Come le formiche sull’Himalaya
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L’aereo non è pieno e mi metto in coda su tre sedili in centro che allestisco a mo’ di branda. Ma prima di mettermi i tappi e sdraiarmi definitivamente con la mia dose di melatonina in corpo mi faccio due chiacchiere con due gruppi di turisti diretti a KTM. Un gruppetto va a un raduno di Canyoning e un altro va nel Mustang. Che meraviglia.
Finalmente mi stendo, non ho sonno facile, troppi scossoni e poi sono agitata di mio. Ho troppi pensieri e non vedo l’ora di arrivare a Lukla per non pensare più a niente e lasciarmi tutto alle spalle. Almeno spero.
A Delhi ho quattro ore e mezza di scalo che sfrutto con una seduta di massaggio presso la spa del nuovo aeroporto al modico prezzo di 17 euro e con una pennica su una delle tante chaise longue disseminate lungo i gate. All’imbarco per Kathmandu incontro nuovamente i compagni di volo. Sono stupiti del fatto che io sia da sola e che io voglia andare a camminare nel Khumbu da sola sotto i giganti di 8.000 metri dell’Himalaya. Se fossimo americani, tedeschi o inglesi questo non sarebbe per niente insolito, ma noi italiani siamo diversi.
Il volo per Kathmandu parte in ritardo di due ore e mezza perché aspetta una coincidenza in arrivo da Zurigo con parte dei passeggeri che deve imbarcare sicché io arrivo a Kathmandu stra in ritardo. Per fare il visa ci vuole più di un’ora. Qui i tempi sono sempre biblici e esco dal Tribhuvan alle 17.00. Fuori c’è Bishnu Dhai che mi aspetta da più di due ore con una collana di fiori profumati in mano. Appena mi vede ci abbracciamo e mi mette al collo il gioiello di fiori benedetti come benvenuto.
La Araniko Higway adesso è uno spettacolo: doppia corsia e ci sono pure i semafori, anche se con i black out poi non funzionano. In venti minuti sono a Bhaktapur. Un brivido mi prende dietro alla nuca quando passo di fronte a Sallahari. Ma me lo faccio passare. Alla porta nord svoltiamo a sinistra e saliamo nella stradina di Jaukhel. Sono a casa finalmente. Sono a casa!
I ragazzi ci sono quasi tutti. Corro loro incontro, li abbraccio e li bacio. Quasi mi commuovo…i miei ragazzi… mancano Amrit e Santosh, ma li vedrò quando tornerò dal Khumbu.
Finalmente abbraccio anche Francy, come mi è mancato…lui non se ne rende mai conto purtroppo.
Conosco Gigante, un omone grande con un viso così sereno, che si occupa di medicina olistica. E c’è anche Som che verrà con me nel Khumbu…sia mai che uno Yeti mi rapisca…qui sono tutti convinti che io abbia bisogno di un angelo custode. Per cena Anil mi prepara un piattone di melanzane alla parmigiana per non dimenticare che l’Italia c’è anche in Nepal. Sono così buone. Mi faccio una bella chiacchierata e poi alle 21.30 sono già nella mia cameretta.
DA KATHMANDU A LUKLA E A PIEDI A BENKAR
La sveglia è alle 5.45. Colazione abbondante e via verso l’aeroporto di Kathmandu.
La parte dei domestic è molto naif. Ci sono le pese dei bagagli con le bilance di una volta e i boarding pass, con il codice del volo rigorosamente scritto a mano, vengono dati con un criterio che non ho ancora capito. Per accedere ai controlli bisogna scavalcare le bilance e passare dietro, donne con donne perquisite da donne e uomini con uomini. Finiti i controlli si passa ai gate da una porticina che ha una tenda coi fiorellini al posto della porta.
Il volo dovrebbe essere alle 7.30 ma le condizioni meteo in questi giorni non sono tra le migliori. Anche ieri il volone della Jet Airways ha girato una decina di volte prima di atterrare. Non è semplice atterrare e decollare qui in valle. In settimana Lukla è stato chiuso per giorni e c’è un sacco di gente che aspetta di partire in coda agli altri per le alte valli dell’Himalaya.
Riesco a prendere il volo delle 11.00, un piccolo aereo da 16 posti della AgniAir che inizia a far girare le eliche ruggendo rumorosamente. Dopo che la hostess ha distribuito caramelle e cotone idrofilo per tapparsi le orecchie, finalmente si decolla. Di lì a poco l’Himalaya mi si apre di fronte facendosi largo tra le nuvole. E’ uno spettacolo. Tutti abbiamo la faccia incollata ai finestrini per goderci il panorama. All’improvviso l’aereo perde quota e per una manciata di minuti pare essere fuori controllo oscillando in balia delle correnti e dei venti tra le montagne ghiacciate. La hostess recita dei mantra, qualcuno ha in faccia un’espressione terrorizzata. Poi tutto finisce come è iniziato e dal vetro davanti, oltre le spalle dei piloti, spunta la pista di atterraggio di Lukla. L’avvicinamento è spettacolare e in qualche minuto l’aereo atterra sulla pistina in salita del piccolo aeroporto sul tetto del mondo. L’aereo parcheggia in uno dei quattro posti disponibili. Il parcheggio del supermarket dietro casa mia è più grande. Però adesso tutta la pista è asfaltata. Che bello sono arrivata di nuovo sul tetto del mondo. Alzando lo sguardo mi trovo di fronte le prime pareti verticali ricoperte di ghiaccio delle montagne circostanti. C’è gente che va e viene nel parcheggio. Trekkers, addetti allo scarico bagagli, militari. L’ingresso è come quello dei campetti da calcetto, con la porta con la rete metallica. Al ritiro bagagli decine di bharya (portatori) chiedono ingaggio per portare gli zaini e le merci durante i trekking.
I bharya vengono sommariamente chiamati Sherpa dai trekkers. Certo molti di loro sono di etnia Sherpa, ma non tutti, tanti sono Magar, Gurung o di altre parti del paese. Il termine “portatore” in nepalese è “bharya”. Gli Sherpa sono un’etnia che da sempre si sposta tra Tibet e Nepal con le mandrie di Yak trasportando sale e barattandolo con l’orzo, la tsampa, la base della loro alimentazione. Anticamente originari delle montagne tra Tibet e Nepal e poi migrati nelle valli nepalesi, adesso gli Sherpa hanno in mano il grosso del turismo, dei trekking, dell’alpinismo, dei resorts e lodges sul tetto del mondo.
Vado al lodge di fronte all’aeroporto e incontro il bharya che verrà con me e Som. Bishnu sta bevendo una tazza di tea. E’ un ragazzo Magar di 25 anni. Se lo guardo superficialmente sembra avere la mia età, ma guardandolo bene si vede che non ha le rughe intorno agli occhi. Indossa una maglietta di cotone, un paio di jeans, una giacca a vento leggera blu e un paio di sandali di plastica tipo quelli che io usavo da bambina per camminare sugli scogli le rare volte che andavo al mare. E’ contento perché il bagaglio è meno di 18 chili. Mentre io e Som beviamo un buon khalo chya (black tea) lui lega il saccone con una corda e se lo carica sulla schiena sorreggendolo con la testa.
Partiamo subito.
