raccontarvi questo viaggio.

Tutto ha inizio cinque anni fa con una cena a casa di un mio carissimo amico, Marco, conosciuto ai tempi del liceo. Anche se frequentava la sezione terza F, veniva spesso nella mia classe durante le pause perché era il ragazzo della mia più cara amica. Da lì è nata la nostra frequentazione che è durata negli anni. Quella sera G ed io passammo una bellissima serata in loro compagnia e, mentre gustavamo una buonissima, quanto bella, torta di frutta preparata da G, Marco ci informò che stava organizzando un trekking destinazione Nepal con il gruppo con cui era solito uscire. Questa notizia mi stupì non poco. Non avevo capito quanto fosse diventata così forte la sua passione.

Dopo quella sera iniziai a pensare che anch’io avrei potuto passare dalle semplici camminate in campagna a qualcosa di più impegnativo. Presi informazioni presso il CAI di Firenze e venni a sapere che da lì a poco avrebbero organizzato un corso di escursionismo. Così decisi di iscrivermi. Frequentai il corso, dove ho avuto l’opportunità di incontrare tanti amici con la stessa passione. Con alcuni di loro decidiamo di andare oltre e di frequentare il corso di alpinismo. In questi anni ho sempre cercato di partecipare alle uscite programmate dal CAI così da acquisire sempre più esperienza. Mai e poi mai avrei pensato un giorno di andare in Nepal.

Arrivano, però, momenti della vita in cui il mondo che ti circonda inizia a starti stretto. Avverti una certa insofferenza e la voglia di evadere prende il sopravvento. Senti il desiderio di andare lontano, ma le responsabilità ti richiamano al dovere e sopprimi la tua irrequietezza.

La spinta a fare questo lungo viaggio è nata principalmente dalla mia passione per la montagna e soprattutto, dopo aver superato un periodo di grande stress nella mia vita professionale.

Nel Novembre del 2010 ho iniziato a maturare l’idea di andare in Nepal.

Questa esperienza mi avrebbe portato lontano dalla routine di tutti i giorni. Prendere una parentesi nella propria vita, restare solo con se stessi per riflettere, mi avrebbe aiutato a superare il brutto periodo che stavo passando. Inoltre, volevo mettermi alla prova e misurarmi con le difficoltà che avrei incontrato in un trekking così lungo e impegnativo. Tutto ciò mi avrebbe aiutato a tornare alla vita di tutti i giorni più sereno, forse affrontando le cose in maniera diversa, con più distacco e dire certe volte un sano chi se ne sfrega. E poi, detto tra di noi, il desiderio di vedere da vicino le montagne più alte del mondo era grande.

E’ da qui ha inizio quest’avventura.

Preparazione del viaggio

Allora è deciso, parto per il Nepal a Ottobre del prossimo anno. Peccato che ancora nessuno lo sappia. Completamente ignare mia moglie e le figlie, il resto della famiglia tutta, i miei amici e i colleghi di lavoro. Ci vuole un po’ di coraggio a dire parto per quattro settimane per il Nepal. Chissà se avrebbero capito la mia scelta. Il Nepal, un paese lontano, non solo geograficamente. Considerato dai più un paese misterioso e mistico ma anche pericoloso. Dove se hai bisogno di cure mentre sei sulla catena himalayana, non hai scampo. Dove esiste anche il rischio di essere rapito dai terroristi maoisti.

Una mattina di Novembre 2010 entro in ufficio come di consueto. Una di quelle giornate grigie fiorentine, dove ormai l’estate è un lontano ricordo. Sono sempre il primo ad arrivare nel mio reparto e lo fui anche quel giorno. Mi siedo alla mia scrivania e accendo il computer dando inizio alla mia giornata lavorativa con uno spirito diverso. Oggi avrei comunicato la mia decisone. E’ il giorno giusto. Uno a uno entrano anche i miei colleghi e li saluto con un bel buongiorno. La mattina trascorre tra risoluzione di problemi e telefonate interminabili. Arriva l’ora di pranzo. Un rito che ci porta a riunirci tutti insieme intorno ad un tavolo in mensa. E’ il momento in cui parliamo del più e del meno. Raccontiamo fatti della nostra vita, cosa è successo, cosa abbiamo fatto. Così colgo l’occasione e sbotto dicendo: “Lo sapete dove ho deciso di andare in vacanza il prossimo anno?”.

Gisella mi guarda in fare sospettoso, ormai mi conosce da troppi anni: “Che cosa ti è venuto in mente questa volta?” chiede.

“Avrei deciso di andare in Nepal per un’esperienza alpinistica”. Silenzio. Tutti si voltano verso di me, anche quelli più distratti a parlare tra loro. “Stai scherzando, vero?” chiedono. No no, non è uno scherzo, ho proprio deciso di partire. Rimangono stupefatti e se ne escono con espressioni del tipo: “Ma cosa è successo? Non hai dormito bene questa stanotte?”. E poi ancora: “Ma invece di pensare a questa cazzata visto che hai 50 anni, pensa invece a farti l’amante!”

“Scusa e con chi andresti?”. Bella domanda.

Avevo già scritto al gruppo di posta elettronica dei soci CAI, ma il periodo non è dei migliori per prendere una lunga vacanza e nessuno era disponibile.

Avevo fatto delle ricerche in internet per trovare gruppi che partissero dall’Italia, ma i prezzi erano proibitivi per le mie tasche.

La risposta fu: “Da solo” e subito avvertii un senso di smarrimento, per l’incognita che questo viaggio mi avrebbe riservato.

Sarei andato in Nepal, un tempo meta di fricchettoni alla ricerca del proprio io, che poi regolarmente si convertivano al buddismo.

Furono proprio i miei colleghi di lavoro a saperlo per primi.

Durante il mese di Dicembre le mie ricerche in internet portarono ad individuare un società di Kathmandu organizzatrice di spedizioni alpinistiche. La mia scelta cade per un trekking di ventidue giorni ad alta quota con meta finale la scalata di una montagna alta 6.100 m chiamata Island Peak. I prezzi comparati con quelli di altre organizzazioni erano i più abbordabili.

Inizio a scrivere all’organizzazione per sapere se e quando in Ottobre si sarebbe svolto il trekking. Ottobre e Novembre sono i mesi autunnali più adatti per intraprendere questo tipo di esperienza.

La risposta fu: 8 Ottobre 2011.

Ottimo! E adesso che siamo a fine Dicembre credi sia arrivato il momento di parlare con la moglie?

Dovevo prenotare i voli aerei con largo anticipo, prima che i prezzi iniziassero a salire e quindi era proprio giunto il momento per parlargli della mia intenzione, o meglio, decisione. Non fu facile trovarlo. A più riprese ho cercato di parlargli del mio viaggio ma, incredibile, succedeva sempre qualcosa che mi diceva: “Non adesso, non è il momento”. Passò così anche Natale e con esso

Tempo prezioso per iniziare la preparazione del viaggio.

Una sera di Gennaio decidiamo di andare in pizzeria, noi due da soli. Non potevo mancare, in questa rara occasione. Di solito siamo sempre in compagnia di amici. Era nervosa. Le cose a lavoro non andavano come lei avrebbe voluto. Non potevo rimandare oltre. Cosi in un momento di pausa, mentre ci gustavamo la nostra pizza, le dissi: “G mi dovresti fare un regalo anche se ormai Natale è già passato. E’ un grande regalo a cui tengo molto”.

Sapevo che avrebbe approvato la mia scelta, anche se, strano ma vero, da quando ci siamo conosciuti all’età di diciassette anni, non eravamo mai stati separati per un lungo periodo di tempo. Questo aumentava i miei scrupoli, ma in fondo non avevamo più le bimbe piccole, e le mie donne se la sarebbero cavata benissimo anche senza di me durante la mia assenza.

La risposta fu: ”Se è quello che desideri vai pure.“ e aggiunse per mitigare la sua preoccupazione : “ Con chi vai? Col CAI?”

Eccoci all’acqua! “No, da solo”.

Si fece seria e disse: “Sarò in pensiero finché non tornerai”.

Di nuovo in me si fece strada l’ansia dell’incognita. A cosa andavo incontro? Ero proprio sicuro di andare? Sarei stato in grado di affrontare questa sfida?

Poi fu la volta di comunicarlo alle mie figlie e l’unico commento venne da Ele: “ Ma dove vai babbo, ormai sei vecchio”. Mio fratello fu l’unico a dirmi: “Fai proprio bene, così stai da solo per un po’ ”. Mentre mio padre credo proprio non abbia approvato la mia scelta pur non manifestandola apertamente.

Ormai tutti lo sapevano: pochi m’invidiavano, molti non capivano.

Rimaneva l’ultima barriera: l’approvazione ufficiale del mio capo. Fu molto comprensivo e arrivò subito anche se commentò: “ Ma invece di andare a stramazzarti, una vacanza tranquilla circondato da donne no?!!”

Nei giorni successivi prenoto i voli aerei, anche perché tra ninnoli e nannoli, è già Marzo. La scelta cade su Air India con itinerario Bologna – Francoforte, Francoforte – Delhi e infine Delhi – Kathmandu con partenza il 5 Ottobre con arrivo a Kathmandu il giorno successivo nel primo pomeriggio. Data di rientro 28 Ottobre.

Il mio carteggio elettronico con l’organizzazione del trekking diventa più serrato. Chiedo dettagli sul materiale che avrebbero fornito per capire cosa invece avrei dovuto portare e infine confermo la mia partecipazione. Seppi, che oltre a me, si erano iscritte fino a quel momento altre cinque persone. Chissà di quale nazionalità saranno state, pensai. Comunque, avrei dovuto, senza dubbio, parlare in inglese e questa poteva rilevarsi un’altra difficoltà poiché abituato a parlarlo in un contesto lavorativo. Inoltre, avrei condiviso questa esperienza con persone di cultura diversa, tutto sommato si poteva rivelare un aspetto estremamente positivo.

In base alla lista del materiale fornita dall’organizzazione, mancava da comprare qualche capo di abbigliamento tecnico e l’attrezzatura d’ alta montagna, che fino ad allora avevo rimandato e presa sempre a noleggio per le uscite con il CAI. Il sacco a pelo per l’alta montagna, con tenuta fino a -25 gradi, e la giacca a vento sarebbero stati forniti. Meglio cosi, questo mi evitava un acquisto che difficilmente avrei riutilizzato in seguito.

Ultimo tassello era trovare un’assicurazione che mi coprisse durante il trekking. Non fu per niente semplice. Alla fine, dopo lunghe ricerche, trovai una compagnia danese con polizze per sport ad alto rischio e che fosse valida per un’esperienza alpinistica fino a 6.200 metri. Inoltre, contemplava anche l’ eventuale intervento di un elicottero in caso di situazione gravi.

E la salute? Dove la metti. In molti forum consigliavano di fare varie vaccinazioni, ma non ne avevo nessuna intenzione, e non le ho fatte. Il medico di famiglia mi prescrisse un elenco di farmaci: antipiretici, antibiotici, antistaminici, anti diarrea, in pratica anti tutto. Ero in una botte di ferro.

In ufficio oramai era uno degli argomenti preferiti. Gisella aveva trovato su internet una webcam puntata sull’Everest appartenente a un istituito meteorologico di ricerca italiano, situato proprio nella regione dove sarei andato. “Quando passi di li, cerca la webcam e lascia una traccia del tuo passaggio, così sapremo che sei arrivato quasi a destinazione”. Che idea geniale! Comunque avrei portato lo smartphone, cosi avrei potuto chattare di tanto in tanto la mia posizione, in modo da poter seguire i miei spostamenti sulla la mappa riportante il percorso del trekking. La mappa fu stampata su foglio A3 e per ogni tappa fu apposta la data probabile del mio arrivo in base al programma. A tutt’oggi è ancora lì appesa alla parete.

Un’altra attività è stata la ricerca su YouTube di video inerenti all’atterraggio all’aeroporto di Lukla, villaggio di montagna a 2.800 m e punto di partenza del trekking. I commenti si sprecavano: “Ma sei pazzo, non vedi quanto è pericoloso. Scommetto che tua moglie non è al corrente”. Vedere per credere. In effetti, non potevo certo dargli torto.

Altri video da me ricercati erano in merito alla scalata dell’Island Peak, dove alpinisti, generalmente giovani, affrontano l’ultimo tratto prima di arrivare in vetta con estrema fatica e affanno. Andiamo bene!

Giunse il giorno in cui tutto era pronto: biglietti aerei, polizza assicurativa, il lungo elenco di materiale da portare. Non restava che aspettare il giorno della partenza.

Nei mesi a seguire inizio la preparazione atletica per arrivare alla partenza il più in forma possibile. Un po’ di palestra, corsa due volte la settimana, cerco di partecipare alle uscite più impegnative organizzate dal CAI. Arrivo perfino ad andare a lavoro a piedi. Più di così non potevo fare. Raggiunsi il punto in cui mi sentii fisicamente pronto.

Non sempre però le cose vanno lisce, come programmato.

G esegue un esame di controllo nel mese di Agosto, ordinaria routine dopo quello avuto anni prima. Ma questa volta il medico non è rassicurante, anzi, vuole vederci chiaro e decide di fare una biopsia. I risultati sarebbero stati pronti per la fine del mese di Settembre. E così improvvisamente tutto diventa secondario. La preoccupazione prende il sopravvento, la paura ritorna. G ha avuto una grande forza nella sua battaglia, e oggi è una donna più forte, ma questa notizia non ci voleva proprio.

Non annullai subito il viaggio. Forse per rifiutare un passato che ritorna. Forse per essere più ottimisti. Decisi di aspettare fino al giorno del responso, anche se G avrebbe voluto che io partissi in ogni caso. E come no.

Domenica 25 Settembre, Corri la Vita, manifestazione cui G ed io non manchiamo mai. Mentre G partecipa alla camminata dei 5 km, che prevede anche la visita di palazzi e luoghi normalmente chiusi al pubblico, io partecipo alla corsa dei 12 km, amatoriale. E’ sempre un evento che ci entusiasma. Vedere la partecipazione di cosi tanta gente, di ogni età, tutti con la stessa maglietta color verde, colore che cambia ogni anno. Camminare oppure correre tutti insieme, e cosi numerosi, per le vie di Firenze, è fantastico.

E cosi, anche quel giorno ci siamo divisi ognuno per la suo percorso. Bellissima giornata di sole. Percorro i 12 km in poco meno di un’ora, non male per un cinquantenne. Torno quindi alla moto e prendo il cellulare per sapere dove G si trovasse per raggiungerla. Mi risponde subito dicendo che, tra quelle migliaia di persone, aveva incontrato il suo medico e le aveva dato in anteprima una bellissima notizia: i risultati degli esami istologici erano negativi. Niente da preoccuparsi. Credo che quel giorno sia stato uno dei più felici della mia vita.

Giunse anche il giorno del mio compleanno, 30 Settembre. Le mie donne mi fanno un piacevole sorpresa. Abbigliamento da montagna: calzamaglia, calze, felpe, magliette, un sacco di roba. Un regalo che dimostrava la loro partecipazione alla mia avventura. Ciò mi fece molto piacere.

Tutto adesso era pronto.

Verso Kathmandu – 5 Ottobre

La sera precedente ho preparato il bagaglio, un grande borsone con ruote comprato per l’occasione. Tutto è entrato come per miracolo, rispettando il peso di venticinque chili, limite imposto dalla compagnia aerea per non pagare una sopratassa.

G mi accompagna in auto alla Stazione di Firenze Rifredi. E’ serena e pure io. Arriva il treno delle ore 9.26 per stazione centrale. Un ultimo bacio prima di salire. Poi le porte si chiudono. I nostri sguardi s’incontrano fino a perdersi. In quel momento sono preso da uno struggimento. Iniziava quest’avventura che mi avrebbe portato lontano da lei per quasi cinque settimane.

Scendo alla stazione centrale e salgo sul treno per Bologna. Tutto secondo programma fino all’aeroporto di Bologna. Il treno Freccia Rossa ha raggiunto Bologna in meno di trenta minuti e poi venti minuti di autobus dal centro di Bologna fino all’aeroporto. Ho tutto il tempo di farmi un panino fuori dall’aerostazione mentre osservo il via vai delle auto che scaricano e prendono i loro cari. Si è fatto l’ora del check in. Passo il controllo passeggeri e mi avvio al terminal. L’aereo è già sulla pista pronto per la partenza. Dopo il controllo della carta d’imbarco, prendo posto sull’aereo. Il volo Bologna Francoforte non è filato liscio. Ben quarantacinque minuti di attesa nel cielo tedesco prima di atterrare, tra l’impazienza di alcuni passeggeri che stavano perdendo le coincidenze. Francoforte si conferma come aeroporto da evitare. Dalle ore 17 che sono sceso, devo aspettare le 22, partenza del volo per Delhi di Air India. Che noia. Anche il girovagare per i negozi non aiuta ad ammazzare il tempo. Poi finalmente l’imbarco. Prendo, come di mia abitudine, un posto vicino al corridoio. Do una sbirciatina alla business class, quasi vuota, solo qualche passeggero con il turbante a conferma della mia destinazione. Dopo un volo di circa sei ore l’aereo atterra a Delhi. Questo modello era fornito di una telecamera esterna cosi da seguire la fase dell’avvicinamento alla pista fino all’ atterraggio. Veramente forte! Sembrava di essere in cabina di pilotaggio.

A Delhi sono sottoposto a un controllo dei documenti da parte della polizia molto scrupoloso. Avevo letto in internet la raccomandazione di stare molto attenti quando viene consegnato il passaporto, di non perderlo mai di vista, perché si sono verificati casi in cui vengono strappate delle pagine dal passaporto e poi la polizia contesta la validità, minacciando di non fornire il visto. Sono casi di corruzione perché, allungando del denaro, tutto si risolve. Una volta passato il controllo mi aspetta l’ultimo volo di due ore per Kathmandu. Anche all’aeroporto di Delhi ritrovo gli stessi negozi che ci sono a Roma Fiumicino, Parigi Charles De Gaulle, Francoforte oppure a Londra Gatwick. Chiaro segno della globalizzazione. Solo un negozio si è distinto tra tutti per la vendita di oggetti dell’artigianato indiano. Due suonatori seduti sopra ad un tappeto ricreavano con la loro bravura un’atmosfera orientale e per un momento mi sono dimenticato di essere in un aeroporto. Poi arriva la chiamata per Kathmandu.

Arrivo a Kathmandu – 6 Ottobre

Arrivo a Kathmandu verso le tre del pomeriggio. Mi dirigo al controllo passeggeri, dove trovo una lunga coda per ottenere il visto d’ingresso. Passato il controllo, prelevo del denaro in contante presso una cassa continua, e per la prima volta vedo le rupie nepalesi. Non sono stanco, anzi direi invece eccitato. Prendo la direzione dell’uscita con in spalle il mio zaino e con la mano destra trascinando il mio borsone. Appena uscito vengo assalito da “volenterosi” che mi vogliono aiutare a portare i bagagli. Non curante mi faccio largo con un sorriso e noto, non lontano da me, un ragazzo con un cartello che riporta il mio nome. E’ lui il mio uomo. Lo saluto e usciamo dall’aerostazione con direzione parcheggio taxi. Che confusione, sono un po’ frastornato. Lo seguo mentre si dirige verso una piccola auto e contratta il prezzo con il guidatore del taxi. Trovato l’accordo, saliamo entrambi. Il borsone è caricato nel porta bagagli, ma è così piccolo da entrare nell’abitacolo obbligandomi a stare curvo. In più, per stare ancora più comodo, tengo il mio zaino sulle gambe.

Il percorso verso l’hotel mi svela per la prima volta Kathmandu. Procediamo nel traffico disordinato, poche auto, molte motociclette con famiglie intere a bordo. L’autista deve fare attenzione alla gente che indisciplinata attraversa la strada, e inoltre, evitare al contempo anche le profonde buche che costellano le strade cittadine, principalmente non asfaltate. Scorrono davanti a me botteghe che sembrano una baraccopoli, con le merci esposte e ricoperte di polvere. Piccole case fatiscenti e diroccate. Sporco un po’ ovunque. Ma dove sono capitato! La prima reazione è di stupore e sgomento. I miei occhi osservano avidi e increduli. Poi l’auto imbocca una stretta strada presidiata da una guardia privata ed improvvisamente dopo un curva appare l’hotel Shanker, in stile coloniale inglese, tutto bianco, immerso in un giardino curatissimo. Sarà la mia base prima della partenza del trekking e così al mio ritorno. Il ragazzo mi ricorda in un inglese stentato che la sera stessa è prevista la cena per conoscere i miei compagni di avventura. Mi lascia all’ingresso dell’hotel. I bagagli sono prontamente scaricati e portati nella hall da un inserviente. Non ho soldi spicci per una mancia ma rimedierò più tardi andandolo a cercare con cento rupie in mano in segno di ringraziamento. Non appena mi avvicino alla reception per chiedere la stanza mi sento chiamare e voltandomi incrocio lo guardo di un paio di occhi scuri e vispi. E’ cosi che conobbi per la prima volta Ashish, la guida. Basso e paffutello con un carnato olivastro. Mi rimase subito simpatico. Mi stava aspettando. Dallo zaino tira fuori una collana di fiori arancioni e la depone intorno al mio collo in segno di benvenuto. M’invita a sedermi su di un divano nella hall mentre lui avrebbe sbrigato per me la registrazione. Di li a poco entro nella camera, è molto spaziosa con due letti singoli. Le finestre basse ad arco a pelo del pavimento. Nonostante siano aperte per quel poco consentito, vi è un aria calda e pesante. Ashish si congeda dicendomi che sarebbe ripassato da lì a poco per la cena programmata per le sei. Accendo l’aria condizionata ma la spengo subito dopo, troppo rumorosa. Meglio il caldo, abituato al caldo fiorentino tutto si può sopportare.

Sapevo che la sera stessa sarebbe arrivato il mio room mate, il mio compagno di stanza. Chissà che tipo sarà. Non sono solito a condividere una stanza con sconosciuti, anzi credo che questa sia la prima volta.

Comunque, riordiniamo le idee, facciamo una bella doccia!

Ho ancora del tempo a disposizione prima della riunione nella hall dell’hotel. Decido di uscire per una breve passeggiata rimanendo nei paraggi. Imbocco la strada principale al termine di quella privata dell’hotel e percorro qualche centinaia di metri assorto ad osservare tutto ciò che mi circonda. E’ la prima volta che sono in un paese asiatico. E’ tutto nuovo per me. M’imbatto in due monaci indù con il loro sari rosso. Mi vengono incontro sorridenti con le loro lunghe barbe bianche. Uno di loro tiene in mano un pentolino nel quale intinge un dito e svelto, mi marchia la fronte di rosso. Avevo ricevuto il “tika”, segno di buona fortuna. Ringrazio con un leggero inchino e faccio per allontanarmi quando uno dei due mi chiede una mancia. Cosi dono 100 rupie. Avevo giustappunto cambiato alla reception mille rupie in pezzi più piccoli. Beh, i fortunati direi sono stati proprio loro che hanno incontrato un povero turista sprovveduto.

Sono già le sei del pomeriggio, l’ora del meeting point nella hall. Arrivo all’hotel e trovo Ashish seduto con altre persone. Intuisco che debbano essere i miei compagni di viaggio, e in effetti lo sono. L’accoglienza non è della più calorosa. Mi presento e subito a turno fanno lo stesso, ma senza entusiasmo. S’inizia bene. “I’m David from USA, please to meet you “, e poi a seguire Douglas from Australia, Ro from USA. Allora riepilogando, già mi sono scordato i nomi. In quell’istante arriva l’ultimo, e sarà sempre l’ultimo durante tutto il viaggio, John anche lui dagli Stati Uniti. Manca solo il mio room mate. Speriamo che almeno lui arrivi dall’Europa, mi sento in minoranza. Usciamo tutti dall’hotel seguendo Ashish. Il ristorante non è molto distante. Si sta già facendo buio. Allora, chi è John, chi Ro. Ro? Avrò capito bene. Ma Ro che nome è! Che confusione e dire che sono solo quattro! Sarà la stanchezza del viaggio. Prediamola come scusa.

Una breve passeggiata nella prima notte di Kathmandu. Niente illuminazione stradale. Sono i rari fari delle auto aiutano a vedere dove mettiamo i piedi. Siamo compatti come un gregge di pecore impaurito. Arriviamo al locale. Subito all’entrata ci sono due scale, una a destra e un’altra a sinistra, che scendano in un grande stanzone dove sullo sfondo c’è un palcoscenico. Tipico ristorante per turisti. Ci sediamo a un lungo tavolo. Un cameriere arriva dotandoci di una piccola coppa di metallo dove versa con maestria una bevanda alcolica. Sono astemio ma come rinunciare a darne un sorso! Ammazza quanto è forte, ricorda la nostra grappa, solo che noi la beviamo alla fine dei pasti non all’inizio! Il menu non è dei più entusiasmanti: Dal Bhat, ovvero, minestra di lenticchie (Dal) , riso bollito (Bhat) accompagnato da verdure e patate. Sul palco si alternano danze folcloristiche. All’inizio attirano la mia attenzione, poi sembrano sempre tutte uguali e quindi noiose. Anche la conversazione non brilla, diamo la colpa al fatto che ci siamo appena conosciuti.

Quello che è successo a John all’aeroporto è l’argomento principale. In un attimo di distrazione, il suo bagaglio era sparito. Rubato. Oh bravo pollo, penso. Il risultato è stato che ha dovuto comprare, e in parte noleggiare, abbigliamento e materiale per il trekking. Ovviamente si lamentava del danno economico. Aveva comprato scarponi e ramponi nuovi. Ormai, da come raccontava il fatto, si capiva che la rabbia era ormai passata.

Ashish ricorda brevemente il programma per il giorno seguente. Dopo colazione, partenza per la vista della città, toccando i luoghi di maggior rilievo. Ci congediamo dal ristorante per fare ritorno all’hotel. Una volta arrivati, auguro buona notte a tutti e salgo in camera.

L’aria è sempre calda. Mi distendo sul letto indossando solo gli slip, senza però chiudere la porta dall’interno perché sarebbe arrivato il mio room mate, come da istruzioni ricevute. Il tempo di addormentarmi e sento bussare alla porta. Ma perché bussano alla porta se è aperta?! Mi alzo, e mezzo rincoglionito, spalanco la porta senza pensare che sono in mutande. Così avviene l’incontro con Jaime, un ragazzo di chiare origini filippine, accompagnato da un facchino dell’hotel, il quale mi guarda e sorride per il mio non abbigliamento, credo non consono.

Con Jaime ho condiviso tutte le notti durante il lungo trekking. E cosi è stato per gli altri. Le coppie formatesi per caso all’hotel sono rimaste sempre le stesse: John con Douglas, David con Ro. Solo una volta si è rotta questa regola.

Nonostante fosse notte fonda, ci presentiamo vicendevolmente mentre Jaime sistema i suoi bagagli. Mi chiedo quanti anni abbia. Difficile da stabilire, specialmente per i filippini. Dimostrano sempre meno dell’età che hanno.

Avrò modo di parlare di lui nel corso di questo diario. Adesso è tempo di tornare a dormire.

Welcome Jaime e buona notte.

Un giorno a Kathmandu 7 Ottobre

E’ mattino presto. Siamo entrambi svegli per problemi legato al fuso orario. Utilizzo il bagno per primo. E’ un tipo lento, nel senso meticoloso, e quindi gli occorre di più per fare qualunque cosa. Quando è il suo turno, chiude la porta a chiave. Mah! Di che cosa avrà mai paura che gli piombi in bagno! Questo comunque è stato un segnale di quanto pudico fosse.

Siamo pronti? Ovvia, scendiamo per colazione.

Ci accoglie una bella sala da pranzo e un ricco buffet. Di tutto di più. Pane tipico nepalese, le banane piccole che da noi costano una fortuna, ma anche in Australia a detta di Jaime . Ci sediamo a un tavolo. Jaime ordina tipica colazione inglese: salsicce, panchetta, fagioli e uova strapazzate mentre il sottoscritto pane, burro e marmellata. Che tradizionalista!

Siamo in anticipo sulla tabella di marcia e quindi decidiamo di fare due passi. In fondo sulla strada privata dell’hotel, sull’angolo della strada principale, trovo una cassa continua, dove posso prelevare altro denaro, non prima di avere scavalcato con le gambe un uomo che stava ancora dormendo nella prossimità dei gradini di ingresso. Jaime, invece, cerca una banca aperta per cambiare dollari, ma l’orario di apertura è alle 10. Proseguiamo per la prima esplorazione della città. Sono colpito dai piccoli altari votivi indù costruiti lungo la strada dove sono sacrificati animali, generalmente polli, ancora sporchi di sangue. Facciamo le prime foto e rimango incuriosito dai mezzi pubblici, piccoli autobus strapieni di persone alcuni che ricordano il modello Ape della Piaggio, solo più grandi, sempre a tre ruote.

Nel far ritorno all’hotel incontriamo nuovamente i due buontemponi di monaci del giorno precedente. Avviso Jaime della loro intenzione. Questa volta non mi spillano neppure una rupia. E così li evitiamo alla grande con un sorriso da parte mia.

L’hotel, un tempo residenza privata del Maharaja Rana, è circondato da un parco curatissimo. Prato all’inglese, fiori ovunque. Peccato che non ho portato il costume da bagno, c’è anche una piscina molto invitante. Saliamo le scale di accesso e subito un inserviente apre la porta. Aspettiamo nella hall l’arrivo dei nostri compagni per la partenza del giro della città. Arrivano uno ad uno puntuali. L’ultimo è ovviamente John. Dopo poco arrivano un pulmino bianco con autista, una guida e naturalmente Ashish, il nostro angelo custode.

Programma di oggi i classici luoghi di Kathmandu ovvero Durbar square, Swoyambhunath, Pashupatinath e Bouddhanath. Nomi di facile pronuncia.

Ed eccomi nuovamente immerso nel traffico cittadino del mattino. Sono incollato al finestrino per osservare attentamente tutto quello che passa. A differenza di quando sono arrivato, adesso inizio a sentirmi parte della città. Di Kathmandu mi ha colpito il groviglio di fili elettrici che pendono dal cielo come liane della giungla da un edificio all’altro. Ma non è rimasto ancora folgorato nessuno? Da figlio e nipote di elettricisti questo stona. Pensate che mio nonno costituì la ditta di elettricista fine anni trenta. Una lunga tradizione che oggi continua con mio fratello.

Prima sosta al Tempio delle Scimmie, ovvero Swoyambhunath. Rimane su di una collina e il pulmino si è inerpicato su per una strada fino allo spiazzo antistante a una scalinata, il punto d’ingresso al luogo sacro. Riesce a stento a trovare un posto dove parcheggiare. E’ chiamato anche Tempio delle Scimmie perché ci vive una colonia di scimmiette, anche dispettose. Basta un attimo di disattenzione che ti trovi sfilato delle mani il pacchetto di patatine che stai mangiando, com’ è capitato ad una coppia di turisti. Siamo in un luogo sacro di fede buddista, dove si trova una grande stupa. Questa costruzione è composta di due basi quadrate sovrapposte e sfalsate in modo da formare una stella, sormontata da una grande cupola. Tutto di color bianco candido. La cupola è sovrastata da un cubo dorato sulle cui pareti sono dipinti i grandi occhi colorati di Buddha che ti guardano magnanimo dall’alto. Infine, da questo cubo si staglia alta verso il cielo una guglia, anch’essa dorata, formata da tredici cerchi concentrici che si riducano di diametro andando verso l’alto. Lo stupa è una costruzione piena e quindi non contiene nessuno spazio interno.

Ovunque vi sono una miriade di piccole bandiere sventolanti tese su lunghi fili. Sono di cinque colori. Ogni colore ha un significato: il colore blu rappresenta l’aria e il cielo; il bianco per lo spazio infinito, il rosso per il fuoco; il verde per l’acqua; il giallo per la terra. Molto spesso sulle bandiere sono riportate delle preghiere ed il vento ha il compito di spargerle per il mondo. E’ indubbio che il luogo eserciti un certo fascino. Dal sito si può ammirare la valle di Kathmandu con adagiata la città. E’ una bella giornata di sole. Il clima consente un abbigliamento estivo, quando questo non era più possibile a Firenze.

Dopo circa un’ora di visita Ashish ci richiama a raccolta. Dobbiamo ripartire per continuare la nostra visita, direzione Durbar Square. Risaliamo sul pulmino e scendiamo giù verso il centro della città. Durbar Square è una grande piazza dove si ergano grandi pagode di legno, tutte molto lavorate. Alcune hanno inciso anche scene erotiche, altre dei bellissimi intarsi in avorio. Nella piazza incontro le prime vacche sacre comodamente sdraiate e circondate da una miriade di piccioni. Nella vicinanza delle pagode vi è il vecchio palazzo reale. Non so se sia visitabile. Noi abbiamo solo varcato la soglia della porta d’ingresso per dare una sbirciatina mentre una guardia ci stava osservando sospettosa.

Nella piazza antistante c’è un bastone di legno conficcato nel pavimento lastricato dove ancora oggi sono eseguiti sacrifici di animali. Questa è una pratica tipicamente induista, i buddisti non torcerebbero neppure un capello a un moscerino.

