Andiamo a vedere l’Everest
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Zum zum. Due parole che dettano il ritmo. E’ Pasang, la nostra guida sherpa, un padre di famiglia di 32 anni appena rientrato da un trekking sull’Annapurna. Che sherpa non significa portatore. E’ un’etnia, quindi non tutti gli sherpa portano curvi i carichi in montagna, ma quasi certamente tutti i portatori d’alta quota sono sherpa. Occhiali da sole, capelli corti, faccia scura e uno o due peli lunghi che gli scendono giù dal mento. Scarpe rosse, basse ma buone, pantalone grigio, maglietta con la scritta bianca 8848 e delle linee che disegnano vette di montagne. Ci sei stato in cima? Sì, nel 2008, senza ossigeno. Il tratto più faticoso è stato ai primi campi con una pendenza molto forte. Non parla con enfasi, come se fosse una cosa eccezionale. Ne parla con semplicità, come se fosse andato a fare una gita al lago.
A Lukla incontriamo Namgel, 19 anni, dice, un ragazzino mite con la stessa nostra voglia di vivere di quella età. Cappellino blu, felpa blu con un 7 bianco disegnato sulla schiena. Jeans e scarpe grigie basse ma valide. Sarà lui a prendere sulle spalle una trentina di chili, cioè il mio carico e quello di Mauro, il mio compagno di viaggio, collega e stessa passione per la montagna.
Il volo che da Kathmandu (1400mt) ci porta a Lukla (2800mt) è della compagnia Goma Air, una delle 5-6 che ogni giorno porta in mezzora avanti e indietro soprattutto carovane di turisti, viaggiatori, alpinisti e lavoratori.
L’aeroporto di Lukla è famoso per essere uno dei più pericolosi al mondo, si tratta di una breve striscia di asfalto in salita che termina con un muro finale e sulla destra il parcheggio, ma devo dire che non è stato così avventuroso o pauroso come mi ero immaginato…
Da Lukla parte il nostro trekking, per dodici giorni ci addentreremo nelle valli fino al punto più alto e vicino all’Everest: il Kala Pattar
Appena ritirati i bagagli ci muoviamo subito e in paese ci fermiamo al primo dei numerosi tea-shop dove Namgel prepara i nostri zaini legandoli con le sue corde e Pasang ci porta due black tea.
Inizia quindi il nostro trekking, che ci porterà da lì a una settimana sul punto più lontano e più alto dell’intero percorso: il Kala Pattar, 5545mt, che significa in nepalese Pietra Nera, ed è il balcone sull’Everest.
Questo il programma:
28/10 Milano – Kathmandu con Etihad Airlines
29/10 Lukla 2840mt – Phakding 2610mt (9km, +125mt, -355mt)
30/10 Phakding – Namche Bazar 3440mt (12km, +880mt, -50mt)
31/10 Namche Bazar – Khumjung 3780mt + Kunde (6.5km, +440mt, -100mt)
01/11 Khumjung – Pangboche 3860mt (11km, +710mt, -630mt)
02/11 Pangboche – Dingboche 4410mt (6,5km, +600mt, -50mt)
03/11 Dingboche – Lobuche 4930mt (8mt, +560mt, -40mt)
04/11 Lobuche – Kala Pattar – Dzongla 4830mt (18.8km, +1070mt, -1170mt)
05/11 Dzongla – Cho La Pass – Dragnag 4700mt (8.5km, +770mt, -900mt)
06/11 Dragnag – Gokyo Ri – Gokyo 4790mt (7.5km, +780mt, -690mt)
07/11 Gokyo – Dhole 4090mt (12km, +150mt, -850mt)
08/11 Dhole – Namche Bazar 3440mt (12km, +320mt, -970mt)
09/11 Namche Bazar – Lukla 2840mt (21km, +405, -1005mt)
10/11 Lukla – Kathmandu
11/11 Kathmandu
12/11 Kathmandu – Milano con Etihad Airlines
1° giorno: Lukla – Phakding
Passato il primo controllo del visto (ci pensa Pasang) poco prima di uscire da Lukla cominciamo a scendere un po’ di quota, l’aria è perfetta, nè caldo nè freddo, Namgel con i nostri chili sulle spalle si muove col suo passo.
Incrociamo tanti trekkers e portatori, la nostra curiosità è soprattutto su questi piccoli lavoratori che con grandissima fatica portano nei villaggi riso, patate, acqua, coca-cola, pasta, carne per un euro ogni dieci chili. Portano bombole, pareti di legno, chiodi, lamiere, tubi, carta igienica. Tutto in spalla, caricato dentro dei grossi cesti di vimini, gerle, di forma trapezoidale con la base minore in basso, la merce viene caricata fin ben oltre il culmine ma sempre in perfetto equilibrio. Quasi tutti fanno uso di una fascia: i due estremi sono legati ciascuno ai lati del cesto, la parte centrale larga circa dieci centimetri aderisce alla fronte, quindi trasportano il peso non solo con la forza delle gambe, della schiena, delle spalle, ma anche con i muscoli del collo e la testa. Il peso è distribuito su tutto il corpo, dalla testa ai piedi. Mi vien da pensare al loro scheletro, alla loro colonna vertebrale che immagino quasi un unico elemento, elastico, le vertebre schiacciate fra di loro. Molti sono solitari nella fatica, altri, soprattutto giovanissimi li vedi in gruppo, magari fermi ai riposi lungo il tracciato, sorridendo fra loro con il sudore che cala dal viso, c’è chi è anche, ovviamente, sovrastato dalla fatica, li colgo in smorfie di spossatezza. Altri ancora con il carico addosso si sfidano in piccoli scatti, a chi arriva prima in cima, per giocare e prendersi in giro si spostano il carico per sbilanciarsi a vicenda. E non gli manca a molti di loro lo smartphone, si chiamano per segnalarsi nei posti, forse chiamano la mamma, la fidanzata o il proprio capo.