Saliamo sul sentiero che gira attorno all’aeroporto e non possiamo fare a meno di notare il muso impacchettato di un aereo che si è schiantato sul muro alla fine della pista qualche tempo fa.
Entriamo nel villaggio di Lukla. I negozietti di attrezzatura da trekking si susseguono uno dopo l’altro e c’è un gran traffico di persone e carovane di djopke che passano sulla stradina principale. C’è pure un caffè Starbucks e anche un pub scozzese. La globalizzazione sull’Himalaya.
Mi lascio tutto alle spalle e inizio il mio cammino verso Benkar. I dislivelli sono dolci, l’aria è fredda e il sole a tratti è caldo. Il paesaggio è proprio come sulle nostre alpi, coi boschi e il fiume che scorre in valle. In più ci sono i rododendri in fiore, sgargianti e profumati, le ruote di preghiera, i muri mani zeppi di mantra scolpiti nella pietra. Questa prima tappa del trekking è una bella passeggiata di una dozzina di chilometri. Faccio piccole soste nelle tea house a bere e a godermi i panorami. Quando arrivo a Phakding non mi costa fatica proseguire per un’altra mezz’ora fino a Benkar.
Qui ci fermiamo al Mountain Lodge. Un bel rifugio gestito da una famiglia Sherpa. Mi danno una bella mansarda, tutta in legno con vista sui monti che per ora scorgo solo a tratti tra le dense nuvole che coprono la vallata. Mi faccio una doccia freddina e al tramonto sono già nella dining room del lodge a chiacchierare con Som. Per cena riso fritto con le verdure…sarà l’inizio di una lunga serie.
Mi ritiro in cameretta alle 21.00 circa, srotolo il sacco a pelo e mi ci infilo per la nottata.
DA BENKAR A NAMCHE BAZAAR
Al mattino mi sveglio tardissimo. Sono le 7.00. Quando apro la tenda, davanti a me ho un bellissimo bosco di pini e alzando lo sguardo verso l’alto incontro la luce abbagliante dei ghiacci della parete del Thamserku che si erge maestosa a un’altezza ben oltre a quella che potevo immaginare. Il sole è sorto proprio dietro alla montagna. Uno spettacolo.
La colazione abbondante mi rimette in piedi e riprendo il cammino.
Le nuvole si abbassano in fretta e presto arrivano appena sopra i pini coprendo tutte le montagne. Passo i punti di controllo e l’ingresso del Sagarmatha (Everest) National Park a Djorsalle, dove registrano il mio percorso e mi timbrano il TIMS (trekking permit) poi costeggio il Dudh Kosi, il “fiume di latte” e il verde che mi circonda è meraviglioso. Quando arrivo all’Hillary Bridge iniziano a cadere le prime gocce di pioggia. Tutta la salita verso Namche la facciamo più o meno sotto l’acqua. Mentre cammino osservo la moltitudine di trekkers che incontro sul sentiero e i numerosi bharya carichi come muli che camminano sgambettando neanche fossero in discesa. Che gente forte. Hanno più o meno la mia corporatura, sono tutti muscoli e tendini in tensione. I bharya si fermano per coprire i loro carichi col cellophan, io vado pianino, sono sulla famosa “salita di Namche”, la prima vera salita del trekking e i molti trekkers che incontro si fermano lungo il cammino, alcuni già ansimano, forse hanno corso un po’ troppo, io non mi fermo, chiacchiero durante tutto il percorso con Som. Annuso il profumo della foresta e mi godo l’aria buona del Khumbu, senza accorgermi che comunque pian piano vado verso quota.
All’arrivo a Namche piove misto neve. Ma non fa così freddo. Eppure siamo oltre i 3.400 metri. Tutto è avvolto dalle nubi e le case disposte ad anfiteatro nel villaggio si perdono nella nebbiolina. Il mio lodge si trova in alto, in cima alla lunga scalinata verso il Gompa principale di Namche. A dire il vero è più dura questa scalinata rispetto a tutto il percorso fatto quest’oggi. L’Alpine Lodge è davvero grazioso, ho una camera al secondo piano con la finestrona davanti al letto che dà proprio sull’anfiteatro a ferro di cavallo che il villaggio forma lungo la vallata.
Dopo una doccia calda e il bucato di rito, scendo. La dining room è grandissima e ha un grosso poster dell’anniversario del 50° dell’ascesa all’Everest con la foto di Norgay e Hillary on the top of the world.
Intanto stranamente il cielo si è schiarito, non ci posso credere, e sarà la prima e ultima sera che mi farà godere del tramonto sull’Himalaya, però posso dire di averne avuta una. Mi appare il gruppo del Thamserku tutto rosato, con le sue cime affilate come lame che tagliano il cielo dell’Himalaya. I suoi ghiacci hanno dei riflessi spettacolari, sono così brillanti che sembra producano luce propria. Esco a fare delle foto e mi accorgo che il freddo è arrivato.
La cena è ancora fried rice with vegetables. L’avevo detto che sarebbe stata una lunga serie. Passo la serata a chiacchierare con una coppia di Polacchi simpaticissimi. Stanno finendo il loro camping trek di ritorno dall’EBC e sono entusiasti, condizioni meteo a parte, del loro percorso.
GIRETTO A SYANGBOCHE
Il mattino la vista sull’Himalaya dalla finestra della mia camera è superlativa. Alle 8.00 faccio colazione e sono pronta per la giornata di riposo.
Guardando il listino dei prezzi sono sconvolta da quanto siano aumentati. 500 rupie per un continental breakfast che consiste in una tazza di tea o latte o caffè, due toast con marmellata, burro e miele, due polpettine di patate e due uova fritte. 500 rupie. Sono un sacco di soldi. Bishnu mi dice che su a Gorak un piatto di Dhal Bhat nelle Porter House arriva a costare anche 200/250 rupie. Poveri bharya. Gli abitanti del Khumbu sono davvero ormai entrati nelle logiche del Business. Ok che qui tutto viene portato a piedi da Lukla, però mi sembra davvero tutto molto caro, troppo caro.
Esco e con calma mi lascio Namche alle spalle. Svalico una collina fino a oltrepassare l’aeroportino di Syangboche, una salita di circa un’oretta giusto per non perdere l’abitudine a camminare.
Da qui ho la prima botta di energia dall’Himalaya. Questi luoghi hanno un potere enorme su di me. Mi danno adrenalina, energia pura. Un piccolo cargo decolla e sfiora, con le ali e le ruote, la cima frastagliata del Thamserku. Sembra ci stia atterrando sopra. Supero lo splendido stupa e vado verso il chorten in cima alla collina. Qui mi siedo su un sasso a guardarmi attorno. Un albero che sembra incenerito si staglia nero sui ghiacci bianchi del Thamserku e un po’ più a sinistra il Kangtega si erge con la sua cima coperta da metri e metri di neve. Poi la piramide acuta del Cervino dell’Himalaya mi stupisce sempre. L’Ama Dablam non è poi così alto, poco più di 6.800 metri, ma le sue pareti sono così verticali che lo rendono una delle vette esteticamente più belle e tecnicamente più impegnative del Khumbu. La grandezza e possenza del Lhotse mi lascia sempre attonita. E’ così grande, massiccio, enorme. Seguo il suo profilo con lo sguardo come lo stessi accarezzando con gli occhi, un zigzag in mezzo a due grosse creste, la cui più occidentale scende giù a 8.000 fino a Colle Sud. Da qui si sale all’Everest.