Risaliamo sul pulmino e da Durbar Square proseguiamo per la visita del luogo di Kathmandu più sacro agli induisti, Pashupatinath. Il pulmino si ferma a una certa distanza. Non è possibile proseguire oltre e quindi sotto il sole di mezzogiorno attraversiamo una spianata polverosa fino all’ingresso del lungo viale che porta ai templi. Averti subito una differenza tra il misticismo buddista e il richiamo alla materia, alla realtà della vita e della morte degli induisti. Il luogo è attraversato dal fiume Bagmati. Lungo le sponde ci sono le piattaforme, dove avvengono le cremazioni. La famiglia reale e i dignitari di corte hanno una piattaforma a loro riservata del tutto uguale alle altre. E’ in corso una cremazione ormai arrivata a termine. I resti saranno poi gettati nel fiume. Nelle vicinanze c’è un “ospedale”, in altre parole un edificio dove chi è in fin di vita sono portati in attesa della loro morte per poi procedere al rito della cremazione. Direi un approccio molto pragmatico e spiccio.

Nel sito si trovano dei santoni induisti, della stessa combriccola dei famosi due. E ancora una volta come un bocco ci casco. Scatto una bella fotografia e appena sto per andarmene nuovamente richiesta di denaro. E che capperi! Esosi questi santoni. Allungo nuovamente cento rupie, ma a questo punto mi sento autorizzato a scattare un’altra foto.

Il tempo stringe e dobbiamo ripartire per l’ultima visita, Bouddhanath, uno dei centri di culto buddista più importante. L’area rimane all’interno di una cinta formata da abitazioni. L’ingresso è a pagamento. Ashish si appresta a comprare i biglietti. Appena entrati, si mostra ai nostri occhi una stupa gigantesca. Saliamo i primi gradini della base e le giriamo tutto intorno, da cui posso capire veramente la sua grandezza. Siamo radunati dalla guida per essere condotti al primo piano di un palazzo proprio di fronte alla stupa. All’interno di una sala è in corso una cerimonia. Non riesco neppure a raggiungere l’ingresso dalla porta dal grande numero di fedeli. Non resta che attendere fuori. Una volta terminata la cerimonia, i monaci escono uno a uno accompagnati a suon di musica e si dirigono in fila indiana verso la stupa. I loro sari di color rosso scuro coprono parzialmente una tuta gialla. Il profumo dell’incenso m’inebria.

Scendiamo anche noi, questa volta per visitare uno dei tanti laboratori artigianali di mandala, disegni geometrici su stoffa di finissima fattura che richiedono grande precisione. All’interno due artigiani sono concentrati sul loro lavoro. La fermezza della mano è essenziale. I particolari sono piccolissimi. Il mandala sono disegni con motivi sacri. Generalmente rappresentano la base di uno stupa con le deviazioni creative proprie dell’artista. Lo scopo è, ovviamente, quello di invitarci all’acquisto. Pur costatando l’alto livello artistico, le raffigurazioni non incontrano il mio gusto. Nessuno di noi fa acquisti.

E’ giunta l’ora di andare a pranzo. Entriamo in un locale occupando posto a un tavolo vicino a una grande vetrata che dà sulla piazza. Alcuni di noi ordinano una birra. Arrivate le bottiglie noto la marca, birra Everest. Durante tutto il pranzo il passatempo preferito di tutti noi fu quello di staccare le etichette il più integre possibile, come ricordo. Cosi feci anch’io, con ottimi risultati, riuscendo a staccare integra sia quella anteriore sia quella posteriore.

Ashish non è rimasto a pranzo con noi. Ho costatato solo più tardi, durante lo svolgimento del trekking, che guida, aiuto guida e portatori non potevano assolutamente permettersi il nostro stesso standard e quindi andavano alla ricerca di posti molto più economici, non da turisti. Tutti i pranzi e le cene sono compresi nel costo del trekking, con l’esclusione delle bevande che non fosse tè. Il tè sarà una live motive durante tutto il trekking. Come minimo tre il giorno e di tutti i gusti.

Dopo circa un’ora Ashish si ripresenta per pagare il conto.

E’ stato il primo pranzo tutti insieme che ci ha permesso di conoscerci un po’ di più. David avrebbe compiuto cinquantaquattro anni proprio durante il trekking. Da un anno in pensione. Che fortuna cosi giovane. John, di due anni più vecchio di David, lavora ancora come ingegnere presso un grande azienda di costruzioni. Ro e Douglas trentenni. Ro aveva perso il posto di lavoro come addetto al servizio clienti di una compagnia mentre Douglas ha un’occupazione, in Australia non stavano risentendo della crisi globale.

Usciamo e nuovamente prendiamo posto sul pulmino per raggiungere gli uffici dell’organizzazione.

Durante il tour la guida aveva fatto richiesta per una mancia da lasciare all’autista. Tra di noi ci eravamo accordati per cento rupie a testa. Appena scesi cerchiamo di consegnare la somma all’autista ma prontamente la guida afferra i soldi, ne prende una parte e l’altra la consegna all’autista. Ma roba da matti!

Saliamo le scale strette di una casa nel centro di Thamel, quartiere centrale e caotico di Kathmandu. Al primo piano si trovano gli uffici dell’organizzazione. A riceverci il manager, Naba, un ragazzo giovane, brillante. Un inglese perfetto. Prima operazione saldo del conto, poi le ultime spiegazioni e raccomandazioni sul trekking.

Il team che ci accompagnerà durante tutto il trekking sarà composto da Ashish, due aiuti guida e tre portatori. È illustrato il percorso che, salvo problemi, sarà rispettato. Sarà Ashish a decidere. Una raccomandazione fu di evitare di lavarci quando avremo raggiunto le regioni più remote e le comodità verranno meno, come il bagno in camera con doccia. Meglio stare dieci giorni senza lavarci che tentare una doccia precaria con il rischio di ammalarci e quindi di rovinarsi il trekking. Beh a questo mi ero già preparato mentalmente. E’ stato argomento d’infinite battute in ufficio: “Tornerai che puzzerai come un caprone” oppure “Non ti faranno rientrare in Italia, ti metteranno in quarantena” ed ancora “ Avrai le croste al culo” e via dicendo. Sempre molto carini i miei colleghi.

In realtà i giorni non furono dieci ma ben quattordici!

A ognuno di noi è consegnato un grande borsone di color rosso con il brand della compagnia ed una maglietta tecnica a ricordo della spedizione, che conservo molto gelosamente ed ancora mai indossata. Infine la carta geografica dettagliata della zona.

Terminata la predica, usciamo con Ashish per prendere a noleggio, da uno dei tanti negozi di articoli sportivi, un sacco a pelo termico e una giacca a vento, materiale offerto dall’organizzazione. Tutto marca North Face. Meglio di cosi, segno di qualità. Compro anche delle pasticche allo iodio per depurare l’acqua. Non è mia intenzione berla ma utilizzarla solo per lavarmi i denti.

Per la sera la cena è libera. Rientrati in hotel ci siamo divisi ognuno nelle proprie stanze senza accordarci per una cena tutti insieme. Difficile oliare questa convivenza. L’unica raccomandazione di Ashish fu di fare colazione presto perché dovevamo essere in aeroporto verso le sei del mattino.

Cosi Jaime ed io prepariamo il grande borsone trasferendo tutto il materiale tecnico e l’abbigliamento portato per la montagna. Lascio in hotel solo la mia valigia con dentro un paio di jeans, due magliette ed uno slip, per quando sarei tornato. Usciamo per andare a cena. E’ un buio pesto. Jaime, sempre organizzato, prende una piccola torcia e ci dirigiamo verso il centro seguendo il nostro senso dell’orientamento, stando attenti a dove mettevamo i piedi per evitare le buche sui marciapiedi. Incontriamo sagome di persone indistinguibili come fantasmi, scansiamo le auto e i motorini mentre attraversiamo le strade principali col rischio di non essere visti. Ci ritroviamo miracolosamente nel quartiere Thamel, lo stesso dove eravamo stati nel pomeriggio. Che bravi siamo stati. La sera i negozi sono sempre aperti. Molti sono quelli che vendono materiale sportivo da montagna, si trova di tutto. Altri vendono oggetti di artigianato, come i famosi coltelli, oppure monili in argento e gioielli, che certo non passano inosservati per la loro forma e grandezza. Non è ancora il tempo di fare acquisti ma gironzoliamo per i negozi per avere un’ idea sulle possibilità.

Notiamo un’insegna di un ristorante e decidiamo di entrare. Saliamo le scale che portano fino al tetto della casa. Molti ristoranti sono strutturati cosi a Kathmandu. L’aria della sera è fresca, una bella serata. Scelgo cibo indiano a base di pollo e riso. Tutto molto buono. I prezzi sono molto convenienti.

Jaime coglie l’occasione per raccontarsi. Di origine filippina si è trasferito con la moglie a Canberra per lavoro, in Australia. Non ha figli. E’ un programmatore di computer e lavora come dipendente in una grande software house. Nelle Filippine vive ancora tutta la sua famiglia e ogni anno torna per una visita. Conosce l’Italia perché ha speso qualche giorno visitando Venezia, Firenze e Roma, ma tutto molto velocemente perché facente parte del tour europeo con meta le città più belle. E quindi a seguire Parigi e Londra. In pratica un tour de force. A lui e sua moglie piace molto viaggiare. L’ultimo viaggio fatto è stato in Giordania, non proprio dietro l’angolo per uno che vive in Australia.

A mia volta racconto di me, della mia famiglia e del mio lavoro.

Poi facciamo rientro in albergo poiché il mattino successivo avremmo dovuto alzarci presto. Nella stanza è sempre caldo umido. Chiedo la cortesia di tenere il condizionatore spento altrimenti non avrei dormito. La notte passa tranquilla.

Da Lukla a Phakding 8 Ottobre

Nonostante la sveglia impostata per le quattro del mattino, non c’è stato alcun bisogno, ci siamo entrambi svegliati da soli. A turno in bagno e poi siamo scesi per colazione. Non siamo l’unico gruppo in partenza per il trekking. Colazione con caffè, pane e marmellata. Poi siamo tornati in camera per portare nella hall il borsone rosso, il nostro fondamentale compagno di viaggio: ammazza quanto pesa! Lascio l’altra valigia alla reception. Di lì a poco ci ritroviamo tutti nella hall, pronti per la partenza, indossando già l’abbigliamento da montagna, compresi gli scarponi. Le borse saranno pesate all’aeroporto perché l’aereo ha un limite di peso trasportabile. Usciamo e carichiamo le borse nel bagagliaio di un pulmino mentre ci portiamo gli zaini con noi nell’abitacolo. Nonostante il mattino presto è già giorno.

Kathmandu è ancora una città addormentata. Solo poche persone in giro. Ormai già riconosco la strada per l’aeroporto. Qualche negozio è già aperto, o forse non ha mai chiuso. Arrivati nel piazzale antistante all’aerostazione, ecco arrivare ragazzi che con insistenza si offrono di portare le borse. Con un sorriso li respingo, come del resto fanno gli altri. Turisti fiduciosi ci hanno rimesso la valigia con tutto il suo contenuto.

Entriamo in un grande stanzone ai cui lati sono disposte grandi bilance. E’ già un caos di merci accatastate, di turisti. Anche i nostri borsoni vengono ammassati di fronte ad una bilancia. Come fa Ashish a sapere che è quella giusta?! Meravigliato da tutta questa confusione, prendo il cellulare e faccio una breve ripresa. Visionando oggi il video noto che riporta le ore 5.36. Si vedono David con il suo inseparabile cappello da baseball, John e si sente la mia voce dare il buongiorno a Douglas che ricambia con un sorriso alzando la mano.

Assisto alla pesatura di tutte le borse assieme nella concitazione degli addetti e di come velocemente spariscono alla mia vista. Infine ci apprestiamo a passare il controllo passeggeri da parte della polizia. Tutti gli zaini sono aperti e ispezionati. Per fortuna Ashish aveva ricordato di inserire in borsa coltelli milleusi ed anche i bastoncini da trekking. Ci ritroviamo in una sala di attesa molto spartana insieme con altri trekker. Non ci sono pannelli elettronici con la lista delle partenze né tanto meno annunci per sapere quando è il tempo del nostro imbarco. Di tanto in tanto entra un addetto annunciando urlando la partenza di un volo. Giunge anche il nostro turno ed insieme ad un altro gruppo saliamo su un autobus cosi sgangherato da meravigliarsi che funzioni ancora. L’autobus parte in direzione di un’area di parcheggio, dove è in sosta una flotta di piccoli aerei. Il bus si ferma di fronte ad un Dornier 228 della Tara Air, un piccolo aereo a elica. Le porte del bus si aprano solo a un cenno del pilota dell’aereo, che nel frattempo ha ricevuto l’ok a partire. Ci disponiamo in fila indiana per salire a bordo. Sono uno tra gli ultimi per scattare alcune foto all’aereo. Salgo la piccola scaletta e una hostess molto giovane in abiti tradizionali mi offre con un bel sorriso una caramella e due piccoli batuffoli di cotone. Uhm … ho dei sospetti.

I posti sono solo sedici, due file da due. Le poltrone piccole. Con una certa difficoltà logistica prediamo i nostri posti. Dove metto lo zaino? Allargo le gambe per quanto mi è possibile e lo ficco nel mezzo. Le borse invece sono state caricate nelle due piccole stive anteriore e posteriore dell’aereo. Si accendono i motori. Il rumore è assordante e metto il cotone nelle orecchie che attenua il rumore solo parzialmente. Inizia il rullaggio sulla pista. La cabina di pilotaggio è aperta alla nostra vista. I due piloti indossano una camicia bianca immacolata e occhiali da sole modello Ray-Ban. Veramente professionali. Si possono seguire benissimo tutte le manovre finché l’aereo prende velocità e si solleva da terra. Subito sotto di me la grande pianura di Kathmandu mentre l’aereo prende sempre più quota. Di voli aerei ne ho presi tanti ma un aereo cosi piccolo mai. Sembra di essere sospesi nel vuoto. Il volo Kathmandu – Lukla è a vista cioè i piloti non si avvalgano di strumentazione elettronica. Se la visibilità non è ottima, l’aereo non parte. Dopo poco inizio a vedere le prime montagne sotto di me ma sopratutto in lontananza le vette innevate della catena dell’Himalaya. Stupendo, una vista mozzafiato. Le montagne sottostanti sono ricoperte da meravigliosi boschi di conifere. A un certo punto del volo sono superate delle alte vette. Siamo cosi vicini da sembrare di essere su di una funivia. Il volo è tranquillo, per fortuna. Dopo trenta minuti inizia l’avvicinamento a Lukla. Sappiamo che l’atterraggio è uno dei più pericolosi al mondo. La pista termina a ridosso della montagna ed è in salita per facilitare la frenata dell’aereo. Dal finestrino del pilota vediamo già la pista in lontananza, incastonata nella montagna. Eccoci, speriamo bene. La pista è sempre più vicina fino a quando le ruote toccano terra e il pilota attiva i motori inversi per la frenata con un rumore assordante. Arrivato alla fine della pista improvvisamente svolta destra nel piazzale di sosta. Siamo arrivati a Lukla, nella regione del Kumbu a 2.860 m di altezza.

Lukla è un piccolo villaggio adagiato su di un altopiano, porta d’ingresso per tutte le spedizioni alpinistiche. L’aerostazione è circondata da un’alta rete metallica, dove al di là stanno aspettando un gran numero di portatori. Mi sento come un marziano sceso sulla luna. Ci avviamo verso l’uscita e aspettiamo la restituzione delle borse. Poi usciamo e lì ad aspettarci ci sono i due aiuto guida, Ming Ma e Mekh Raj, con loro i tre portatori. Sono tutti ragazzi molto giovani. Presentazioni del caso. Ma proprio due nomi così devono avere. Nuova complicazione, con i nomi ho proprio delle difficoltà! I portatori prendono in carico le nostre borse, le soppesano, le smistano tra loro e una volta legate le mettono in spalla e si avviano con passo svelto. Noi ci incamminiamo raggiungendo, dopo un breve tratto, la strada principale del paese, ed anche l’unica, con a lato negozi , pub ed locande. Noto già che i prezzi sono più alti. Una bottiglia d’acqua a Kathmandu costa tra uno e due rupie, qui siamo a 50. Il costo dell’acqua è stato per me l’indice della lontananza da Lukla, l’unico posto della regione del Kumbu, dove può atterrare un aereo. Molte delle merci arrivano per via aerea. Se pensate di raggiungere Lukla in autobus da Kathmandu occorrono ben sette giorni di viaggio contro i quaranta minuti del volo. Ci fermiamo per pranzo in un locale lungo la strada del paese. E’ evidente che Ashish conosce molto bene il proprietario da come si salutano calorosamente.

Mentre prendiamo posto ai tavoli, Ashish ci fa delle raccomandazioni sul cibo. Primo, siamo in una regione buddista, gli abitanti sono quindi vegetariani, non mangiano carne, non uccidono nessun tipo di animale. Quindi la carne che troveremo durante il trekking ha giorni e giorni di trasporto sulle spalle dei portatori e non è di certo un trasporto refrigerato. Lo stesso discorso vale per le uova perché la produzione locale non copre il fabbisogno dei turisti. Evitare dunque di mangiare carne, per non sentirsi poi male, ovvero prendere una diarrea con la conseguente debilitazione fisica. Le uova con moderazione. Non bere alcolici, neppure la birra. Durante tutto il trekking gli alimenti di base sono stati: riso, verdure (cavolo, patate, cipolle, lenticchie e fagioli), pasta, pane e pizza. Ora chiamarla pizza ci vuole coraggio. E poi tè, marmellata e miele

La sala da pranzo ha i tavoli rettangolari disposti a U. Nessuna sedia ma solo panche fermate alle pareti su cui prendevi posto dando le spalle alle grandi finestre della stanza. Allo stesso tavolo possono sedersi comodamente due persone, lasciando libero il lato opposto del tavolo in modo che da ciascun posto puoi vedere tutti i presenti nella stanza. Tutte le sale da pranzo dei lodge sono cosi organizzate.

Per la scelta dei piatti da prendere, all’inizio ci facevamo consigliare da Ashish. Di solito come primo piatto una minestra di lenticchie, buona, oppure di pomodori, mai presa. Poi un piatto di riso e verdure.

Il pranzo è servito dagli aiuti guida e una volta terminato il servizio spariscono in cucina. Né la guida né loro hanno mai mangiato con noi, se non l’ultimo giorno prima di ripartire da Lulka. Ashish mi confidò durante il trekking che non si potevano permettere di mangiare nelle locande per turisti, troppo care. Quando pernottavamo in villaggi più grandi, andavano a trovare posti alla portata delle loro tasche. Se invece erano costretti a restare nella nostra stessa locanda, la cena consisteva in un semplice piatto di riso bollito. Non nascondo che all’inizio non avevo capito. Poi questa situazione m’imbarazzava. Se al mattino c’era del miele oppure marmellata che restava dalla nostra colazione, Ming Ma e Mekh Raj non si facevano scrupoli ad accettare la nostra offerta. I portatori invece non avevano neppure questi piccoli ‘privilegi’, non erano mai con noi durante i pasti.

E tempo di partire. Percorriamo la strada lastricata del villaggio e giunti alla fine troviamo una porta ad arco che augura ai viaggiatori un buon trekking. Mi ha ricordato il canto dell’Inferno della Divina Commedia: “Lasciate ogni speranza voi che entrate…”.

Inizia così una piacevole camminata di tre ore verso Phakding. La campagna è lussureggiante. Campi coltivati a terrazza. Tutto attorno alte montagne ricoperte da boschi dal verde intenso. Il percorso segue la gola, dove in basso scorre un torrente impetuoso. L’apri fila è uno degli aiuti guida, mentre Ashish con l’altro chiude la coda. Phakding è a circa 2.600 m, quindi stiamo scendendo di livello di duecento metri. Attraversiamo piccoli agglomerati di case di contadini, dove fuori dalla porta di casa i loro bambini giocano con niente. John tira fuori dal suo zaino, come un prestigiatore, un grande bicchiere di cartone tutto colorato chiuso da un tappo. Mostra il contenuto a una donna e indica i bambini. Con un sorriso lei approva e John distribuisce delle caramelle a forma di pallina ai bimbi. Gli occhi della donna, però, mandano un messaggio esplicito di richiesta a John che, cortesemente, offre pure a lei le caramelle.

Salutiamo e proseguiamo. Dopo una curva, avvisto i primi yak pascolare in un campo. Non li avevo mai visti dal vero, solo nei programmi televisivi. Sembrano animali molto docili, ma in realtà il loro aspetto inganna. I campi sono coltivati a ortaggi: cavoli, fagioli e patate.

Incontriamo spesso le tipiche campane da preghiera buddiste a forma di cilindro e regolarmente Mekh Raj le fa girare in senso orario come azione votiva. Al loro suono si diffonde un trillo allegro di mille campanelli. Certe volte lo imitiamo solo per il gusto di farle suonare, indegnamente. Lungo la via troviamo più volte deposte lastre di pietra incise con preghiere, di solito poste una sull’altra nel mezzo del sentiero con la possibilità di passarle sia da sinistra sia da destra. Per rispetto regolarmente seguiamo Mekh Raj passando alla sinistra. Infatti, la tradizione richiede di girargli intorno in senso orario.

Dei portatori ormai nessuna traccia. Sono partiti spediti con due borse a testa per un peso complessivo di circa quaranta chili. Solo il mio pesa ventuno. Mi sento in colpa. Se non avessero questo lavoro, la loro situazione sarebbe peggiore. E’ una delle maggiori fonti di guadagno.

Il sentiero è quasi tutto lastricato. Nessuna difficoltà nel percorrerlo. Ecco però che dalla bellissima giornata di sole inizia a piovere, una pioggia fine e leggera. Siamo comunque già arrivati. Abbiamo raggiunto il livello del torrente e attraversiamo un ponte. Il villaggio è composto di poche case in pietra, tutte con grandi finestre. I tetti sono dipinti di azzurro. Tutto intorno una natura dirompente.

Ashish entra nella locanda, dove passeremo la notte, Khumbu Travel Lodge (2.652m). Vengono consegnate le chiavi delle camere, ovvero un lucchetto con la relativa chiave. Sì perché, tutte le camere dove abbiamo dormito hanno la porta che si ferma con un chiavistello e poi si chiude con un lucchetto. La stanza ha le pareti rivestite da panelli di legno grezzo con due letti posti ai lati della finestra. Ci sono già i nostri bagagli. Scelgo il letto di destra. E cosi sarà per tutto il trekking. Una scelta rispettata da Jaime. Il bagno in comune è in fondo al corridoio, dove si affacciano le camere. Vado in bagno e per fortuna non ha la tazza. Molto più igienico. Il bagno non ha lo sciacquone. Si utilizzano secchi d’acqua. Inoltre la carta igienica usata non deve essere buttata nella buca, come spiegato in un avviso, bensì deposta in un secchio. Ritornerò su quest’argomento in seguito.

Sono le 11.30, è ora di pranzo. Piatto unico, riso e verdure. Ashish si è raccomandato di stare leggeri all’inizio del trekking per evitare il più possibile i sintomi del mal di montagna. Avevo letto in forum di persone colpite da questa patologia, alcuni anche in modo serio tanto da tornare velocemente giù di altitudine. Questa era una delle mie preoccupazioni.

Avevo già sperimentato il mal di montagna a Luglio dello stesso anno, con l’uscita sul Monte Rosa. Da Alagna avevamo preso la funivia e saliti dritti a 2.300 m, poi a piedi fino al rifugio Città di Mantova a 3.498 m con arrivo nel primo pomeriggio. Dopo poco, avevo avvertito un malessere indefinito, mai provato prima. La bocca dello stomaco completamente chiusa da non riuscire a mangiare granché, poi era subentrata una leggera nausea. Senza parlare della notte da incubo, in pratica sveglio tutta la notte. Il mattino successivo ero un cencio. Si era anche aggiunto un leggero mal di testa. Abbandonare l’idea di salire fino alla vetta? Non volevo essere d’impiccio alla mia cordata. Decisi di prendere un anti infiammatorio, non prima di essermi consultato con Piero, il mio maestro di alpinismo. Risposta, Alessio forse è peggio. Lo presi comunque e come per miracolo dopo poco tutto passò. Raggiunsi con gran fatica la vetta, il Rifugio Margherita a 4.554 m. Un panorama mozzafiato, una terrazza sul mondo. Sull’infinito.

Adesso, essendo a soli 2.600 m, ancora è presto per osservare dei sintomi.

Dopo pranzo abbiamo il tempo per una breve passeggiata al monastero di Pemacholing. Ovviamente, come per i nostri conventi e monasteri, non e’ situato in pianura ma per raggiungerlo dobbiamo salire su in alto attraversando un bosco. Il nostro arrivo non passa inosservato, è annunciato dall’abbaiare di due cani che ci vengono incontro con fare minaccioso. Speriamo sia solo apparenza. Ci girano intorno insospettiti ma senza avvicinarsi. Un monaco ci accoglie ed in sua compagnia visitiamo il monastero. Nella stanza delle cerimonie mi colpiscono le tante pergamene arrotolate e collocate in nicchie nelle pareti, tutte legate con un filo rosso. Il sole filtra dalle alte finestre, fendendo l’oscurità della stanza creando un’atmosfera che aumenta il senso mistico. Lasciamo un’offerta. In un grande stanzone un gruppo di ragazzini gioca a pallone. Rifletto su come il calcio sia il gioco preferito da tutti i bambini del mondo. Una grande comunanza. Lasciamo il monastero costruito ben 350 anni prima, facendo rientro al lodge per le 16.30.

Finalmente giunge l’ora di cena. Siamo tutti stanchi per la sveglia molto presto del mattino e per il viaggio che ci ha portati fin qui. Il tempo necessario di mangiare e poi subito in camera perché domani sarà una dura giornata.

Sono solo le 19.30. Distendo sul letto il mio sacco lenzuolo e metto la federa al cuscino. Accorgimenti che Jaime non ha. Poi chiedo due coperte ad Ashish. Coperte? Non sono necessarie, afferma. Comunque arrivano lo stesso. Come farò ad arrivare fino a domani mattina! Non dormo mai cosi tante ore. La sveglia è per le sei. Il letto è duro. Il materassino è appoggiato su di una base di legno. Questo è a mio vantaggio ma purtroppo non mi aiuta ad avere un sonno lungo e continuato durante la notte. Ogni tanto mi sveglio. Sarà ancora l’effetto del fuso orario?!

Da Phakding a Namche Bazaar (3.440m) 9 Ottobre

Quando alle sei del mattino Mekh Raj bussa alla porta, Jaime ed io siamo già svegli e in piedi da qualche tempo. Vado ad aprire e con sorpresa ci porge una tazza di tè con un grande sorriso: “Good morning!”

Preparate le borse per essere prese in consegna dai portatori, ci rechiamo nella stanza da pranzo per la colazione. Prendo visione del menù per poi scegliere pane e marmellata e un tè.

Arriva presto l’ora di partire. Zaini in spalla e via. Uno dopo l’altro seguiamo Ming Ma.

Lungo il percorso ci fermiamo agli uffici del parco nazionale di Sagarmatha. Ashish ottiene il visto per l’ingresso. Non so quanto sia stato il costo. In una stanza attigua vi è un plastico dell’area intorno all’Everest. Abbiamo faticato non poco a individuare l’Island Peak, una caccola in confronto con le altre vette.

Proseguiamo lungo il sentiero, quando incontriamo un checkpoint militare, dove Ashish mostra i nostri permessi per entrare nella regione.

Il trekking inizia a essere più impegnativo, bene o male dobbiamo salire a 3.400 m. Il percorso è molto trafficato. Ci sono portatori con qualunque tipologia di merce sulle loro spalle. Osservandoli da dietro, noto solo i piedi che salgano con ritmo costante, perché la persona rimane coperta dalle grandi ceste stipate all’inverosimile di ogni genere di merce. E’ impressionante come cosi bassi e mingherlini riescono a portare tali pesi. Lungo il sentiero, incontrano muretti di pietra a secco, dove i portatori si siedono per riposarsi, liberando le loro spalle dal carico. Altri si aiutano nella salita con un corto e robusto bastone dal grande manico, usato anche come appoggio ad uso di sedia. Sono rimasto sbalordito come siano in grado di procedere calzando semplicemente un solo paio di ciabatte. I più fortunati portano semplici scarpe da ginnastica. Mi sento in colpa ad avere ai miei piedi un paio di scarponi AKU dal costo per loro proibitivo. Ma servano veramente?!

Durante il trekking sono stato più volte primo della fila, subito dietro a Mimg Ma. Ho osservato attentamente dove mettesse i piedi. La sua esperienza di portatore lo porta a scegliere il cammino ottimale per ridurre il più possibile la fatica e risparmiare i polpacci. Ho imparato moltissimo da lui e, ancora oggi, quando esco per un trekking, cerco di seguire la sua lezione.

Attraversiamo più volte il fiume Dudh Koshi passando sopra i caratteristici ponti sospesi, dove i turisti hanno legato alle sponde metalliche le sciarpe di seta augurali e bandierine buddiste. Che strana sensazione attraversare questi ponti, non riesci a camminare dritto, ti sembra di essere su di una nave con il mare agitato. Vedo benissimo il vuoto sotto i miei piedi. Il fondo è una grata di metallo. Soffia il vento e quindi è tutto uno svolazzare di stoffe colorate, alcune lì da qualche tempo e oramai logore.

Una breve sosta a Benkar, sono le 9.30. Lì di fronte a noi la prima montagna con la cima innevata, il Thamserku (6.608m).

Lungo il percorso è frequente trovare carovane di yak con pesanti carichi sulla groppa. Legati l’uno all’altro sono incitati dal loro padrone. Ashish si era raccomandato con noi di lasciare libera la strada cercando anche di salire un po’ più in alto del sentiero sul lato del monte. Se questo non era possibile, piantare bene in terra i bastoncini da trekking per cercare di creare un piccola area di sicurezza. Ci raccontò di quando un escursionista fu incornato da uno yak e non ci fu niente da fare, morì dissanguato. In effetti, non hai scampo. Sei in mezzo alle montagne a ore di cammino da un villaggio. Nessun tipo di possibilità di assistenza medica, se non tornare a Kathmandu oppure Namche Bazaar. Ogniqualvolta incrociavo gli yak li osservavo attentamente. Sono animali subdoli. Ti guardano di sotto occhio in modo preoccupante. Ho visto anche yak ribellarsi al loro padrone. Tra l’altro, non sono animali che si fanno cavalcare dall’uomo. Questo dice tutto.

Il sentiero diventa sempre più ripido, la fatica inizia a farsi sentire. Mekh Raj capisce che è arrivato il momento di darci la carica giusta per affrontare la salita. Cosa di meglio se non ascoltare musiche nepalesi? Così accende il suo cellulare e le melodie si diffondano catturando la nostra attenzione. Ho scoperto poi, essere una pratica diffusa nei portatori quando affrontano le situazioni più dure. Di tanto in tanto ci fermiamo per riposarci. Abbiamo anche sorpassato più volte i nostri tre superman ma, nonostante il peso che trasportano, non abbiamo gara, arriveranno a destinazione senza dubbio prima di noi. Non abbiamo fretta, siamo in tabella di marcia. E’ proprio durante una di queste soste che osservo al dito di Ashish un anello in argento con una bella pietra dai riflessi rosso scuro. Gli chiedo che pietra fosse ma non ne aveva la più pallida idea. L’aveva comprata da un venditore di pietre a Kathmandu. Subito mi viene l’idea per un regalo per G e chiedo ad Ashish il favore di accompagnarmi a comprare una pietra, quando saremo tornati a Kathmandu. Accetta con piacere, aggiungendo che avremo dovuto prendere il taxi perché fuori dal centro della città.

La salita si fa veramente tosta. Che fatica. Svoltando improvvisamente su di una stretta curva del sentiero appare di fronte a noi il villaggio di Namche, disteso a ventaglio sul dorso della montagna. Sono le 2.30 del pomeriggio. Un gruppo di cavalli e yak pascolano placidi nei campi antistanti il villaggio dove scorre impetuoso un ruscello. Un arco in pietra, con a fianco una grande campana buddista, ci dà il benvenuto.

L’economia del villaggio è basata sul turismo, in quanto, usualmente, è scelto come sosta per l’acclimatamento, siamo a 3.340 m. Noi resteremo due notti. Vi sono vari lodge e punti di ristoro. Ci fermiamo all’hotel Nanche, veramente al di sopra dello standard. Mentre entriamo nella hall, Ashish ci comunica che non ci sono tre camere a due posti, bensì due a tre posti. Dovevamo solo decidere come dividerci. Senza andare per le lunghe Jaime ed io decidiamo di separarci. Cosi avrei dormito con John e Douglas. Saliamo in camera e con sorpresa è con bagno! Grande lusso. Era forse l’ultima occasione per fare una doccia? Mi viene anche l’idea di fare il bucato, avrei lavato le magliette e gli slip. Prendo quindi la mia saponetta di Marsiglia tutto fare e via di polso. Una volta terminato il lavaggio, una domanda mi sorse spontanea, e adesso dove stendo il bucato ad asciugare? Pretendere di avere anche un terrazzo era troppo e comunque ripesandoci nessuna casa in montagna ha terrazzi. Grande idea! Prendo un filo che ho nello zaino e lo distendo esternamente dalla finestra legandolo ai cardini interni. John mi guarda stupito e subito mi chiede se anche lui può usufruire del filo. Certo, che problemi ci sono, è lungo abbastanza. Credo di aver dato la prova della concretezza di noi Italiani, il famoso senso pratico.