Prima sosta e primo impatto con il cibo in un piccolo lodge di Chheplung, a metà strada.
Verifichiamo con la guida Pasang il tragitto che faremo in questi giorni, lui aveva ancora in mano il primo itinerario che ci aveva proposto Nima dell’agenzia, e che prevedeva il giro dei Tre Passi. Itinerario che però avevamo bocciato perchè troppo lungo per i giorni a disposizione. Quando gli dico che invece vogliamo fare quello più breve con solo il uno dei tre passi (il Cho La Pass) lo sguardo del nostro portatore Namgel si fa molto più sollevato! Pasang è d’accordissimo.
Arriviamo a Phakding verso le due del pomeriggio, secondo il programma ci saremmo potuti spingere fino a Mojo per accorciare il percorso del giorno dopo, come tempi ci saremmo stati dentro. Ma Pasang dice che oggi dormiamo la. Agli ordini. Alla fine per noi va bene lo stesso, e il piccolo paese ci piace. Ci sono alcuni bar con forte musica che esce dalle finestre aperte, lunga la strada i negozi mostrano il colorato vestiario da montagna, ovviamente contraffatto, piccoli tea-shop, galline e pulcini nella polvere, un cavallo, una o due mucche che vagano, donne che lavorano la farina, scene di vita quotidiana, bambini che si rincorrono e si arrampicano sulle rocce, vestiti stesi, piumoni ad asciugare sui muretti a secco, escrementi in essiccazione per carburare le stufe delle case e dei lodge. In fondo al paese anche un bel campo quasi piano, trasformato in un campo da calcio senza confini, un pallone e dei bambini che lo usano in una sfida tutti contro tutti, azioni infinite, rincorse, dribbling e mai nessun tiro in porta, perchè nel loro gioco il fine ultimo non è il gol, ma tenere il più possibile la palla.
Torniamo anche noi al nostro obiettivo del pomeriggio, cioè il bar di Bob Marley, per la nostra prima “sherpa beer”, in lattina da mezzo litro, dolce e saporita è la migliore del Nepal, molto meglio della semplice Everest. Sulle note di One Love e Redemption Song inanelliamo una serie di imbarazzanti partite a biliardo cercando, con stecche storte più delle nostre mani, di buttare a fatica le palle in buca mentre rotolano in un tappeto verde scolorito e incrinato.
A che ora volete cenare? Alle 18 o alle 19? Azz… Va bene alle 19 per noi. Il caro Pasang ci farà tutte le sere questa domanda, dopo qualche giorno capiremo che è una domanda spesso inutile, fatta per cortesia, ma ci ritroveremo di norma a cenare quando è pronto. Il che significa che se ti sedevi alle 18 per leggere un libro in attesa della cena delle 19, ti arrivava il tuo dal-bat dopo poche righe e quindi, va beh che ci vuoi fare.
La prima notte succedono due cose.
Innanzitutto arriva il mal di testa, mi coglie dopo cena e non se ne va, in camera, a letto, cominci a pensare alla faccenda della quota, prime domande silenziose nel buio, decido di prendere una pastiglia di “Moment” (ibuprofene), mezzora e mi addormento.
Poi il freddo, e cominci a benedire il momento in cui hai deciso di mettere il sacco a pelo nello zaino, accettando il consiglio di Mauro. Ero indeciso, convinto che bastasse il semplice sacco lenzuolo e la coperta del lodge. Questo perchè facevo il paragone con i rifugi alpini, dove si dorme sempre al caldo fino a oltre i tremila metri. Il confronto però non regge. I lodge del Khumbu non sono paragonabili in nulla con i rifugi alpini.