La punta del tetto del mondo sembra sempre spettinata, ha uno zaffo di neve in aria perché è sempre battuta dal vento che porta la neve e le preghiere delle bandiere tibetane nel cielo. Mero Sagarmatha, così imponente. Da qui sembri un po’ in disparte, devi avere un carattere schivo, sembri così vicino, ma non ami molto farti avvicinare davvero. Le scegli tu le persone che vuoi che calpestino le tue nevi, i tuoi ghiacci. Ti fai guardare da lontano, ma non ti fai toccare da tutti. Io ti sento, ci conosciamo perché i nostri sguardi si sono incrociati altre volte e in Tibet ti ho toccato e tu mi hai dato l’abbraccio più bello che la natura mi ha mai dato in vita mia. Sagarmatha sarai sempre nel mio cuore, dentro di me, sempre. Non so quanti minuti o mezz’ore mi sono persa a guardarti e a parlarti seduta su quel sasso.
Poi da dietro sono arrivate le nuvole. Quest’anno è molto umido, in valle già piove e qui nevica tutti i giorni. Aprile doveva essere secco…mentre penso a tutto sto turbinio di cose che mi si aggrovigliano nella testa, non mi sono neanche accorta che ho ricominciato a camminare. Tra un po’ devo scendere. Devo andare a trovare la mamma Sherpa di Pat al suo lodge giù a Namche.
Il Thamserku è un lodge storico di Namche, qui sono passati molti alpinisti che sono saliti in cima all’Everest. Si trova sulla strada che dal centro del villaggio porta verso il sentiero del trekking dell’Everest.
Scendo giù e quando arrivo chiedo di Ama Sherpa. Dov’è finita la mamma di Nima? C’è una straniera che le porta un regalo da molto lontano, un sacchetto di raso dorato chiuso da una cordicella con dei campanellini. Quando Ama arriva mi chiede subito dove sia Patrizia…perché non è qui. Patrizia arriverà in Nepal tra due settimane ma non verrà nel Khumbu. Andrà a Mitcha, un villaggio dopo Jumla a trovare i bimbi di una delle sue scuoline, e poi ha da fare un sacco di altre cose per la sua associazione, la EcoHimal http://www.ecohimal.it/richieste.htm
Chiacchieriamo un po’, mi chiede dove vado e mi dice che non c’è buon tempo quest’anno.
Chiamiamo Pat in Italia col mio cellulare nepalese. La NCell funziona da Dio qui sull’Himalaya. Pat è felicissima e anche la mamma Sherpa. Che bello quando le distanze si accorciano. Quando le migliaia di chilometri, che a volte senti come insormontabili, vengono azzerate in un attimo, con una voce, un’emozione trasmessa da un piccolo microfono del cellulare. Mi bevo una tazza di tea. Pat mi chiede di chiamarla quando sarò in alto.
Quando esco dal Thamserku, nevica. Vado al tibetan market dove i profughi tibetani, che sono arrivati qui dal Tibet attraverso il NangpaLa, il passo di confine sotto il Cho Oyu, cercano di ricominciare a vivere. Incontro Tenzing e mi faccio una chiacchierata nel suo sgangherato negozietto che vende una montagna di roba della Mammut. Poi faccio un salto all’internet point a vedere chi mi ha scritto. Trovo le mail degli amici con cui stiamo organizzando una rimpatriata in Tibet per luglio, che mi informano che dovremmo partire il 23…Santi Numi…sono in viaggio e qui già si pensa a ripartire per il prossimo. Siamo dei malati! Rispondo a qualche utente TA sul Nepal e sul Tibet e mando un saluto su FB. Cacchio come nevica…chissà domattina come sarà.
Torno su all’Alpine lodge e ceno in cucina con lo staff. Ancora riso fritto con le verdure e per giunta fatto col brodo di pollo. Vorrei strozzare Tenzing…perché il suo brodo di pollo all’aglio m’ha spaccato lo stomaco. Io sono intollerante all’aglio…e mi farò i prossimi due giorni con il vomito.
DA NAMCHE BAZAAR A TENGBOCHE
La mattina alle 7.00 faccio colazione. Il cielo è terso per ora. E’ tempo di camminare.
Risalgo dietro il Gompa facendo il kora. Faccio girare tutte le ruote di preghiera che incontro.
Om Mani Padme Hum, lode a Te, Gioiello del fiore di loto (il Buddha).
Mi porto sopra Namche imboccando il sentiero che prosegue verso l’Everest costeggiando in piano la collina a strapiombo sul fiume. Poco più avanti, alla seconda curva riappaiono nell’ordine, il Kangtega, l’Ama Dablam, il Lhotse e l’Everest, sempre scapigliato dal vento. La luce è intensissima, la temperatura tutto sommato è gradevole e il sentiero sale dolcemente. Una bella passeggiata. Dopo aver passato uno stupa dedicato a Norgay che si staglia in contro luce sugli ottomila, su una scalinata di pietra incontro le prime due carovane di yak. Ste bestie sono davvero grosse, poi hanno tutto sto pelo attorno che da dietro sembra un gonnellone. Sono bellissimi anche se non proprio socievoli e mi devo schiacciare sulle pareti rocciose per farli passare, così carichi di bidoni sulla schiena. Gli faccio una foto mentre scendono giù dagli scalini con lo sfondo dei ghiacci del Thamserku dietro di loro.
Il sentiero, dopo il bivio Kumjung/Gokyo/EBC purtroppo scende giù fino al fiume. E dico purtroppo perché poi dopo mi toccherà risalire di nuovo. La seccatura dei trekking in Nepal è che sali, sali e sali e poi devi scendere di più di quanto tu sia salito per poi risalire di più di quanto tu sia appena sceso. Così accade che un percorso che parte da 2.800 metri di altitudine e arriva a 5.300 metri, e che in teoria dovrebbe avere 2.500 metri di dislivello, alla fine ne abbia anche fino a 10.000 e non credo di esagerare poi tanto.
Insomma arrivata giù al fiume mi faccio il ponte tibetano e ricomincio a salire per un sentiero che finalmente si fa sentire. Vado pianino e anche qui incontro mattacchioni che mi superano e camminano di buona lena, poi dopo qualche manciata di minuti però li rincontro più in alto fermi che iperventilano di gusto.
Gli Sherpa qui dicono bistare bistare: piano piano in nepali. E loro lo sanno bene. Se vai piano, a un ritmo che ti permette di chiacchierare, respirando normalmente senza aumentare troppo il battito cardiaco, allora riesci ad andar su senza fermarti e senza affaticarti troppo.
Quando arrivo a Thyangboche c’è un vento gelido molto forte. Oltrepasso il chorten e entro nel grosso rifugio Himalayan Resort che è letteralmente una ghiacciaia. E’ così freddo che qui si fa quasi fatica a parlare. Ovviamente le porte sono aperte quindi dentro c’è pure vento. Il Lodge è semi vuoto e Pemba Sherpa, il gestore, ci dice che ora di sera sarà pieno. Noi siamo arrivati in fretta. Mah…a me era sembrato di camminare come una lumaca, ma Som mi dice che ci abbiamo impiegato mezz’ora in meno. Non so che dire. Mi bevo un tea con una barretta ai cereali per lenire la nausea costante che ho dalla notte precedente, mi metto il pile pesante e vado verso il Monastero.