Sta iniziando a calare il sole ed è ora di cena. La stanza da pranzo è accogliente ed ha delle grandi vetrate che danno sulla valle. Non ricordo cosa presi per cena, ma sicuramente niente carne. Invece si fanno tentare da una bistecca di yak sia Jaime sia David.

Dopo cena la priorità di Jaime fu di ricaricare le batterie della macchina fotografica. Aveva due compatte e schede di memoria di ausilio nel caso non fossero bastate quelle in dotazione. Jaime mi ricorda lo stereotipo di giapponese, che fotografa qualunque cosa. Rimanere con le batterie scariche era la sua ossessione.

Poi per passare un po’ di tempo, Jaime ed io trascorriamo due ore girovagando per le due strade principali del villaggio ripassandoci tutti i negozi mentre gli altri si recano ad un centro internet per scrivere a casa. Nessuno di loro aveva un telefono cellulare con cui chiamare. Io ho dato notizie usando la chat del mio smartphone con mio fratello. Ho chiamato solo due volte durante tutto il trekking, primo perché non c’era segnale, secondo perché costoso.

I negozi di Nanche possono rivelarsi anche una piacevole sorpresa. Oltre alla vendita del solito abbigliamento da montagna, oppure di oggetti in metallo sacri di tutti i generi, ho trovato un forno nuovo di pacca con la produzione di dolci tipicamente europei dai costi proibitivi, una fetta di crostata al costo di quattro euro. Mi posso immaginare quante volte i locali siano entrati. Oltre ai dolci sfornava anche pizza. Con rammarico consto che Namche sta essendo colonizzata. Ah dimenticavo… il costo di una bottiglia di acqua è salito a cento rupie.

I negozi stanno ormai chiudendo e così termina anche il nostro passatempo. Rientriamo in hotel. Nella stanza da pranzo incontrammo Douglas e John, stavano parlando del più e meno. Ci sediamo con loro quando Douglas tiro fuori un mazzo di carte. Wow, adesso a cosa giochiamo? John inizia a pronunciare giochi di carte a me sconosciuti. Ho cercato di insegnargli briscola senza successo. Allora ho provato con Ramino. Fu allora che abbiamo trovato un gioco noto a tutti e tre, ma la versione fu quell’americana chiamata Gim Rummy. Ho dovuto faticare un po’ per capire le regole, ormai già dimenticate, ma alla fine del trekking era diventato un bravo giocatore. A più riprese le sere dopo cena, ovvero alcune volte già alle sette del pomeriggio, prima di andare a dormire, abbiamo giocato e ci siamo proprio divertiti, specialmente loro con le mie espressioni tipico di un italiano. Pure Jaime stava con noi solo per il divertimento di vedermi gesticolare e gli altri due a imitarmi. Dato che John voleva giocare con i soldi, ed io sono contrario, presi un foglio di carta e feci tanti quadratini, ecco questi sono i nostri soldi. Bel ricordo. Solo una volta Jaime si unì al gioco e manco a dirsi ebbe il culo del principiante.

E’ giunta l’ora di andare a nanna. E’ importante riposarsi per affrontare il percorso del giorno dopo. Avevo un leggero cerchio alla testa. Presi un’aspirina per aiutarmi ad addormentarmi. Questo non impedì, però, di trascorrere nuovamente una notte tra il dormiveglia.

Namche Bazaar 10 Ottobre

Alle otto del mattino ci troviamo tutti per la colazione. Ordino del pane tibetano con miele e un tè. Ro una bella minestra al pomodoro. Come si fa a mangiare queste cose al mattino.

Questo è il giorno di acclimazione. Il programma prevede di salire più in alto per vedere per la prima volta l’Everest. Ro decide di non venire con noi, non si sente bene.

Mentre saliamo su per il sentiero, la catena Himalayana appare sempre più alla nostra vista. Mekh Ray indica la vetta dell’Ama Dablam e del Thamserku. Sono ancora così lontani da noi. Raggiungiamo un altipiano a 3.750 m dove si trova il piccolo aeroporto di Syanboche, la cui pista è in terra battuta. E’ in sostanza deserto, sembra abbandonato. Tira un forte vento e fatichiamo a camminare per vincere la sua resistenza.

Jaime fa una ripresa con Mimg Ma che indica all’orizzonte tutte le vette e partendo da destra enuncia: Cholatse, Taboche, Nuptse, Mt. Everest, Lhotse, Lhotse Shar, Peak 38, Ama Dablam, Khatenga, Thamserku ed infine Kwangde. Incredibile, sono tutte lì di fronte a noi. Gioie e tragedie per molti alpinisti.

Scendiamo dall’altipiano fino a raggiungere un hotel di architettura moderna. Vi sono molti turisti. Sul bellissimo terrazzo a L con vista sulla catena montuosa riusciamo a trovare un tavolo per prendere posto tutti insieme. E’ l’unico rimasto in un angolo, forse perché non molto felice da un punto di vista panoramico.

Aspettando che fosse servito il tè e mentre Ashish tira fuori, come per magia, una scatola di biscotti dal suo zaino. John si sfila la maglietta di cotone bagnata dal sudore. L’intento è di farla asciugare sul muretto al sole. Avevo letto prima di partire che non era rispettoso spogliarsi in pubblico. I nepalesi disapprovano tali comportamenti. Le guide sono palesemente imbarazzate, ma fanno finta di niente. Così dico a John che non è moralmente accettato un comportamento del genere e, scusandosi, indossa la maglietta, per poi ringraziarmi.

Argomento di discussione sono gli occhiali da sole idonei per quando saremo saliti sull’Island Peak. Ashish chiede di visionarli tutti. Jaime pone i suoi occhiali UV400 ma sono bocciati. “Jaime, no good no good “. Poi viene il mio turno. Avevo comprato un paio con protezione UV700 per alta montagna pagati solo venticinque euro, acquistati presso un famoso megastore di abbigliamento sportivo. Ashish approva e credo che tutti abbiamo pensato chissà quale cifra mai avessi pagato per questo paio di occhiali super professionali.

Arriva il conto e John paga per tutti. Thank you, John.

Riprendiamo il cammino per il monastero di Khumjung. Incontriamo case isolate con le donne che coltivavano la terra nei loro campi delimitati da muretti di pietra. Alcune stanno raccogliendo le patate, tra l’altro di ottima qualità. Altre stanno distendendo al sole delle pizze di cacca di yak per essiccarle. Lo sterco è mescolato a paglia. Una volte secche sono conservate impilate per l’inverno e utilizzate come combustibile per le stufe. Del resto iniziamo a essere a un’altezza dove ci sono pochi alberi e tutta la vegetazione in genere. Noto sui tetti delle case il bucato disteso al sole, l’unico modo efficace di asciugatura. Il calore del tetto contribuisce all’evaporazione dell’acqua dagli indumenti.

Giunti al monastero, ci sediamo su di un muretto per attendere l’orario per l’apertura delle visite. Proprio di fronte alla porta d’ingresso c’è un grande yak tutto nero che sta brucando l’erba. Ho la grandissima idea di avvicinarmi per fargli una foto. Appena sono a circa dieci metri da lui mi guarda di sott’occhio ed inizia a caricarmi. Inizio subito una corsa tornando indietro mentre i miei compagni ridano di me. Per fortuna desiste e si ferma.

Finalmente si apre il portone d’ingresso del monastero. Lo yak viene portato via da un contadino e i turisti entrano per la visita. I monasteri non differiscono molto gli uni dagli altri. Anche qui alle pareti nicchie contenenti rotoli di pergamena con i loro scritti sacri. Al centro della grande sala rivestita di legno, la statua dorata di Buddha. Il colore predominante è il rosso porpora.

Mentre usciamo, Jaime viene richiamato da Ashish insistentemente dicendo che deve visitare la teca di vetro contenente la testa dello Yeti. Ovviamente nessuno gli dà ascolto. Solo John decide di dargli soddisfazione e rientra, non prima di avergli consegnato una rupia ciascuno per la donazione, facendosi promettere di condividere la foto che avrebbe scattato con tutti noi una volta tornato a casa. Cosa che a oggi non è ancora avvenuta. Tornato dalla visita, commenta che secondo lui era uno scalpo di una capra un po’ costruito ad arte per somigliare a una testa di un essere non meglio identificato ovvero il famoso Yeti delle nevi!

Scendiamo al villaggio e pranziamo presso la locanda Ama Dablam View. Dopo aver ordinato, colgo l’occasione per andare in bagno. La toilette è all’esterno composta di un casottino in legno con due porte ed il tetto il lamiera. Entro in uno dei due per fare pipì e trovo al posto della tazza due assi di legno ed un buco nel terreno ormai riempito fino alla sommità delle assi. Stranamente non c’era nessun odore nauseabondo. Tornando al tavolo dico ai miei compari che non ho mai trovato un cesso così pulito e quindi, alcuni di loro prontamente abboccano e decidono di sfruttare l’occasione.

Facendo rientro per Namche siamo passati dalla scuola secondaria Khumjung, conosciuta anche come Hillary School. E’ l’unica scuola superiore nella regione del Khumbu fondata da Edmund Hillary. Tutto ciò è ricordato con un monumento situato nel prato del campus. La scuola è chiusa, ma è possibile entrarci per visitare esternamente il complesso composto di vari edifici a un solo piano.

Rientrati a Namche ci ritroviamo per la cena alle sette. A fianco al nostro tavolo un gruppo di ragazzi ormai di ritorno dalla loro esperienza di quattordici giorni di trekking. Avevano raggiunto il campo base dell’Everest e poi saliti sull’Island Peak con successo. Li ho osservati e non sembravano per niente degli alpinisti esperti. Dai commenti che fanno, è confermata la mia supposizione. Premetto che non mi considero un alpinista, ma almeno ho una preparazione di base con un po’ di esperienza. E’ da quel giorno che ho iniziato ad avere qualche perplessità e sospetto sull’ascensione.

Dopo cena, John, Douglas, Jaime ed io siamo usciti per raggiungere un centro internet. John scarica alcune foto in Facebook mentre Jaime scrive alla moglie. Poi Jaime ed io usciamo nuovamente a gironzolare per il paese per un’ora circa, prima di tornare in camera. Pochi i negozi ancora aperti, le strade buie e semi deserte. Il silenzio. Questa è Namche quando la transumanza dei turisti si è ormai dileguata.

Da Namche Bazaar a Dole (4.110 m) 11 Ottobre

Partenza alle 7.30 con direzione del villaggio di Kyangjuma dove, estasiati, abbiamo goduto di una meravigliosa vista su Thamserku, Katenga, e Ama Dablam. Il percorso segue il fiume Dudh Koshi che nasce da Gokyo e finisce a Lukla. Lungo la strada ci siamo fermati, per un meritato riposo, presso il memoriale di Tenzing Norgayn. Tenzing insieme ad Edmund Hillary furono i primi a salire sull’Everest con successo e ritornare indietro sani e salvi.

Proseguiamo fino a Mong La, dove facciamo nuovamente una sosta presso la locanda Mountain View per un tè al ginger. Ma a quanti sono? Ho già perso il conto. Una ragazzina ha disteso su di un muretto di cinta bracciali, collane e varie ninnoli nepalesi in attesa di un raro acquirente. David preferisce prendere una Coca Cola, forse perché spera sia curativa per la sua ormai conclamata diarrea, prima vittima per non aver rispettato i consigli di Ashish. Tra l’altro i medicinali che ho portato sono serviti a ben poco tanto che Ashish gli ha somministrato dei grossi pasticconi presi dalla sua farmacia portatile.

Riprendiamo il percorso che diventa sempre più interessante. Passiamo dalla foresta tropicale. Ne rimango affascinato. Dai rami degli alberi penzolano piante parassite lunghe e filiformi. Per Jaime niente di nuovo. Le Filippine sono il regno di foreste tropicali. A un certo punto Ming Ma si ferma, ci fa segno di fare silenzio. Siamo cosi fortunati che ci imbattiamo in due esemplari di Musk Deer, un cervide che vive solo in Nepal. E’ un animale protetto. Jaime si attiva per una ripresa video, gli altri si accontentano di scattare semplici foto. Pochi istanti e poi si dileguano nella foresta.

Il percorso diventa sempre più ripido e l’altitudine inizia a farsi sentire. Passi corti con affanno. Sono le 12.45, ci fermiamo a Phortse a 3.800m. Ordino pasta al pomodoro e, a seguire, un piatto di patate. Devo mangiare di più perché mi sto accorgendo di perdere peso. Un po’ di riposo e poi nuovamente in cammino.

Il sentiero continua nella foresta tropicale. Spesso incontriamo cascate d’acqua. I colori sono bellissimi. Tutto ciò ripaga della fatica.

Arriviamo a Dole alle 15.30. Jaime ed io abbiamo assegnata la camera numero 208 al Dole Resort. Ovviamente i bagagli erano già arrivati. Chissà con quanto anticipo.

I 4.100 metri iniziano a farsi sentire. Soffia un vento freddo. Entriamo nella sala da pranzo, dove al centro c’è la stufa accesa. Tutto intorno i tavoli disposti ad U, come al solito. La stanza da pranzo è il centro vitale dei rifugi. Lì c’è il banco, dove sono venduti i generi alimentari ovvero prevalentemente bevande e biscotti. Di fianco al banco c’è l’ingresso alla cucina chiusa alla vista da un drappo pesante. Anche la porta che conduce all’esterno è chiusa allo stesso modo. Tutti i rifugi sono organizzati. Le camere si trovano generalmente in un edificio separato dal corpo centrale. Uscire da un ambiente riscaldato per raggiungere le fredde camere del complesso esterno non è proprio il massimo del piacere.

Alle 16.30 un rinforzino a base di tè con biscotti, che lusso! Non c’è molto da fare se non stare insieme e parlare del più e del meno. Ogniqualvolta che qualcuno entra, una folata di vento freddo invade la stanza e, puntualmente, i nostri sguardi si dirigono verso l’avventore fulminando. Chissà quanti accidenti sono volati quella sera. Non resta che aspettare la cena che arrivò ben presto. Poi, il consueto gioco a carte con John e Douglas, per ingannare il tempo ed aspettare almeno le otto prima di andare a letto.

La camera è fredda. Abbiamo le trapunte. Meglio non osservarle attentamente per scoprire quanto siano sporche. Mi corico indossando calza maglia e maglia a maniche lunghe. Jaime, come al solito , prima di essere pronto ci vuole il suo tempo. Una volta disteso cerco di aggiustarmi la trapunta per essere coperto al meglio e, nonostante il banale gesto compiuto con il braccio, il cuore inizia a battere all’impazzata. Tachicardia? Ehi Ehi calmati un po’ … che siano gli effetti dell’altitudine? Sono molto vicino all’altitudine del Monte Rosa e l’acclimatazione sta funzionando perfettamente.

Prima di addormentarci chiedo a Jaime come si vive a Canberra. La sua risposta mi sorprese alquanto. Ci sono, nei confronti degli stranieri come lui, riconoscibili dai tratti somatici e dal colore della pelle, forme pesanti di razzismo. Quando cammina per strada, non guarda mai le persone che incontra, meglio stare con la testa bassa per evitare problemi. Più di una volta è stata presa di mira casa sua durante la notte, con lanci di pietre contro le finestre mandandole in frantumi. Pensavo fosse un paese tollerante visto la storia di immigrazione che ha avuto. Poi aggiunge: “Tu Alessio non avresti di questi problemi”.

Nonostante l’argomento della nostra conversazione, la stanchezza prende il sopravvento. Buona notte.

Durante la notte mi sveglio per la necessità impellente di fare pipi. Che scocciatura. Uscire dal letto caldo mi rompe alquanto. Ma non posso farne a meno. Esco dalla stanza e il freddo è più intenso. Con la lampada frontale accesa raggiungo il cesso in fondo al corridoio. Sollevo una pesante tenda per accedere alla porta di uno sgabuzzino di legno. Al suo interno la buca nel pavimento in cemento. Ci sono grandi contenitori di acqua con un piccolo secchio per prenderla e versarla nella buca. C’è il solito contenitore di carta igienica utilizzata. Certo devo dire che entrare in questi cessi non è il massimo. Specialmente per il sottoscritto, che ha difficoltà a utilizzare un bagno che non sia quello di casa propria. Anche questo è stato un elemento di adattamento non indifferente. Forse, banalmente, uno degli scogli più grandi superato.

Da Dole a Machhermo (4.470m) 12 Ottobre

Sono le 5.30 del mattino, sono già in piedi. Credo di non avere mai dormito una notte intera. Questa non ha fatto eccezione. Fuori è freddo e dentro la stanza non è da meno. Inutile tentare la classica igiene del mattino. Non c’e’ alcun modo di lavarsi all’interno, neppure il solo viso, semplicemente perché non c’è acqua corrente. Uso quindi le salviette umidificate, risorsa fondamentale nei giorni in cui non è stato possibile lavarsi. Rientrato in camera, alle sei si presenta Mekh Raj con un bicchiere di tè fumante e, con il suo solito sorriso, ci ricorda la colazione per le ore sette.

Ci ritroviamo tutti nella sala da pranzo imbacuccati: quello più coperto è Ro. Non è proprio in perfetta forma, ha preso il raffreddore. Capello calcato sulla testa e guanti. Ieri l’ho visto faticare nel salire verso Dole, era sempre l’ultimo.

Ro avrà circa trentacinque anni. In questo periodo disoccupato, poiché ha perso il lavoro per la crisi che ha investito gli Stati Uniti e così ha deciso di partire per un lungo viaggio. Prima di unirsi al nostro gruppo è stato in Tibet per un trekking. Poi, dopo questa esperienza alpinistica, ha in programma un rafting sempre in Nepal di una settimana. Dopo, lo avrebbero aspettato due settimane in Tailandia e poi, non so che altro ancora. Tre mesi di viaggi. Però mica male l’amico.

Dopo colazione subito fuori, zaini in spalla e rito crema solare. Ashish ha tutto un metodo suo per incremarsi il viso. Si versa la crema sulle mani e poi la spalma come se si lavasse il viso. Buffo perché resta tutto bianco e stona un po’ con il colore olivastro del suo carnato. Poi … Zam Zam … è il suo incitamento, ovvero, andiamo.

Il percorso si fa sentire. Saliamo fino a Lhabarma a 4.220m e poi su fino a Luza 4.360 m. Il panorama è sempre più stupendo. Abbiamo un’ottima vista di Cho Oyu, Katega e Thamserku. Poi scendiamo da Luza nella valle del Dush Koshi. Ogni tanto ci fermiamo ma giusto il tempo di riprendere fiato che l’implacabile Ashish pronuncia le inequivocabile …Zam Zam …come ad incitare il suo gruppo di yak e via di nuovo in cammino.

Douglas è veramente un buon camminatore, ha molta resistenza. Se, come dice, è alla sua prima esperienza, tanto di capello. Anche Jaime non ha mai fatto un corso di alpinismo. E’ il suo cruccio. In Australia sono costosissimi. John e David invece sono due montanari. David è anche esperto. Adesso che è in pensione a soli cinquantaquattro anni, ha tutto il tempo per sciare d’inverno e camminare sulle montagne del Colorado d’estate. Lavorava come civile nell’esercito americano, addetto al controllo radar. E’ stato anche in Italia due volte, ad Aviano e Sigonella. Come qualsiasi americano, che viene la prima volta nel nostro paese, è rimasto colpito del fatto che non rispettiamo le regole stradali, che guidiamo come dei pazzi ed è salvo per miracolo. Mi è sembrato un tipo molto solitario. Separato dalla moglie, vive solo ed ha una figlia. Con lui non ho legato, non c’era alcuna affinità e non mi restava particolarmente simpatico.

Arriviamo a Machhermo verso le undici. Passeremo la notte presso lo Yeti Lodge.

All’esterno campi delimitati da muretti in pietra dove alcuni yak brucano l’erba. E’ una bellissima giornata di sole. Fino ad oggi siamo stati fortunati per il tempo, sempre sole. Adagiate sui muretti le trapunte solo per fargli prendere aria, non erano certo state lavate, quando mai si sarebbero asciugate. Avrebbero forse perso quell’odore acre ormai parte di esse. Ho del tempo a disposizione prima di pranzo, così, colgo l’occasione per lavare nel torrente che scorre più in basso una maglietta e un paio di slip. Vero lusso. L’acqua è freddissima, si congelano le mani. Bagnati gli indumenti, una bella passata di sapone di Marsiglia e una sciacquata nella corrente dirompente. Mi accorgo, poi, che più in basso c’era un turista che si lava le sue parti intime. Che coraggio. Mi chiedo se ancora oggi è alla ricerca del suo pisello, caduto in acqua congelato.

Metto ad asciugare il bucato sui muretti a imitazione dei locali. Da lì a poco avrei trovato tutto asciutto. John, essendo sempre l’ultimo, si decide a fare il suo bucato nel tardo pomeriggio, con il risultato di portare in camera gli indumenti ancora bagnati con la speranza, vana, di trovarli asciutti il mattino successivo.

E’ giunta l’ora di pranzo e dal menu scelgo spaghetti al formaggio e un piatto di patate con cipolle. I menu non si differiscono da locanda a locanda, propongono sempre gli stessi piatti. L’unica differenza è la bravura della cuoca e, purtroppo, in questo caso è stata molto scarsa. Gli spaghetti sono insipidi e le patate cucinate mediocremente.

Dopo pranzo esco per sedermi su di una sedia per prendere il sole e, di lì a poco, arriva una carovana di tre yak condotta da un contadino. Sopra al loro dorso due grossi sacchi di patate che sono scaricati lasciandoli cadere nel prato antistante al rifugio. Una donna e una ragazzina escono per prendere i sacchi per portarli, strascicandoli, all’interno del rifugio. Le donne di questa regione sembrano avere una forza da leoni. Chi lavora i campi sono le donne. Chi porta avanti le attività nei lodge sono sempre le donne. Indossano pesanti vesti con gonne ampie. Le loro gote sono sempre arrossate, i capelli corvini sono raccolti e fermati a crocchia. Insomma, diciamolo francamente, non hanno proprio niente di sexy.

Decidiamo di fare due passi e ci incamminiamo per raggiungere la vetta di una collina sopra di noi dove c’è un tempio buddista circondato da tante bandierine, i cui colori si confondano per il vento che soffia. Siamo tutti con l’esclusione di Ro, rimasto nuovamente al rifugio per riposarsi. Raggiunta la vetta inizia a scendere un gran nebbione e suggerisco di rientrare.

Già all’inizio del trekking ero stato scelto da Ashish come capo gruppo, perché secondo lui avevo maturato l’esperienza giusta. Quali fossero le responsabilità, non era chiaro. Comunque, rifiutare mi sembrava molto scortese. Solo alla fine della nostra esperienza mi fu ricordato dal gruppo del mio ruolo, solo per un fatto di opportunismo.

Raggiunto il rifugio grandi nubi accarezzavano la valle, sembra proprio che domani il tempo non sarà bello. Il sole ormai è basso. Passiamo dalla nostra camera per prendere un pile più pesante e la pila frontale. Nel rifugio le luci sono già accese. L’energia è prodotta da due piccoli pannelli solari posti sul tetto. La produzione è sufficiente per illuminare il corpo centrale dove si trova la stanza da pranzo, il cuore pulsante del rifugio. Le camere sono separate e sono al buio. Ordiniamo la cena: scelgo minestra di noodles e fried rice con uova. Nonostante l’attività fisica dovrei aver fame, in realtà ho faticato a finire il cibo ordinato, mi sono forzato a mangiarlo tutto per cercare di contrastare la perdita di peso.

Dopo cena la solita partita a carte. E’ Douglas che tira fuori dalla tasca dei pantaloni il mazzo di carte. E’ il segnale. Un modo molto simpatico per passare un’ora prima di coricarsi.

La camera è fredda. Jaime, prima di spengere la sua lampada frontale, legge qualche pagina del suo libro. Avverto una leggera pressione alle tempie. Non ho preso alcuna medicina, mentre i miei compagni, per paura di essere affetti dal mal di montagna hanno iniziato a prendere un farmaco diuretico, per prevenzione. Sono contrario a quest’approccio. Fa freddo in camera. La trapunta non è sufficiente per riscaldarmi. Jaime indossa persino la giacca a vento. Poi il sonno prende il sopravvento.

Da Machhermo a Goyko (4.800m) 13 Ottobre

Sei del mattino, sono già vestito. Fa freddo. I vetri interni della stanza hanno uno strato sottile di ghiaccio. Anche Jaime è infreddolito.

Esco all’esterno per lavarmi i denti con l’acqua depurata con le pasticche allo iodio. I nostri portatori hanno dormito sulle panche della stanza da pranzo. Il loro sorriso mostra dei denti bianchissimi. Si stanno lavando il viso prendendo l’acqua da un bidone di metallo sigillato messo al sole per riscaldare l’acqua, ricorda un grande termos. Al mattino l’unico vantaggio di utilizzarlo è di non trovare l’acqua congelata. Cosa invece successa al cesso. Ho dovuto rompere lo strato di ghiaccio nei bidoni per prendere l’acqua da gettare nella buca.

Entro nella stanza da pranzo, sono sempre il primo. Trovo Ashish con in mano una tazza di tè fumante. Vedendomi pronuncia qualcosa in nepalese e Ming Ma mi serve subito una tazza di tè. Grazie, ci voleva proprio. Quando ormai siamo tutti, ordiniamo la colazione.

Partiamo alle 7.15. E’ una bella e fredda giornata di sole.

Percorriamo una vallata salendo gradatamente. In alcuni punti il sentiero diventa più ripido. Inizio a sentire l’altitudine. Sembra tutto molto faticoso. Tutto intorno non c’è assolutamente niente. Solo pietre e le montagne che ci circondano. Improvvisamente arriva una musica melodiosa e festante dal cellulare di Mekh Raj. Dai su che c’è la fai!

Zam Zam

Raggiungiamo nuovamente il letto del fiume, segnale che ci stiamo avvicinando al primo dei tre laghi.

Il torrente è impetuoso e lo dobbiamo attraversare. Beh, direte che problemi ci sono? Il fatto è che non c’è il solito ponte, ma due grossi tronchi di abete lunghi circa dieci metri messi di fianco l’uno all’altro e neppure tanto ben ravvicinati. Tra di loro ci passa benissimo un piede. Semplice, basta un po’ di equilibrismo e il gioco è fatto.

La distanza tra i tronchi e il letto del torrente sarà stata di circa due metri. Quindi, eventualmente, non sarebbe stata una caduta cosi rovinosa sennonché le pietre sottostanti sono appuntite e ovviamente l’acqua molto fredda. Nessuno di noi ha con sé il ricambio.

Il primo coraggioso è Ro e tutti noi pronti a osservare la sua tecnica. Inizia ad attraversare il “ponte” stando in piedi. Fa si è no due piccoli passi, poi torna indietro. Non si sente sicuro. Allora decide una nuova strategia, ovvero si mette a cavallo dei due tronchi e si spinge facendo forza sulle mani portando il culo in avanti, tra le nostre risate e le prese di giro per il suo grande coraggio. Avrà pensato: “Ridete, ridete pure poi voglio vedere voi”. Con questa tecnica riesce lentamente ad arrivare sull’altra sponda. Chi è il secondo? Faccio per muovermi, quando Mimg Ma mi precede e inizia ad attraversarlo in piedi con molta facilità per poi fermarsi a metà in attesa di aiutarmi. Inizio ad attraversarlo tra il rumore assordante dell’acqua che scorre sotto di me. Il trucco è stare concentrati senza farsi prendere dall’ansia. Raggiungo Ming Ma e li faccio cenno di continuare ormai era sicuro che lo avrei attraversato. E così è stato tra gli applausi dell’altra sponda. Poi uno a uno, chi aiutato e chi non, hanno finalmente attraversato il torrente. Che volete siamo ragazzi di città!

Riprendiamo il cammino.

Ro procede in modo cosi strano, sembra non abbia più le forze e trascina le gambe. Che sia stato l’esercizio da cavallerizzo?! David ha ancora i suoi problemi intestinali. Ogni spesso si ferma a concimare la terra. Gli altri sono in piena forma fisica. Durante il cammino Ashish mi spiega perché gli aiuti guida sono due. In caso in cui capiti qualcosa a uno di noi, una guida può prendersene cura. Generalmente accadono casi di mal di montagna con l’esigenza di tornare indietro ad un livello di altitudine più basso il prima possibile.

Abbiamo raggiunto i nostri tre portatori lungo il percorso più volte. Sono stati sempre avanti a noi. Certe volte li troviamo a riposarsi e al nostro arrivo sorridono come per dire: “Ragazzi siete lenti e pensare che non avete sulle spalle i quaranta chili che portiamo per voi”. Devo ammettere che mi sento in colpa.

Abbiamo incontrato varie carovane di yak carichi di materiali di ogni tipo diretti a Goyko.

Giungiamo al primo lago. Abbastanza esteso e di un blu cobalto. Tutto intorno solo pietre. Ashish decide di fare una breve pausa. Ci sediamo e rovistiamo nel nostro zaino per tirare fuori snack: cioccolata, barrette energetiche ma, sicuramente, nessuno ha con sé una prelibatezza come il sottoscritto, che ancora ha deciso di non consumare. Ci saranno momenti migliori, rimanendo gelosamente custodita nello zaino.

Zam Zam

Il secondo lago è della stessa conformazione. Solo più piccolo del primo. Il sentiero segue il lago e poi si dirige su verso l’alto.

Giunti al terzo e ultimo lago, avvistiamo il villaggio di Goyko. Sono le 11.30. Le prime abitazioni del villaggio non sono proprio sul lago ma sono state costruite a una certa distanza. I tetti sono tutti di colore blu. Generalmente i tetti delle case dei villaggi che ho incontrato sono blu oppure verdi.

Il rifugio scelto è Namaste Lodge. Anche questo dotato di pannelli solari per la felicità di Jaime affetto da astinenza da ricarica batterie delle sue due macchine fotografiche. Ho visto che ha già cambiato la scheda di memoria a una macchina fotografica. Quante foto e video avrà già fatto?! Comunque mette in ricarica le macchine fotografiche per un’ora a 450 rupie.

Anche il costo di una bottiglia d’acqua da un litro è salito a 250 rupie.

Le camere sono al secondo piano salendo una stretta scala di legno. La piccola finestra della nostra camera assegnata da direttamente sul tetto spiovente dove sono distesi cavi elettrici che si dipartano dai panelli solari per fornire energia al lodge.

La sala da pranzo è situata al primo piano e vi si entra dallo stretto corridoio sollevando una pesante coperta, non vi è nessuna porta. Generalmente la stanza da pranzo in tutti i lodge è sempre al pian terreno ma in questo caso sotto vi è un negozio che vende di tutto. Una vera rarità. Di tanto in tanto arrivano portatori che scaricano le loro merci e, prontamente, sono sistemate nel negozio.

Dopo pranzo Ashsih decide di salire in alto per farci vedere il ghiaccio di Ngozumba. Prendiamo subito un sentiero dietro il villaggio che s’inerpica su per il fianco di quello che sembra una montagna. In realtà, arrivati in vetta, rimango senza parole, non credo ai miei occhi. Siamo arrivati sulla cresta e giù in basso il ghiacciaio, stretto e lungo, ma attenzione, stretto sono alcuni chilometri . La lunghezza è di 36 km. Non avevo mai visto niente si simile. Restando in silenzio, si avvertono i movimenti del ghiacciaio. Crepitii e caduta massi. In effetti, parte del ghiacciaio è ricoperto da pietrisco grigio chiaro. Siamo rimasti in silenzio a contemplare tale bellezza per circa trenta minuti. Dall’altro lato, sotto di noi, il villaggio ormai piccolo per l’altezza raggiunta e i tre laghi in lontananza. Bellissimo!

Rientriamo alla base che è già ora di cena, in altre parole le sei del pomeriggio. Devo costatare che i piatti proposti dal menù non sono molto economici. Ogni piatto principale va dalle 500 alle 700 rupie. In pratica, per un pranzo completo occorrono circa dieci euro. Una cifra molto alta per i locali. Le nostre guide e i portatori mangiano solo riso bollito. Poi, perché avanzate dalla nostra cena, patate al tegame con cipolle. Davvero fortunati questa sera.

Avevamo intuito da come Ashish ci osservava nella scelta delle pietanze che ha a disposizione un certo budget ma adesso, che abbiamo bisogno di più energie, non ci riguardiamo più. Jaime e John, ormai stufi di mangiare vegetariano, non resistono nell’ordinare una bistecca di yak. Gli ricordo, solamente, che siamo in una regione di religione buddista e gli animali non sono uccisi. La carne arriva da Kathmandu. Vi è un grande rischio di ammalarsi. Al mio commento, John cambia idea mentre Jaime, ahimè, rimane sulla sua scelta e ne pagò le conseguenze. Nonostante i farmaci che prendeva in modo preventivo, gli venne la cacaiola.

Dopo cena a letto perché il mattino successivo saremmo dovuti partire presto, poiché avremmo dovuto attraversare il ghiacciaio e il rischio di caduta massi è ridotto se l’attraversamento avviene al mattino presto, cosi dice Ashish. E noi ci fidiamo. Poi ci rifletto. Attraversare il ghiacciaio?! Sarà sicuro con tutti i movimenti che ha?