Parlo ovviamente di quelli dove siamo stati noi, strutture buone e sicuramente nella media, tutti dignitosi e puliti. Ma fondamentalmente freddi. Tutti. E non è assolutamente una critica, ma una oggettiva quanto banale constatazione. L’unico mezzo di riscaldamento è la stufa che sta al centro della sala da pranzo. In questo ambiente si fa colazione, si legge un libro, si chiacchiera, si naviga su internet, si pranza, si cena e la sera molto spesso funge da dormitorio per gli sherpa che accompagnano i turisti, quando i posti nelle camere sono terminati. La stufa viene accesa mediamente dalle 18 alle 21, in pratica da quando fa buio fino alla ritirata in camera. Questa è anche la fascia oraria in cui vengono tenute accese le luci. L’energia elettrica, il combustibile, anche se si tratta di escrementi di yak, sono molto preziosi e vanno preservati. Tutti gli altri ambienti, bagni e soprattutto le camere, sono alla mercè degli eventi. Le pareti sono un misto di pietra, legno e lamiera, quindi capita che a mezzogiorno la camera è caldissima, fantastica, illusoria. La sera si trasforma, diventa quasi una cella frigorifera, gli spifferi sono la regola, mentre le finestre, frequentemente fatte da un semplice e finissimo vetro a volte mal piazzato, la mattina si trasformano in un deposito di acqua condensata che può ghiacciare. Come capitò una notte, a una innocente bottiglietta d’acqua ai piedi del mio letto.
2° giorno: Phakding – Namche Bazar
Ci svegliamo alle sette, orario quasi sempre costante, la colazione è molto semplice, un bicchiere di black tea bello caldo, un pezzo di pane tostato con uovo sbattuto, oppure miele o marmellata.
Il trekking che ci aspetta è lungo e tosto, si parla di almeno sei/sette ore, ma ci sentiamo bene e ci metteremo meno di cinque ore.
Da Phakding si comincia subito a salire, ci si incammina dentro i boschi, attraversiamo un paio di volte il fiume con i famosi ponti di ferro e bandierine. Nei ponti c’è posto per camminare in fila indiana contemporaneamente in entrambi i sensi, ma quando passano le carovane di yak o altri animali, oppure i portatori carichi, hanno sempre la precedenza e si attende il transito ad un capo del ponte.
Superato Monjo il percorso si fa molto ripido e faremo la nostra prima grossa fatica, ma vediamo anche la prima vetta innevata, quindi oltre i seimila metri. Si tratta del Kusum Kanguru (6367mt).
Namche Bazar è una perla nella valle, un piccolo centro in un grande anfiteatro, pullula di vita, all’ingresso ci sono madri e mogli che lavano i panni sul fiume, risaliamo il paesino verso il nostro Sakura Lodge, attraverso piccole vie di scalini e incroci e negozi vari. Sulla sinistra, all’ingresso del paese il North Face che insieme a un altro negozio poco più sopra credo siano gli unici che non vendano merce contraffatta.
L’incrocio al centro del paese è il punto di riferimento, ai due lati ci sono i due pub più importanti, ognuno con il suo immancabile biliardo. Si susseguono uno dopo l’altro rivenditori di magliette, piumini, pantaloni, zaini, guanti, cappelli, oggettistica, bandierine, coltelli. E’ una meraviglia di colori all’aperto, con le montagne innevate e il cielo azzurro a fare da tetto.
Il nostro lodge ha una vista fantastica sul paese e sul fondo valle, di fronte svetta il Kongde Ri (6187mt).
Ma e’ soprattutto la vetta del Thamserku ad affascinare, un colosso di 6608mt con una vetta piatta e squadrata che ricorda il nostro Pizzo Badile.
La sera la padrona del lodge ci consente un dopocena con birra al pub e una partita a biliardo, ma al max entro le 22 altrimenti troveremo la porta chiusa…
3° giorno: Namche Bazar – Khumjung
Giorno di acclimatamento, saliamo di quota solo 300 metri e andiamo a Khumjung, il più grande della valle del Kumbu.
E’ il giorno della prima grande emozione, quando circa mezzora dopo Namche Bazar scolliniamo e si apre tutta la valle del khumbu, davanti a noi ecco l’Everest (8848mt), la montagna più alta del mondo. E’ molto lontano ma l’immagine è netta, il triangolo nero sommitale è evidentissimo, si staglia al centro tra il Nuptse (7861mt) e il Lhotse (8501mt). Sulla destra la magnifica Ama Dablam, una montagna dalla forma incredibile, simile al Cervino ma più maestosa con i suoi 6812mt.
Rimaniamo mezzora fermi sdraiati su un piccolo colle ad ammirare questo paesaggio, il famoso fascino dell’Everest lo percepisci in questo momento, nell’attimo in cui lo vedi, anche se ancora lontano.
Khumjung è una distesa di case con il tetto verde turchese, famoso per la scuola fondata da Sir Edmund Hillary.
E’ completamente diverso da Namche Bazar, anche se vicinissimo, non solo per la dislocazione ma anche per la vita. Qua è molto meno turistica, ci sono molti meno negozi e pochissimi locali. C’è silenzio, pace.
Il pomeriggio, camminando verso la vicina Kunde (3840mt), passiamo sotto l’enorme piramide rocciosa che domina l’altipiano: si tratta del Khumbila (5761mt) una montagna sacra che gli sherpa adorano e pare non hanno mai scalato per rispetto. Fa impressione vederla da sotto.
Khumjung, per me è anche il paese dove Floriano Castelnuovo ha aperto da qualche anno un lodge con la moglie sherpa Doma, il Paradise Inn.
Ho conosciuto Floriano a Lecco, a casa sua, dove mi ospitò a giugno per parlare del trekking che avevo in mente nella regione che lui conosce benissimo. Mi ha fornito tanti dettagli, consigli e soprattutto mi ha segnalato l’agenzia Tip Top gestita da Nima Sherpa e sua moglie.