Le montagne ovviamente non si vedono manco a pagarle oro. Il Gompa è aperto ma non c’è nessuno. Solo uno djopke affacciato alla porta che ha i candelotti di ghiaccio sul muso sotto la bocca…fa talmente freddo che gli si è congelata la bavetta. Povera stella. La cosa che non mi aspettavo assolutamente è l’umidità. Il freddo è davvero tremendo e mi entra nelle ossa. Faccio un salto alla German Bakery e mi pare di stare a in centro a Milano al bar del Savini. Una brioche a 250 rupie. Un furto. Intanto inizia a nevicare, nevicano dei piccoli cristalli di ghiaccio che pungono quando ti atterrano sul viso. Il mio stomaco è devastato da ieri sera e mi metto nel sacco a pelo dove praticamente resto fino al giorno successivo.
SOSTA A TENGBOCHE
Pemba non è convinto che la mia sia solo un’intolleranza alimentare e mi prega di non proseguire assolutamente col trekking. Purtroppo per me mi sono fatta condizionare da lui. Essendo sola m’ha preso lo spirito di autoconservazione. Mi sono detta, ma se ha ragione lui poi che faccio? Su sta nevicando di brutto e i francesi che son scesi m’han raccontato che il percorso è in condizioni pietose e il freddo è abominevole. L’Everest non si sta facendo vedere, appare solo al mattino tra il vento fortissimo e le nubi plumbee cariche di neve. La mattina è arrabbiato, sembra scocciato da tutta sta gente che vuole vederlo a tutti i costi. Loro non lo han visto neanche dal Kala Pattar. Tanta fatica per niente. Poi dall’EBC è nascosto dai monti e sti poveri francesi stanno tornando giù a bocca asciutta.
Ogni venti minuti sopra la mia testa passa l’elicottero della rescue. 5.000 dollari per recuperare chi si sente male durante il trekking. Una follia. Tra le migliaia di persone che camminano nel Khumbu, sono tanti gli sprovveduti che non ascoltano e non vogliono vedere i segni che il corpo dà loro per avvisarli che c’è qualcosa che non va. Mai sottovalutarli. Anche il miglior alpinista o l’uomo più allenato può incorrere nel mal di montagna.
DA TENGBOCHE a KHUMJUNG
Il giorno dopo faccio un giro nei dintorni. Nevica ancora e fa sempre freddo. La temperatura massima di ieri è stata -4°C…chissà oggi. Ho perso due giorni e ora ho due possibilità. Fregarmene altamente del mio mal di stomaco, continuare verso Dingboche e saltare le pause di acclimatamento per raggiungere in tempo l’EBC, oppure tornare giù a Phunki Thanga e vedere se a 3.200 mi passa e nel caso poi risalire oltre i 3.900 di Khumjung e farmi il trekking dall’altra parte verso Gokyo, più impegnativo dell’EBC ma più corto e con un panorama sugli ottomila strepitoso. Sono da sola e devo decidere io. Su consiglio di Pemba opto per la seconda ipotesi che coi tempi è ormai ragionevolmente la più fattibile. Chiamo Som e Bishnu e scendiamo a Phunki.
Nella dining del Lodge incontro due tipi davvero simpatici, un Ceco e un Macedone che collaborano con la Fishtail di Pokhara. Fanno gli istruttori di parapendio e mi invitano da loro per una prova di volo. Fantastico! Magari quest’estate, quando torno su, li passo a trovare e faccio il “grande salto”. La sera mi addormento cullata dal rumore delle rapide del torrente. Il mattino dopo non va meglio. Ho ancora lo stomaco in panne. Ora ho la prova che si tratta di intossicazione/intolleranza alimentare al mio pasto infausto all’aglio. Mi conosco, anche a casa se succede vado avanti così per giorni. Decido di risalire comunque, in alto non starò peggio di come sto ora. Arrivo a Khumjung a pranzo. A 3.970 metri, dopo tre giorni, riesco finalmente a tener giù del riso bianco. L’ho detto io che l’altitudine mi fa bene! Anche qui, come a Thyangboche, c’è un vento gelido, ma il lodge è un po’ più accogliente. Mi faccio una doccia calda e poi faccio uno pseudo bucato con Som. Nel pomeriggio ci incamminiamo verso il Gompa del villaggio. Khumjung è il villaggio di etnia Sherpa più grande della valle del Khumbu ed è famoso in occidente perché qui Sir Edmund Hillary ha costruito una grossa scuola e perché proprio nel Gompa dove sto andando è custodito quello che gli Sherpa dicono essere lo scalpo dello Yeti, unica prova tangibile secondo loro, dell’esistenza di questo essere misterioso che abita sulle montagne più alte della Terra.
Il leggendario Yeti, chiamato anche “abominevole uomo delle nevi” è molto conosciuto nella regione del Solu Khumbu. Questa creatura è stata cercata e cacciata per anni ma risulta che ci siano stati solo sporadici avvistamenti e nessuno di questi è stato mai realmente documentato. Secondo la leggenda lo Yeti è un umanoide molto schivo che abita le regioni più alte e remote dell’Himalaya e, parlando con gli Sherpa o con altre etnie che vivono in montagna, ti descriveranno la sua forza sovrumana raccontandoti che è in grado di sollevare e portarsi sulle spalle uno Yak. Loro dicono che lo Yeti rapisca i bambini e ci sono alcune testimonianze orali a riguardo in alcuni villaggi del Khumbu. Nel 1974 si racconta che un gruppo di Yak di una donna Sherpa abbia subito un attacco da parte di uno Yeti vicino al villaggio di Machhermo nella Valle del Khumbu. Tre yak morirono ma la donna venne risparmiata. Gli Sherpa dicono che ci sono tre tipi di Yeti: il Drema o Telma messaggero di calamità, il Chuti che caccia le pecore, le capre e gli yak e il Mite o Midre che attacca oltre gli animali anche l’uomo. Gli Sherpa sono convinti che i ritrovamenti, che ci sono stati in passato di strane grosse impronte di enormi piedi sulla neve e di yak uccisi brutalmente, vadano a supportare la veridicità dell’esistenza di questo essere immondo che abita le loro montagne. Dicono che sia alto tra il metro e ottanta e i due metri e mezzo, che abbia la testa fatta un po’ a cono, le orecchie appuntite, la faccia simile a quella umana e il torace privo di peluria. Dicono che abbia un brutto temperamento, che sia aggressivo e che attacchi chiunque gli si trovi davanti o troppo vicino. Qualche mese fa è uscito un libro molto interessante a riguardo, “Yetis, Sasquatch, and Hairy Giants” del bizzarro scrittore americano David Hatcher che ha alle spalle una ventina di pubblicazioni sulle antiche civiltà umane, sui misteri e sulla zoologia. Chi è curioso di sapere qualcosa di più sullo Yeti troverà qualche aneddoto interessante a riguardo nel libro. Mentre chiacchiero di questo libro con Som, lungo i sentierini in salita battuti dal vento di Khumjung, arrivo proprio all’ingresso del Monastero. Guardandomi dietro vedo la piramide dell’ Ama Dablam coperta di neve fino in basso. Ma che brutto tempo in questo mese di Aprile. Il Gompa è in ristrutturazione. Stanno rifacendo tutta la pavimentazione del cortile e il portone è chiuso. Io mi guardo attorno e, a parte gli operai al lavoro, non ci sono ne monaci ne nessun altro. Uno di loro mi indica la balconata dove c’è il dormitorio e lì, accasciato su una sedia, c’è l’anziano custode che sta dormendo. Lo chiamano ma non si sveglia, allora qualcuno gli tira un sasso. Lui rinviene trasecolando, si sistema e scende pian piano la ripida scala con un mazzo enorme di chiavi in mano. Apre il pesante portone del Gompa e entriamo dopo esserci tolti gli scarponi. La biblioteca all’interno è bellissima. “Kangyur cha? Huncha?” E’ il Kangyur? Vero? Chiedo al custode e lui oscillando la testa mi risponde “Ho”, sì. Il Kangyur è la prima parte del Canone Tibetano, opera epico religiosa che racchiude tutte le scritture buddhiste. Nel Kangyur ci sono gli insegnamenti dati direttamente dal Bhuddha e dai Bodhisattva ed è stato scritto dal monaco Buton tra la fine dell’XI e la metà del XII secolo. Molti Gompa tengono copie di questa enorme opera nelle loro biblioteche.