Da Gokyo Ri (5.360m) a Thaknak (4.750m) 14 Ottobre

Mi sono svegliato, se mai ho dormito, chiedendomi che giorno fosse stato, era forse Sabato? Sono le quattro del mattino e Mek Raj ci porta il tè in camera. E’ il settimo giorno da quando abbiamo lasciato Lukla. Il programma è di raggiungere Gokyo Ri a 5300m di altezza. Dunque un dislivello di mille metri, che già mi stramazza se fatto sulle nostre alpi, chissà qua a queste altitudini.

Partiamo alle 4.45 quando ancora è notte. Ci facciamo luce con le lampade frontali. Inizia la lenta e lunga salita su per un pendio ricoperto di pietre, molte delle quali adagiate come quelle cimiteriali messe di sbieco. Il respiro pesante che si trasforma in ansimo. Una fatica pazzesca, passo dopo passo, lentamente. Ogni tanto ci soffermiamo per riprendere respiro. Ashish porta intorno al collo una sciarpa di cotone colorata, e fin da quando siamo partiti, utilizzata per asciugarsi il sudore dalla fronte e per soffiarsi il naso. Mai lavata.

La cima è sopra di me, ma irraggiungibile. Osservo il sentiero avanti i miei piedi e cerco di seguire il percorso meno faticoso, come avevo visto fare da Ming ma o Mekh Raj nei giorni precedenti, quando li seguivo subito a presso. Tutte le energie devono essere limitate al massimo. L’uso dei bastoncini è fondamentale, come il bastone per la vecchiaia.

All’improvviso i primi raggi di sole accarezzarono il mio viso. Peccato perché volevamo essere in vetta prima del sorgere del sole.

Un ultimo sforzo e raggiungo la cima alle 6.30.

Il panorama ripaga di tutta la fatica. Finalmente sua maestà l’Everest appare in tutta la sua maestosità. La vetta è lì di fronte a me anche se ancora lontana. E’ inconfondibile. Parzialmente coperta dalla neve per i forti venti che vi soffiano così in alto. E poi, subito prima, a coprirlo, il Lotshe.

Sono a 5.360m, il massimo di altitudine da me mai raggiunto, ben al disopra dell’altezza del Monte Bianco, 4.810m.

Come sulle nostre montagne abbiamo la croce sulle vette, così qui, sventolanti le bandierine che diffondano all’umanità le loro preghiere. Siamo in silenzio, in contemplazione. Solo il vento e i nostri respiri.

Poi una foto di gruppo, una delle migliori scattate durante il trekking, per mano di una ragazzo francese. Mercie!

Altri trekker stanno arrivando e la cima sta diventando sempre più popolata. E’ già un’ora che siamo su e decidiamo di rientrare. La discesa è il mio punto dolente, come sempre, per le mie ginocchia. Il potenziamento delle gambe fatto in palestra durante tutto l’anno è comunque servito. Non ho mai percepito delle fitte, come spesso mi capitava, specialmente al ginocchio destro. Sta di fatto che in discesa sono sempre l’ultimo.

Arrivato in basso in compagnia di Ashish attraverso il torrente che si dirama in mille rivoli nella pianura ormai in prossimità del villaggio, quando vedo arrivare verso di me Jaime trafelato. Cosa mai sarà successo? Mi chiede la chiave della camera. Quale mai urgenza avrà? Consegno le chiavi e si dilegua in breve tempo.

Arrivato al lodge lo trovo nella sala da pranzo a contrattare il prezzo per la ricarica delle batterie dalla macchina fotografica e si accorda per 850 rupie per un’ora e mezza! Poi mi spiega la sua urgenza. Le batterie da ricaricare erano in stanza e aveva fretta perché l’unico carica batterie era libero quando era rientrato al lodge. Questo è un esempio di come l’evoluzione tecnologica non sempre è vincente. Personalmente non ho questa preoccupazione perché possiedo una macchina fotografica con le batterie usa e getta.

Subito dopo colazione esco per un breve giro appena fuori dal paese per un bio break, invece di utilizzare il bagno del lodge, e nel ritorno, scorgo un paio di guanti rossi di buona fattura abbandonati su di una pietra. L’istinto sarebbe stato di prenderli, poi decido di lasciarli lì dove sono. Il proprietario tornerà a cercarli.

Alle dieci riprendiamo il cammino proseguendo il sentiero.

Cosi dico al gruppo che, facendo una piccola deviazione, avremo potuto raccogliere un paio di guanti. Mi seguano e ritrovo facilmente il luogo. I guanti sono sempre li. Dalla taglia dire guanti da donna. Cosi domando chi volesse avere i guanti, ormai nessuno sarebbe tornato a cercarli. Tutti esitano e quindi, come capo gruppo, decido di offrirli ad Ashish che li accetta di buon grado, indossandoli subito con aria visibilmente contenta.

Il sentiero s’inerpica nuovamente verso il crinale. Proseguiamo in fila indiana fino a raggiungerlo. Sotto di noi il ghiacciaio, lo osservo per un attimo pensando che lo avremmo dovuto attraversare e raggiungere il crinale dalla parte opposta per poi risalire nuovamente. Di nuovo sento i crepitii e il suo respiro nella sua immobilità mobile. Scendiamo quindi dal crinale per raggiungere il letto del ghiacciaio. Seguiamo il sentiero con il crinale sulla nostra destra, prima di imboccare il sentiero che attraversa il ghiacciaio. A un certo punto avverto un rumore sopra di me e con la coda dell’occhio vedo che si è staccato un grosso masso. L’istinto è stato quello di proiettarmi in avanti, spingendo chi avevo avanti a me, riparandoci dietro ad un enorme sasso, che il caso ha voluto fosse lì vicino a noi. Dietro di me Ashish che grida e a sua volta spinge correndo John e Jaime. E’ stata veramente la nostra prontezza di riflessi a salvarci da non essere travolti. Vediamo passare dietro di noi il grosso macino con altre pietre trasportate durante la caduta. Mimg Ma per fortuna si è fermato prima insieme a Ro. Passata la frana, li abbiamo visti arrivare. Oggi possiamo ringraziare il nostro angelo custode.

Riprendiamo il cammino con velocità sostenuta per uscire da questa pericolosa situazione. Abbiamo il crinale della morena sempre al nostro fianco destro. Ci sentiamo al sicuro non appena iniziamo ad attraversare il ghiacciaio. Un paesaggio lunare. Il ghiaccio scuro brilla sotto i raggi del sole. Incontriamo piccoli laghetti di color blu cobalto. I rumori del ghiacciaio in movimento sono adesso sotto i nostri piedi.

John ringraziò Ashish per aver organizzato questa messa in scena per dare più emozione al nostro trekking. Supponeva che, al segnale di Ashish, alcune persone su in alto avessero provocato la frana. John è il solito mattacchione. Prende sempre le cose della vita con il giusto peso.

Terminata la traversata del letto del ghiacciaio, risaliamo su verso il crinale della morena. La stanchezza inizia a farsi sentire. Oggi è stato un giorno particolarmente impegnativo.

Finalmente arriviamo a Thaknak e alloggiamo al Tashi Delek Lodge a 4.700m giusto in tempo per il pranzo.

A Thaknak non c’è assolutamente niente, solo qualche lodge. Quindi, per ammazzare il tempo decidiamo di giocare a carte. Ormai il gruppo è consolidato e ben affiatato. Nonostante la non completa padronanza della lingua inglese da parte mia, ridiamo come matti. Ridono specialmente per le mie espressioni tra cui una diventata famosa è: “Ah aahh” quando John apre per primo a ramino. Oramai aveva contagiato anche loro. Quel giorno si uniscono anche Ashish e Jaime. Jaime rimane in disparte a leggere il suo libro “Il signore degli anelli” di cui era solo all’inizio. Certo, quando è partito, un libro più lungo non lo poteva scegliere? Ashish prende possesso delle carte e ci mostra un solitario nepalese. Faccio uno sforzo di memoria: distendeva un certo numero di carte scoperte, venti forse, e poi toglieva le carte dal tavolo, la cui somma portava a nove. Poi calava le carte rimaste in mano. E via dicendo. Si vince quando non rimane nessuna carta sul tavolo. Insomma qualcosa di simile. Abbiamo provato anche noi, ma senza successo, mentre lui è molto fortunato e se la ride. Dopo questa parentesi torniamo a giocare a ramino, spiegando il gioco ad Ashish. Allora si che ci siamo proprio divertiti. Di nuovo la barriera della lingua. E la sua difficoltà a capire le regole.

Giungono David e Ro rimasti in camera a riposare. E’ l’ora del tè. Una grossa donna e ben piazzata serve il tè. Ordino un tè al ginger. E li partono i commenti su di lei, che difficilmente seguo per i termini in slang usati da David, Ro e John. Di sicuro non dovevano essere apprezzamenti molto carini nei suoi confronti.

Passiamo tutto il pomeriggio nella stanza da pranzo. Luogo d’incontri. Un via vai continuo. Cosi si fa l’ora di cena. Come di consueto sono le sei del pomeriggio.

La cena è servita dagli aiuti guida, trasformatesi in camerieri maldestri. Durante la cena Ashish spiega cosa era successo quella mattina. Il sole, scaldando la neve e il ghiaccio, aveva fatto sì che quel grosso sasso venisse giù. Per questo motivo il giorno dopo saremmo partiti la mattina molto presto, per evitare pericoli. Sapevamo che ci aspettava un lungo e faticoso trekking. Dovevamo passare il passo di Cho La a più di 5.400m. Sarebbe stato il mio nuovo record massimo di altitudine.

La sera stessa ordiniamo la colazione per il mattino successivo: scelgo pane tibetano con miele. Che fantasia. Poi mi reco in camera e preparo lo zaino per il giorno dopo, mettendo qualche provvista perché saremo rimasti senza pranzo. Non avremo incontrato nessun ristoro fino ad arrivare al villaggio di Lobuche, nostra destinazione.

Sono le 20.30, la stanza è molto fredda. Jaime inizia a leggere il suo libro, una volta coricato con la lampada frontale accesa, e cosi si addormenta. Buona notte.

Da Thaknak per Cho La (5.420m) a Lobuche 15 Ottobre

Sono le 4.30 del mattino ed entrambi siamo già svegli nel nostro letto. Non ho intenzione di uscirne dal freddo che fa. Ho dormito con la calza maglia e una maglia a maniche lunghe con sopra il pile ed il capello. Bussano alla porta e con rammarico scendo e un brivido percorre il mio corpo. Apro la porta. E’ Mekh Raj, bello sveglio e sorridente con due bicchieri di tè nero fumante. “Buongiorno” pronunciato con voce sommessa. Ne porgo una a Jaime, seduto sul letto. Ci vestiamo e prepariamo i nostri zaini, sapendo che oggi sarebbe stata una giornata molto dura.

Quando usciamo per raggiungere la stanza da pranzo, un vento gelido accarezza il mio volto. E’ ancora buio pesto. Entro nella stanza. Portatori e guide sono ancora a dormire sulle panche, coperti da pesanti trapunte. La stufa centrale, che ogni sera è accesa per riscaldare l’ambiente, è spenta. Ci sediamo sull’unica panca rimasta libera o meglio quella che è stata liberata dalle nostre guide. Ci siamo già tutti e parliamo sotto voce per non disturbare. La colazione è sempre molto apprezzata. Soliti commenti sulla notte passata, fra tutti siamo mezzi rincoglioniti.

Usciamo per gli ultimi preparativi. Crema solare, capello e per adesso niente occhiali da sole perché ancora notte.

Ashish ci incita : Zam Zam

Ci mettiamo in fila indiana. Assume il comando Mekh Raj, mettendosi in testa al gruppo. Il sentiero inizia subito a salire. C’è un silenzio assoluto. Solo i nostri passi e le pietre che cricchiano al nostro passare. Sono in allerta per individuare eventuali rumori circostanti. Siamo sempre esposti a caduta massi e, dopo l’esperienza di ieri, sono molto vigile. Spesso osservo i massi in bilico sopra di noi, miracolosamente stabili. Dobbiamo passare questa zona quando ancora il sole non si è alzato. L’aumento di temperatura potrebbe provocare il cedimento del ghiaccio. I passi sono lenti, ma con cadenza costante. Quando la stanchezza inizia a farsi sentire Ashish decide di fermarsi. Onestamente tutti noi non ci sentivamo tranquilli, siamo sempre in zona pericolo. I nostri amici nepalesi scherzano tra di loro, noi molto preoccupati e taciturni. Nello stesso tempo, passano i tre portatori con le nostre sei borse rosse e ci sorpassano. Li osservo, così giovani e magri, con normali scarpe da ginnastica e rimango sempre stupito, come se li vedessi per la prima volta.

Riprendiamo la marcia e raggiungiamo un bellissimo punto panoramico. Ashish si sofferma e indica la catena montuosa di fronte a noi, ancora lontana, ma non riesco a capire cosa stia indicando e dicendo, così mi avvicino a John e gli chiedo cosa ha detto Ashish. A sua volta, m’indica un piccolo avvallamento tra due montagne, in una zona, dove da lontano il fianco della montagna assume un colore rossastro e mi dice: “Alessio, dobbiamo arrivare lassù, quello è il passo”. Rimango senza parole, erano ormai ore che camminavamo e forse non eravamo neppure a metà strada. E dopo tutta la salita fatta, dovevamo riscendere, per poi risalire nuovamente fino a 5.400m!

Zam Zam

Iniziamo la discesa e raggiungiamo la pianura. Durante il percorso incontriamo e superiamo un gruppetto di persone con stessa destinazione. Mi colpisce una signora di mezza età che cammina molto affaticata con l’aiuto dei due bastoncini. E penso, o non arriverà mai a superare il passo, oppure, se c’è la fa lei in queste condizioni ce la posso fare anche io. Li passiamo e percorriamo la pianura per iniziare l’attacco al passo.

Il sentiero s’inerpica a zig zag, ripido. Passo dopo passo, osservo le pietre sotto i miei piedi. Il respiro diventa pesante e più frequente. L’ossigeno si fa sempre più rarefatto. Iniziamo a incontrare la neve. La zona è tutta all’ombra. Ashish ha calcolato tutto. La pendenza è di circa del 45%. Passi lenti e brevi riposi per riprendere fiato. Eppure il passo è la sopra di me, dove splende il sole. Anche Ashish è molto affaticato. Percorriamo l’ultimo tratto della salita insieme.

Arrivo in cima ormai veramente stanco. Mi accolgono festose le rosse, bianche, blu, gialle e verdi bandierine. Lo spettacolo mi ripaga della fatica. Mi siedo esausto su di un sasso e osservo sotto di me un lago e una distesa infinita di neve racchiusa in una valle tra alte montagne. Dovremo scendere giù e poi attraversare il ghiacciaio.

Adesso è l’ora di un meritato riposo e del pranzo. Ognuno tira fuori dallo zaino snack portati dai loro luoghi di origine. Per pranzo ho una barretta energetica e cioccolata fondente alle nocciole. Ma il pezzo forte è una confezione da cento grammi di parmigiano! Offrire un pezzetto piccolo di parmigiano a 5.400m a chi non sa neppure cosa sia e vedere, poi, i loro volti soddisfatti per quello che stavano mangiando, è stata una grande soddisfazione. Ragazzi questo formaggio è italiano ed è prodotto solo in Italia! Ashish, gli aiuti guida, i portatori e John hanno accettato di buon grado la mia offerta, gli altri hanno declinato forse per gentilezza, altrimenti dei cento grammi non sarebbe rimasto niente. Ashish mi chiede più informazioni. Non lo aveva mai mangiato e lo aveva gradito molto. Ecco questo l’ho considerato un lusso particolare. Trasportare il parmigiano dall’Italia fino al passo più alto della catena himalayana in Nepal. Altra roba!

E’ tempo di scendere.

Il tratto di discesa non è per nulla semplice. Molto ripido e pericoloso. Inizia con un salto verticale di quattro metri. Se scivoli cadi giù fino in fondo, centro metri più sotto. I primi sono i portatori e, subito, sono in difficoltà per i loro pesanti carichi. Ashish urla dall’alto non so cosa. Non riescono a trovare un appoggio solido per il loro piedi da reggere tutto il peso. Li osservo nel loro intento con il fiato sospeso. Poi riescono a raggiungere la parte del sentiero più tranquilla. E’ la volta di John che scende con l’aiuto di Ashish. Aveva manifestato preoccupazione, anche per le scarpe non di ottima qualità, che aveva preso a noleggio. Non si sente tranquillo. Inizia la discesa con i bastoncini, che non aveva mai utilizzato fino adesso, assolutamente non necessari e da non utilizzare in questi casi. I suoi piedi scivolano sul terreno più volte e Ashish riesce a frenarlo. Anche la discesa per John non è stata semplice. Poi inizio la discesa. Non voglio dire che sono esperto, ma tutti i consigli avuti ai corsi del CAI e le uscite fatte con loro aiutano molto. Jaime scende in modo maldestro sotto la direzione di Ashish. E poi David e infine Douglas. Tutti sani e salvi. Ashish può tirare un sospiro di sollievo ed un grande sorriso liberatorio appare sul suo volto fino a poco prima contratto e preoccupato.

Raggiungiamo quindi il ghiacciaio e seguiamo il sentiero già battuto. Non riusciamo a stare in piedi facilmente, si scivola. Ming Ma lo prende come un divertimento. Ha scarpe da ginnastica più tecniche degli altri giorni, ma non idonee a questa attraversata su neve. Si riprende più volte e alla fine decide di procedere semplicemente pattinando. Il sentiero si dirige verso il fianco destro della montagna e diventa sempre più pietroso.

Procediamo verso la stretta valle che porta a Lobuche. In lontananza si vede già l’Ama Dablam.

Arriviamo a Dzonglha, dove c’è solo una tea house. Decidiamo di prendere un tè. Ci sediamo all’aperto intorno ad un tavolo di plastica bianco. Siamo soddisfatti di aver superato questa faticosa giornata con un pizzico di rischio. C’è chi ha affermato che aveva fatto la cosa più pericolosa nella sua vita, sicuramente Douglas e Jaime si manifestarono in tal senso. Questo avvalora il mio sospetto che per loro era la prima esperienza di trekking.

Ashish estrae dallo zaino le ultime due scatole di biscotti. Grande lusso pure questo.

A fianco del nostro tavolo un trekker aveva appena finito di leggere un libro dal titolo “Into Thin Air”, un best seller sul disastro sull’Everest del 1997 scritto da John Krakauer che si unì alla spedizione nel Maggio del 1996. Chiese se qualcuno di noi voleva fare scambio con un altro libro e giusto Ro ne aveva già letto uno. Per fortuna i portatori sono ancora con noi e quindi gli è possibile fare lo scambio. Cosi avviene uno scambio di libri in una delle zone più remote del Nepal.

Zam Zam

Arriviamo a Lobuche situata a 4.950m alle 4 del pomeriggio. Il nostro lodge, scelto da Ashish, è Himalayan Eco Resort. La camera assegnata a noi è la numero 16. Vicino a noi la stanza di David e Ro.

Ci rilassiamo distesi sul letto. Jaime è contento, ha raggiunto oggi l’altezza più alta nella sua vita. Del resto pure io. Di certo si può già considerare uno dei pochi filippini che è andato così in alto. Le Filippine non è un paese di alpinisti. Così con molta facilità è già un primato nazionale. Non so se credergli.

Jaime si prepara prima di me ed esce per raggiungere la sala da pranzo nell’altro edificio, è già l’ora di cena. Essendo rimasto solo colgo l’occasione di ripulirmi un po’ utilizzando le salviette umidificate. Finalmente un po’ d’intimità. A un certo punto sento Ro pronunciare il mio nome con il suo modo annoiato, è sempre monocorde. Gli rispondo scherzando ed esco per unirmi agli altri per la cena.

Siamo già tutti seduti in attesa di ordinare la cena ma Ro non è ancora arrivato. Il ritardo ci insospettisce e David torna in camera. Ritornano insieme e Ro mi guarda stupito di non aver raccolto la sua richiesta di aiuto. Aiuto? Che aiuto. Era rimasto chiuso in camera. David lo aveva chiuso dentro. Il lucchetto della staffa è all’esterno della porta. Incredibile. David era uscito e, senza pensare, aveva chiuso la porta. Pensavo che Ro stesse scherzando. Avrei voluto dirgli: “Se mai tu avessi bisogno di aiuto, la prossima volta utilizza un tono di voce diversa”.

La cena fu servita alle 6 del pomeriggio. E dopo una breve partita a carte, John si lamenta del suo indice, gli duole. Non riesce più a chiudere la mano sinistra. Osservo il suo dito ed è gonfio. Durante la discesa del primo tratto del passo, quello più pericoloso, dove si vedeva chiaramente che non si sentiva sicuro, ha messo a contrasto il dito tra la roccia e il bastoncino da trekking. Consiglio a John di prendere un anti infiammatorio. Nonostante il mio lavoro sia tutt’altro, mi ritrovo sempre a dare consigli medici, è più forte di me. A casa G mi chiama “il dottore di casa”. Ovviamente i miei consigli si limitano sempre a casi molto semplici, non oserei mai sostituirmi a un vero dottore.

John mi guarda dubbioso. Penso, come fa un americano a fidarsi di un consiglio dato da una persona che non sia un medico. Avrei voluto dirgli : “Guarda, John, che questo è l’unico medicinale che puoi prendere”. Siamo così lontani da un centro abitato, dove ci sia la presenza medica. Per fortuna a fianco al nostro tavolo c’è un’infermiera francese e appoggia il mio suggerimento. John però non ha anti infiammatori con sé. “Non ti preoccupare” gli dico, li ho io a sufficienza. Vado in camera e prendo tre bustine. Quando torno le do a John e subito da bravo paziente ne prende una. Le altre due sono per il giorno dopo. Dentro di me speravo che non fosse allergico agli anti infiammatori, altrimenti mi avrebbe fatto causa. Comunque John non perde mai il suo spirito positivo. Nonostante il dolore non si è lamentato e non ha perso il sorriso.

La stanchezza inizia a farsi sentire. E’ ora di andare a letto. Siamo usciti dall’ambiente riscaldato dalla stufa centrale e abbiamo raggiunto la nostra cella frigorifera. Notte!

Da Lobuche a Kala Pathar (5.545m) fino a Gorak Shep (5.170m) 16 Ottobre

Oggi è un gran giorno. In programma la salita al Kala Patar, dove avremo la vista più ravvicinata sull’Everest.

Lascio Jaime in camera per andare a fare colazione. Con la sua maniaca precisione sta chiudendo tutta la sua roba nel borsone. Decido, invece, di chiudere il mio dopo colazione, una volta avermi i lavato i denti, unica igiene quotidiana a cui non posso rinunciare. Esco con una raccomandazione, di chiudere la porta a chiave. Siamo ormai tutti al tavolo. Chiedo a John come va con il suo dito. Meglio dice, da quando sta prendendo la medicina. Purtroppo il dito non riesce a piegarlo. Arriva anche Jaime e mi restituisce le chiavi della camera. Fin dall’inizio del trekking sono stato nominato tenutario della chiave. Gli chiedo se avesse chiuso la porta e la risposta è negativa. Ma come, mi sono anche raccomandato. Quindi mi alzo e vado a chiudere la porta. Meglio non fidarsi.

Dopo colazione, Jaime afferra una chiave che è sul tavolo e sparisce. Di solito mi chiede sempre la chiave. Forse il mio comportamento lo aveva indispettito. Di sicuro non aveva preso la chiave della nostra stanza. Va beh, tornerà una volta che ha capito che non è la chiave giusta. In effetti, fa ritorno, ma non essendosi accordo dell’errore, aveva insistito nell’aprire il lucchetto con la chiave sbagliata tanto da bloccare la chiave nel lucchetto e non voleva più uscire. Oh bravo fesso! La chiave era quella di Douglas. Quindi, con l’aiuto di Ashish e del proprietario, cercano di risolvere il problema, ma l’unica soluzione fu di rompere il lucchetto.

Finiamo di sistemare le borse, e le chiudiamo, per consegnarle ai portatori. Prima di partire il proprietario chiede a Jaime i danni per la cifra di 500 rupie. Contrariato della richiesta, li paga comunque, senza obbiettare. Poi usciti dal lodge racconta ad Ashish della cifra richiesta e pagata e lui rimane sbalordito del fatto che abbia sborsato una simile fortuna. Si scusa con Jaime del comportamento del proprietario. Sono fatti che non dovrebbero capitare, ma certe volte i nepalesi si approfittano dei turisti chiedendo cifre elevate perché, pensano, che siano tutte persone ricche. In effetti, una difficoltà incontrata è valutare i costi sul potere d’acquisto dei locali. Pagare 500 rupie, ovvero cinque dollari, è il giusto prezzo? La risposta è si, se confrontiamo la richiesta con la nostra realtà, nel paese in cui viviamo, ma non lo è in Nepal, dove mediamente il reddito annuale procapite è di appena 2000 dollari. Dunque, per evitare che i prezzi siano spropositati, i turisti dovrebbero tenere in considerazione questo parametro e rapportarsi nelle richieste che vengono fatte dai locali.

Partiamo alla volta di Gorak Shep. Il percorso è un sali e scendi, non presenta difficoltà. Si snoda ad alta quota tra immense pietraie. Sarà per la stanchezza del giorno prima ma procediamo tutti con grande fatica. Già una semplice salita con un dislivello di cento metri ci sembra insormontabile. Durante il tragitto, Ashish e Ming Ma discutono fra loro animatamente in lingua nepalese. C’è qualcosa che non va, si capisce dal tono della voce e dall’espressione assunta sul loro volto. Chissà di cosa discutono. Si rendono conto del mio ascolto passivo e Ming Ma mi guarda sorridendo.

Ci fermiamo per un breve riposo presso un memoriale in ricordo di due alpinisti coreani deceduti nel 1993 durante una salita dell’Everest. E’ un semplice cippo costruito con pietre sovrapposte con affissa una targa. Mi chiedo quante vite sono state sacrificate alla catena himalayana.

Dopo circa tre ore di cammino arriviamo a uno scollino e sotto di noi si apre la pianura, dove si trova il villaggio di Gorak Shep, costituito solo da lodge. Sono le 10.30 del mattino.

Negli anni 50 Gorak Shep era il campo base per le spedizioni sull’Everest prima che fosse spostato alla base delle cascate di ghiaccio del Kumbu. Il nostro lodge è lo Yeti Lodge.

Contrariamente al programma, che prevede di proseguire per il Campo Base dell’Everest, David suggerisce di fare l’ascensione al Kala Patar, anche perché al mattino abbiamo il sole alle nostre spalle e potremo fare delle belle foto all’Everest. Il suggerimento è accolto da Ashish e dal gruppo. Il sentiero per salire al Kala Patar è ben visibile, parte dalla pianura e sale dolcemente sul fianco della montagna di color marrone scuro. Poi scollina nascondendo ai miei occhi il proseguo. Kala Patar significa roccia nera, un motivo ci sarà.

Lasciamo i bagagli al lodge e ci riposiamo fino alle 11.30. Poi iniziamo l’ascesa al Kala Patar. Come dicevo, il sentiero inizia dolcemente obliquo sul fianco della montagna e arriva a uno scollino dopo il quale non ho visibilità di cosa mi aspetti. Siamo in fila indiana, io sono l’ultimo e chiude dopo di me Ashish con Mimg Ma. A osservarlo da lontano sembrava semplice, ma in realtà, già fin dall’inizio si fa sentire. Con un rapido calcolo dobbiamo compiere un dislivello di quattrocento metri. Direte, che vuoi che sia, ma provate a percorrerli a 5.000 metri! Arrivato allo scollino vedo finalmente dove dobbiamo arrivare e mi prende lo sconforto. Il sentiero s’inerpica con più decisione fino ad arrivare a una massa indistinta di grandi pietre nere. Non perdiamoci d’animo, non c’è fretta. In compagnia di Ashish, passo dopo passo, progredisco verso la vetta. I riposi diventano sempre più frequenti, dopo cento metri e poi dopo cinquanta metri, ma sono inutili. Neppure il panorama riesce a darmi la carica per arrivare in vetta. Sul lato destro si vedono già benissimo il Lotse e la vetta dell’Everest. Arrivato quasi vicino alla vetta, inizia una salita di circa duecento metri senza percorso segnato tra queste grandi pietre scure. Ashish non ha più banane. Si ferma, mi guarda e dice: “Alessio continua pure tu, io ti osservo salire da qui”. Un modo carino per dire col piffero vengo su! In effetti, chissà quante volte lo avrà fatto. Generalmente lo stesso trekking lo può fare anche due volte l’anno. Inizio la salita in solitaria facendomi varco tra i massi di pietra nera e lucida, scegliendo il percorso più adatto. Dopo un passaggio c’è né un altro e poi un altro ancora. Non ne vedo la fine. I miei compagni, sopra di me a circa trenta metri, sono già in vetta. Poi con un ultimo sforzo li raggiungo, mentre le raffiche del vento si fanno sempre più forti. Siamo tutti ben coperti e, con difficoltà, riusciamo a stare in piedi. Finalmente il panorama da sempre sognato e aspettato. Un sogno che si realizza. Sono nel luogo, dove ho la vista più ravvicinata sull’Everest. Osservo la vetta e noto uno strano pinnacolo bianco che si alza in cielo, assomiglia ai vapori uscenti dal cratere di un vulcano. In realtà è la neve spazzata dai forti venti. Se osservate le immagini dell’Everest, noterete che spesso la vetta è sempre parzialmente innevata. Il desiderio irrealizzabile di essere lassù è forte. Adesso capisco, e ammiro, tutti quelli che sono riusciti nell’impresa di arrivare in vetta. Quella vetta ti strega, ti ammalia, è come il richiamo di Didone, una sfida con se stessi e la natura.

Sui volti dei compagni è evidente la soddisfazione di essere arrivati sul punto più alto mai raggiunto fino allora e la possibilità di osservare da vicino le montagne più alte del mondo. Le bandierine disposte su lunghi fili non hanno un attimo di pace, molte sono ormai sfrangiate. A turno la foto di rito con le spalle rivolte all’Everest a documentare “Io ci sono stato”. Giù sotto, dalla parte opposta alla nostra salita, il ghiacciaio del Kumbu dove si trova il campo base dell’Everest.

Restiamo in religioso silenzio osservando questo spettacolo naturale insuperabile.

Udiamo delle voci, stanno per raggiungere la vetta con molta fatica altri trekkers. E’ tempo di ridiscendere per lasciare spazio. La nostra sosta è durata poco meno di un’ora.

Già, per un’ora tutte le fatiche ed i disagi fino ad ora affrontati. Ma la nostra avventura continua, ci aspetta un’altra sfida, raggiungere la vetta dell’Island Peak a 6.100m.

La discesa non è altrettanto semplice. Trovare il percorso di rientro tra queste grosse rocce mentre il vento mi spinge forte, e stando attento ha non fare un passo falso, non è un impegno da poco. Dall’alto vedo ormai gli altri che fanno a gara a chi arriva prima al rifugio. Proprio dei ragazzi!

Ashish è sempre lì ad aspettarmi e si congratula per il mio successo con una stretta di mano. Rientriamo insieme iniziando una conversazione sulle condizioni di vita in Nepal. Gli chiesi come funzionasse l’assistenza medica. Ebbene, gli ospedali pubblici non sono all’altezza per fornire cure adeguate. Se soffri di una malattia grave, sei spacciato. Le strutture lasciano molto a desiderare. Gli ospedali privati sono costosissimi e quindi non alla portata della maggior parte delle persone. In conclusione, l’attesa media di vita è intorno ai quarantacinque anni. Anche per la scuola stesso discorso. Ashish ha tre figli e li manda tutti e tre alla scuola privata per dargli un futuro migliore. Sua moglie porta avanti un negozio e lui si da fare come guida. Quest’attività lo impegna da Marzo a Maggio e da Settembre a Novembre. Fuori stagione svolge un altro lavoro. Tutto sommato la sua famiglia non se la passa male.

Oltrepassiamo nuovamente la pianura sabbiosa, originata da un lago ormai prosciugato, e raggiungiamo la stanza da pranzo del lodge. Ordinai per pranzo fried rice. In tutti questi giorni la mia è stata una dieta vegetariana se non addirittura vegana. Solo pochissime volte ho mangiato le uova.

I commenti durante il pranzo sono tutti inerenti alla salita del Kala Patar, alle emozioni del bellissimo panorama che ha ripagato ampiamente tutte le fatiche. Ashish è contento quanto noi perché tutto è filato liscio, non sempre il programma può essere rispettato, molto dipende dal tempo e dalle condizioni fisiche dei partecipanti. Insomma siamo stati bravi. Arriva Mekh Raj e dice qualcosa ad Ashish. Dall’espressione che assume e dalle esclamazioni in nepalese non sembra essere contento. Poi si rivolge a noi e dice : “Mi dispiace, abbiamo un problema, non ci sono camere . Il lodge è completo, nonostante le assicurazioni da parte del proprietario di riservare delle camere per voi”. Stento a credere a quello che dice. Molto spesso aveva mandato in avanscoperta Mimg Ma perché arrivasse prima al villaggio per riservare le camere. La legge è: chi prima arriva meglio alloggia. Sui volti di noi tutti si spenge l’entusiasmo avuto fino allora. Questo forse è il risultato di aver deciso di lasciare Gokyo un giorno prima perché avevamo deciso di non fermarsi un giorno in più per acclimatarci, dato che, tutti noi stavamo bene. Ro e David escono per controllare se ci fossero state camere in altri lodge, ma tornano sconsolati, tutto pieno. Jaime e John si offrono di dormire insieme ai locali sulle panche della stanza da pranzo ma Ashish è contrario a questa idea. Avrebbe cercato di trovare delle camere libere, ovviamente sottraendole a qualcun altro. Arriva il proprietario del lodge e Ashish alterato esce con lui. Ro si lamenta del fatto che dovevamo restare al piano originale, invece di anticipare di un giorno. Commento inutile dato che anche lui è stato d’accordo a partire prima.