Al Panorama Inn per un solo giorno non siamo riusciti ad incontrarci, lui aveva dovuto anticipare il rientro a Kathmandu esattamente il giorno prima, per sbrigare faccende amministrative in vista dell’arrivo di suoi clienti italiani i giorni successivi. Riusciremo a vederci nella capitale il giorno prima del nostro rientro a Milano.
Ci ospita quindi la moglie Doma, gentilissima e amante del suo paese: lasceresti Khumjung per andare in Italia con Floriano? No dice lei. E’ inutile le radici sono fortissime. Questi posti per noi comuni occidentali sono ostili, fa troppo freddo e non parliamo di inverno… Però lei è nata e cresciuto qua e nonostante gli agi e il benessere che avrebbe vivendo a Lecco (ad esempio) non rinuncerebbe mai al suo altipiano, alle sue montagne.
L’ultima immagine di Doma è quella di lei accanto alla stufa che recita le preghiere prima di andare a letto.
4°giorno: Khumjung – Pangboche
Questa è una giornata faticosa, nonostante i due paesi siano quasi alla stessa quota purtroppo il sentiero ci porta giù in valle fino al fiume per poi risalire dal punto più basso sito a circa 3200mt per poi risalire nuovamente in una lunga estenuante salita. E’ qua che comincia per la prima volta a farsi sentire la quota, si sale lentamente e con più pause del solito. Fa caldo e si cammina tranquillamente a maniche corte.
A Tengboche il panorama è di nuovo stupendo, rivediamo l’Everest, e ce lo gustiamo al tavolo di un tea-shop sorseggiando la solita tazza di black tea. Qua vediamo uno dei portatori più forti, non tanto per l’ingombro del “bagaglio” ma per il peso. Poggia il cesto e comincia ad estrarre dei cartoni di bottiglie di acqua naturale da un litro. Conteremo 10 cartoni per un totale di sessanta bottiglie. Sessanta chili sulle spalle, consegnate al lodge dove noi stavamo sorseggiando il nostro tea, dove invece noi siamo arrivati stremati con i nostri miseri cinque chili sulle spalle…
L’Ama Dablam da qua è spettacolare, è una montagna che non ci abbandonerà quasi mai durante il nostro percorso. La parte che vediamo di fronte è la parete Sud, una parete incredibile e all’apparenza impossibile da scalare. Chiediamo a Pasang: il versante per gli alpinisti non è questo vero? Invece sì, dice lui, è la parete meno difficile, e noi a bocca aperta, ma capiremo bene la maestosità solo il giorno dopo.
Insomma che si mangia da queste parti? Il menù è sempre su carta, include tutti i pasti compresa la colazione. I piatti son generalmente sempre gli stessi, colazione a base di uova, formaggio, miele o marmellata. A pranzo e cena il piatto che va per la maggiore è il tipico Dal Bhat, che consiste di base in una zuppa di legumi, e un piatto di riso bianco con a fianco verdure cotte o patate. Ci sono i noodles, i MoMo (praticamente dei ravioli ripieni di patate o formaggio, fritti o bolliti). Le patate fritte sono buone, ma guai a metterci su il formaggio… Dessert mai preso. I costi vanno dalle 300 rupie alle 700 rupie. La carne poteva costare anche di più ma non l’abbiamo mai mangiata, su consiglio dello stesso Pasang, difficilmente infatti la carne, essendo trasportata a spalle, arriva in buone condizioni. Da Namche in su abbiamo preso sempre bevuto solo acqua, in abbondanza, un paio di litri al giorno. L’alcool come noto è sconsigliato, aihme, a quote elevate. Nella nostra formula con l’agenzia avevamo tutto incluso tranne le bevande. L’acqua costava dalle 100 rupie di Phakding fino alle 300-400 dei paesi alti.
A Pangboche trovo il tempo per lavare qualcosa, ma anche per una bella escursione pomeridiana al monastero da cui si ammira la meraviglia dell’Ama Dablam.
5° giorno: Pangboche – Dingboche
Oggi saliremo ancora di quota sfondando la quota di quattromila. Durante il percorso vedremo per la prima volta anche la testa del bellissimo Pumori (7161mt), e apprezzeremo ancor di più l’Ama Dablam. Dingboche giace ai piedi di questa montagna che ha ora cambiato forma e sembra quasi irriconoscibile. E’ diventata un’enorme piramide nera, con pareti strapiombanti. Il pomeriggio lo dedichiamo a un’escursione sulla collina sopra il paese da dove ci affacciamo sulla valle che ci condurrà a Lobuche prima e al Kala Pattar poi.
Una delle cose incredibili di questi piccoli villaggi e che possiamo usufruire dell’accesso ad Internet. Fino a Khumjung il tutto funzionava con un collegamento wifi del lodge. Da Pangboche in poi tramite carte prepagate a consumo. Di norma il costo si attesta tra le 300 e le 500 rupie. Costa anche ricaricare fotocamera o smartphone, sempre intorno alle 300/500 rupie. Una delle cose che possono tornare utili, a questo proposito, sono le power-bank, praticamente dei piccoli pannelli solari che vedevo su alcuni trekkers, attaccati dietro lo zaino mentre camminavano. Non so bene quanto carica possono garantire, ma sicuramente se di buona qualità potrebbero garantire una buona indipendenza energetica per il trekking.