La luce entra soffusa, dalle finestre al piano superiore, creando un effetto surreale. Tutti i mantelli rossi dei monaci sono adagiati ognuno al suo posto dietro le panche, e sul fondo c’è una bella statua del Buddha in oro. Il custode si dirige a sinistra. Davanti a una colonna c’è un armadio di metallo chiuso da un lucchetto. Qui dentro è conservato il cimelio. Il custode apre le porticine e sullo scaffale superiore, dentro una teca di vetro incorniciata in legno, c’è lo scalpo rossiccio dello Yeti circondato da offerte, khate e preghiere. E’ un po’ raccapricciante e a me sembra il cucuzzolo della testa di uno yak.
Esco un po’ stupita e un po’ perplessa da questo pseudosacrario, credo che la verità per ora non ci sia verso di saperla. O ci credi o no. Lo Yeti resta comunque un mito, una leggenda, uno dei più grossi misteri dell’Himalaya.
Mi incammino di nuovo tra i sentierini, tra le casette Sherpa e scendo giù fino alla spianata per dirigermi alla scuola di Hillary. Il complesso è molto grande e ci sono varie classi e anche gli alloggi e il campo sportivo. E’ fatta davvero bene. Mi fermo un po’ a vedere un gruppetto di ragazzi che stanno giocando a cricket, poi faccio dietro front e, dopo un piccolo omaggio alla statua di Hillary, ritorno al Lodge. Tra un po’ accenderanno la stufa, fuori sta iniziando a nevicare.
C’è un gruppo di studenti americani che sta facendo una vacanza con i due prof di educazione fisica, poi una ragazza indiana col suo personal trainer. Lei vuole scalare l’Island Peak, molto ambizioso per una diciassettenne di Bombay. Insomma la popolazione è bella variegata. Riesco a cenare con del riso con le verdure bollite e poi mi caccio giù a forza una porzione di carne in scatola che mi ero portata per le emergenze. Ho bisogno di rimettere in corpo energia per domani. Som mi ha detto che saranno sette ore dure.
DA KHUMJUNG A DOLE
Il mattino il cielo è abbastanza azzurro quando al bivio prendiamo la salita per Dole. Il percorso di oggi dicono sia davvero tosto perché si devono svalicare tre montagne, il che significa che ci saranno una salita, una discesa, un’altra salita e un’altra discesa e un’ultima salita finale. Se devo salire salgo, ma salire e scendere così è un po’ una rogna. Il sentiero è un fango misto a neve.
Alcuni scalini di pietra sono davvero altini e con Som ricordo quelli delle piramidi maya di Tikal che erano alti come metà delle mie gambe. Quando arrivo al primo passo presso Mong (Mong La), mi fermo dieci minuti esatti in una tea house per un mint tea, poi mi siedo fuori altri cinque minuti di fianco allo stupa che contiene le reliquie di un santo. Penso che il percorso fatto sin ora sia stato davvero bello duro e poi proseguo in discesa. Quando dovrò rifarlo al ritorno sarà tosto. Mi fermo a Portse Thanga a casa di una signora Sherpa che ci prepara patate lessate per pranzo. Ha una cucina fumosa fatta di terracotta con la legna che arde e scalda un po’ l’ambiente. Un grosso pezzo di grasso di yak appeso in cucina attira la mia attenzione, così pure una bottiglia di Everest Whisky. Ripreso il cammino in salita, incontriamo alcune cascate di ghiaccio sul percorso. Sono davvero bellissime. Il vento si è alzato di nuovo e di lì a poco inizia a nevicare. Minuscoli fiocchi di neve ghiacciati come spilli sul mio viso. Mi metto il guscio di goretex perché la windstopper non tiene la neve, anche se quest’ultima è così gelata che non si attacca neanche agli indumenti. Dopo l’ultima salita si apre un pianoro, e intravedo la piccola discesa che porta al villaggio Dole.
Finalmente arrivata. Il villaggio a circa 4.100 metri è piccolino e sembra deserto, ma sbirciando all’interno delle poche casette e guest houses si vede che c’è gente. Trovo posto nell’ultima guest house del villaggio, prima della salita verso Machhermo. Resto seduta un po’ sul lettino della microstanza di compensato guardando fuori dalla finestrina. Mentre i fiochi di neve cadono, dei bimbi Sherpa giocano a pallone e si rincorrono nel campo davanti al rifugio. Qui i trekkers camminano e loro corrono. Che spettacolo. Mi assale il freddo umido. Decido di andare nella dining room. Tutte le porte sono aperte e tira un bel vento, almeno lì dentro sarà un po’ più tiepido. L’unica cosa calda invece è il tea. Solo dopo qualche ora accendono la stufa. Chiacchiero con la signora che gestisce il lodge. Mi dice che sua sorella vive a Firenze con il marito italiano e lei è stata in Italia due volte. Mi metto vicino alla stufa con un gruppetto di ragazzi che viaggiano soli come me, ma che si sono aggregati tra loro giusto per non fare il trek come eremiti. Una ragazza irlandese, una svizzera vallese, un americano. Poi dopo un po’ arriva un giovane di Vancouver che sta invece scendendo. Non ci rassicura perché ci racconta che anche da questa parte ci sono tormente di neve e gran freddo…non ce n’eravamo accorti…Verso le 19.00 arriva una compagnia di Thailandesi. Sono stranissimi. Mangiano un quantitativo spropositato di cibo e noi li osserviamo mentre giochiamo a carte tutti insieme. Anche le guide Sherpa si sono sedute con noi a giocare. Siamo un gruppo eterogeneo ma ci stiamo divertendo un sacco. Verso le 20.30 le guide preparano i giacigli mentre la stufa spenta oramai diffonde gli ultimi sbuffi di calore.
DA DOLE A MACHHERMO
Al mattino faccio la colazione più cattiva di tutto il trek. Le mie due uova sono di un colore poco rassicurante e il loro sapore dolcissimo non mi piace proprio…e sì che per far due uova non è necessario fare un corso da Gualtiero Marchesi…
Il cammino verso Machhermo è molto più facile rispetto a quello del giorno precedente, gli unici inconvenienti sono il fango e la neve che creano un miscuglio poco praticabile sul terreno. Il vento è sempre bello forte e io proseguo pianino pianino, fermandomi di tanto in tanto a scattare qualche foto alle mie montagne.