Tornò Ashish con un sorriso stampato sul volto, aveva trovato la soluzione. Invita Douglas a seguirlo per una supervisone. Douglas, esitante, si alza con il consenso silenzioso di tutti noi. Quando torna, ha un’aria beffarda, che preludeva niente di buono. La soluzione trovata è una piccola stanza vuota e senza finestra, dove stendere dei materassi, forse destinata a magazzino. La stanza è cosi piccola che ci stanno solo due materassi e la porta non può neppure essere aperta senza spostarne uno. Sono scelti i più piccoli di altezza ovvero John e Jaime. Accettano di buon grado, entrambi sono persone che si adattano molto alle situazioni. Per gli altri, la sistemazione è in normali camere.

Il dopo cena è stato particolarmente divertente. Una giovane signora americana si unisce al nostro consueto gioco a carte. Tutte, o quasi, le mani del gioco sono vinte dalla simpatica signora. Un tipo molto determinato e sicuro di se. Ha già terminato il suo trekking con ultima tappa il campo base dell’Everest e l’indomani avrebbe iniziato il percorso di rientro.

Mentre giochiamo a carte, seduti acconto a me, c’è una coppia sui quarant’anni e inizio a scambiare due parole con il marito. Poi, con mia sorpresa dalla lingua Inglese passa a parlare in Italiano. E’ una coppia di svizzeri accompagnati da una guida. Si sono preparati fisicamente a questo trekking spendendo una settimana sulle Dolomiti, passando da un rifugio all’altro percorrendo sentieri ad alta quota. Sarebbero saliti al Kala Patar l’indomani mattina presto, prima del sorger del sole. E’ loro desiderio vedere l’alba dalla vetta. Mi chiedono quanto fosse faticoso, non volevo scoraggiarli e risposi un po’.

Abbiamo fatto più tardi del solito. I locali stanno già disponendosi per la notte e, quindi, è giunto il tempo di andare a dormire pure noi.

Da Gorak Shep per E.B.C. (5.354m) a Lobuche 17 Ottobre

La notte trascorsa è stata molto fredda, nonostante il mio pigiama abituale.

Di notte mi sono dovuto alzare per il bisogno impellente di fare pipi. Strano, sarà per l’altitudine, ma è da quando sono sopra i 4000 metri, non passa notte che mi devo alzare. Una grande rottura di palle perché, uscire dal letto caldo per il gelido ambiente, non è proprio il massimo della goduria. Per raggiungere il cesso mi faccio strada con la luce frontale fino in fondo al corridoio. Lo stabbiolo è fatto di lamiera e gli spifferi sono di casa. Allora si che si raggiunge il massimo, specialmente se mi devo calare la calzamaglia. Torno a letto che sono un pezzo di ghiaccio.

La mattina quando mi alzo, i vetri della camera sono nuovamente completamente gelati dall’interno, uno strato di ghiaccio di circa 2 mm. Oggi è un altro gran giorno, lungo e faticoso. C’è in programma la visita al campo base dell’Everest.

Durante la colazione, a base di tè e pane tibetano con marmellata, vedo entrare la coppia di svizzeri tutti imbacuccati dal rientro della loro ascesa al Kala Patar. I loro volti parlano chiaro, sono stramorti ma felici di questa bella esperienza. Sono riusciti ad arrivare in vetta poco prima del sorgere del sole. La loro prossima tappa è il campo base dell’Everest e poi avrebbero fatto ritorno a Kathmandu.

Li saluto augurandogli un buon proseguimento. E’ giunto il momento di partire alla volta del E.B.C., acronimo di Everest Base Camp. Usciti dal lodge adempiamo al solito rito spalma la crema solare . Anche oggi è una bellissima fredda giornata di sole. Sono le otto del mattino. Attraversiamo nuovamente la pianura sabbiosa e incontriamo un cartello giallo malconcio indicante il sentiero da prendere. Iniziamo subito a salire tra un paesaggio roccioso. Non siamo certo soli, avanti a noi avvistiamo almeno cinque gruppi. Questa è la meta finale per molti trekking e la più frequentata.

Passiamo anche il bivio che indica la stazione italiana di ricerca climatologica, il famoso edificio a forma di piramide. Purtroppo non c’è il tempo per fare questa deviazione e proseguiamo. Tra sali e scendi ci avviciniamo sempre più al ghiacciaio del Kumbu. Subito, come per istinto, iniziamo a guardarci intorno, come se volessimo controllare tutti quei massi minacciosi sopra di noi. Incontriamo alcune carovane di yak con sopra la loro soma beni di tutti i generi diretti all’attuale campo base dell’Everest. Raggiungiamo un punto panoramico. Davanti ai nostri occhi la distesa immensa del Kumbu, con le sue alte cascate di ghiaccio, composte da crepacci e seracchi, punto di partenza per la salita all’Everest. Scendiamo e attraversiamo un’area del ghiacciaio fino a raggiungere il campo base dell’Everest, luogo segnato su una grande pietra. Siamo a 5.354 metri di altitudine. E’ qui dove le spedizioni facevano tappa prima di iniziare la conquista dell’Everest. Un luogo pieno di storia per l’alpinismo mondiale. I successi e drammi vissuti sono tutti partiti da qui. Di fronte a me adesso sono più vicine le cascate di ghiaccio del Kumbu , maestose, con le loro guglie alte più di 15 metri, dove un uomo è una formica al loro cospetto. In lontananza si vedono le tende gialle dell’attuale campo base. Restiamo assorti nell’osservare l’Everest, di cui vediamo solo la vetta. La magia poi si rompe con il rito delle foto a memoria del “io sono stato qui”. Non ho resistito nel prendere dal terreno tre piccole pietre per ricordo. E’ un rito che faccio di tanto in tanto solo dai luoghi che più mi affascinano.

Zam Zam

Ashish decide: è tempo di tornare indietro. Passiamo tra i ghiacci della morena, dove si aprano profondi buchi, svelando ghiaccio dal colore blu intenso. Alle nostre spalle lascio uno degli scenari più belli che abbia mai visto.

Durante il rientro John cade malamente con la conseguente leggera distorsione del piede destro. Lui commenta incolpando gli scarponi presi a noleggio, non in buono stato. Il cammino diventa più lento, mentre Mimg Ma si offre di portare il suo zaino per alleggerirlo dal peso. Aiuto encomiabile.

Arrivati al lodge, Ro chiede se fosse possibile dare una camera a John vicino alla stanza da pranzo, per facilitarlo nel suo handicap momentaneo. Sono trovate due camere, una delle quali assegnata a Jaime e al sottoscritto. Dalla stanza si sentono i rumori provenienti dalla sala. L’unico vantaggio: non è necessario uscire dal corpo principale per andare in bagno.

Mentre sono seduto a sorseggiare un tè, Ashish si avvicina per descrivermi il programma del giorno dopo. Che strano non l’aveva mai fatto. Inizia dicendo che l’ultimo passo a 5.500m di altitudine avrebbe richiesto un grande impegno fisico. La durata del trekking sarebbe stata di oltre otto ore. Insomma, si prefigurava una delle giornate più difficili. Nelle condizioni in cui John si trovava, non era proprio possibile e quindi stava valutando la possibilità di un percorso più basso, che evita il passo, ma avrebbe allungato il trekking di tre ore passando da Dingboche. Quindi il piano era di dividere il gruppo in due. Nel caso in cui John non sarebbe stato in grado di fare neppure il percorso più basso avrebbe chiamato l’elicottero per portarlo a Kathmandu. Capperi! Non mi ero accorto che John fosse ridotto così male. Concordo con il piano, come capo gruppo.

Durante la cena è illustrato il piano a tutto il gruppo. Ro manifesta la volontà di unirsi al gruppo per il percorso più facile, David avrebbe voluto fare il passo. Gli altri non prendono nessuna posizione, in attesa di vedere come sarebbe stato John l’indomani mattina, dopo una bella dormita. Colgo l’occasione di chiedergli come sta il suo dito e lui, con il suo solito sorriso, risponde che non gli fa più male dopo i farmaci che gli ho dato, ma che non lo piega ancora.

Il cibo servito è di ottima qualità, anche se i piatti ormai si ripetano sempre gli stessi, riso e patate e una bella zuppa di lenticchie.

Decidiamo di andare a letto presto. Sono le ventuno e mi chiedo, come sempre, come farò ad arrivare al giorno dopo senza svegliarmi durante la notte. Jaime, invece, non ha di questi problemi. Cade immediatamente in un sonno profondo. Beato lui.

Da Lobuche (4.940m) per Kongma La (5.535m) a Chhukung (4.730m) 18 Ottobre

Sono le 5.10 del mattino e Mekh Raj bussa, come di consueto, alla porta per servire il tè. Sono già sveglio e lo stavo aspettando. Non ci preoccupiamo più di come siamo vestiti quando apriamo la porta della nostra stanza. Niente da preoccuparsi perché dal freddo che fa non siamo certo svestiti, ma le prime volte mi facevo degli scrupoli e aprivo solo quando eravamo completamente vestiti. Poi, sono arrivato al punto di dire chi se ne frega, penserà quello che vorrà. Spero di non aver mancato di rispetto.

Mi faccio coraggio e vado a lavarmi il viso con l’acqua fredda, anzi di più, marmata. Ottima per il risveglio. Poi mi reco in bagno con il mio sacchetto di plastica, il mio beauty case, con carta igienica, salviette umidificate e sapone. Il sacchetto è provvidenziale perché lo appendo alla manopola della maniglia della porta per non appoggiarlo in terra. Sono, ormai, a corto di slip puliti anche seguendo la strategia di indossarli a rovescio. Non è stato possibile fare nessun lavaggio perché non si sarebbe mai asciugato. Le salviettine sono essenziali, non potendo fare la doccia. Ogni volta che le utilizzo, sono inorridito di come siano sporche. In effetti, camminando per i sentieri, è sempre alzata polvere tanto e vero che ho visto alcuni trekkers camminare con una benda a coprire la bocca.

A colazione Ashish ci informa che avremmo fatto tutti l’alta via. John stava bene è poteva affrontare questa difficoltà. Che roccia è John. Ma chi lo distrugge!

Alle sei partiamo. Attraversiamo le morene del ghiacciaio del Khumbu per poi iniziare l’ estenuante salita. I giorni di cammino già compiuti non aiutano ad affrontare questa salita con maggior energia. Oltrepassiamo il campo base di Kongma a 5.000m e poi su dritti per il sentiero che porta al passo. Iniziamo a trovare del ghiaccio e il percorso diventa scivoloso, poi tracce di neve, dove il piede finalmente fa presa. Ci sono due sentieri che portano su al passo. Uno nuovo sulla parte destra più corto ma più ripido, l’altro, quello da sempre esistito, passa sotto la montagna sul lato sinistro. Jaime, guidato da Mekh Raj, prende il percorso più breve. Progredisco lentamente sul sentiero, non pensando dove sarei dovuto arrivare. In prossimità della cima inizio a contare i passi. Dopo cinquanta mi soffermo, prendo respiro e poi altri cinquanta, e cosi via. Coraggio che ci sei, mi dico. Finalmente arrivo in cima. Che faticaccia! Anche Jaime ha avuto grandi difficoltà. Mi confida che forse la sua non è stata la scelta più giusta. Negli ultimi metri è stato letteralmente tirato per mano da Mekh Raj, perché ormai non aveva più banane.

Ashish indica all’orizzonte una catena montuosa con alcune vette innevate, là si trova anche Island Peak. Sotto di noi un lago color blu intenso. Anche questa volta la fatica è ripagata da un panorama impareggiabile.

E’ tempo di uno snack. Parmigiano e cioccolato. E’ la seconda delle tre confezioni di parmigiano portati dall’Italia. L’ultima ho deciso di non mangiarla, ma di regalarla ad Ashish. Distribuisco qualche barretta energetica ai portatori che accettano molto volentieri, loro ne hanno più bisogno di me.

Abbiamo affrontato un dislivello di 600 metri. Ashish afferma che alla fine del trekking avremo coperto un dislivello totale di circa 10.000 m. Stento a crederlo. In pratica più dell’altezza del monte Everest.

E’ tempo di scendere. Raccomando attenzione nella discesa a serpentina del sentiero a non spostare pietre che potrebbero causare la caduta di altre con il rischio di colpire uno di noi.

Giunti a valle, Ashish decide per un altro stop, apprezzato da tutti noi. C’è una foto scattata da Jaime dove siamo tutti sdraiati per terra stremati per quello che avevamo fatto. Una bellissima cascata d’acqua scende giù da una montagna. E’ l’unico rumore che udiamo in tutta la valle.

Zam Zam

Il terreno ormai è diventato erboso e il sentiero in discesa, una passeggiata. Finalmente in lontananza l’Island Peak così come l’avevo visto tante volte nelle foto. La sua vetta non aveva più segreti dai tanti video guardati su YouTube, pubblicati da chi era arrivato in vetta. Questa volta il sogno sta per divenire realtà.

Mentre scendiamo, avvistiamo il villaggio di Chhukung e il ghiacciaio Imja.

Raggiungiamo la valle e attraversiamo un fiume per raggiungere il lodge, saltando da pietra a pietra. Non era stato costruito nessun ponte. Alle 2 del pomeriggio entriamo nel Sunrise Guest House.

Il lodge è affollato da aspiranti alpinisti, tutti con l’obiettivo di raggiungere la cima dell’Island Peak. Stanno provando scarponi, imbrachi e ramponi. Tutto materiale molto scadente. Inizio a osservarli. Tutti ragazzi che, all’apparenza, non hanno niente di alpinisti. Anzi sembrano proprio dei neofiti.

Occupiamo posto a un tavolo per il consueto tè. Ro inizia una conversazione con una ragazza bionda americana che ha raggiunto la mattina stessa la vetta dell’Island Peak. E’ stata la sua prima esperienza di alpinismo. Allora il dubbio, che si era insinuato, diventa una certezza. Il mio sogno, di esperienza alpina alla conquista di una vetta sopra i 6000m, svanisce. Sono capitato in una Disneyland, con lo scopo di portare in vetta chiunque al fine di intascare soldi. Vengo a sapere che sul percorso, nel punto in cui diventa più ripido, sono presenti corde fisse, dove una volta assicuratosi, non ti resta che fare una grande faticata per arrivare in vetta. Cosi ai miei occhi tutto perde di fascino e subentra una certa delusione. Mi ero immaginato tutto un altro film. Volevo avere un’esperienza di puro alpinismo ad alta quota, dove niente fosse precostituito, dove potevo mettere in pratica l’esperienza maturata sotto la guida dello sherpa. Insomma, affrontare l’Island Peak munito di corda e piccozza, come se fosse scalato per la prima volta.

Mentre stavamo parlando della nostra futura esperienza e della certezza che tutti noi saremo arrivati in vetta, Ashish ci presenta il nostro sherpa, Chhawang. Un ometto bruno non tanto alto e non più giovane, veramente difficile dare l’età ai nepalesi. Un sorriso rivela la mancanza di alcuni denti. A prima pelle non mi resta particolarmente simpatico, ma non saprei dire perché. Sono quegli strani meccanismi che scattano quando incontri per la prima volta una persona. La sua esperienza di alpinista la riassume in tre scalate dell’Everest su sette tentativi. Questo doveva rassicurarci di essere in buone mani. Concordiamo appuntamento per domani alle 3 del pomeriggio per chi deve noleggiare il materiale. Avrebbe, inoltre, controllato il mio materiale e quello di David portato da casa.

La sera a cena ci proponiamo di salire tutti quanti in vetta all’Island Peak. Non vediamo nessun motivo perché questo successo non si potesse avverare, visto l’inesperienza delle persone che avevano raccontato dei loro successi. Non c’è niente di tecnico. Attaccati a una corda fissa e poi via su, solo una grande fatica data l’altitudine. Mi ritorna in mente il commento di Aldo, allora presidente del CAI della Sezione di Firenze, quando gli dissi che sarei andato sulla catena Himalayana e lui mi disse : “Alessio, solo una grande faticaccia”. E ha perfettamente ragione, non c’è niente di tecnicamente complesso, se non la grande fatica a queste altitudini. Niente in paragone alle difficoltà tecniche che si possono incontrare sulle nostre Alpi o addirittura sulle Alpi Apuane.

Il programma per raggiungere la vetta è di arrivare al campo base dell’Island Peak, dove gli sherpa avrebbero dato le nozioni di base per affrontare la scalata, poi trasferimento al campo numero due più in quota dove la mattina successiva sarebbe stato più facile affrontare la salita alla vetta, evitando le orde di turisti. Dicono che si sono verificati casi in cui ci sono state anche cento persone ad attendere il loro turno, poiché in vetta ci sarà spazio sì e no per sei persone.

Fuori il sole sta ormai tramontando e il magnifico Ama Dablam, di fronte a me, si colora di rosa.

E’ tempo di una buona dormita.

In camera Jaime è eccitato. Mi dice che solo pochi filippini hanno raggiunto i 6000 m. Non c’è una storia di alpinismo nelle Filippine, terra di mare, dove la montagna più alta arriva a 2000 metri. Sarebbe entrato nella lista dei quei pochi. Avrebbe voluto immortalare quel momento di successo con la bandiera delle Filippine aperta tra le mani per mostrarla al mondo intero. Non mi resta che augurargli buona fortuna.

Chhukung (4.730 m) 19 Ottobre

Oggi è un giorno di riposo e di preparazione dei materiali.

Come di consueto, ci incontriamo tutti per colazione. Anche oggi è una bellissima giornata di sole.

Per colazione pancake e miele con un bicchiere di tè al ginger. Jaime avrebbe voluto provare tè con latte di yak, per imitare le consuetudini degli sherpa. Ashish lo sconsiglia vivamente indicando con la mano la sua pancia, come a dire cacaiola assicurata.

Durante colazione il nostro argomento è centrato sulla mancia dovuta al nostro gruppo di accompagnatori. E’ quasi un obbligo perché rappresenta l’apprezzamento del servizio offerto. Più la mancia è cospicua più affermiamo il nostro apprezzamento, senza però essere eccessivi per non distorcere le regole del mercato ovvero circa il 10% del costo del viaggio, diviso in 5% alla guida, 3% agli aiuti guida e il 2% ai portatori. Ovviamente, poi, ognuno è libero di fare la sua offerta in base alle proprie disponibilità. Nei giorni seguenti questo è stato argomento di discussione ricorrente, stavamo rapidamente per terminare la nostra esperienza. Ai nostri occhi ci sembrava veramente ingiusto dare solo il 2% ai portatori, alla fine erano quelli che si erano fatti un culo pazzesco. Portare 40 kg sulle spalle tutti i giorni, trovare sempre le nostre borse in camera prima che noi arrivassimo, i bagagli mai rovinati, sempre perfetti. Un gran servizio.

In aggiunta, adesso, c’era anche da considerare la mancia per il gruppo che ci avrebbe assistito nei giorni dedicati alla salita all’Island Peak, cioè lo sherpa, i due aiuti sherpa ed il cuoco, per i quali non eravamo a conoscenza di nessuna regola e questo ci mise in difficoltà. Quale sarebbe stata una cifra onesta? Molto dipendeva anche dal fatto se avessero contribuito fattivamente ad aiutarti a raggiungere la vetta.

Vicini al nostro tavolo ci sono due ragazze bionde accompagnate da una guida. John si rivolge alle due ragazze, che si scoprì essere norvegesi, per chiedere un consiglio. In realtà risponde Gandhi, la loro guida. Non ci fornisce una cifra esatta ma un range su cui lavorare in base alla sua esperienza. Ci sono stati turisti che hanno dato duecento euro solo allo sherpa per aver raggiunto la vetta. Cifra da me considerata veramente eccessiva. L’importante, aggiunge Gandhi, è scalare la montagna con l’amore nei nostri cuori, e mentre lo dice, abbraccia le due norvegesi! Le ragazze sono lì per motivi di studio, per osservare gli effetti dell’altitudine nel corpo umano. Meglio non fare domande più approfondite.

L’aggiunta di questa nuova richiesta di mancia rende tutto più complicato. Decidiamo quindi di lasciare libertà nel gruppo e valutare secondo a come sarebbe andata l’ascesa.

Arriva l’ora di pranzo e con essa questa anche Floss.

Mentre occupavamo posto a un tavolo, vedo arrivare un ragazzo alto, ben piazzato, con i capelli biondi e ricci racconti in una coda. Un volto duro ma nel complesso di bell’aspetto. Gli darei sui trentacinque anni. Mi ricorda un tipo da Braveheart. In effetti, anche lui scozzese. Non lo potrei definire gentile nei suoi modi. Si avvicina a noi accompagnato con la sua guida Dorje. Si presenta e ci comunica che si sarebbe unito a noi per la salita all’Island Peak. Tra di noi non c’è un grande entusiasmo a tale notizia. Tranquillamente distende sul tavolo un paio di mutande bagnate di color grigio, residuo di un bucato non ancora perfettamente asciugato e si allontana un attimo per parlare con la sua guida. Vedo gli sguardi inorriditi del gruppo, specialmente David rimane schifato mentre prende gli slip con due dita da un angolino e le getta sulla panca lontano da noi. Floss torna dicendo che aveva chiesto allo sherpa se poteva andare bene indossare quel tipo d’intimo per il campo base. Lo guardo stupito per una simile domanda da me considerata stupida mentre David gli dice: “Sei qui da cinque minuti e hai già superato il limite”, ma Floss non raccoglie la provocazione.

Nel frattempo Ashish ricorda al gruppo il mio ruolo di capogruppo data la mia esperienza di alpinismo. Siamo in una botte di ferro, penso. Quali fossero le mie responsabilità, non è per niente chiaro. Non ho mai preso sul serio questo ruolo e il gruppo ha tacitamente accettato la mia nomina senza nessuna recriminazione.

Per pranzo Floss si unisce a noi. Colgo l’occasione di sapere cosa facesse nella vita e sono sorpreso per la sua attività lavorativa: recupero di ragazzi adolescenti disadattati, che nel Regno Unito stava diventando un vero problema sociale. Da un punto di vista di esperienza alpina Floss è più esperto di me. Pratica alpinismo da più tempo, era stato più volte sulle alpi ad arrampicare. La sua fisicità è senza dubbio di grande aiuto, dove manca la tecnica subentra la forza.

L’argomento mance torna nelle nostre conversazioni. Cerchiamo di tenere il tono di voce basso mentre le guide sono a debita distanza, anche se questo comportamento da complotto non passa inosservato. Anche Floss commenta che, il range suggerito da Ghandi da destinare allo sherpa, è una cifra esagerata.

Giungono anche le tre del pomeriggio quando inizia la riunione per controllare il materiale e provvedere al noleggio per chi è senza.

Jaime, Dauglas e John devono noleggiare tutto il materiale: scarponi, piccozza , ramponi , maniglia per ascensione ed imbraco. Quando vedo la qualità del materiale, rimango perplesso, tutta roba vecchia. Il bello è che per questo noleggio il costo è la bella cifra di cento euro! Iniziano le prove per trovare la taglia appropriata. Specialmente scarpe e ramponi sono “dell’uno quando ancora non c’era nessuno”. Ramponi arrugginiti da legare agli scarponi con i lacci. Giunge il mio turno, e conduco lo sherpa nella mia camera, visiona il materiale e approva. Rimane specialmente colpito per gli scarponi da alta montagna: i miei bellissimi Spider dell’Aku.

Quando torno nella stanza da pranzo, c’è Jaime che sta provando l’imbraco con l’aiuto di uno sherpa. Osservo l’imbraco e noto che è stato indossato in modo errato, con la parte anteriore messa sul dietro, quindi la chiusura rimane dietro la schiena. Penso, siamo in ottime mani! Anche il nodo, fatto per legare il cordino all’imbraco, è molto rudimentale e non è il classico nodo ad otto come richiesto per maggiore sicurezza. Floss concorda con me e si mette subito a fare il nodo a otto per Jaime.

La prova e preparazione dei materiali impegna il gruppo per buona parte del primo pomeriggio. Floss ha portato il suo materiale da casa a dimostrazione della sua pratica di alpinismo.

Alcuni turisti stanno discutendo se partire dal lodge per raggiungere direttamente la vetta dell’Island Peak. Avrebbero dovuto affrontare un dislivello di 1400m, che fatto a queste altitudini non è così semplice. L’ottimale sarebbe stato partire dal secondo campo base dell’Island Peak, per ridurre la fatica. Nel frattempo c’è chi stava parlando del possibile cambio del tempo e che forse avrebbe nevicato. Chiedo conferma allo sherpa ma risponde che non è possibile conoscere le previsioni del tempo e dobbiamo stare quindi alla sorte. Do uno sguardo fuori ed è ancora una bellissima giornata di sole.

Il campo base dell’Island Peak, il cui nome vero però è Imja Tse, dista circa tre ore di cammino dal villaggio. C’è richiesto di preparare una sola borsa e quindi di portare lo stretto necessario. Jaime ed io ci rechiamo in camera per preparare il borsone, dove mettiamo i sacchi a pelo, le giacche di piumino d’oca e qualche indumento mentre tutto il materiale tecnico è stipato nei nostri zaini insieme con altri indumenti e generi alimentari vitaminici per affrontare la salita. Proviamo il peso degli zaini e per la prima volta sentiamo un po’ di chili sulle nostre spalle. Il programma è di raggiungere il campo base a 5200m, spendere qualche ora nel training di salita e discesa con corda fissa e poi trasferirsi al campo più in alto a 5600m, cosi che la mattina successiva saremmo stati i primi ad affrontare la salita alla vetta prima che arrivassero altri gruppi.

A cena siamo tutti felici per il programma dei due giorni successivi, entusiasti ed eccitati, chi più chi meno. Dopo cena John si mette a intagliare la suola dei suoi scarponi per creare un carro armato che facesse più presa sul terreno. La suola è ormai molto consumata. Devo ammettere che John è un uomo dalle mille risorse, troppo forte. Poi gli chiedo: “ John, il tuo dito come sta?”. “Bene Alessio, le tue medicine sono state miracolose”, ma il dito non riesce ancora a piegarlo.

E’ giunto il tempo di ritirarmi nella camera ‘frigorifero’. L’indomani mi aspettava una lunga giornata.

Da Chhukung al campo base di Imja Tse (5.200m) 20 Ottobre

Due fette di pancarré tostato e un bel cucchiaio di miele con il consueto bicchiere di tè, questo è stato il mio dolce risveglio. Ma quanti litri di tè avrò bevuto fino ad oggi?! Comincio a non poterne più. Non ho scelta, meglio del caffè acquoso che viene servito. Anche questa mattina splende il sole. Fuori l’aria è pungente. In tutto il trekking non abbiamo mai saputo quanti gradi fossero. Nessuno di noi ha con sé l’altimetro da polso. E’ un acquisto che fino ad oggi mi sono rifiutato di fare, occorrono più di duecento euro per un altimetro e barometro. Però è indubbio che in certe situazioni può essere utile, se non altro per avvisarti che il tempo sta cambiando.

Lasciamo Ashish, Mek Raj e Ming Ma al villaggio, non sarebbero venuti con noi. E’ la prima volta che ci separiamo e questo mi procura una sensazione strana, quasi di abbandono. Partiamo invece con Chhawang, il nostro sherpa, e i due aiuto sherpa. Dal villaggio, dopo avere percorso una breve pianura di sassi, inizia il sentiero che sale subito per raggiungere la cresta. Seguiamo la cresta per poi abbandonarla, scendendo di poco sul fianco opposto del rilievo: cosi il villaggio scompare ai miei occhi. Durante il cammino incontriamo carovane di yak, e con fatica riusciamo ogni volta a superarle. Veramente un gran traffico. Il gruppo pian piano si disperde, sembra non esserci più la buona norma di aspettarci. Ro ed io restiamo distanziati tanto che non vediamo più i primi del gruppo. Jaime invece resta a una distanza tale che ci consente di vederlo e di capire la direzione. Il paesaggio riesce anche questa volta a stupirmi. Attraversiamo una vasta pianura circondata da montagne il cui terreno è formato da sabbia, molto fine e brillante. Non resisto a prenderla nelle mani per capire cosa la rendesse così brillante, ma i granelli sono cosi piccoli da non riuscire a distinguerli. Poi la pianura si restringe pian piano fino ad arrivare al punto in cui i monti del lato sinistro e destro si riuniscono, e il sentiero inizia nuovamente a salire. Dei primi compari di testa neppure l’ombra, si sono ormai dileguati, come pure sherpa e aiuto sherpa. Ro è molto affaticato, credo sia ancora malaticcio. Spesso tossisce e strascina le sue gambe. La gola delle montagne diventa sempre più stretta e finalmente scorgo il campo base, un insieme di tende gialle e blu adagiate tra lo spazio lasciato libero dai massi.

Oltrepassiamo le prime tende, tutte a due posti e basse, come cucce per cani. Vedo sbucare da una tenda a casetta blu Flos. Sono giunto alla tenda destinata all’area ricreazione. Sono già tutti dentro, stavano prendendo un tè. Ro ed io entriamo prendendo posto sulle ultime sedie rimaste. L’altezza della tenda è tale che non mi permette di stare dritto, per non battere la testa devo stare curvo. Ha il tetto a spiovente come le classiche tende canadesi ma le pareti laterali sono alte. Stando seduti intorno ad un tavolo centrale la nostra schiena batteva contro le pareti. Insomma, siamo ben strizzati, non è certo il massimo del confort. Subito ho fatto un’analogia con le spedizioni alpinistiche, dove nel campo esiste sempre un corpo centrale luogo di ritrovo degli alpinisti. In un certo senso stavo vivendo una situazione simile. E’ un momento di aggregazione; Flos forse è stato accettato dal gruppo. Il suo comportamento da prima donna certo non aiuta.

Non ricordo esattamente l’argomento di discussione. Certe volte li perdevo per la difficoltà nel seguirli nel loro slang. Utilizzavano termini ed espressioni a me sconosciute.

Arriva l’ora di pranzo. Dall’interno della tenda sentiamo il rumore delle pentole in alluminio utilizzate dal cuoco per preparare il pranzo, nascosto nella parte posteriore della stessa. Che sorpresa vedere arrivare nei piatti patate con cipolle, fagioli e pan carré con adagiato sopra un uovo al tegamino. Tutti mangiamo di gusto.

Dopo pranzo sono assegnate le tende e, rispettando la regola non scritta, si formano nuovamente le coppie e quindi Jaime ed io ci troviamo di nuovo insieme nell’ultima tenda alla fine del campo base. Depositiamo i nostri zaini prelevando solo il materiale necessario per l’esercitazione di ascesa e discesa con corda fissa.

Erano state allestite due corde fisse lungo un pendio del monte circostante, e a turno, assicurandoci alla corda, saliamo il primo tratto, poi, prima di slegarci, ci assicuriamo ad una postazione fissa costituita da un grosso sasso, per poi proseguire con il secondo tratto di corda. E così anche per la discesa. Per Jaime, Ro, John e Douglas è proprio una novità. Non avevamo mai fatto queste semplici manovre. Questo gioco durò circa due ore dando la possibilità a ciascuno di eseguire l’esercizio più volte. Di nuovo la consapevolezza che questa preparazione così semplice confermava che la salita all’Island Peak non richiedeva nessuna preparazione tecnica.

Una volta terminata l’esercitazione non c’è molto da fare al campo base. Faccio due passi di perlustrazione, passando da quelli che dovevano essere le toilette, meglio usufruire degli spazi all’aperto anche se non è consentito. Al campo base non ci sono tanti aspiranti alpinisti. Poche le persone che tornano dal sentiero che conduce all’attacco dell’Island Peak. Alcuni stanno già smontando le tende.

Alle 5.30 del pomeriggio è servita la cena, niente di nuovo rispetto a quello mangiato a pranzo, ma non ho nessuna pretesa. Dopo un’ora abbiamo già finito di cenare e non resta che ritirarsi nelle tende, non prima di aver fatto pipì all’aperto, non molto distante dalla nostra tenda. Il cielo nel frattempo ha assunto un colore bianco, strano penso, sembra il classico cielo che preludeva a neve. E detto fatto da lì a poco inizia a cadere qualche ficco di neve con mio stupore.

In tenda il freddo si fa sentire; nonostante sia dentro il sacco a pelo di piuma d’oca della North Face, dato in dotazione, indossando in più la giacca anch’essa di piuma d’oca sempre della North Face, fornita dall’organizzazione, calzamaglia tecnica, doppie calze di lana, ho sempre freddo, specialmente ai piedi che sono marmati. Jaime nel frattempo si sta applicando su varie parti del corpo delle bende adesive termiche. Ne ha potate due scatole e gentilmente mi dà due bende per i miei piedi. Una volta applicate, ho subito beneficio. Questo mi ha consentito di addormentarmi.

Passo la notte risvegliandomi più volte, sia per il freddo, sia perché a 5.200 non è facile dormire di filata tutta la notte. Se non fosse che sono già abituato ad altitudini sopra i 4000, sarei stato sicuramente sveglio con gli occhi sbarrati. Jaime riposa tranquillamente, almeno sembra. In realtà, poi mi raccontò che aveva cercato di svegliarmi perché non era tranquillo di dormire con quei grossi massi minacciosi posti sopra i pendii della montagna sopra le nostre tende, anche perché durante la notte aveva sentito dei rumori strani. Meglio che non lo abbia sentito, mancava solo che mi svegliasse per quel poco che avevo dormito.