Altro argomento interessante è la doccia… e il lavarsi in generale. Naturalmente l’acqua calda è a pagamento, capita di trovare cartelli “hot shower” nei lodge. Provata una volta a Namche, poi mai più, perchè l’acqua non è mai caldissima (arrivava a 30 gradi) e non essendo il bagno riscaldato, l’effetto non era proprio di una doccia calda… Alcune hot-shower erano addirittura all’esterno, quattro pareti di legno o alluminio, poco invitanti insomma… Ci si arrangiava così con il classico lavaggio a pezzi, con acqua fredda, anche molto fredda. D’altronde sei in montagna, e tutti sono nella stessa situazione.
La ritirata dopo cena, avviene sempre nello stesso modo. Entro nel sacco a pelo vestito, pantalone, pile, copricollo, cappello, chiudo il sacco, tiro su la coperta, e resto immobile per cinque-dieci minuti, in attesa di star bene e riscaldarmi. Raggiunta la quiete, se è il caso, mi tolgo qualche indumento. Quasi mai il cappello.
Sono ormai abituato a questo rito.
E’ la notte quindi lo spauracchio, sia per il freddo che per la durata. Il freddo è anche relativo, perchè una volta che passi quei brutti 5-10 minuti, dentro al sacco e poi con la coperta sopra ci si riscalda. Ma il problema è che devi star dentro dalle nove di sera fino alle sette di mattina, una media di dieci ore dentro il sacco e tutte queste ore, per diverse ragioni, non dormi mai in continuazione. E’ un continuo dormiveglia, svegliarsi che ti sembra di aver dormito un sacco ed è appena mezzanotte. Sono ore di pensieri, come qui a Dingboche. Dopo la prima notte non mi era più tornato il mal di testa, nessun sintomo di mal di montagna. Stavo bene. Ma qui mi torna di nuovo il mal di testa. E allora pensi a tutto, pensi che ormai sei quasi arrivato al tuo obiettivo, che sei a 4400mt, e ti viene di nuovo mal di testa magari stavolta è quello che non ti molla, quello del mal di montagna. E senti anche qualche dolorino alla pancia, e ti chiedi cos’è. I dubbi ti assalgono, di notte, non hai sonno, non riesci a dormire per la quota e per i pensieri. Insomma ci sei quasi e forse non ce la farai. Ti dovrai fermare, tornare indietro. Peccato perchè di gamba e fiato stavo bene. Prendo ancora una pastiglia di “Moment” e cerco di scacciare i pensieri .
6°giorno: Dingboche – Lobuche
Notte passata e mal di testa sparito per fortuna, mi sento di nuovo bene, giornata per l’ennesima volta fantastica e ci incamminiamo verso Lobuche che si trova 500mt più in alto. Il paesaggio rispetto al giorno prima è cambiato ormai completamente, son spariti gli alberi, restano solo piccoli arbusti, davanti a noi solo colline brulle, distese infinite e montagne enormi. L’altipiano che attraversiamo ci impegna per un’oretta tranquilla, di fronte a noi il Taboche (6542mt) e il Cholatse (6440mt), sotto di noi c’è il piccolo abitato di Periche (4280mt) che è, nel trekking verso l’Everest, un’alternativa a Dingboche. Noi abbiamo scelto quest’ultima perchè si trova ad una quota poco più alta ma in una posizione generalmente più coperta dal vento.
Dughla (4625mt) è il crocevia, punto di riposo e di black tea, prima dello strappo finale. Si trova alla fine della lingua dell’enorme morena glaciale del Khumbu che scende dall’Everest.
Sulla via ci fermiamo su una spianata con vari memoriali dedicati ad alpinisti e sherpa che sono morti cercando di scalare le montagne intorno. Tra questi c’è quello dedicato a Scott Fischer, la guida americana morta nel 1996 nell’ambito di una spedizione commerciale da lui guidata per il raggiungimento della vetta dell’Everest. La tragedià di quei giorni di maggio vide la morte di 9 persone, e fu poi raccontata da John Krakauer in “Aria Sottile” e successivamente da Anatolij Boukreev in “Everest 1996 cronaca di un salvataggio impossibile”.
La camminata finale è lenta, a ridosso della morena, di fronte a noi il Pumori. Arriviamo a Lobuche per pranzo, il piccolo paesino sorge a ridosso del ghiacciaio che scende dall’omonima montagna (Lobuche Peak 6145mt). Il pomeriggio facciamo una lunga escursione sulla cresta della morena glaciale da dove ammiriamo l’enorme Nuptse sulla destra e in fondo, alla base del Pumori, il nostro obiettivo: il Kala Pattar!
Proseguiamo lungo la morena, poi scendiamo e andiamo alla Piramide Italiana CNR, la famosa struttura di ricerche scientifiche.