Quando faccio l’ultimo valico non si vede più nulla, sono totalmente avvolta dalla nebbia o nuvole che siano. Ogni tanto questo muro grigio si dirada e la vista si apre sui ghiacci delle vette circostanti. Le montagne sembrano ancora più grandi di quello che sono perché non ne vedo la fine. Non riesco a capire dove mi trovo e posso solo seguire il sentiero tra la neve. Poco più avanti finalmente tra i fiocchi di neve mi appare l’avvallamento a 4.500 metri dove è adagiato il piccolo villaggio di Machhermo. Scendo, e dopo aver attraversato il fiume, risalgo gli scalini verso il Namgyal Lodge.
Questo rifugio montano è sicuramente il più bello in cui sono stata durante il trekking. Ho anche il bagno in camera con la turca e un lettone enorme. Anche qui ci sono i pannelli solari per la corrente elettrica, le lampadine sono a basso consumo e se vuoi ricaricare il cellulare devi pagare 100 rupie ogni mezz’ora. La dining room è in puro stile Sherpa, con le panche tutte attorno al perimetro della stanza coperte da cuscini e tappeti tibetani con davanti i tavolini. La stufa è al centro e miracolosamente qui non fa così freddo. Si sta bene. Faccio uno spuntino, è primo pomeriggio e la fame si fa sentire. Faccio conoscenza con un gruppo di canadesi che sta salendo come me e ci facciamo una partita a carte con le guide. Bisogna in qualche modo tirar sera. Il lodge è pieno di gente. C’è un gruppo di americani che sonnecchiano stanchi mentre le loro guide cercano di tenerli svegli, preoccupati che abbiano sopore da mal di montagna. Due dei canadesi sono in stanza. Stanno molto male. A Machhermo c’è un centro di assistenza sanitaria dell’ IPPG (International Porter Protection Group) dove sono di servizio due medici volontari internazionali che danno primo soccorso in caso di AMS, Edema Polmonare e Edema Cerebrale. Alle 14.30 infatti sono passati i medici a dare un’occhiata e a invitare gli ospiti del lodge a una loro presentazione in cui avrebbero dato indicazioni sui sintomi del mal di montagna e sull’eventuale terapia. E’ ottimo che nella metà alta del trekking ci sia un simile rescue center. I trekkers che si sentono male durante il percorso sono purtroppo tanti anche qui. Quando vado in stanza sta ancora nevicando. Sono le 21.30, ho fatto le ore piccole stasera.
DA MACHHERMO A GOKYO
Al mattino, quando mi alzo e scosto la tenda dalla finestra, non posso vedere fuori perché uno strato di ghiaccio ricopre totalmente il vetro. Dalla vetrata del corridoio davanti alle camere invece si vede il giardino del Lodge tutto coperto di neve e dietro i tetti, in alto nel cielo, la punta aguzza oltre i 6.000 metri del Kyajo Ri svetta sopra le nuvole. Questa montagna mi ricorda un sacco il Laila Peak, la montagna più aguzza della Terra che sta però nel Karakoram in Pakistan. Faccio una abbondante colazione con uova strapazzate, pan da toast col burro e marmellata e sono pronta a uscire. E’ tutto bianco e per ora il cielo è anche azzurro con un’ottima luce. Mi inerpico sul sentiero in salita alle spalle del lodge. Arrivata al passo, il sentiero procede dolcemente tagliando le colline fino alla pietraia di detriti, da qui risale in ripidi scalini sul costone ovest della morena. Una volta sopra, dopo un piccolo ponte di metallo sul fiume, il vento si alza fortissimo e le nuvole arrivano puntuali come orologi svizzeri portando freddo e minacciando neve di nuovo. A tratti, all’orizzonte nord, appare il ghiaccio della parete sud del Cho Oyu. La Dea Turchese è uno dei miei 8.000 preferiti. La prima volta che la vidi da nord in Tibet, mi emozionò così tanto che rimasi immobile a guardarla non sentendo più niente, ne il freddo, ne il sibilare dei venti, ne la voce di Li Dong che mi chiamava dicendomi di non tardare troppo. Che esperienza!
Ora il sentiero sale piano e con lui salgo piano anche io. La pietraia a est si sgretola in basso nel torrente e in alto finisce alle pendici dei colli rocciosi, al di là dei quali incombe il Ngonzumpa Glacier. Starei le ore a guardare questo paesaggio estremo, se non ci fosse questo freddo pungente. In lontananza, in cima alle colline delle piccole macchie scure si muovono pian piano. Sono un gruppo di yak che pascolano liberi e tranquilli. Che meraviglia.
Finalmente spunta il primo lago di Gokyo, il Longapunga Tso a circa 4.700 metri di quota.
Due piccole papere dorate nuotano del tutto indisturbate nonostante il freddo, il vento e piccoli fiocchi di neve che a tratti scendono giù pian piano. L’acqua è turchese e tutto attorno c’è roccia e ghiaccio. Il sentiero ora ha piccole salite e piccole discese, non è impegnativo, è solo alto. Il cielo oramai è grigio e quando arrivo al secondo lago il freddo è davvero tanto. Per terra ci sono veri e propri lastroni di ghiaccio. Il lago è per metà totalmente ghiacciato e nell’avvallamento, dove sono adagiate le sue acque, ci sono piccoli chorten di pietre che si perdono e confondono tra le rocce. Se non fosse per il ghiaccio il paesaggio sarebbe davvero lunare. Il silenzio è rotto solo dalle folate di vento. Io procedo lentamente in questa tappa che sembra non avere mai fine. A un certo punto, su un grosso masso, c’è la scritta Welcome to Gokyo Lake, lo oltrepasso ma il lago non si vede neanche all’orizzonte. Som mi osserva costantemente, studia ogni mio passo, ogni mio respiro. E’ apprensivo come un fratello. Un ragazzo d’oro. Mi fermo parecchie volte perché a sto punto, devo essere sincera, sono davvero stanca. Premetto, non ho male alle gambe e non ho il respiro corto, sono solo stanca e vorrei solo stravaccarmi al suolo a riposare un poco. “Come on let’s go, the lake is so close, we cannot stop now, snow is coming”. E già. Quando scorgo il lago di Gokyo è un tuffo al cuore. Tutto completamente bianco di ghiaccio, circondato a anfiteatro da una cresta montuosa altrettanto bianca e gelata, le cui guglie si confondono tra le nubi cariche di neve. Il villaggio è adagiato sulla riva del lago in un paesaggio strepitoso. A Nord, oltre la morena del Ngonzumpa Glacier, svetta la piramide della dea Turchese, il Cho Oyu, l’ottomila che mi protegge. Ho sempre sentito la sensazione che questa montagna mi accogliesse e mi abbracciasse con le sue nevi perenni. Anche quando sono stata sotto di lei in Tibet ho provato sensazioni di pace e tranquillità. Con l’Everest ho un rapporto diverso, lui è più caratteriale, lunatico, come me…ci cerchiamo e ci respingiamo. Quando lui mi accoglie spesso si nasconde dietro le nuvole e quando è libero e si staglia nell’azzurro, i suoi venti sembrano dirmi di fermarmi e di guardarlo solo a distanza. Salgo la scalinata del Gokyo Lodge. Miseria mia che freddo. Vado in camera e sistemo le mie cose: il sacco a pelo e i piumini per la notte. Penso alla Bolivia. Lì era molto più freddo e non c’erano manco le stufe. Però il clima era secco. Qui in Nepal, in valle piove e su in montagna nevica, l’umidità è tanta e il freddo ti entra nelle ossa. Vado al bagno, mi lavo le mani e resto pietrificata. Quando entro nel bagnetto devo stare attenta perché c’è già una lastra di ghiaccio per terra. Far pipì di sera e al mattino presto sarà un’impresa.