Da Imja Tse (5.200m) a Chhukung (4.730m) 21 Ottobre

Passa già il chiarore della luce dal velo della tenda e non ho più intenzione di starmene lì congelato. Mi accorgo che ho pendenti dal naso delle piccole stalattiti di ghiaccio, formatesi semplicemente dal mio respiro. Decido di alzarmi non fosse altro che mi scappa la pipì. M’infilo le scarpe e nonostante le avessi messe in tenda, sono gelate. Esco dalla tenda cercando di fare il meno rumore possibile. Dall’interno non odo nessun rumore esterno. Strano penso. Forse è troppo presto. In realtà con mio stupore fuori ci sono venti centimetri di neve e un grande nebbione. Fa molto freddo e rabbrividisco al solo il pensiero di mostrare all’aria un’importante appendice del mio corpo, ma la pressione è irresistibile e libero una zona del terreno dalla neve. Penso subito al nostro programma di andare al campo due dell’Island Peak a 5600 metri. Forse non ci saremo potuti andare.

Sono le 6 del mattino ed anche Jaime esce dalla tenda. Inizia nuovamente a nevicare. Per passare un po’ di tempo decidiamo di fare due passi nell’accampamento ancora avvolto nel silenzio. Il tempo non dà segni di migliorare. Le rocce circostanti sono tutte ricoperte da uno strato di ghiaccio. Mi ritornano alla mente le parole degli istruttori di alpinismo. Un bravo alpinista sa riconoscere se è il caso di continuare oppure decidere di rinunciare. Non si deve mai sfidare la montagna. E’ una guerra impari. Pian piano maturo dentro di me l’idea di abbandonare, di tornare al villaggio. Non è possibile salire con questo brutto tempo.

Ci incontriamo tutti per colazione dentro la tenda. Un bel tè caldo è quello che ci vuole. E poi, un po’ di zuccheri, pane tibetano e miele.

Chhawang sherpa ci comunica che non possiamo andare al secondo campo base, date le cattive condizioni del tempo. Anche se fossimo stati in grado di raggiungerlo, avremmo avuto il problema dell’acqua, ovvero sarebbe stata gelata con grande disagio per tutti. Aggiungo che, per me, non vuole di più di tanto bacarsi. Comunque sono d’accordo. La situazione non lo consente. La proposta è quindi di stare al campo tutto il giorno in attesa di vedere se il tempo fosse migliorato. Se l’indomani mattina il tempo sarà sempre uguale, dovremo rinunciare a salire sulla vetta.

Fuori dalla tenda riprende a nevicare con una certa intensità. Solo l’idea di passare un’altra notte al gelo non mi entusiasma cosi poi tanto. Inoltre, il tempo si è messo al peggio e non dà proprio segno di voler migliorare. Dalle mie considerazioni è molto improbabile che saremo mai saliti sulla vetta dell’Island Peak. Decido, quindi, di abbandonare e di tornare al villaggio. E’ una scelta di consapevolezza che manda in frantumi tutte le mie attese, la finalità ultima del mio viaggio e l’unica opportunità per raggiungere una vetta di 6.189 metri.

Comunico la mia decisone a Jaime che rimane stupito e incredulo. Cerca di dissuadermi ma quando mi vede così deciso, non insiste più. Poi, quando tutti siamo in tenda al riparo della nevicata che imperversa, annuncio la mia decisione al gruppo. Dai loro volti capisco che sono anch’essi increduli. Spiego che non credo che il tempo sarebbe migliorato da lì a domani mattina. Sarebbe stata un’attesa vana. Loro sono molto più ottimisti, a dimostrazione che sicuramente sono molto più motivati di me nel raggiungere la vetta.

Alla notizia della mia decisione arriva lo sherpa chiedendomi spiegazioni per questa scelta. Cerca pure lui di farmi desistere solo perché avrebbe perso la mia mancia. La regola è di offrire una somma di denaro se lo sherpa avesse condotto il gruppo verso la vetta a prescindere dal risultato ottenuto. Diciamo pure che è molto di parte nel cercare di convincermi.

Il problema adesso è come tornare indietro. I luoghi circostanti hanno cambiato aspetto e ormai irriconoscibili. Dove è il sentiero che mi ha portato fino al campo base? Inaspettatamente vedo arrivare Ming Ma e Mek Raj accompagnati dai tre portatori. Gli vado incontro chiedendo a Ming Ma se sarebbero tornati al villaggio. La risposta è affermativa. Sono stati mandati da Ashish per controllare come stavamo, dato che il tempo era cambiato in peggio. Grande Ashish! Ho un’ora circa per preparare lo zaino, poi sarebbero tornati indietro. Dovevo lasciare il borsone a Jaime. Prendo tutto il materiale, lasciando solamente gli scarponi da trekking, il sacco a pelo e la giacca di piumino d’oca. Tutte il resto riesco a metterlo nello zaino.

Arriva il momento dei saluti. Ro mi dice che forse sto facendo la scelta giusta. Non vedo più l’entusiasmo sui loro volti. Il fatto che li abbandono sta minando la loro convinzione, e poi siamo stati insieme per così tanti giorni. Mi sento, senza titolo, come il capitano che abbandona la nave, il loro capo gruppo in ritirata.

Un ultimo saluto, loro lì dietro di me in gruppo a osservarmi mentre mi allontano con le guide finché dopo 200 metri, superata la prima collina, non sono più visibile ai loro occhi.

Il passo delle guide è molto veloce. Non sono vestiti in modo idoneo alla bufera di neve che sta imperversando. Quindi il loro intento è arrivare il prima possibile al villaggio. Il mio zaino è pesantissimo. Li seguo con molta più lentezza. L’unico che mi resta vicino è Ming Ma. Gli altri, all’inizio, si voltano più volte per vedere dove siamo rallentando il passo. Scherzano tra loro, come se la situazione li divertisse. Poi, quando inizia a nevicare con più violenza e il vento inizia a soffiare forte, li vedo sparire all’orizzonte.

Ming Ma mi meraviglia per come riesce a individuare il sentiero, ormai completamente nascosto. Chissà quante volte lo aveva percorso. Passo nuovamente la pianura di sabbia dai granelli brillanti. Adesso solo una grande distesa bianca. Ho gli scarponi da alta montagna e indosso tutto l’abbigliamento tecnico che il caso richiede. Non ho freddo ma passate circa due ore non riesco più a progredire con la stessa velocità iniziale. Inizio ad avvertire lo zaino, come se il suo peso aumentasse al passare del tempo. Non riesco neppure più a mantenere gli occhi aperti dalla neve che violenta, mi punge il volto. Decido di mettermi gli occhiali. Peccato che essendo da sole, con lenti alta protezione ai raggi solari, non vedo una mazza. Ming Ma, vedendomi in difficoltà, mi chiede più volte se può prendere il mio zaino. Consegnargli lo zaino mi sembra di sfruttarlo e poi, anche un po’ per orgoglio, rifiuto. Alla fine devo capitolare perché avrei fatto ritardare la marcia anche a lui, coperto da una misera giacca e un cappello di lana e con le scarpe da ginnastica. Prende lo zaino con un sorriso. Il solito sorriso che ti disarma, che dici … ma come fa ad avere sempre un atteggiamento così positivo?

Se all’andata erano state necessarie tre ore di cammino, il ritorno assomiglia più alla ritirata della guerra di Russia, in mezzo ad una bufera. L’ho sempre immaginata così, quando studiavo storia. Cammino seguendo Ming Ma come un cagnolino. Penso, se mi abbandona qui, sono fritto. La mia vita dipende da lui. Ormai inizio a sentire la stanchezza. Finalmente raggiungiamo la cresta da dove, in lontananza, vedo il villaggio. Non resta che percorrere la cresta e poi scendere a valle.

Tutto è ricoperto dalla neve. Anche il villaggio ha adesso un aspetto diverso. Non c’è nessuno fuori. Una volta più vicini vedo solo Ashish che ci sta aspettando tutto imbacuccato subito fuori dalla porta del lodge. Forse preoccupato di non vederci arrivare. Chissà quanto tempo prima gli altri sono arrivati.

Entriamo nella stanza da pranzo e subito Ashish ordina per me un tè al ginger. Non mi chiede niente del mio abbandono, forse perché il tempo parla da se.

La stanza è piena di turisti accompagnati dalle loro guide. Mi siedo tra loro. Una guida sta spiegando che non è possibile raggiungere il campo base dell’Island Peak per cattivo tempo e se il tempo non fosse cambiato dovevano rinunciare alla scalata. Ciò mi conforta nella mia scelta.

Per ringraziare Ming Ma per l’aiuto gli allungo una mancia di mille rupie. Sarà una cifra congrua? Sempre questo dilemma. Non è facile valutare. Comunque mi ringrazia con un sorriso.

E’ giunta l’ora di cena, così arriva la mia ordinazione, un bel piatto di spaghetti con il pomodoro. E’ proprio quello che ci vuole dopo questa faticaccia. L’unico lato positivo di essere stato coinvolto dalla tormenta è stato quello di provare il mio abbigliamento tecnico. Sia il guscio sia le scarpe hanno superato la prova egregiamente. Nello stesso tempo mi sento colpevole di vedere Ming Ma con i vestiti bagnati. E’ seduto accanto al caldo della stufa per asciugarsi.

Ovviamente il pensiero va spesso ai miei compagni. Chissà cosa stavano facendo. Sarei curioso di ascoltare i loro commenti riguardanti il mio abbandono. Comunque, ammesso che il giorno seguente il tempo fosse migliorato dando la possibilità di salire, sarebbe stata una grande faticaccia dovuta al dislivello da coprire pari a più di 900 metri, che a queste altitudini non è uno scherzo da poco, con la complicazione del ghiaccio e della neve fresca.

Ormai solo al lodge non c’è molto da fare, dopo aver cenato decido di andare in camera e cogliere l’occasione per continuare a scrive il mio diario di viaggio. Poi la stanchezza arriva tutta di un botto, mi si chiudono gli occhi e mi concedo volentieri a Morfeo.

Chhukung (4.730m) 22 Ottobre

Quando apro gli occhi, il mio istinto è subito quello di lanciare uno sguardo fuori dalla finestra. I vetri sono nuovamente ricoperti internamente da uno strato di ghiaccio ma vedo subito un bel sole brillare fuori. Da non credere, il tempo è cambiato in così poco tempo. Non nascondo una certa amarezza, forse la mia scelta è stata troppo precipitosa. Che cosa potevo fare adesso? Tornare al campo base e tentare la salita alla vetta? Sono le cinque del mattino, sarei arrivato dopo tre ore e forse più. Probabilmente i miei compagni erano partiti nel cuore della notte e quindi sarei stato solo senza una guida che m’indicasse la via. Niente da fare ormai è troppo tardi. Cosi sconsolato mi reco verso la sala pranzo per la colazione. Fuori mi accoglie un freddo pungente, tutto è di un bianco brillante sotto il sole. Di fronte a me il fascino del Ama Dablan. Dal tetto penzolano pericolosi dei lunghi ghiaccioli aguzzi, sembrano dei denti di un animale feroce. Antistante al lodge le tende delle guide. Entro nella stanza da pranzo. Ci sono già alcuni turisti con le loro guide. Stanno discutendo se partire o meno per il campo base. L’indicazione unanime delle guide è di aspettare il giorno successivo. Ho, dunque, fatto la scelta giusta?

Ashish è già li, parla con altre guide nepalesi e quando mi vede entrare chiede subito cosa avrei gradito per colazione. C’è forse l’imbarazzo della scelta? Ovviamente tè e pane tibetano con il miele. So già che il pernotto, colazione e pranzo sarebbero stati a mio carico, non coperti dall’organizzazione del viaggio perché da programma sarei dovuto essere al campo base. Sarei poi stato curioso di vedere quanto sarebbe stato il costo, non avevo mai pagato niente di persona giacché è tutto compreso nel costo originario del viaggio. Mi accorgo di Mimg Ma seduto accanto alla stufa eccezionalmente accesa al mattino per l’intenso freddo. Ha un gran raffreddore e mi sento in colpa per il giorno prima. Ashish gli ha già somministrato le medicine.

Questo è stato, da un punto di visita psicologico, il giorno più lungo di tutto il trekking, una lunga ed estenuante attesa.

Inizialmente Ashish ha paventato di voler fare un giro sui monti intorno al villaggio ma durante tutta la mattina questo non si realizza. E’ evidente che non ha nessuna intenzione di camminare, anzi per lui è un’occasione di riposo, in fin dei conti rimane comunque un lavoro e quindi perché bacarsi per far passare un po’ di tempo a un turista. Trascorro tutta la mattinata principalmente girovagando per il villaggio composto di poche case. La vita semplice condotta dagli abitanti mi sorprende sempre. I bimbi che giocano nei cortili delle proprie abitazioni, gli yak oziosi nei campi, aspettando di essere caricati con pesanti carichi per andare a rifornire i punti più disparati e remoti. Poi, annoiato di gironzolare e di passare due o tre volte sempre dagli stessi viottoli, decido di sedermi subito fuori dalla sala pranzo dove lo spiazzo lastricato rettangolare è ormai ricoperto da venti centimetri di neve. Da qui posso ammirare in tutta la sua bellezza l’Ama Dablan. Non nascondo una certa attrazione verso questa montagna, ha un fascino particolare forse dovuto alla sua forma, forse perché è completamente innevata e riflette sotto il sole. Trascorro così buona parte della mattina, seduto al sole osservando come si svolge la vita intorno al lodge. Dato la nevicata, i primi portatori con generi alimentari arrivano al villaggio solo in tarda mattinata. Arrivano anche altri turisti, tra cui un padre con suo figlio dall’età di sedici anni circa, entrambi biondi. Indossano abbigliamento da alpinismo con imbraco, corde , rinvii e piccozza in mano. Inizio a parlare con loro, scoprendo poi, essere svizzeri e il padre parlare anche italiano. Arrivano dalla vallata opposta dell’Ama Dablam. Anch’essi sono stati colpiti dalla bufera e per fortuna sono riusciti a rifugiarsi nell’unico lodge esistente. Hanno affrontato la salita per accedere dal passo dove era stato necessario utilizzare qualche chiodo da ghiaccio per mettersi in sicurezza. Mi ha sorpreso la facilità con cui avevano affrontato tutto quanto, senza dubbio doveva essere molto esperto.

E’ molto piacevole stare al sole. Sono in pace con me stesso e non ho nessun rimpianto. Così passo la maggior parte della mattinata, oziando sempre seduto subito fuori dell’ingresso della sala da pranzo. L’unica bischerata che ho fatto è stata di non mettermi la crema solare, completamente dimenticato, forse perché ormai associata al rito preparatorio prima della partenza di una giornata di cammino. Questo lo pagherò nei giorni successivi fino al punto di arrivare ad avere il volto chiazzato tra zone in cui la pelle è ancora abbronzata ed altre più chiare per la caduta di quella bruciata. Ashish di tanto in tanto si ferma a parlare con me e quindi colgo l’occasione per ricordargli la promessa fatta, ovvero accompagnarmi per l’acquisto di una pietra semi preziosa per G, poi aggiungo, mentendo “è per l’anniversario di matrimonio”, per enfatizzare l’importanza. Mi rassicura che ci saremmo andati. G va pazza per gli anelli, per fortuna non predilige quelli preziosi. Senza dubbio avrebbe gradito il regalo.

Giunge l’ora di pranzo e scelgo un piatto tipico nepalese, Bal Bath: piatto unico a base di riso bollito disposto da una parte del piatto con verdure lesse, carote, cavolo, patate e cipolle. Servita a parte una ciotola di minestra di lenticchie. Devo dire che in questi lodge i menu sono praticamente identici. Si possono mangiare spaghetti al pomodoro oppure alla bolognese. Tutti sughi di barattolo. Anche la pizza, che non è cotta al forno per ovvi motivi, ma in teglia. A voi immaginare il risultato, la mangi in sostanza molliccia. L’importante è non mangiare carne, come raccomandato da Ashish. La bistecca di yak è un mito da sfatare. Questi animali vivono fino a quaranta anni e sono di grande aiuto nel trasporto delle merci, e al di la della religione, figuriamoci se vengono uccisi! Una notizia curiosa, lo yak non può scendere al disotto dei 2000m, altrimenti crepa.

Spesso il mio pensiero è rivolto ai miei compagni. Sono le due del pomeriggio e chissà adesso dove saranno. Secondo Ashish dovrebbero essere di ritorno da lì a circa due ore. Non vedo l’ora di rivederli e di farmi raccontare i loro successi.

L’ora del loro arrivo si avvicina e cosi seduto scruto la cresta della montagna che chiude la pianura di fronte a me, la stessa cresta che avevo percorso per andare e tornare dal campo base. Il mio stato d’animo è come quello di un padre che aspetta il rientro a casa dei suoi figli la sera tardi. Ma le ore passano ed il sole inizia a calare. Le piccole sagome di persone, che vedo in lontananza sulla cresta, non sono dei miei compagni. Li avrei riconosciuti sia dal numero sia dal modo di camminare. Anche Ashish inizia a preoccuparsi. Ormai è completamente buio e non sono ancora tornati. Rientro nel lodge. Fuori è già freddo. Non so quanti di loro hanno la luce frontale per camminare nel buio. Ashish decide di inviare Ming Ma e Mek Raj. Li rifornisce di una torcia e via partano di corsa per andare incontro al gruppo. Seguo le due lucine dalla finestra del lodge, prima spostandosi velocemente nella pianura e poi su per la cresta, fino a percorrerla tutta e sparire ai miei occhi dietro alla montagna.

Alle sette di sera ormai ho già cenato. Ho trovato posto a un tavolo con altri turisti. Non ho scambiato una sola parola perché i miei pensieri sono altrove. Mi sposto alla finestra per vedere se stessero arrivando quando all’improvviso vedo aprirsi la porta esterna del lodge ed entrano uno ad uno i miei compagni. In tutta la mia vita non ho mai visto un gruppo di persone di ritorno da un’escursione così distrutto. Hanno i volti strasfigurati, sono stremati dalla fatica e a stento hanno compiuto gli ultimi passi, per poi, cadere seduti sulla prima panca trovata libera. Non hanno neppure il fiato per pronunciare alcuna parola ed io non so come comportarmi, cosa chiedergli. Soltanto Ro si avvicina a me dicendomi: “Tu sei stato il più intelligente”.

Alla fine come era andata? Cosa era successo? Si erano svegliati alle una di notte per salire alla vetta. Subito avevano trovato le prime difficoltà nel superare la barriera rocciosa, composta di massi di grandi dimensioni completamente gelati e quindi avevano da subito avuto la necessità di mettere i ramponi. E già qui immaginavo la scena. Camminare sulle pietre con i ramponi non è il massimo del divertimento. Una volta superati, è iniziata l’ascesa su neve. Il primo a capitolare è stato Douglas per il gran freddo ai piedi, non riusciva più a sentirli e ha deciso di tornare indietro. Dopo poco anche Ro non riesce più a progredire per la fatica. Gli altri quattro arrivano fino alla base finale per poi attaccare la vetta. Sono circa centro metri in ripida salita che richiedono di assicurarsi a una corda fissa. Purtroppo John non ha più il fiato è si ferma qui. Flos è il primo ad arrivare in vetta, non avevo dubbi, data la sua fisicità, ed a seguire Jaime e David. Jaime è quello che più mi ha sorpreso. Cosi mingherlino, senza la minima esperienza, ma con il grande desiderio di arrivare in vetta. Ha dimostrato grande determinazione nel vedere il suo sogno realizzato. Ha voluto dimostrare a se stesso di potercela fare. Grande Jaime!

Dai commenti comunque raccolti, c’era qualcosa che non aveva funzionato. Ro è molto contrariato e insoddisfatto. Ma cosa era successo?

Dopo cena accompagno Jaime in camera. Non connette più, sembra ubriaco. Si siede sul letto e poi si toglie gli scarponi e infine le calze. Rimango impressionato nel vedere le sue dita dei piedi completamente rosse, specialmente i due pollicioni. Mentre si medica i piedi mosso da compassione amichevole, gli preparo il letto, distendendo il sacco a pelo e poi si corica. Dopo cinque secondi netti già dorme.

Da Chhukung (4.730m) a Namche Bazaar 23 Ottobre

Lasciamo il villaggio verso le ore 9. Tardi per quello che ci aspetta, ma era necessario dare ai compagni la possibilità di fare una bella dormita e recuperare dal giorno precedente. In programma una lunga camminata, più di nove ore. Ashish freme per partire perché vuole arrivare a Namche prima che la notte sopraggiunga. Commenta brevemente il tragitto dicendo che sarebbe stato tutto in discesa. E in teoria ha ragione, ma mai pensare a un trekking in Nepal senza una salita!

Flos è già partito con la sua guida da qualche tempo. La sua parentesi di appartenenza al gruppo è terminata. E’ stato sopportato, ma mai accettato. Sapevo che lo avremmo rivisto a Kathmandu per la cena di saluto. Aveva, comunque, creato zizzania e questo venne fuori nei giorni successivi.

Quello che più mi colpiva è che in una sola giornata di cammino saremmo tornati indietro a Nanche e invece per arrivare fino a Chhukung, passando dai due valichi di alta montagna, ci avevamo messo dieci giorni. Nel viaggio di ritorno non è neppure più necessario considerare le soste di acclimatazione e in più adesso avevamo il nostro sangue super ossigenato.

Prima di partire, però, pago 2200 rupie per il mio soggiorno al lodge, mentre i miei compagni raccolgono i soldi da destinare come mancia allo sherpa. Avendo deciso di tornare indietro, non partecipo alla raccolta. Solo più tardi, durante il cammino, Jaime si ricorda che non ha elargito la sua mancia, proprio lui che è uno di quelli arrivati in vetta!

Partiamo e subito vediamo sfrecciare i tre portatori con i nostri borsoni di color rosso. Tutte le volte è per me un mistero capire da dove prendono la forza. Nonostante ripercorriamo zone già passate nel viaggio di andata, sembrano nuove ai miei occhi per il cambio di prospettiva. Nel gruppo c’è chi sta soffrendo per i piedi rovinati nella salita all’Island Peak, tra questi David.

Durante la marcia abbiamo dovuto combattere una battaglia. In un sentiero parallelo vediamo giungere un altro gruppo composto di giovani belli freschi a un’andatura sostenuta. I due sentieri si sarebbero ricongiunti alla fine della pianura. Il loro intento è chiaro, superarci. Senza neppure parlarci iniziamo ad aumentare il ritmo. Non volevamo assolutamente trovarci mischiati a loro. Il nostro doveva restare un gruppo compatto.

A raccontarlo sembra proprio un’idiozia ma essere lì, in questa situazione, è diverso. S’innescano strane dinamiche di gruppo. Ogni gruppo è come fosse una piccola comunità completamente autonoma.

Siamo i primi a prendere il sentiero. In seguito è stato un succedersi di sorpassi, finché decidono di fermarsi mentre noi ci allontaniamo da loro. Non ci hanno più ripreso. Uno a zero e palla al centro!

Giungiamo a Dingboche, un villaggio commerciale, con negozi, ristoranti e lodge. Lo passiamo senza fermarci. Passato il villaggio, il percorso inizia a seguire dall’alto il letto del fiume e, puntualmente, per attraversarlo non resta che scendere giù in basso , attraversare il ponte e poi di nuovo su in alto. Spesso incontriamo carovane di yak d’intralcio al nostro cammino.

In tutto il trekking non ho mai incontrato Italiani. La maggior parte dei turisti sono stati Francesi e Inglesi. Solo durante questo tragitto ho incrociato un gruppo numeroso e già osservandoli da lontano ho pensato, questi sono Italiani. Ho ragione. Rivestiti di tutto punto, abbigliamento nuovo di zecca e di marca, mai indossato se non per questo trekking. Neppure fosse stata una sfilata di moda. Sembrano degli extraterrestri, veramente fuori dal contesto.

Zam Zam

Mentre cammino non penso mai, è veramente un momento di evasione e distacco totale. Cammino e basta. Spesso concentrato a gestire la fatica. Il tempo scorre e non ti accorgi. Questa volta invece è impossibile non pensare: tutto questo da lì a qualche giorno sarebbe finito, sarei tornato finalmente a casa. Questi giorni passati in completo isolamento, lontano dalla maggior parte della modernità, senza auto, senza strade, l’energia elettrica necessaria solo per illuminare il lodge, senza le comodità a cui siamo abituati, mi hanno aiutato a depurarmi. Sarei tornato, ma sicuramente dentro di me sarebbe stato impossibile dimenticare questa esperienza, anche alla ben emerita età di cinquanta anni.

Arriviamo finalmente a Tyangboche, importante luogo buddista per la presenza di un grande monastero. Sentiamo in lontananza la musica emessa dei lunghi corni suonati dai monaci buddisti. Tutto è nascosto alla nostra vista da una ripida salita. Arrivati allo scollino, appare alla vista il villaggio e l’imponente monastero adagiati sull’altopiano. Tutto attorno alte montagne. Andiamo diretti all’ingresso del monastero, dove due leoni dorati sono lì di guardia e controllano i fedeli e i turisti che oltrepassano la soglia. I monaci sono riuniti in preghiera in una grande stanza. Tutta l’atmosfera è molto mistica. Intorno alle pareti tanti turisti che assistono in silenzio alla cerimonia. Faccio una foto e subito mi viene incontro un monaco con aria di rimprovero, perché ho usato il flash. Decido di non scattare più foto perché non so come disattivare il flash. La macchina fotografica è di Ele, prestata per l’occasione, con l’impegno di riportarla a casa sana e salva, pena comprarne una nuova.

Terminata la nostra visita, ci dirigiamo tutti verso la locanda per il pranzo. Il nostro tavolo è stato preparato all’aperto su di una terrazza naturale. La vista è stupenda. Sotto di noi si apre una grande a profonda valle con le montagne ricoperte da rigogliose foreste verdi smeraldo. Intorno a noi le montagne ormai note e famose: Everest, Nuptse, Lhotse, Ama Dablam, and Thamserku. Un luogo veramente affascinante. La pace più assoluta.

In comune accordo ordiniamo tutti lo stesso piatto per ridurre i tempi di attesa. David propone fried rice e tutti approvano la scelta. Siamo oramai un gruppo affiatato, molto conciliante gli uni con gli altri e di questo ce ne stupiamo ed è un argomento di conversazione. John commenta di come sei persone proveniente da paesi differenti con culture diverse siano state in grado di creare un gruppo affiatato, senza mai esserci stata una discussione di disaccordo. Credo le difficoltà aiutino a superare anche piccole incomprensioni e smussino il carattere delle persone.

Durante l’attesa, colgo l’occasione per verificare se il mio smartphone è sotto copertura e con meraviglia, lo è. Facendo un rapido calcolo è un’ora accettabile in Italia e così chiamo a casa. Erano passati molti giorni. Già prima di partire avevo avvisato G di non stare in pensiero. Già le linee telefoniche non funzionano quando esco con i miei amici del CAI sulle nostre montagne, figurati sulla catena dell’Himalaya. Sentire la sua voce mi riporta subito alla vita reale, sapere che tutto a casa va bene mi è di conforto nell’essere così lontano. G sa benissimo che si può fidare, non sono certo un pazzo scatenato. Un bacio per telefono, con l’impegno che l’avrei richiamata presto, quando sarei arrivato giù a Namche.

Arrivano i nostri piatti e accade un fatto molto curioso. Vedo Douglas che osserva un punto nero sul tavolo e poi allunga una mano verso di esso. Sbaglio oppure è una mosca? Si è proprio una mosca che non si muove neppure quando Douglas le accarezza le ali. Resta li ferma a farsi coccolare. Anche le mosche hanno capito che in una regione di fede buddista non hanno niente da temere. E’ rimasta tutto il tempo sul nostro tavolo vagando da una parte all’altra. Veramente curioso.

Sotto il tepore del sole e nel riposo più assoluto abbiamo pranzato. E’ stato, senza dubbio, il più bel ristoro fatto in tutto il trekking. Il tempo che passa, però, ci costringe a lasciare questo paradiso di pace e riprendiamo la marcia continuando la discesa a valle.

La marcia è sempre più incalzante, spesso ci distanziamo gli uni dagli altri. Anche Ashish non ci richiama più a stare compatti, ormai si fida della nostra capacità. Per un lungo tratto mi ritrovo solo in testa al gruppo. Mi piace camminare in solitudine, tutto intorno a me è silenzio, solo il rumore dei miei passi. Mi accorgo che sto camminando molto veloce, solo in lontananza vedo Douglas dietro di me che m’incalza. Il sentiero inizia a seguire il fianco della montagna, completamente ricoperta di una bassa vegetazione di color rosso mattone. Sulla mia destra uno strapiombo profondissimo, dove in lontananza si vede il fiume confluire in un lago di un blu intenso e poi dall’altra parte del lago, le montagne che si ergono verticali tra le nuvole bianche che accarezzano i loro pendii.

Attraversiamo nuovamente i ponti sospesi, ne ho contati ben sette, tutti sempre sullo stesso fiume, in punti diversi. Ashish aveva predetto un lungo giorno di cammino ma non immaginavo cosi lungo. E’ ormai pomeriggio inoltrato e il sole sta ormai tramontando. Da lì a un’ora circa sarebbe stato buio pesto. Mekh Raj adesso è a capo del mio gruppo, di Jaime e Douglas ho perso le tracce. Quando vedo le prime luci di Namche fatico a seguire Mekh Raj nell’oscurità. Non so in quale lodge avremmo alloggiato e quindi se lo avessi perso sarebbe stato difficile ritrovare il gruppo. Un lungo e tortuoso sentiero lastricato a pietra scende ripido a Namche. Mekh Raj lo percorre come uno stambecco e gli vorrei gridare di aver la compiacenza di aspettarmi. Finalmente arriviamo all’hotel Himalayan Lodge. Purtroppo non è lo stesso di quando ci siamo fermati all’andata. Ashish ci aveva assicurato, comunque, una camera con doccia, questo è importante dato che sono passati svariati giorni di convivenza con uno strato protettivo di sano sporco.

Entro nella sala da pranzo, molto spaziosa e arredata con piacevole gusto. Grandi vetrate danno sulla valle, dove il villaggio si adagia ormai illuminato come un presepe. Mekh Raj esce a cercare gli altri. Dopo poco ritorna con tutti, alcuni abbastanza stanchi anche perché il giorno prima non era certo stata una passeggiata.

Finalmente ci consegnano le chiavi delle nostre stanze. Sono tutte in un corpo esterno le cui porte si affacciano su di un lungo terrazzo di legno. Il lodge è colorato di blu e bianco. La stanza ha un’unica finestra che da sul terrazzo. Dal terrazzo una magnifica vista su Namche. Il proprietario entra in stanza con noi per spiegarci come mettere in funzione il bruciatore a gas per scaldare l’acqua per la doccia. E’ uno strano meccanismo che se attivato mette in moto il bruciatore. Il bagno è stretto e lungo, ormai vecchio e deprimente. Chiedo a Jaime se vuole fare la doccia per primo ma risponde di no. Cosi entro in bagno cercando di chiudere la porta ma è difettosa e così la lascio socchiusa. Armeggio un po’ finché finalmente il meccanismo parte e arriva l’acqua calda. Che immenso piacere! Mai fatta una doccia così agognata, anche se in quell’ambiente così squallido. Non esagero con il consumo della bombola del gas, tutto avrei voluto tranne che Jaime non avesse la possibilità di farsi una bella doccia. Esco e cedo il bagno. Vi entra vestito di tutto punto e cerca di chiudere la porta più volte con una certa insistenza. Gli dico che è inutile perché difettosa, e quindi si rassegna, credo anche con una certa insofferenza. Mi chiedo se mai avesse frequentato palestre dove i maschietti si ritrovano a fare la doccia come mamma li ha fatti.

Esce visibilmente soddisfatto. A un tratto nella stanza accanto udiamo David imprecare con violenza. All’inizio penso che stesse litigando con Ro. Poi la collera di David si fa più violenta con lo sfogo finale di forti botte sulla porta del loro bagno. Solo ascoltando ammutoliti, Jaime capisce che il problema è la mancanza di acqua calda. V’immaginate? Il premio finale del lungo trekking di oggi era proprio una bella doccia. Onestamente considero la sua reazione spropositata. Avrebbero potuto benissimo chiamare il proprietario per risolvere il problema.

Di lì a poco Mimg Ma bussa alla nostra porta per annunciare la cena. Ovviamente fa lo stesso alla porta accanto e David lo accoglie in malo modo come se il problema doccia dipendesse da lui. Jaime ed io interveniamo per cercare di calmare David, cercando di farlo ragionare. Dovevano parlare con il proprietario per risolvere il problema non con Mimg Ma.