7°giorno: Lobuche – Kala Pattar – Dzonghla
E’ il giorno decisivo, quello che ci porterà al nostro obiettivo.
Sarà una lunga giornata, partiamo alle 4.30 dal nostro lodge, con una sola tazza di tea. Faremo infatti sosta e colazione a Gorak Shep (5140mt). Questo è l’ultimo avamposto prima del campo base dell’Everest che da lì si raggiunge in due ore e mezza di cammino. Il dilemma per chi viene fino a questo punto è noto. Base camp, Kala Pattar o entrambi? Noi abbiamo scelto per il Kala Pattar e basta, per una questione di tempi. Avendo un giorno a disposizione in più avremmo probabilmente optato per andare anche là, d’altronde è un punto storico. Fare solo il BC comportava non vedere l’Everest. Troppo a ridosso e coperto. Dal KP invece la vista è unica, impagabile e in più vedi il BC e l’icefall, nella parte iniziale. Tra l’altro in questo periodo (autunno-inverno) non ci sono spedizioni quindi il campo è completamente deserto.
Peraltro non abbiamo solo rinunciato al BC, ma a tantissime altre cose altrettanto belle, ma con appena dodici giorni a disposizione, considerando uno o due giorni di cuscinetto per il rischio maltempo a Lukla, non si può pretendere molto.
La salita da Gorak Shep taglia il fiato, è una continua ricerca di ossigeno, passi brevi, testa bassa, pause. Non troppe sennò non si arriva più su. A volte sono necessarie, soprattutto per girarci dietro e vedere i colossi delle montagne. Il volto del Nuptse comincia ad assumere la forma semiperfetta di un triangolo ghiacciato, il sole è ancora dietro di lui. Poi spunta la testa nera dell’Everest, enorme. Davanti a noi, salendo, la perfezione del Pumori.
Queste sono le montagne definitive, il sogno di ogni trekker.
Guadagniamo la vetta del Kala Pattar alle 8.30 del mattino, circa quattro ore dopo aver lasciato il nostro lodge di Lobuche (colazione a Gorak inclusa). Il sole è spuntato, accecante, ma scalda il sorriso. Non ricordo quanto siamo stati lassù, ma non avevamo voglia di andarcene. Colle Sud, Cima Sud, Hillary Step. Tutto chiaro. Davanti.
Pasang mi vede con la bandiera della Sardegna, mi legge nel pensiero e la lega alle altre bandierine.
Zum zum. Via, è ora di andare.
Lobuche, pranzo e alle due del pomeriggio, Pasang ci dice che se ce la sentiamo possiamo proseguire il cammino. Un paio d’ore e saremo a Dzonghla. Accettiamo, ma sarà la giornata più pesante.
Passiamo davanti ad uno dei posti più belli dell’intero trekking, le pareti nord del Tobuche e soprattutto del Cholatse. Questa montagna si innalza per oltre duemila metri sopra di noi, sopra un lago glaciale, una parete unica, verticale, incredibile, rivoli di ghiaccio scendono dall’alto, la cima a punta. Una piramide nera. Il Cholatse.
Dzonghla praticamente la vivremo solo come dormitorio. Arriviamo tardi e stremati, un posto freddissimo. Credo di aver mangiato col piumino addosso…
8°giorno: Dzonghla – Cho La Pass – Dragnag
Comincia un altro giorno abbastanza pesante, la prima parte leggera in piano, per circa venti minuti, poi cominciamo una lunga e faticosa salita lungo la parete di fronte a noi, verso il Cho La Pass (5420mt).
Alcuni tratti in questo pezzo sono sopra delle rocce, dobbiamo usare anche le mani per aiutarci. E’ il pezzo più duro per Namgel, con il nostro carico, che ovviamente non era venuto con noi al Kala Pattar e nemmeno verrà, giustamente sul Gokyo Ri. Per lui è un lavoro, ma sembra quasi orgoglioso di farlo, lo vedo come una prova di forza, un pezzo nel curriculum, se riesce a fare il Cho La Pass allora continuerà a farlo. Prima di attraversare il ghiacciaio di fronte a noi, facciamo un breve riposo. Scattiamo foto, e anche con il suo smartphone. Magari farà vedere le foto alla sua fidanzata, o una delle tante visto che ad ogni paesino spesso spariva…
Il passaggio sul ghiaccio lo affrontiamo semplicemente con i ramponcini. Non è pericoloso, si potrebbe andare anche senza come fa Pasang, ma noi ce li avevamo nello zaino e li mettiamo, anche perchè si fa meno fatica. Raggiungiamo la cima del passo in circa tre ore da Dzonghla, avvolto anche questo dalle bandierine colorate, si vedono i versanti della valle del Khumbu in lontananza e, dall’altra parte, la valle di Gokyo che attraverseremo domani.