Vado nella dining e qui finalmente c’è tepore. Il tetto di lamiera fa da lente di riscaldamento, inoltre la stufa è miracolosamente già accesa. Mi bevo un bel po’ di acqua calda con lo zucchero e cerco di rilassarmi chiacchierando con degli americani e con le loro guide nepalesi. Nevica un sacco e Narayan dice che il Cho La sarà impraticabile. E’ troppo pericoloso. Se si vuole andare a Lobuche e ci si tiene alla pellaccia si deve per forza scendere a Portse e fare il giro di là. Non è che io avessi ambizioni così grandi, però magari se fosse stato bello un tentativo al Cho La avrei potuto farlo. Som scuote la testa. O si resta qui qualche giorno per vedere se il meteo migliora, ma noi non abbiamo tempo, o si torna giù.
Penso che io non avrei dovuto essere qui. A quest’ora sarei dovuta essere già a Lobuche, dall’altra parte della valle. Mi assale il nervoso. Ma non si può avere tutto dalla vita. Credo di aver fatto già tanto a intraprendere il trekking di Gokyo al posto dell’EBC. Tutte le guide hanno sprecato mille parole dicendomi che qui è più bello, più incontaminato, con i paesaggi più aspri e spettacolari. Inoltre è un trek più impegnativo perché arriva alle stesse altitudini dell’EBC ma con saliscendi più impegnativi e meno giorni di cammino. Che ne so…mi devo fidare. Tanto il Nepal è casa mia, non è certo l’ultima volta che sarò qui. Alla fine sono felice. Prima di partire, Carlitos mi disse: “Come non vai a Gokyo? Ma sei matta?” E io gli avevo risposto: “Carlo io non ce la posso fare…Gokyo è troppo impegnativo, vado all’EBC che è più fattibile”. Adesso sono qui, a Gokyo, sotto il Cho Oyu e mi riempio i polmoni di aria sottile col sorriso sulle labbra.
Partite a carte, giochi di prestigio, la serata al rifugio la trascorro piacevolmente. Alle 21.30 tutti a nanna.
IL GOKYO RI E LA DISCESA A DOLE
Io dormo coi tappi, se no sento la gente russare. Som dorme malissimo. Al mattino ha un bel mal di testa e mi racconta di essersi svegliato varie volte in apnea notturna per l’altitudine. Io ho dormito come un sasso. Per fortuna. Ci alziamo alle 4.30, e usciamo. Il cielo appena illuminato non ha neanche una nuvola. Il paesaggio è indescrivibile. Sembra un quadro immobile. Gli unici rumori che si sentono sono dei crepitii che poi sfociano in sordi boati. Il ghiaccio che si sposta e si spacca. Fa davvero impressione. I sassi in riva al lago scricchiolano sotto le suole dei miei scarponi e dai rifugi si alza una nebbiolina di condensa che rende il tutto un po’ spettrale. Il lago e la montagna che si specchia sul ghiaccio della riva, sembrano pennellate in una pittura a olio. Alla base del Gokyo Ri iniziamo la via per la vetta. E’ così ripido. Non pensavo. Dopo un po’ dal basso spunta qualcuno. Altri trekkers si stanno incamminando verso i 5.380 metri della cima di questa collina, come noi.
A circa 5.000 metri inizia lo spettacolo. Il vento si alza e la cima del Cho Oyu, coperta di neve, diventa rosso fuoco, proiettando il colore nel cielo grazie alla neve che vola via dalle sue pendici spazzata dal vento fortissimo.
Un bel po’ di metri sopra ecco che appare il famoso panorama del Gokyo Ri.
Si inizia col Cho Oyu, poi il Pumori, l’Everest, il Nupse, il Lhotse, il Makalu, il Baruntse, il Cholatse, il Kangtega e il Thamserku. Vorrei urlare di gioia ma non mi esce voce. Sono in mezzo all’Himalaya, sotto di me il villaggio di Gokyo, i laghi ghiacciati e l’imponenza del ghiacciaio Ngonzumpa che si confonde tra le montagne colossali del Khumbu. Non ho parole. Solo una grande felicità. Sono alle pendici di quattro delle più alte montagne della terra. Ora posso anche tornare a casa. Pian piano la luce si alza e quando scendo giù, nella morena del ghiacciaio, mi siedo su un sasso a riposare nel silenzio, ipnotizzata dalle pareti bianche del Cho Oyu. A un certo punto due sbuffi di neve appaiono all’improvviso a un terzo dalla cima della montagna come due piccole nuvole e velocemente, rotolano giù allargandosi in maniera impressionante in una valanga che finisce alla base della montagna con un boato terrificante, inghiottendo tutto il panorama nel suo pulviscolo ghiacciato. Resto attonita e sgomenta e mi auguro che nessuno sia al campo base. In tanto la neve sotto i miei piedi si sta sciogliendo ai raggi del sole e io penso al timore reverenziale con cui affronto di solito la montagna. So che è l’atteggiamento giusto. La montagna ci mette un attimo a ridimensionarti, a rimetterti a posto, in riga, a ricordarti che qui comanda lei e che la devi rispettare, calpestare con attenzione, timore e reverenza. La montagna ti accoglie e ti protegge se la lasci così com’è, se non la invadi. In montagna ci devi andare un po’ come in punta dei piedi.
Mi raggiunge Som e andiamo a fare colazione. Le previsioni per i prossimi giorni sono pessime. Il rischio valanghe è molto alto. Dobbiamo tornare.
Al Lodge il gruppo di americani concorda con le guide di variare il giro verso Portse. In cinque giorni al prezzo di tre arriveranno a Lobuche, bypassando così il Cho La pass. Sono tutti rassegnati.