Raggiungiamo la sala da pranzo e ognuno ordina il suo piatto. Tutti, comunque, evitiamo piatti a base di carne. Ma, da li a poco, alcuni si pentono quando vedono servire una bistecca ancora calda ad un ragazzo spagnolo al tavolo vicino a noi. E’ la famosa Yak Steak. John allora esclama che avrebbe ordinato lo stesso piatto domani mattina per colazione. David e Ro non sembrano essere arrabbiati, hanno riacquistato il loro sorriso. Dopo cena però spariscono. Rimaniamo noi quattro. Arriva Ashish dicendo che il problema nella stanza di David e Ro è stato risolto e comunque non capiva perché entrambi si fossero lamentati con lui. Poi ci chiede come mai Ro è sempre così scontento, si lamenta di tutto. Cosa avrebbe potuto fare per renderlo felice e poi aggiunge: “Non sarà mica Indu? Perché conosco il modo di fare degli Indu!”. Non ho capito cosa voleva dire e ovviamente non potevamo rispondere per Ro, ma lo rassicuriamo di quanto noi siamo contenti del suo servizio. Ha paura forse del giudizio finale come guida? Quanto per lui è importante ricevere un buon giudizio? E’ giunto il momento di ritiraci nelle nostre camere. Domani avremo continuato il nostro cammino verso Lukla.

Da Namche Bazaar a Phakding 24 Ottobre

Avremmo lasciato Namche solo dopo pranzo, ho tutto il tempo per fare le cose con calma, compresa la colazione. Nella stanza da pranzo ci sono delle cartoline al costo esoso di cento rupie. Chiedo se c’è un ufficio postale in paese e la risposta è affermativa. Propongo a Jaime di accompagnarmi, cogliendo anche lui l’occasione per spedire una cartolina a casa. Iniziamo la ricerca dell’ufficio postale. Non è semplice, persi nei meandri delle piccole stradine del paese. Chiediamo più volte e le indicazioni ci portano a individuare finalmente un piccolo cartello con una freccia indicante di svoltare a sinistra. Una volta arrivati, scopriamo che l’orario di apertura è alle ore 10. Sono solo le 9.30. Alla faccia, commento, voglia di lavorare saltami addosso!

L’ufficio postale non ha niente che richiama alla sua funzione, se non per una vecchia e rugginosa casella postale cilindrica posta all’esterno fissata al muro. Decidiamo di tornarci più tardi. Scendiamo quindi nella parte bassa del paese, dove si apre un grande spiazzo erboso e li questa mattina c’è, a nostra insaputa, il mercato dell’abbigliamento da montagna. Tutta la merce è distesa in terra su di grandi teli di plastica. Tutta roba di marca, ma contraffatta, proveniente dalla vicina Cina, giunta fin li attraversando il Tibet. Solo allora capisco che anche il materiale datoci in dotazione dall’organizzazione era palesemente falso. Ehi svegliati! E così anche il mio sacco a pelo, che doveva ripararmi da temperature -20 gradi, era una bella ciofeca. Ecco perché il gran freddo patito in tenda, una delle cause principali della mia rinuncia a restare un’ulteriore notte al campo base dell’Island Peak. Anche nei negozi di Nanche è difficile capire se l’abbigliamento da montagna è un falso oppure no. Jaime vuole comprare tutto di più, ma alla fine non compra niente. Per ammazzare il tempo ci siamo fatti ancora tutti i negozi di Nanche più volte. Sono in cerca di t-shirt che riportasse sulla schiena la mappa del percorso fatto, ma i modelli trovati non incontrano i miei gusti. In un negozio ho persino trovato un frontale di legno tutto intarsiato a mano raffiguranti due draghi contrapposti. Anche quest’acquisto salta, solo al pensiero di doverlo portare fino a Kathmandu.

Ritorniamo all’ufficio postale. Finalmente è aperto ma dell’impiegato nessuna traccia. C’è dentro ad aspettare un ragazzo con un pacco di posta in mano da spedire. Ci guarda, e prima che noi chiediamo informazioni, ci avverte che l’addetto sarebbe tornato di lì a poco. Scelgo dunque le cartoline da spedire, ho tutto il tempo per compilarle. Dopo più di trenta minuti d’attesa torna l’impiegato bello tranquillo. Compro i francobolli da applicare e gli consegno il tutto. Le prende in mano, le esamina con attenzione, le timbra e le getta dentro una scatola sotto il suo tavolo. Esco sperando che almeno mio padre possa ricevere la sua cartolina.

Mentre torniamo verso la parte bassa del villaggio, udiamo due colpi di arma da fuoco. Ma sono proprio rumori di spari? Di sicuro ci sbagliamo. In realtà un gruppo di soldati ci viene incontro correndo su per il vicolo in salita. Siamo in mezzo ad una caccia all’uomo! Ci facciamo da parte con le spalle lungo le pareti di un’abitazione, facendoli passare. Spariscono alla nostra vista dopo pochi secondi, dirigendosi nella parte alta del villaggio dove partono i sentieri per le montagne. Jaime ed io ci guardiamo allibiti per quello cui avevamo assistito. Certo qui non si fanno molti scrupoli, si spara in mezzo ad un villaggio.

Ritorniamo al lodge per ritrovarci tutti quanti insieme, prendere i nostri zaini e andare a pranzo. Ashish ha scelto per noi la pasticceria e panetteria situata sulla via principale di Namche, vicino all’unica farmacia, che avevo già notato il primo giorno arrivato al villaggio. Entrando, noto subito che l’arredamento è nuovo di pacca, tutto in legno. Ricorda una pasticceria francese anche per il tipo di dolci in vendita. Direi un’attività fuori dal contesto in cui ci troviamo e destinata esclusivamente ai turisti. Scopro, poi, che il proprietario è proprio francese. I prezzi esposti veramente alti anche per me europeo. Ordiniamo una pizza. Ci sono le pizze più stravaganti e, per cascare sempre in piedi, scelgo una margherita. Ovviamente da scordare di avere una pizza con la mozzarella, sostituita con del formaggio. Non facciamo i sofisti! Ashish e gli altri scelgono di pranzare altrove, com’era loro consueto, trovando posti molto più economici.

Ci ritroviamo dopo poco di nuovo tutti insieme e partiamo.

Non ricordavo che fossimo saliti cosi tanto per arrivare a Nanche. Percorriamo questa volta il ripido sentiero in discesa mentre incontriamo gruppi di turisti che arrancano con ansimo, stravolti. Con loro, portatori caricati fino all’inverosimile. Alcuni di essi anziani, con ai piedi solo un paio di ciabatte. Ogni tanto incrociano carovane di yak, gli animali hanno le loro lingue penzolanti dalla fatica e dietro il loro padrone che le incita con suoni gutturali che ricordano i nostri pastori meridionali quando incitano il loro asino.

Il sentiero scende tra bei boschi di alti abeti, lunghissimo fino ad arrivare a non sopportarlo più, da quanto le mie ginocchia sono indolenzite. Arriviamo all’ultimo lungo ponte sospeso prima di raggiungere il villaggio dove ci fermeremo per la notte. Vedo sull’altra sponda una lunga carovana di yak in avvicinamento lento verso il ponte. Accelero il passo per evitare una lunga attesa per il passaggio di tutti questi yak sul ponte. Riesco a pelo nell’intento mentre, ad alcuni di noi, non resta che aspettare il defluire dei bestioni.

Arrivo al villaggio di Phakding con Ming Ma, insieme a me, Ro e Douglas. Ci dirigiamo dritti al lodge scelto da Ashish, il Beer Garden Hotel. Entrati nella stanza da pranzo, troviamo una folla di giovani scalmanati. Capisco che pian piano stiamo tornando alla civiltà. In un angolo un ragazzo naviga su internet. Douglas riconosce un gruppo di suoi compaesani, tutti brilli. “Solo il 95% di noi è come loro” commenta. Andiamo bene. Alcuni turisti inglesi li stavano osservando allibiti per il loro comportamento.

Dopo il consueto tè, usciamo per raggiungere le nostre camere. Rimango colpito dall’ambiente, un albergo degno del suo nome, tutto in legno che ricorda uno chalet di montagna delle Dolomiti. La camera è accogliente e pulita. Tra i due letti la consueta finestra.

Scendiamo per cena. Questa volta John e Jaime non resistono nell’ordinare una bistecca, ovviamente di yak. Per tagliarla hanno dovuto prendere una moto sega da quanto è dura. E bravi furbi! Capisco la voglia di addentare della carne, sono ormai venti giorni che mangiamo vegetariano, ma cadere nel tranello della bistecca di yak è troppo da pirla.

Per dopo cena cosa di meglio che una bella partita di Gim Rummy, ormai sono diventato esperto. Il famoso trio convince Ro e Jaime a giocare. Una veloce spiegazione delle regole e poi inizia il gioco. Come spesso accade ecco il culo dei principianti, Jaime e Ro vincono due giochi a testa. Si sono fatte le nove di sera, decidiamo di andare a dormire. L’indomani saremo arrivati a Lukla, dove tutto è iniziato e tutto avrà fine.

Da Phakding a Lukla 25 Ottobre

Sveglia al mattino presto come di consueto in attesa di Ming Ma, oppure Mekh Raj, bussi alla porta per auguraci il buongiorno con un bel tè caldo. Sistemo nel borsone le poche cose tolte la sera prima cosi che i portatori possano già partire per il loro ultimo sforzo. I piedi di Jaime non stanno per niente bene. I due pollicioni sono diventati scuri e sono preoccupato, brutta storia. Mi raccomando con lui che appena arrivato a casa si rechi subito dal dottore. Scendiamo nella sala da pranzo per la colazione. Ordino un pancake con il miele e un tè nero. Jaime mi sorprende ordinando un tipico porridge nepalese. L’aspetto non è dei più invitanti, assomiglia a un vomiticcio di color marrone servito in una coppa. Anche lui è dubbioso ma dopo il primo sorso, la ingurgita in pochi minuti. Deve essere stato davvero buono ma certo non era invitante.

Terminata la colazione, partiamo alla volta di Lukla. Ci aspettano tre ore di cammino per la maggior parte in salita. Durante il cammino ripercorro i luoghi passati all’andata, quando eravamo pieni di entusiasmo per quello che ci avrebbe aspettato, per l’incognita. Adesso è più un mogio rientro. Scorrono i campi lussureggianti, coltivati con ordine e maestria dalle donne, rimaste sole a casa mentre i loro uomini trasportano merci nelle parti più remote delle montagne. Una curva dopo l’altra fino ad avvistare l’arco di ingresso di Lukla. Mi fermo con Douglas appena all’inizio del villaggio, dove c’è una grande campana votiva a forma cilindrica di color rosso e decorata in oro. Fotografo Douglas seduto su di un muretto. Aveva perduto la macchina fotografica durante il trekking, non sa neppure dove. Quello di perdere tutte le foto è una delle cose che più ti fanno arrabbiare di un viaggio. Abbiamo comunque promesso unanimi di condividere le nostre foto. Anche per me, è l’ultima foto che riesco a scattare, dopo di che la macchina fotografica non ne vuole più sapere. Con sommo dispiacere perché mi aspettavano sicuramente altre foto per documentare questa esperienza, ed anche perché avrei dovuto ricomprarne una nuova, come promesso a Ele. Arrivano anche gli altri e ci dirigiamo allo stesso lodge, dove al nostro arrivo ci fermammo per il pranzo. Osservo un gruppo di donne in mezzo di strada a pulire dei grandi pentoloni, utilizzando la sabbia. Dal risultato, così lucide, sembra proprio un modo efficace. Intanto uno dopo l’altro sfilano i portatori provenienti dall’aeroporto carici all’inverosimile. Se qualcuno di loro dovesse raggiungere Namche, ne hanno di strada e di fatica di fronte.

Entriamo nel lodge e adesso che il trekking è finito Ashish annuncia che tutte le proibizioni alimentari sono annullate, ognuno può bere e mangiare quello che vuole. I miei compagni di viaggio non se lo fanno ripetere due volte e ordinano a loro spese una birra dopo l’altra. Anche Jaime si lascia condizionare e beve una birra. Erano più di dieci anni che non beveva alcol, era diventato astemio. Resto sconcertato dal suo comportamento. Subito il clima diventa allegro. David ne ha bevute più degli altri e da già segni di essere alticcio.

In un momento in cui Ashish e gli altri sono in cucina a tenere relazione con i proprietari, ricordo a tutti loro che ho portato tre buste di carta per la raccolta della mancia, e questo sarebbe stato il momento opportuno per raccogliere i soldi per i portatori e per Ming Ma e Mekh Raj. Avevamo parlato più volte di quest’argomento, John aveva anche fatto dei calcoli cui tutti avevamo deciso di riferirci. Raccolgo i soldi per i portatori, che da lì a poco li avremmo salutati, e chiudo la busta.

Neppure a farlo a posta, Ashish esce dalla cucina annunciando che i tre portatori sarebbero arrivati per salutarci. Infatti, di lì a poco fanno ingresso dalla porta del lodge un po’ impacciati. Ci sembra doveroso fare un discorso di ringraziamento. Come un complotto tutti guardano me e m’invitano a fare il discorso perché capogruppo. I chè? L’unico del gruppo non di madre lingua inglese deve fare un discorso improvvisato in inglese? Cerco di rifiutare, dicendo che John oppure David sarebbero stati più in grado di me. Ma niente da fare. Allora faccio appello al mio bagaglio professionale, e improvviso dicendo principalmente che siamo rimasti tutti molto contenti del loro servizio. I nostri bagagli sono sempre arrivati a destinazione, prima di noi stessi, già depositati nelle camere e sempre integri. Riconosciamo che il loro compito è stato fondamentale, perché noi non saremmo stati in grado di portare tutto il materiale. Il fatto buffo è che Ashish traduceva a sua volta in nepalese. Il discorso ha un gran successo, terminando con un applauso. John si avvicina dicendomi che sono stato bravo e che lui non sarebbe stato in grado di fare meglio. Poi consegno la busta nelle loro mani. Una calorosa stretta di mano, un saluto e poi escono dal lodge. I loro servigi sono terminati. Terminati?! Come faremo a portare i borsoni all’aeroporto?!

Dopo pranzo usciamo fuori per fare due passi lungo l’unica strada di Lukla. Come il classico striscio, gironzolo in compagnia di Jaime da cima a fondo più volte fino a non poterne più. Entriamo in un pub, dove avevamo visto entrare poco prima gli altri quattro. Li troviamo a giocare a biliardo accompagnati da un grande bicchiere di birra.

Ci tratteniamo solo poco tempo e poi di nuovo fuori per strada. Prendiamo la direzione dell’aeroporto con passo lento per continuare a ingannare il tempo. Arriviamo alla rete di recinzione del piazzale di sosta degli aerei. Restiamo in attesa come due bambini per veder arrivare un aereo, senza però essere soddisfatti. C’è invece un’intensa movimentazione di elicotteri. Alla fine la nostra pazienza è premiata e assistiamo al decollo di un aereo da uno dei più pericolosi aeroporti del mondo. Se in fase di atterraggio la pista è in salita, adesso è ovviamente in pendenza terminando nel vuoto nella vallata sottostante. L’aereo si dispone all’inizio della pista, attivando i motori a elica a tutta paletta. Poi parte affrontando la discesa, concludendo la sua corsa nel vuoto, librandosi su verso l’alto. E dire che domani mattina ci saremo noi! Un brivido mi percorre la schiena solo al pensiero.

Inizia a far freddo e quindi decidiamo di rientrare. Chiedo a Jaime come mai Ro manifestava tutta questo rammarico per non essere riuscito a salire in vetta all’Island Peak. Mi racconta, che durante la salita, Ro era rimasto ultimo, aveva più degli altri bisogno di fermarsi per riprendere fiato, perché asmatico. Lo sherpa voleva che il gruppo stesse riunito, ma nello stesso tempo progredisse più velocemente. Ro era sempre più affaticato e quindi lo sherpa decise che non poteva proseguire. Fu quindi abbandonato nel buio a se stesso. Il gruppo cercò di convincere lo sherpa, ma non ci fu niente da fare, tanto più che Flos era ormai stufo di progredire così lentamente. Tornati poi al campo base, Flos manifestò tutta la sua insofferenza per essere stato parte di un gruppo non preparato fisicamente, inesperto di ogni tecnica alpinistica e rivolgendosi allo sherpa gli disse che se mai ci fosse stata un’altra volta, non avrebbe voluto far parte di un gruppo cosi scadente. Ro si scusò con Flos, gli altri rimasero stupiti dal comportamento di Flos. Nonostante le scuse, Flos continuò nei suoi commenti poco rispettosi.

Le ultime ore a Lukla passano tra la noia fino a quando arriva l’ora di cena. Nella piccola sala da pranzo insieme con noi ci sono sei turisti dell’Est Europa, con molta probabilità russi. Noi tutti e gli altri quattro turisti inglesi rimaniamo allibiti dal loro comportamento, così strafottenti, rozzi nei modi di fare, maleducati. Trattano la povera cameriera in malo modo, come se fosse un essere inferiore. Più volte si sono alterati con lei, perché vogliono avere subito quello che hanno ordinato, senza aspettare il tempo necessario di preparazione in cucina. L’atmosfera diventa pesante. Non so cosa ci trattiene tutti quanti a non intervenire. Forse il fatto che avremo scatenato sicuramente un po’ di casino. Le birre bevute dai miei compagni hanno, tra l’altro, potenziato il pericolo di qualche scontro verbale, nell’ipotesi più rosea. David è ormai più che alticcio. Già da come parla e da cosa dice si capisce benissimo che ha superato la sua soglia di tasso alcolico. Vederlo ridotto così mi riempie di tristezza. Mostra a tutti la sua debolezza, la sua solitudine. La mia intransigenza non sopporta tale comportamento, e questa prevale. Anche Jaime mi meraviglia quando, al termine della cena, viene promosso un giro di super alcolici al quale non si sottrae. Non vi dico in che condizioni tornò in camera.

Una volta terminata la cena, servita come di consueto dagli aiuto guida, il gruppo decide di offrire da bere anche a loro. All’inizio sono un po’ reticenti, poi accettano ringraziando, anche perché una birra ha un costo proibitivo per loro. Al suono di una musica nepalese Mekh Raj improvvisa una danza, anche se per pochi minuti, dimostrando come fosse bravo nelle danze tradizionali. E’ la nostra ultima sera in montagna. Da domani il gruppo si sarebbe sciolto. Douglas si alza, esce dalla stanza per poi tornare con in mano la maglietta blu regalata dall’organizzazione e ci invita a firmarla sul retro con un pennarello nero indelebile. Poi a sua volta John prende la sua borraccia in alluminio sulla quale scrive:

October 2011. Gokyo Ri, Cho La, Kala Patthar, E.B.C., Komgman La, Island Peak

Poi ci invita a scrivere una frase ricordo.

Thanks for the memories.’ Douglas

First beer in 11 years and it’s worth it’ . Jaime

To the strongest’ . Scritto da me

If you get me killed I’ll kick your ass!’. David

Namche Bazaar, Cold shower. 23/10/11’. Ro

Mentre John scrive: ‘This water bottle dropped at Island Peak.’

Poi è la volta di Ashish, Ming Ma e Mekh Raj, anch’essi scrivono frasi sull’amicizia. Mi sorprende la decisione di John di lasciare la borraccia esposta in alto su di uno scaffale del lodge, dicendo che, il prossimo che sarebbe passato di qui, avrebbe avuto il compito di controllare se fosse sempre esposta, scattare una foto ed inviarla a tutti. Quasi volesse creare un sottile filo di Arianna.

Giunge il momento di salutare e ringraziare Mimg Ma e Mekh Raj per tutto l’aiuto e il supporto fornito durante il trekking. Nuovamente tocca a me fare il discorso. Li ringrazio per averci condotto a più di 5000m, passo dopo passo, seguendo il percorso migliore, insegnandoci dove mettere i piedi per risparmiare energie preziose per affrontare le dure salite. Poi consegno la busta e a turno abbracciamo e baciamo le guide. Ricordo ancora l’odore acre della loro pelle che portai con me per alcuni giorni.

La conversazione torna sull’argomento dell’ascesa dell’Island Peak. Ro ancora frustrato del suo risultato. Di non essere stato all’altezza di David, una macchina che non si ferma mai, oppure come Jaime, dal cuore come un leone. Lui corregge dicendo come un lupo, come io lo chiamo di soprannome, rifacendomi al suo cognome. Tutti siamo comunque concordi che il giorno scelto dallo sherpa per il climbing non era stato ottimale e che avremo potuto aspettare il giorno successivo, sfruttando la giornata di cuscinetto che avevamo da programma. Forse tutto sarebbe andato diversamente. Senza dubbio lo sherpa voleva portare su il gruppo, comunque fosse andata, per poi tornare a prendere un altro gruppo per non perdere soldi. Ormai è inutile avere rimpianti su quello che è stato.

E’ giunta l’ora di ritiraci nelle nostre camere, per preparare i bagagli per l’indomani mattina. La partenza è prevista con i primi voli del mattino.

Una volta in stanza, inizio a sistemare più roba possibile nella borsa, quando il mio sguardo cade sui miei scarponi. Li osservo attentamente. Da quanti anni li ho? Molti. In pratica da quando iniziai il corso di escursionismo. Ne ho percorsi di chilometri. Adesso sono proprio arrivati alla fine. Sono tentato di abbandonarli quassù, perché mai li dovrei riportare a casa? Né dovrò comprare un paio nuovi. Ma abbandonarli dove? Sarebbe come lasciare un po’ di me. Meglio portarli a casa.

Partenza da Lukla 26 Ottobre

Come di consueto, ci ritroviamo tutti insieme per colazione. Nessuno di noi ha mai fatto colazione da solo durante il trekking. La colazione è un rito, inizia quando tutti siamo presenti. L’alcool è ormai stato smaltito. Una buona dormita aveva rigenerato tutti. Ordiniamo la colazione. C’è chi ordina la pizza. Per me la colazione è dolce, quindi come al solito ordino pane tibetano con marmellata ed un tè nero. Ammetto la mia monotonia.

Raccolti i nostri bagagli, usciamo all’aperto, dove Ming Ma e Mekh Raj ci stanno aspettando. Con una piccola cerimonia imprevista, ci salutano a loro modo mentre a ognuno di noi mettono intorno al collo il Khata di color giallo tenue, la sciarpa buddista di buon augurio. Poi con la promessa di scriverci e forse un giorno di rivedersi, li lasciamo alle nostre spalle. Ming Ma tornerà a fare il portatore, aveva avuto quest’occasione solo perché la persona destinata come aiuto aveva avuto dei problemi, peccato perché è un ragazzo capace, e Mekh Raj sarebbe tornato al suo villaggio a tre giorni di cammino per rivedere la famiglia e la sua fidanzata. A distanza di un anno, non ho saputo più niente di loro.

Percorriamo l’ultimo tratto di strada del villaggio che porta all’aeroporto Tenzing-Hillary. In testa al gruppo Ashish e noi, dietro in fila indiana, così come tutto era iniziato. Con sommo piacere il proprietario del lodge aveva preso in carico i nostri borsoni trasportandoli all’aereo stazione. Lì’ troviamo un addetto ad aspettarci, prendiamo in consegna i bagagli ed entriamo nella hall. Nel solito caos, Ashish cerca la compagnia area, prende i biglietti aerei consegnando a ciascuno il suo. Prendo visione del biglietto e leggo, scritto a penna, un grande due in numeri romani e niente altro. Due, significa, secondo volo del mattino.

Nel frattempo i nostri bagagli sono etichettati e spariscono alla nostra vista. Sono le sette del mattino, il piano è di partire da lì a poco. In realtà è molto difficile sapere quando saremo partiti. Tutto dipende dalla situazione meteorologica. Non resta che aspettare. Uno a uno passiamo il controllo passeggeri. Niente di tecnologico. Sollevata una tenda, trovo un soldato ad aspettarmi che rovista nel mio zaino, controlla il passaporto e mi fa passare, non prima di avermi guardato attentamente negli occhi. Fu una lunga attesa. Douglas e John si mettono a giocare a carte per ingannare il tempo. La sala d’attesa è gremita di turisti. All’improvviso entra un addetto che inizia a urlare il volo in partenza. Osservo Ashish, ma lui impassibile non si muove. Non è il nostro. Passano quasi due ore. Poi finalmente arriva il nostro turno. Insieme con un altro gruppo percorriamo i pochi metri del piazzale di sosta prima di raggiungere l’ingresso dell’aereo. Alcuni addetti stanno sistemando nelle stive i bagagli dei turisti, ma resto perplesso perché non vedo tutti i borsoni di color rosso, che tanto si sono distinti lungo i sentieri di montagna. Forse sono stati già imbarcati. Ci sistemiamo a bordo. La solita cortesia dell’hostess che offre due piccoli batuffoli di cotone per le orecchie. L’aereo è pronto a partire. Si accendono i motori e si dispone per discendere la pista. Inizia la corsa verso il vuoto. Si nota benissimo la pendenza della pista. Per scherzo, emetto un urlo liberatorio, simulando il terrore, mentre John mi scatta una foto. Siamo già alla fine della pista quando l’aereo si lancia nel vuoto. Subito sotto di me la profonda valle ricoperta di verde lussureggiante.

Il volo questa volta non è andato del tutto liscio. Incontriamo banchi di nubi e l’aereo inizia a traballare. Minchia che effetto. Spero solo di atterrare al più presto. Osservo attentamente i due piloti per vedere se traspare dai loro volti qualche preoccupazione ma, da bravi professionisti niente da fare, tutto sembra sotto controllo. Finalmente sorvoliamo le ultime montagne e inizia la grande pianura di Kathmandu. L’atterraggio è dolce e tutti tirano un respiro di sollievo, manifestato da un sorriso. L’aereo si ferma nell’area di sosta unendosi ad altri velivoli della stessa categoria. Arriva il solito bus sgangherato, saliamo e parte a singhiozzi verso il terminal. Una volta nella hall, Ashish ci conduce all’esterno in una zona fuori dall’aeroporto, dove sotto una lunga e stretta copertura metallica c’è una folla di gente accalcata. Di tanto in tanto arrivano autotrasportati i bagagli e degli addetti li scaricano su dei tavoli. Le persone si accalcano per vedere se si tratta dei loro bagagli, stringendo in mano la matrice per ritirare le proprie valige. E’ il caos più’ completo. Sembra di essere a un mercato. Mi chiedo come sia impossibile che qualcuno non prenda un bagaglio che non è suo, oppure addirittura lo rubi, tanto più che è una zona dove chiunque può accedere dall’esterno. Dopo una lunga attesa arrivano i nostri borsoni di color rosso. Sono solo tre però, e il mio non c’è. Douglas, David e John sono stati i tre fortunati. Dovrò aspettare un volo successivo. Infatti, Ashish mi spiega che non è detto che i bagagli seguano i passeggeri del volo, perché l’aereo ha un limite di peso trasportabile.

I tre fortunati caricano i loro bagagli su di un pulmino che stava aspettando il nostro ritorno. Noi restiamo ad aspettare. Ro suggerisce ad Ashish di chiamare Lukla per verificare dove fossero i nostri bagagli, ma lui lo rassicura che sarebbero arrivati con il volo successivo. Tra l’altro non può neppure utilizzare il suo cellulare perché ha una scheda prepagata solo per la regione del Khumbu. Arriva il volo successivo e poi altri due e ancora dei nostri bagagli neppure l’ombra. Già mi sto preoccupando ed anche Ashish si sta agitando.

Cerchiamo di mantenere uno spazio vitale in mezzo alla calca umana, l’attesa diventa sempre più estenuante. A un certo punto il telefono di Ashish squilla. E’ il proprietario del lodge che lo rassicurava della arrivo dei nostri bagagli con il volo della compagnia Tara. Dopo un’ulteriore lunga attesa arrivano solamente le borse di Ro ed Jaime. Il mio bagaglio e quello di Ashish sarebbero rimasti a Lukla perché i voli del giorno sono stati soppressi per cattivo tempo. Acci, che fortuna! Già vedevo il mio materiale contenuto nella borsa abbandonato chissà dove nell’aeroporto di Lukla. Tutta questa perdita di tempo mi fece girare i coglioni. Erano ore preziose per tornare a visitare la città e fare degli acquisti prima di ripartire.

Sconsolato, salgo sul pulmino, e partiamo per l’Hotel Shanker. Sono già mezzogiorno. Ashish ci sarebbe venuto a prendere in albergo alle quattro per andare negli uffici dell’organizzazione per un resoconto del viaggio, su come ci eravamo trovati, se le guide erano state all’altezza, insomma un giudizio finale. Ricordo ad Ashish la promessa: risponde che ci saremmo andati nel pomeriggio.

Ci assegnano la camera 106. Appena entrati, troviamo un salottino e poi una rampa di scale che scende al piano sottostante dove c’è la camera da letto ed il bagno. Finalmente le comodità a cui siamo abituati. Prima di tutto una bella doccia. Quella fatta a Namche era stata un’anteprima. Qui, finalmente, un bagno spazioso ed elegante. Credo sia stata la doccia più lunga mai fatta nella mia vita. Subito dopo una bella rasatura. Dopo alcuni giorni di trekking, la barba aveva raggiunto il mio limite di sopportazione e quindi, in preda al fastidio che mi procurava, avevo cercato di rasarmi utilizzando sapone di Marsiglia e l’acqua gelata del rifugio. Risultato disastroso.

All’improvviso si apre la porta del bagno e piomba Jaime, vedendomi si scusa tanto e richiude la porta. Per fortuna sono in slip. Ma dove credeva che fossi stato se non ero in camera?

Avevo ritirato la borsa lasciata in custodia alla reception dell’hotel con il cambio di vestiti che, prudentemente, avevo lasciato per quando sarei tornato. Prima però di vestirmi vedo una bilancia. Sono proprio curioso di vedere quanto peso. Salgo sopra e la lancetta si ferma a 70 kg, meno 7 kg dalla partenza e già sentivo le parole di G nelle mie orecchie: “Ma quanto sei dimagrito! Lo sapevo che andava a finire così!”.

Avevo fissato con Ashish alle 2 del pomeriggio, per accompagnarmi presso il rivenditore di pietre. Quando entrambi siamo strigliati e puliti, sono già le una e mezza. All’inizio propongo a Jaime di uscire per trovare un posto per mangiare qualcosa, ma appena raggiunta la strada principale al termine di quella privata dell’hotel ci guardiamo intorno e sconsolati decidiamo di tornare indietro e di pranzare in hotel. Rientriamo nella hall mentre l’inserviente apre nuovamente la porta d’ingresso. Oh! Meglio cosi che mettere una porta automatica, sarà un lavoro palloso ma almeno ha un lavoro. Raggiungiamo la sala da pranzo, scendendo una rampa di scale. Tutto è in perfetto ordine. Tovaglie giallo pallido coprono i tavoli tondi. Alle finestre i tendaggi riprendono il colore delle tovaglie. Il ristorante è ormai deserto. Ci sediamo a un tavolo e subito il cameriere arriva porgendoci il menù. Per accelerare i tempi scegliamo entrambi lo stesso piatto, e ormai condizionati da venti giorni di cibo vegetariano, inconsapevolmente, ordiniamo il solito piatto a base di riso, fried rise. Non ne avevamo ormai abbastanza?! Il servizio è celere e la qualità del cibo ottima. Un pranzo molto veloce per rispettare l’appuntamento con Ashish. Quando poi arriviamo a pagare il conto, la sorpresa è totale, appena seicento rupie, quando, per un pranzo analogo, e non alla stessa altezza, avremmo pagato ben il doppio nei lodge sulle nostre montagne. E’ la prima volta che paghiamo di tasca nostra un pranzo a Kathmandu e per lo più in un albergo quattro stelle. Questo mi fa meditare sui prezzi esosi praticati ai turisti lungo tutto il percorso del trekking.

Alle due siamo entrambi nella hall quando dopo poco arriva Ashish vestito in modo formale, quasi irriconoscibile: camicia bianca a maniche lunghe, pantaloni scuri e scarpe in cuoio nere. L’unica stonatura è il colletto della camicia molto consumato da essere sfilacciato. Appena mi vede mi dice: “Alessio, dobbiamo tornare all’aeroporto perché stanno per arrivare i bagagli da Lukla.” E il mio regalo per G?

“Ci andremo domani”. Ma domani è l’ultimo giorno! Speriamo bene.

Jaime decide di accompagnarci. Saliamo su di un taxi che ci stava aspettando all’uscita dell’hotel. E così ripercorriamo la strada per l’aeroporto ormai nota. Nonostante ciò, osservare dal finestrino quello che scorre lungo la strada, è sempre una sorpresa.

Torniamo nel caos della zona ritiro bagagli. Dobbiamo aspettare un’ora perché arrivi solo il mio bagaglio e poi un’altra mezz’ora per quello di Ashish. Mi chiedo, come mai al gruppo di turisti che era sul nostro stesso volo, i loro borsoni di color verde sono arrivati insieme al loro volo, mentre a noi con quattro voli diversi, dopo un’attesa estenuante ed uno spreco di tempo? Una maggiore organizzazione della compagnia? Una mancia data agli addetti? Chissà.

Alle quattro del pomeriggio siamo ancora all’aeroporto, quando in realtà dovevamo essere già in albergo. Usciamo seguendo Ashish che è assalito dai tassisti. Lui tira dritto e ne sceglie uno la cui autovettura è molto piccola, tanto che Jaime ed io ci sediamo dietro con il bagaglio sulle nostre gambe. In pratica, una scatola di sardine.

Arrivati all’hotel nella hall non c’è nessuno dei nostri compagni. Tramite la reception chiamiamo nelle loro camere ma nessuno risponde. Forse sono andati in qualche pub oppure sono già presso gli uffici dell’organizzazione. Ashish lascia il suo bagaglio nella nostra stanza. Noi prendiamo il sacco a pelo e il piumino da restituire al negozio in Thamel. Tornati nella hall, con nostra sorpresa, incontriamo Flos che ci da appuntamento alla cena di saluto organizzata al Rum Doodle per le 18.