Scendere dal Passo non è per niente banale, si tratta di circa venti minuti su pietraia. Mentre camminiamo in direzione di Dragnag la convinzione che abbiamo preso il Passo dal verso giusto è sempre più forte. Il percorso infatti è molto lungo, a tratti noioso, ma immaginare di farlo in salita… Arriviamo al lodge il primo pomeriggio, stanchi, laviamo un po di indumenti, e ci diamo una sciacquata fredda anche noi, che abbiamo detto che la hot-shower non se ne parla… Passang ci propone di andare a Gokyo, ma lo rimbalziamo. Un po di relax Pasang…
9°giorno: Dragnag – Gokyo Ri -Gokyo
Terzo giorno di seguito faticoso, con la salita al colle di Gokyo, che per paesaggio da ammirare è ancora più bello del Kala Pattar.
Da Dragnag a Gokyo ci mettiamo un’ora e mezza circa, attraversando anche la morena del ghiacciaio che scende dal Cho Oyu. Appena sopra la morena spunta il meraviglioso spettacolo del lago di Gokyo sotto di noi, un color turchese tipico dei laghi alpini, le montagne che si specchiano, bandierine, in lontananza il tintinnio dei campanacci degli yak che escono dal paesino. Il sole scalda la faccia. Dopo pranzo Pasang ci detta i tempi per salire al Gokyo Ri, vuole evitare il buio e il freddo. La salita non finisce mai, sempre lenta, cerchiamo ossigeno man mano che ci allontaniamo dal lago. In vetta si apre il panorama più bello del trekking. Sotto, l’enorme lago di Gokyo , la morena glaciale immensa a perdita d’occhio. Da sinistra a destra ammiriamo quattro dei quattordici Ottomila del pianeta. Semplicemente seduti sulle rocce, in silenzio, soltanto un filo di vento, vediamo il Cho Oyu (8201mt, 6°), l’Everest (8848mt, 1°), il Lhotse (8516mt, 4°), il Makalu (8463mt, 5°).
Passa il tempo la sopra, sotto lungo la morena si formano le nubi che sembrano camminare come un treno sui binari, lentamente, creando uno scenario unico e indimenticabile.
La discesa (10°-11°-12° giorno Da Gokyo a Lukla)
Comincia la ritirata.
Da oggi si scende, cominciamo a lasciarci la quota alle spalle. La mattina con le spalle al Cho Oyu ci avviamo nella valle di Gokyo che scende fino a Phorse Tenga. La valle è meno frequentata, incontriamo l’abitato di Macchermo, dove il gentilissimo Pasang ci porta il solito black-tea con anche una sorta di frittella buonissima. Arriveremo al paesino di Dhole, scesi si quota ormai a circa quattro mila metri. E’ un bel lungo tragitto, ma ormai leggero. Raggiunto Phorse Tenga c’è comunque l’immancabile salita che stronca il fiato, circa 300mt di dislivello per salire su a Mong La, piccolo raggruppamento di case, per poi nuovamente scendere fino a Namche Bazar. Siamo infatti tornati sulla “direttissima” Namche-Everest, ma ora le montagne “definitive” ce le lasciamo a malincuore alle spalle. Le notti cominciano a diventare più corte, dormiamo di più, per abitudine o stanchezza. La sera a Namche torniamo a gustare la Sherpa Beer, partita a biliardo, souvenir, musiche, balli sulle strade di bambini che chiedono qualche soldo col sorriso. La vita quassù è dura.
Nima ci aveva avvisato che da Namche a Lukla sarebbe stata lunga. Lo sarà, sarà un percorso che ogni volta sembrava alla fine ma invece no. Concluderemo il nostro trekking con la salita finale di circa 300mt, a Lukla faremo una velocissima e fredda doccia calda, per poi sfidare nepalesi, inglesi, spagnoli in improbabili partite di biliardo.
Con il volo nel piccolo bimotore della Goma Air abbandoniamo definitivamente questo posto, fatto di poche strade, sentieri spesso sconnessi, autostrade del trekking, e non può essere diversamente perchè qua ci viene tutto il mondo attratto dal mito della montagna più alta. Ma questa gente viene subito sorpresa da un paesaggio incantato, boschi vivi, carovane di animali e portatori, valli, fiumi e ponti e poi loro, le protagoniste, le cime innevate sempre più alte mentre cammini. Quelle che non anno la neve in cima, nonostante magari siamo più di 5mila metri non sono degne di nota, Pasang non ti sa dire il nome, dice che non sono montagne importanti.
Ti restano le immagini dei passi lenti dei portatori, il loro sudore che gronda fino alle caviglie, visibili, alcuni perfino in ciabatte. Portano su qualsiasi cosa possa servire, per le famiglie ma soprattutto per i lodge, quindi per noi. Niente auto, niente bici, niente moto. Solo gambe, testa, spalle e tanta forza.
Ti resta il freddo delle lunghe notti e i pensieri. Il Dal Bath. La stufa che non scaldava mai tantissimo, e restava spesso il fumo nel naso. La polvere nei sentieri. Resterà l’Ama Dablam, il Cholatse e naturalmente il Sagarmatha, l’Everest, anche se visto solo nella sua testa nera.