Usciamo seguendo Ashish per il percorso che dall’hotel porta a Thamel, facendo attenzione da dove passa, in modo da essere in grado di rifarlo da soli. Noto subito che molte persone hanno al centro della fronte una macchia rossa in rilievo. Chiedo ad Ashish il quale mi spiega che è riso mischiato alla barbabietola rossa. In quei giorni si svolge la festa di Tihar, la festa della luce. Scopro le vie della città decorate con petali di fiori dai mille colori, disegni ornamentali e candele accese. In una piazza un gruppo di ragazzi lavora al completamento di un mosaico floreale circolare molto grande. La loro bravura è impressionante. Rappresenta un grande mandala.

Passiamo dal negozio di abbigliamento da montagna per lasciare il materiale. Avrei voluto reclamare sulla qualità, ma a cosa sarebbe servito.

Raggiungiamo l’ingresso degli uffici oltrepassando la piccola porta e saliamo le scale strette fino al primo piano. Sono già tutti lì ed hanno già terminato la riunione con Nava, fornendo i loro giudizi. Che cosa fosse stato detto non lo so. Ro si avvicina dicendomi che, alla domanda perché mi fossi ritirato dall’esperienza di climbing, aveva risposto perché non mi sentivo protetto da un punto di vista della sicurezza. Che potevo dirgli se non confermare. In realtà non era proprio in questi termini ma va bene così.

Erano anche stati dati dei giudizi negativi sul comportamento dello sherpa con il risultato che era stato richiamato a Kathmandu con la sospensione del rapporto di lavoro. Quanto questo poi corrisponda a verità chi può saperlo. Comunque, Nava sembra sinceramente dispiaciuto e per lui i nostri giudizi sono di fondamentale importanza per migliorare il servizio. Poi arriva il momento di dare un giudizio sul lavoro svolto da Ashish e dai suoi collaboratori. Fortunatamente per lui tutti commenti positivi. Il commento generale è che ci siamo sempre sentiti sicuri sotto la sua guida, il servizio offerto dal team è stato ottimo, il cibo e i lodge utilizzati ad un buon livello. Certo non si può essere pignoli in questi casi. Ashish tira un sospiro di sollievo con un grande sorriso e ringrazia.

Usciamo dagli uffici per dirigersi al Rum Doodle, per la cena di saluto. Siamo tutti ad eccezione di David. Dove è finito? John lo aveva fatto chiamare in camera ma non c’era. David adesso è solo in camera perché Ro aveva cambiato hotel in quanto la sua vacanza non terminava qui, sarebbe andato nella regione sud del Nepal per un rafting di una settimana. Dopo di che sarebbe partito per la Tailandia e poi Australia e non so che altro ancora, insomma sarebbe tornato a casa a fine Dicembre. Mi cazzi! Dopo aver perso il lavoro, aveva deciso di concedersi una lunga pausa. Un modo completamente diverso da come noi avremmo reagito nella stessa situazione. Altro che vacanza! Mentre camminiamo mi fa notare un cartello pubblicitario dell’ingresso di un ristorante chiamato “La dolce vita” ed aggiunge: “Alessio, domani dobbiamo andare a pranzo qui, in tuo onore, così ti sentirai come se tu fossi a casa tua. Sarai stupito, si mangia molto bene”. Faccio un sorriso di approvazione. Confesso non mi piace per niente andare a mangiare nei ristoranti di cucina italiana all’estero perché molto spesso sono deludenti. Come rifiutare a tale invito?

Arriviamo al Rum Doodle. Non ho la minima idea di che cosa rappresenti questo locale. Sono tre piani adibiti a pub e ristorante. Saliamo fino al terrazzo, dove abbiamo il tavolo riservato. L’aria è fresca e piacevole. Siamo fuori dal caos della città. Un ambiente tranquillo, illuminato sapientemente con luci soffuse e candele sui tavoli. Ci disponiamo a tavola cosi disposti:

libero Ro Douglas libero libero

Libero

Ashish John Alessio Jaime libero

Aspettiamo un po’ per vedere se David sarebbe arrivato. Niente. Quindi procediamo con l’ordinazioni. La mia scelta cade su un piatto indiano piccante a base di pollo al curry e riso. Jaime una bistecca di manzo con patatine fritte ed una Coca Cola. Spero che arrivi in bottiglia di vetro cosi l’avrei aggiunta alla collezione. Jaime sa della mia ricerca perché l’avevo già coinvolto tra i negozi di Thamel senza alcun risultato. Cosi si stringe nelle spalle quando arriva perché è una bottiglietta di plastica. Prima di iniziare la cena ringraziamo Ashish. In tutti i giorni passati con lui, è la prima volta che sta con noi a tavola. E’ implicito che la cena sarebbe stata offerta da noi. Il fatto che David non è ancora arrivato, mi dà particolarmente fastidio. Ma come? Sai che abbiamo la cena di saluto, siamo stati insieme per un lungo periodo, e non ti presenti. Queste cose mi fanno proprio arrabbiare.

Durante una momentanea assenza di Ashish colgo l’occasione per collezionare la mancia, più o meno tutti mettono cento dollari. Non male. Poi per cinquanta rupie compriamo un cartello di legno a forma di piede completamente bianco. E’ usanza che al ritorno da esperienze di trekking, oppure alpinistica, scrivere una frase ricordo, apporre le firme e poi trovare un posto all’interno del ristorante dove appenderlo. Quest’attività decidiamo di rimandarla a più tardi quando anche David sarà dei nostri.

Douglas solleva la discussione se Floss è degno di firmare il nostro piede. Sapevamo che sarebbe arrivato per unirsi a noi. Ro immediatamente replica, non solo non voleva che Floss firmasse, ma neppure che facesse parte della foto di gruppo. John, è d’accordo, Floss si è unito solo per il climbing, non si poteva considerare del nostro gruppo. Tutti siamo d’accordo. Non si era certo reso un tipo simpatico.

Mentre parliamo di lui, ecco che spunta il diavolo. Si avvicina al tavolo dicendoci che era al piano di sotto da solo, rimarcato con enfasi, a bere un drink. John, ormai abbastanza alticcio, lo invita a unirsi a noi. Così Floss torna indietro a prendere il suo drink. Panico. Jaime dice a John: “Ma lo sai cosa hai combinato?” scuotendo la testa e Douglas in risposta: “Quando John è su di giri non ragiona più”. Ro è cosi infastidito da questo invito che dice: “Se Floss si siede acconto a me, mi alzo e vado via”. Anche Jaime non avrebbe tollerato Floss a suo fianco e quindi cambia di posto sedendosi accanto a Ro. Poi, non volendo che si sedesse capotavola, sono appoggiate sulla sedia le cose più disparate compreso il nostro piede, ben nascosto. Sopraggiunge Floss con in mano il suo bicchiere di birra e con aria da simpaticone si dirige verso di me per poi aggirare il tavolo e sedersi a fianco di Douglas. Inizia a chiacchierare come il suo solito per essere al centro dell’attenzione mentre Ro inizia a sua volta una conversazione con una coppia canadese di fianco al nostro tavolo, ignorando totalmente Floss. Finalmente arriva l’ordinazione e tutti siamo occupati nel gustarsi il proprio piatto mentre scende un silenzio imbarazzante.

La bistecca di Ashish è lì che lo aspetta e al suo ritorno è ormai fredda. Douglas si offre di ordinarne un’altra ma rifiuta e inizia a mangiarla quando il suo telefono squilla nuovamente. Questa volta è David, vuole raggiungerci e chiede indicazioni. Ashish si alza nuovamente per andargli incontro.

Tornarono insieme dopo circa trenta minuti. David è palesemente ubriaco. In concreto da quanto aveva bevuto, aveva dormito tutto il pomeriggio. Non aveva neppure sentito il telefono né tanto meno John bussare alla sua porta. Ordina un altro drink tanto per non abbassare il suo tasso alcolico.

Sapevo che Jaime sarebbe partito domani e quindi, come da accordi presi con l’organizzazione, sarei dovuto andare a dormire in camera con David. Questo mi creava molto fastidio.

Chiedo a David di partecipare alla colletta per la mancia di Ashish e, di sotto banco, mi allunga cento dollari.

E’ giunto il momento di ringraziare Ashish, per la sua professionalità, per sua grande disponibilità, sempre attento ai nostri bisogni fin dove ovviamente dipendeva da lui. Nuovamente è mio compito fare il discorso di ringraziamento. Poi gli consegno la busta tra gli applausi di tutti.

Arriva il conto e Ashish paga. Non sapevo che anche la cena sarebbe stata offerta dall’organizzazione. Grazie!

E adesso, andiamo a scrivere il nostro piede. Non so come riusciamo ad eludere Floss da questa nostra attività privata. Dopo aver scritto la dedica e apposte le nostre firme, scendiamo al piano sottostante ed entriamo nel ristorante per appendere il nostro piede. Ma dove? Il locale è strapieno di piedi. Appesi alle pareti, appesi al soffitto, attaccati alle colonne portanti, ovunque. Tra essi, piedi di alpinisti famosi che hanno scalato il monte Everest, tra questi Reinhold Messner. Cerca che ti ricerca, abbiamo messo il piede piantato quasi alla base di una colonna portante con l’aiuto di un martello, non prima però di farsi una foto di gruppo con il nostro piede in primo piano.

Felici del risultato della nostra operazione, David invita tutti quanti per una bevuta. Al bancone del pub chiede se a tutti noi andava un bicchiere di whisky. Con mia sorpresa tutti accettano, anche Jaime che si proclama astemio. L’unico che rifiuta con sorriso sono io, non amo i superalcolici, e quindi per essere di compagnia scelgo una Coca Cola. Credo di non aver bevuto una Coca Cola da circa trenta anni, veramente. Non gradisco neppure le bibite, vado solo ad acqua e vino. E’ un mio limite. David paga l’equivalente di venticinque euro, senza battere ciglio, con lo sguardo incredulo di Ashish. Con quella somma una famiglia ci vive un mese. In quel momento vediamo Floss scendere le scale per uscire dal locale. Non ci vede e lo lasciamo andare via senza neppure salutarlo.

Usciamo dal locale per tornare nella confusione di Thamel. I negozi sono ancora aperti e può essere un buon momento per gironzolare e scegliere qualche regalo da portare a casa. C’è chi, però, preferisce tornare in albergo, mentre John rimane con me ed Jaime. Ci saremmo rivisti l’indomani per salutarci prima della partenza. L’unico negozio che riusciamo a visitare è una grande libreria che vende anche souvenir. Noto una mug, la classica tazza da caffè americana. Capperi che fortuna. Non ne avevo viste neppure una e posso così incrementare la mia collezione che tengo in ufficio. Sono arrivato a un numero considerevole, circa cinquanta, acquistate durante i miei viaggi oppure regalate dai miei colleghi, quando sono stati in vacanza in luoghi molto lontani come Australia oppure Polinesia. La predo in mano. Ci sono raffigurate le catene himalayane. Poi la capovolgo e il prezzo è proibitivo per una tazza. L’equivalente di quindici euro. Non la compro e la ripongo nello scaffale. Gironzolo tra libri sulla montagna, biografie di alpinisti. John acquista un poster che se aperto sviluppa tutta la catena montuosa dell’Himalaya con tutte le sue vette più alte. Usciamo ed entro in un market. Compro una bottiglia d’acqua per dieci rupie. E dire che in montagna sono arrivato a pagarla anche trecento rupie, in sostanza tre euro. Ho preferito però sempre acquistare l’acqua e non bere acqua trattata con le pastiglie disinfettanti, evitando così di assumere sostanze chimiche, contrariamente ad i miei compagni, che hanno bevuto acqua trattata ma hanno speso cifre assurde per bibite e birra.

Si sono fatte le undici e quindi decidiamo di ritornare in albergo. Domani sarebbe stato l’ultimo giorno per tutti.

Ashish torna al nostro albergo per ritirare lo zaino ancora depositato nella nostra camera. Entrati in camera, apro la mia borsa e regalo ad Ashish la confezione di parmigiano, riportata dal trekking proprio per lui. Spero che i suoi figli e sua moglie apprezzino il famoso formaggio italiano. Poi ci salutiamo dandoci appuntamento a domani mattina per le ore 11 per accompagnarmi dal rivenditore di pietre.

Kathmandu 27 Ottobre

Ultimo giorno di Jaime. Prima di scendere per la colazione, prepara i bagagli con la sua consueta precisione e calma. Quando entrambi siamo pronti l’orologio segna le 9.30. Volevo essere in Thamel per le ore dieci, orario di apertura dei negozi. Ancora non avevo comprato niente sia per G che per le mie bimbe.

Nella stanza delle colazioni ci sono già John e Douglas, erano appena arrivati. Scegliamo un tavolo per stare tutti insieme. Mentre ordino il tè, preparo pane con marmellata. Jaime ordina omette, salsiccia e fagioli. La colazione è accompagnata da un velo di malinconia. E’ il nostro ultimo giorno e da oggi saremo tornati alla vita di tutti i giorni, alle nostre responsabilità. Abbiamo vissuto questi venti giorni lontani dal mondo e certamente resteranno dentro di noi per sempre.

Di tanto in tanto a turno ci alziamo dal tavolo, per riempire il piatto della colazione che langue. Terminata la colazione, fissiamo un appuntamento a più tardi, per pranzo al ristorante “La dolce vita”.

Usciamo dall’albergo diretti a Thamel, non prima, però, di aver fatto una deviazione per raggiungere dei negozietti, dove Jaime aveva visto in vendita bottiglie in vetro di Coca Cola. Passati piccoli altari sacrificali indu ancora sporchi di sangue, raggiungiamo un gruppo di negozi molto dismessi, e uno ha all’esterno casse di bottigliette di Coca Cola, tutte ricoperte di polvere, lì in mostra sotto il sole, tant’è che il livello interno è diminuito. Compro una bottiglietta per dieci rupie, la più integra. Pago e chiedo di aprirla. Poi appena allontanati dal negozio, svuoto il contenuto in strada. Chi avrebbe mai avuto il coraggio di berlo.

Arrivati a Thamel, cerco negozi per acquisto di oggetti in argento, principalmente braccialetti. Avevo in mente di comprarne due per le bimbe. M’imbatto in un negozio di cose vecchie. Entriamo a curiosare e, tra i mille oggetti esposti nel caos più completo, mi colpisce una piccola coppa con ornamenti cinesi. Chiedo con aria disinteressata il prezzo. La risposta è duemila rupie. Sono seriamente interessato all’acquisto, ma per la regola della contrattazione, mai farlo notare. “Duemila rupie! Troppo caro” esclamo. Continuando a osservare altri oggetti. “Ma signore è un pezzo antico”. Si antico come la mi nonna! “E’ solo una coppa cinese recente e per giunta incrinata”. Lancio uno sguardo di complicità a Jaime che ribatte: “Sì, si vede che è recente”. Aggiungo “Le offro cinquecento rupie”. “No no troppo poco”. Alla risposta mi avvio piano piano verso l’uscita, quando il venditore mi richiama e accetta la mia offerta. “Solo perché è la mia prima vendita e spero che porti fortuna per oggi”. Sembra che siano superstiziosi i commercianti nepalesi. Esco soddisfatto per come la contrattazione è terminata. Non avrò lo stesso successo per gli acquisti successivi.

Usciti dal negozio Jaime, ha necessità di trovare un’internet caffè, così ci separiamo per darci poi appuntamento al ristorante.

Ho ancora un po’ di tempo prima di incontrarmi con Ashish. Così tra i mille negozi scelgo un piccolo negozio, dove in vetrina ha esposti dei bracciali rigidi in argento, tutti lavorati. Questo può essere un regalo apprezzato dalle bimbe. Entro e trovo un vecchio e furbo commerciante seduto sopra un piccolo sgabello di legno, foderato di velluto rosso. Mi accoglie con un grande sorriso mostrando i suoi denti ormai segnati dal tempo, come del resto il suo volto. Mi ricordo ancora i suoi occhi. Chiedo il prezzo e da li inizia una lunga contrattazione, dove lui ne vuole vendere cinque, a un prezzo scontato, io che rifiuto perché non so cosa farmene di cinque braccialetti. Sta di fatto che ne acquisto tre al termine di una vorticosa contrattazione. Uscito dal negozio, e facendo a mente fredda due calcoli, mi accordo di averli pagati poco meno del prezzo iniziale, da quanto mi aveva rimbischerito.

E’ tempo di tornare in albergo dove ho l’appuntamento con Ashish. Arriva puntuale accompagnato da sua figlia, una bimba di circa undici anni con i capelli tagliati cortissimi da sembrare un maschietto. Prediamo un taxi per raggiungere velocemente questa zona di Kathmandu. Ashish prende posto vicino al tassista mentre io e sua figlia saliamo dietro. Peccato che non ricordo più il suo nome.

Il taxi procede lentamente. Entra tra i meandri delle viuzze, facendosi largo a suon di claxon tra la folla. Ben presto non riconosco più dove siamo. Entriamo in un quartiere più moderno, dove non incontro più con lo sguardo alcun turista, ma solo locali. Ci fermiamo davanti ad un edificio. Ashish fa il gesto di pagare il taxi ma lo fermo subito, e pago io. Entriamo nell’edifico dove, sia a pian terreno che al piano superiore, ci sono negozi, i più disparati. Saliamo al primo piano ed entriamo in un piccolo negozio, dove dietro al banco ci sono due commessi, uno ormai in là con l’età, mingherlino con il volto scarno, l’altro giovane, poteva essere il figlio. Espongo la mia richiesta, l’acquisto di un’ametista. E’ una pietra il cui colore potrebbe piacere a G. Il commesso più anziano, e proprietario del negozio, si prende cura della mia richiesta e posa sul banco delle piccole scatole di plastica contenti le pietre insacchettate. Le ametiste disposte sul velluto nero del banco sono molto piccole e di un colore viola pallido. Non mi soddisfano e chiedo di mostrami l’ametista più grande che ha. Mostra una pietra di un bel colore di dimensione accettabile, anche se l’avrei voluta ancora più grande. Chiedo il prezzo. La pietra è pesata sulla bilancia e termina dicendo il prezzo che considero basso e del tutto accentabile. Faccio cenno con la testa che va bene. Mi viene in mente che potrei comprarne un’altra, se questi sono i prezzi, è conveniente. Quindi chiedo una acquamarina. Come nel caso precedente mostra piccole pietre rettangolari di un celeste molto pallido. Rinnovo la richiesta di mostrami la più grande che ha. La pietra che mi mostra ha una dimensione analoga all’ametista. E’ di un bel colore azzurro intenso. Pesa la pietra, dicendomi che questa però ha un costo più elevato. Poi mi dice il prezzo, comunque sempre basso ma per la regola della contrattazione commento che, in effetti, è cara. Decido di acquistarle entrambi. Sono certo le piaceranno. Dopo aver contrattato, le compro. Soddisfatto per l’acquisto, usciamo e ci incamminiamo a piedi. A piedi?! Ma non avevamo preso il taxi prima?!

Comunque seguo Ashish. Tra il caos di Kathmandu, passiamo una miriade di negozietti. In uno di questi Ashish entra dentro con sua figlia. Vedo che è una panetteria, è il negozio di sua moglie. Continuiamo facendoci strada tra la gente. Non c’è voluto molto per raggiungere “La dolce vita”. Sono già mezzogiorno passate. Anche qui saliamo fino al terrazzo, dove con piacevole sorpresa ci sono conche traboccanti di fiori e piante ornamentali. Sono già tutti seduti a un tavolo sotto un grande gazebo. E’ una bellissima giornata di sole, molto piacevole.

Ro mi accoglie con una frase in italiano: “Buongiorno, bello mio”. Sorrido. Sicuramente una frase imparata dalla sua ex ragazza italiana, una studentessa conosciuta all’università in America. Sono stati insieme per qualche tempo, quello necessario per apprendere qualche parola. Ro aveva trascorso anche una vacanza in Italia con sua madre e spesso mi ricordava i piatti della cucina che più gli erano piaciuti. Era giunto alla conclusione che la cucina italiana era la più buona al mondo.

Ci sediamo e subito arriva il cameriere. Dal menù scelgo una pizza margherita con molto scetticismo. Jaime un piatto di gnocchi. Questo è il nostro ultimo pranzo tutti insieme. Il tempo è passato velocemente, anche se la barba di Douglas stava a dimostrare che i giorni non sono stati poi così pochi. Aveva fatto promessa di tornare in Australia senza mai farsi la barba, per farla vedere ai suoi amici.

John è visibilmente felice. Aveva ritrovato i suoi bagagli. Ma come?! Tutti pensavamo che fossero stati rubati. Invece no. Erano stati portati all’ufficio oggetti smarriti. Non mi chiedete come tutto questo sia potuto accadere. Sta di fatto che è stata una bella lezione sull’onestà dubbia dei nepalesi.

Arrivano i piatti. La pizza è bella grande. Devo ammettere che Ro ha ragione. La pizza è veramente buona, meglio di molte mangiate in Italia. Tutti apprezzano la loro scelta. Arriva il conto. John e Jaime non hanno soldi. Al termine di un viaggio all’estero si cerca sempre di avere il minimo indispensabile in valuta locale. Entrambi escono per ritirare dalla cassa continua, appena giù di sotto in strada. Dopo pochi minuti torna Jaime mentre John non lo vediamo tornare. Strano. Ci preoccupiamo. Jaime scende nuovamente ma torna dicendo di non averlo trovato. Decidiamo di scendere al primo piano e pagare il conto. Il cameriere però ci invita a tornare sul terrazzo, forse perché teme una fuga in massa senza pagare il conto. Nel frattempo arriva anche John, giusto in tempo per saldare il conto. Dove fosse stato, non è dato sapere.

Usciamo giù in strada e si dirigono presso un negozio di magliette, dove la mattina avevano lasciato a ricamare le magliette regalate dall’organizzazione. Entro nel negozio dove due sarti lavorano alacremente con le loro vecchie macchine per cucire. Sono già pronte. Servizio molto celere e risultato accettabile.

Usciti dal negozio, è arrivato il momento dei saluti. Una stretta di mano e una buona fortuna per il futuro. Un saluto senza alcun tipo di trasporto, come se ci fossimo rivisti di lì a poco. Avrei rivisto solo David, poiché avrei dovuto dormine in camera con lui.

Ci dividiamo. Con Jaime decidiamo di fare ancora due passi. Per le strade sono iniziati i festeggiamenti. Cortei di camion e pick up strapieni di giovani con musica a tutta randa. Suoni di claxon a ritmo di musica a completamento del casino più completo. Ci soffermiamo a osservare in disparte. Peccato di non aver più la macchina fotografica. Il centro di Thamel è strapieno di una folla ormai in preda al delirio. Riusciamo a mala pena a farci strada.

Arrivano le quattro del pomeriggio quando Jaime mi chiede di tornare in albergo per terminare la preparazione dei bagagli. La mattina avevo chiesto alla reception se potevo restare nella nostra camera, tanto più sarei partito il giorno dopo al mattino presto. Avevano acconsentito. Quando arriviamo in hotel, ci chiedono invece di lasciare la stanza perché sono stati contattati da Naba, il manager dell’organizzazione e, come da accordi, avrei dovuto condividere la camera con David. Il mio tentativo di evitare di passare la notte insieme a David è fallito. Quindi, trasferiamo i bagagli nella stanza 114. Jaime termina di prepararli. C’è tutto il tempo per cenare in hotel prima della sua partenza, ma risponde preferisce cenare sull’aereo.

Scendiamo quindi nella hall. Sono quasi le sette e mezzo e di li a poco sarebbe giunto Ashish per accompagnarlo all’aeroporto. Decido di tenere compagnia a Jaime, sarei andato a cena dopo la sua partenza. Ecco Ashish entrare nella hall. Fuori c’è un van con il motore acceso. Usciamo e subito mi accoglie l’aria fresca della sera. Jaime ci saluta solo facendo cenno con la mano, sale sul van e lascia il parco dell’albergo.

Ashish mi ricorda l’appuntamento per domani mattina presto. Il mio volo è pianificato con partenza ore 12. Poi mi saluta, lasciando l’hotel a piedi.

E adesso che faccio? Ormai sono rimasto solo. Fuggiamo via ogni pensiero di malinconia per un’esperienza ormai giunta al termine. Mi avvio nel buio del parco, verso la strada che porta fuori dalle mura protettive dell’hotel. La guardia mi saluta. Vado nuovamente verso Thamel. Camminare di notte per Kathmandu non è uno scherzo. Non c’è illuminazione. Solo i fari delle auto oppure delle motociclette ti aiutano a non mettere un piede dentro ad una buca. Le persone ti vengono incontro come dei fantasmi. Attraversare poi la strada è un compito arduo. Decido di tornare alla “La dolce vita”. Ritrovo il locale con una certa facilità. Sulla piccola porta d’ingresso mi accoglie, con un sorriso, un inserviente augurandomi buona sera. Salgo gli stretti scalini fino al terrazzo. Un cameriere mi viene incontro e mi accompagna a un tavolo. Solo pochi turisti. Ambiente molto rilassato. Odio mangiare da solo, aumenta il senso di abbandono e malinconia. Anche quando sono in trasferta per lavoro, una cena in solitudine non è il massimo per passare la serata. Dal menu scelgo un semplice piatto di spaghetti al pomodoro.

Durante l’attesa ripenso a questa indimenticabile esperienza, dei giorni passati insieme e delle grandi fatiche sopportate. Rifletto se poi si sia creato affiatamento in questo gruppo di persone provenienti dalle parti più disparate del mondo. Poco, direi. Sarà forse per la barriera della lingua, sarà per le culture diverse. Senza dubbio con alcuni ho trovato più affinità rispetto ad altri. Comunque non c’è mai stata una discussione, uno screzio. Sempre uniti. E questo non è un risultato da poco.

Arrivano i miei spaghetti. Ro ha ragione. Cottura al dente. Ottimi. Li assaporo con gusto, come un grande regalo. La porzione è abbondante e al termine non è necessario che ordini altro. Inutile trattenermi qui, meglio uscire per una passeggiata. Pago il conto, l’equivalente di due euro ed esco.

Thamel si sta svuotando. Dei segni della festa in corso solo gli addobbi floreali, ormai rovinati da un intera giornata di passaggi. I negozi stanno chiudendo e, mestamente, mi avvio verso l’hotel. Mi sento al sicuro solo quando incontro la guardia all’inizio della strada privata che conduce al parco dell’hotel.

Il pensiero di dormire nella stanza di David mi disturba. Non mi facevo così intransigente. Non accettavo un David diverso, debole nella sua solitudine.

Entro in camera. David non c’è. Metto la sveglia sul cellulare per le 6 del mattino. Per raggiungere il letto c’è una rampa di scale di legno. Nel soppalco due letti singoli sono distanziati da un comodino. Mi distendo sul letto ma non riesco ad addormentarmi. Dopo un po’ di tempo arriva anche David. Cerca di fare silenzio il più possibile, ma da come si comporta, capisco che ha bevuto troppo. Lascia la porta del bagno al piano di sotto socchiusa con la luce accesa perché possa essere di aiuto durante la notte nel raggiungere il bagno senza cadere dalle scale. Passo una notte quasi insonne, come se stessi dormendo in una stanza con un estraneo.

Kathmandu 28 Ottobre

Finalmente arriva l’ora di prepararmi. Anzi, ho anticipato per uscire dalla stanza quanto prima. Zaino in spalle e il borsone pieno all’inverosimile, sperando che non superi i 25 kg di peso, limite oltre al quale avrei dovuto pagare una sopratassa. Scendo nella hall. Deserta. Solo la presenza alla reception, cui consegno una copia delle chiavi. Lascio il borsone nella hall e scendo per la colazione. Non solo l’unico, nonostante siano le 6.30 del mattino. Ordino il mio ultimo tè pensando che per un lungo periodo di tempo non ne avrei bevuto più. Ho raggiunto il limite della sopportazione. Consumo la colazione velocemente, non vorrei che Ashish arrivasse ed io non sia pronto. Torno nella hall e mi siedo su di un comodo divano. Di lì a poco arriva Ashish, con il suo solito sorriso. Usciamo e fuori c’è il taxi ad aspettarmi. Ci salutiamo con una stretta di mano, augurandoci ogni bene per il futuro. Poi estrae un khata e lo depone intorno al mio collo. Salgo in macchina salutandolo con un cenno della mano.

Il taxi ripercorre la strada per l’aeroporto. Kathmandu si sta svegliando. Cani randagi che gironzolano tra i rifiuti. I primi negozi che riaprano sono i market, dove non compreresti neppure uno spillo. Poi imbocchiamo il grande viale in salita. Al margine della strada, due persone anziane spingono con fatica un carretto pieno di ferraglie. Il cielo inizia a schiarirsi e quando arrivo all’aeroporto, è già giorno. Appena scendo dal taxi la solita corsa di ragazzi pronti ad aiutarmi per portare i bagagli. Ringrazio con un sorriso ma non ne ho bisogno. Mi reco al check in di Air India. Lascio il bagaglio, tenendo con me lo zaino. Passo anche il controllo passaporti. Finalmente raggiungo la hall di attesa. Mi rendo conto però che non ci sono i tabelloni elettronici con l’elenco dei voli e i relativi orari, e neppure il desk per la consegna della carta d’imbarco. Mi sento perduto. E adesso come funziona qui? In realtà c’è un addetto che smista i passeggeri in base alla destinazione. Mi siedo nell’area da lui indicata. Di tanto in tanto è fatto un annuncio all’altoparlante del volo in partenza e le hostess aprono l’unica porta per far passare i passeggeri. Mi chiedo come fanno a fare un riscontro sul numero di passeggeri da imbarcare sul volo ed i loro nominativi. Apparentemente tutto sembra funzionare dato gli avvisi ripetuti di passeggeri che mancano all’appello. Arriva anche il mio momento. Raggiungiamo l’aereo a piedi. Ma i controlli non sono terminati. Prima di salire la rampa dell’aereo c’è una specie di autobus che precede l’ingresso della rampa dell’aereo. Il passaggio è obbligato. Salgo sull’autobus dove i militari controllano tutti i bagagli a mano. Capperi penso. Ho i regali dentro lo zaino. E se c’è qualcosa che non va? I controlli sono minuziosi. L’attesa estenuante. Il fatto che tutto questo provochi un ritardo alla partenza del volo, non interessa. Ecco il mio turno. Apre lo zaino e trova subito la bottiglietta di vetro della Coca Cola. Che bischero! Mi sono scordato di metterla in valigia. Con fare duro il soldato mi comunica che non è possibile portare la bottiglietta sull’aereo. Cerco di spiegare che è per la collezione delle mie figlie, iniziata quando erano piccole. Niente da fare, sequestrata. Poi continua a rovistare. Non avevo avuto modo di mettere in valigia tutta la biancheria intima sporca. L’ultimo cambio l’avevo chiuso in un sacchetto e messo nello zaino. Arriva anche ad aprire il sacchetto che richiude subito una volta capito di cosa si trattava. Poi desiste dal continuare e mi fa passare.

Prendo posto e mi rilasso. Le porte dell’aereo si chiudono. Le hostess con il loro sari rosso di seta passano in rassegna e salutano con il loro sorriso di manifestata gentilezza. Un ultimo sguardo fuori dal finestrino mentre sorvoliamo Kathamandu.

E’ giunto il tempo di tornare a casa

Una volta a casa

Non potevo terminare questo diario senza dare un aggiornamento sui miei compagni, una volta tornati a casa.

John: solo un po’ di tempo dopo essere tornato a casa, decise di andare dal medico per una visita al dito. La diagnosi fu: tendine rotto. Quindi, è stato sottoposto ad una operazione chirurgica ed oggi il suo dito ha ripreso la normale funzionalità. Ha già in mente un’altra impresa in Nepal per arrivare in cima a un 7000m. Aspetto con fiducia il successo della sua impresa. Inoltre, anche lui dedito alla corsa da ex maratoneta, mi ha promesso che sarebbe venuto a Firenze per la manifestazione “Corri la Vita”. Lo aspetto ancora con fiducia.

Ro: dopo il rafting in Nepal ha passato due settimane in Tailandia, proprio quando c’è stata una grande alluvione, che ha vissuto in prima persona. Nei suoi giri, prima di tornare in USA, è stato in Australia ed è riuscito a incontrare Douglas. Tornato a casa, ha trovato un lavoro. Era l’ora!

David: essendo in pensione ha tutto il tempo libero che desidera. Con il suo mega camper è andato a trovare John. Il suo compagno di viaggio, e amico, è il suo cane.

Douglas: ha ripreso la vita di tutti i giorni. Nei suoi post lo vedo sempre circondato da belle ragazze. Beata gioventù!

Jaime: anche lui è tornato alla vita di tutti i giorni. Ci scriviamo di tanto in tanto condividendo foto delle nostre vacanze. Mi piacerebbe incontrarlo di nuovo un giorno. Spero che venga a passare una vacanza sulle nostre alpi.

Ed io? Continuo a coltivare la mia passione per la montagna. Esco con i miei amici del CAI, quando sono organizzate uscite che considero interessanti da un punto di vista tecnico. Forse m’iscriverò al corso di roccia, ultimo passo per completare la mia conoscenza. Inoltre, ho speso alcuni mesi a scrivere questo diario. Spero sia di aiuto a chi ha in programma un trekking impegnativo e, per gli altri, uno stimolo a viaggiare, per conoscere le meravigliose realtà intorno a noi. Buon viaggio!

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