Gli ultimi due giorni di viaggio li passiamo a Khatmandu, una città enorme e disordinata. E’ la prima città asiatica che vedo. L’unica regola esistente nelle strade è quella del clacson, sembra che devi suonare ogni tanto, che vai in crisi d’astinenza. Ci sono più moto che auto che imperversano dappertutto, anche in mezzo alla gente. Non ci sono vie o aree solo pedonali, nonostante ce ne sia un gran bisogno visto la folla. Ogni buco di strada è riempito da negozi, la gente vende qualsiasi cosa in ogni angolo, quando cammini rischi di calpestare degli ortaggi messi a terra in vendita dalla contadina. I cavi elettrici a vista sono l’emblema del degrado, della mancanza di regole. Meglio aggiungere un cavo nuovo piuttosto che aggiustare o togliere quello rotto. Che non lo sai qual è quello rotto. Simboli di induismo e buddismo dappertutto. Resta impressa la cerimonia funebre induista, il cadavere della piccola signora coperta da indumenti colorati, bagnata a turno dai parenti e dagli amici con l’acqua sacra del Bagmati. La gente da sopra il ponte lancia monetine. I bambini poveri con i magneti vanno a recuperarle camminando a piedi nudi dentro il marrone che scorre. Suona un corno, qualcuno lancia una sorta di invocazione, il corpo morto viene portato sopra una catasta di legna a bordo fiume, il fuoco e il fumo si alzano sopra la città alla luce del tramonto. Tutto davanti a tutti. Come se fosse uno spettacolo di quegli artisti di strada che vediamo nelle nostre città. Molti passano dritti, altri si fermano a guardare. Non c’è sofferenza, nessuna disperazione. Nessuno piange. Resta solo la dignità e la semplicità della morte, la sua serena accettazione e la voglia di tornare alla normalità.
Agenzia di riferimento
Tip Top Trekking: nimatiptop@gmail.com. La consiglio perchè mi son trovato davvero bene. Ovviamente non ho paragoni con altre, né per prestazioni né per prezzo. E’ una piccola agenzia familiare, io ho sempre comunicato con Nima, via email, dall’Italia. Ci siamo incontrati con Nima in aeroporto a Kathmandu, ci ha portato al primo albergo. La guida e il portatore a cui ci ha affidato sono stati gentili, simpatici, e preparati.
I vantaggi di affidarsi ad un’agenzia sono tantissimi. Camminare leggeri, visto che lo zaino grosso lo portava il nostro portatore. La guida pensava a tutto: permesso del parco, aereo per Lukla, la sistemazione in ogni paesino. Insomma l’impagabile comodità di non dover pensare a nulla e dedicarci solo alla natura e alla nostra camminata. La serenità che se fosse successa qualsiasi cosa avevamo con noi uno che conosce il posto, che parla nepalese. Direi fondamentale.
Il trekking si può fare anche da soli, in autonomia. Guide e portatori non sono obbligatori, abbiamo incontrato diversi trekkers da soli, due ragazze spagnole, una coppia di svizzeri, un giovane maestro di sci spagnolo. Si può fare, e il risparmio è calcolabile intorno al 50%. Dovendoci tornare sceglierei comunque sempre la stessa formula. E poi, dare soldi a queste persone è un segno di riconoscimento, un sostegno a queste popolazioni che vivono in posti meravigliosi ma poveri.
Assicurazione
Questo è uno dei temi più importanti. Volevo una copertura sanitaria totale, essere tranquilli in caso di mal di montagna o infortunio soprattutto ai campi alti. Il tema è quindi la garanzia di un recupero in elicottero. Quella che più si è avvicinata alle mie esigenze è stata la polizza Travel Care di Allianz (preventivo sul sito), costa circa 100 euro, per i miei 15gg.
Abbigliamento e zaino
Ho portato uno zaino da 80 litri e uno da 35 litri.
1 paio di scarponi di alta montagna e 1 paio di scarpe da trekking semplice.
2 pantaloni invernali, più 1 pantalone estivo riducibile a pantaloncino. 1 Pantaloncino corto.
6 magliette maniche corte traspiranti, due magliette di cotone.
3 maglie a maniche lunghe, 1 pile.
1 kway, 1 guscio, 1 piumino.
Sacco a pelo (nightec ferrino, confort -5gradi). Guanti leggeri. Guanti pesanti. Cappello in pile. Copricollo multiuso. Lampada frontale, occhiali da sole, burrocacao, crema solare protezione 20.
Fotocamera e cavalletto trepiedi. Medicinali vari. Borraccia acqua. Ciabatte. Asciugamano.
Libri: Meridiani e Montagne edizione Everest, Lonely Planet, Everest – 1996 (con A. Boukreev)
Le temperature durante il trekking erano intorno ai 15 gradi, caldo soprattutto nelle salite, molto spesso a maniche corte. Talvolta il pantalone lungo era anche esagerato, poteva andare anche il pantaloncino. Mai messo, un po’ per pigrizia e un po’ perchè era nella zaino con Namgel. Il portatore non sempre era con noi che ci fermavamo più spesso anche per fare foto. Crema solare frequente e utilissimo il copricollo multiuso, peraltro acquistato a Namche, che permette anche di coprire il capo e combattere l’aria fredda e il sole fortissimo. Non abbiamo avuto episodi di mal di montagna, solo qualche mal di testa. Un po’ di tosse anche, che per fortuna non è mai degenerata.