Le mie uova strapazzate sono una goduria e con Som finiamo il pacchetto di Digestive, che avevamo preso Khumjung, chiacchierando amabilmente. Oggi scendiamo a quote più umane e lasciamo i quasi 5.000 della valle di Gokyo. Bishnu non si vede. Dove sarà finito? Dopo una mezz’ora spunta tutto stropicciato dalla porticina della dining room. Ieri notte verso le 11 pm, lui e altri due porters hanno portato a spalla giù al rescue center di Machhermo un loro compagno bharya che ha avuto un accesso di Mal di Montagna Acuto. Poi è tornato su a piedi durante la notte e adesso è un po’ stanchino. “Bishnu at last you’re wearing your juttha, huncha? Gokyoma jharo cha” Gli dico io un po’ in inglese e un po’ in Nepali. “Finalmente ti sei messo le scarpe da ginnastica, eh? Qui a Gokyo è gelato”. Sì perché fino a ieri stava ancora coi sandali, facendomi venire i brividi solo a guardarlo. Lui ride: “Jharo chaina…chiso cha, huncha?” “ Non c’è gelo…fa freddo, eh?”. Va beh, penso io, fa solo freddo. Io ho rischiato l’osso del collo facendo pipì nella turca ghiacciata, ma fa solo freddo…
Con Som decidiamo di scendere direttamente a Dole e di non fermarci a Machhermo per la notte, accorciando così di una tappa il ritorno. Dovremmo farcela. Anche se arriveremo nel primo pomeriggio a Dole. Andrà bene lo stesso. Mal che vada prenderemo la nevicata sulla testa nel suo pieno. Siamo senza contatti con la valle appunto da Dole perché ne a Machhermo ne a Gokyo funzionano i cellulari. Qui si va di satellitare e sinceramente, andando tutto bene, non abbiamo più contattato nessuno. Se arriviamo a Dole un giorno prima e tentiamo, dopo aver fatto una notte a Namche, di scendere direttamente a Lukla, possiamo anticipare il volo di rientro in capitale di un giorno non arrivando giù a Lukla al pelo.
Ci incamminiamo velocemente in discesa andando incontro alle nuvole e lasciandoci alle spalle il Cho Oyu, i laghi e il nostro lodge.
Arrivati al passo sul colle sopra Dole, facciamo le foto al Thamserku mentre inizia nevicare e gli ultimi scalini che portano al lodge di Dole in discesa, li faccio coi piedi di piombo perché sono già coperti di neve. Il Dole Resort è un piccolo e curatissimo lodge al cui interno troviamo dei bellissimi affreschi sulla mitologia Buddhista, dipinti dal proprietario che è un grande appassionato di raffigurazioni sacre. Bevo un bel mint tea bollente e le prime tacche compaiono sul cellulare. Amrit mi sta chiamando. E’ preoccupatissimo: “Didi ke cha?” “Sorellina che succede?” Chiacchieriamo e gli racconto che su in alto non c’era campo, che siamo stati bene e che adesso stiamo scendendo tagliando le tappe. Mi passa Francesco che mi rimprovera bonariamente dicendomi che dovrei sapere che lui non chiama mai, se non se necessario, che sono da sola e che in questi giorni mi avrà invece chiamata una decina di volte per sapere come stavo. “Ciccia pensavo che Som, preso dalla disperazione, ti avesse eliminata in un precipizio”. Mi chiede se sono sicura di voler tornare. Come mi conosce… Per tranquillizzarlo gli dico che sto tornando indietro quasi di corsa.
Ceno con una zuppa di verdure, la mia immancabile scatoletta di carne e le patate fritte. Poi chiacchiere intorno alla stufa e a letto presto, prima delle 21.00, perché domani la tappa sarà bella tosta.
DA DOLE A NAMCHE BAZAAR
Al mattino sembra di stare sulle Alpi in inverno. Giù verso valle la pineta è tutta bianca e i prati circostanti, i colli e le montagne sono candidi di neve. Faccio una foto a uno yak che pascola sulla neve sullo sfondo del Kangtega. Che meraviglia. Mi sembra un paesaggio Natalizio. Il cammino da Dole a Mong è davvero duro, le salite sono in piedi e con gli scalini. In più c’è neve. Questa è la famosa tappa sali scendi che all’andata mi dissi che, se mai fossi ritornata indietro di qui, sarei stramazzata al suolo per la fatica. Sono davvero una mezza cartuccia. Comunque sul serio questo pezzo del tragitto mi ha provata. A Mong, tra la neve, resto in canottiera perché m’è venuta una scalmana di caldo per la salita. Mi cambio nella tipica toilette Sherpa. Un gabbiotto cubico tutto di legno, col tetto e l’interno coperto di foglie e frasche profumate di ginepro che frusciano al vento. Stamattina ha nevicato a tratti. L’Ama Dablam si intravede ogni tanto tra le nuvole dense e i fiocchi di neve. Dell’Everest manco l’ombra. Adesso fino a Namche sarà una passeggiata, peccato che le condizioni meteo non mi faranno vedere neanche un po’ di montagne. Più in basso, dal sentiero riesco solo a intravedere a valle, in lontananza tra i pini, la sagoma dell’Hillary Bridge che attraverserò l’indomani.
Quando faccio il curvone mi appare finalmente Namche Bazaar adagiata a metà valle. Incrocio una carovana di Yak con i materiali della spedizione dell’alpinista basca Edurne Pasaban che vuole tentare l’Everest senza ossigeno. Che le montagne la accolgano e la proteggano…penso tra me e me mentre mi fermo a lato sentiero per farli passare. Al lodge, dopo aver salutato Tenzing, salgo in camera e mi faccio una bella doccia calda. Faccio anche il bucato finalmente! E’ da Khumjung che non mi lavo seriamente e mi sento decisamente impolverata. Mi metto un paio di pantaloni leggeri, una maglia di cotone a maniche lunghe, i miei Teva e scendo giù in centro all’internet point. Mi sembra che qui faccia davvero caldo, ma non dev’essere così visto che i trekkers che incontro hanno tutti il pile e il piumino. Di certo rispetto a stamattina c’è una differenza di almeno una dozzina gradi in più. Som intanto chiama gli amici di Lukla per anticipare il volo. Domani pomeriggio dovremmo arrivare giù e dopodomani mattina partiremo per Kathmandu.
A cena mi mangio l’ultimo riso fritto con le verdure in cucina con le guide e i gestori, mentre nella dining room i pochi trekkers se ne stanno ad aspettare le loro pietanze. Quest’anno sono salite su meno persone, mi dice Tenzing, il tempo è davvero insolitamente brutto. Non è facile fare trekking in queste condizioni. Chiacchieriamo un bel po’. Io gli racconto della mia deviazione a Gokyo, lui mi racconta le sue impressioni sui paesaggi dal Kala Pattar e dal Gokyo Ri. Vado a letto che tira un vento forte. La mattina mi devo svegliare alle 7.00 per fare le due tappe in una che mi porteranno a Lukla. Ci impiegherò sette ore facendo innumerevoli soste e perdendomi a osservare il circo dell’Everest che sale pian piano.
DA NAMCHE BAZAAR A LUKLA
Quanti Bharya incontro che camminano curvi e schiacciati dai pesi che hanno sulle spalle, che sono enormi rispetto alla loro corporatura. E ha voglia la gente a dirmi che sono abituati, che hanno fibra forte. Sono tutti più giovani di me ma sembra abbiamo almeno 10 o 20 anni in più rispetto alla loro età. Ne incontro uno che ha sulla schiena sette materassi, un altro trasporta quattro bombole del gas, poi ce ne sono due che hanno quattro porte di legno caricate sulla schiena, un altro che ha talmente tante taniche addosso che gli si vedono solo le gambe dai polpacci in giù. Incontro un gruppo di Bharya che si coprono il viso con un fazzoletto e sono curvi sotto gerle ripiene di carni macellate chissà quanti giorni fa. Impressionante.
Qualche giorno fa, in una tea house a Phunki Thanga, ho conosciuto Tsering. Mi ha raccontato che, mentre trasportava 60kg di materiale, era scivolato sul percorso spaccandosi l’infradito e slogandosi la caviglia. Aveva un cotechino al posto del piede e non riusciva a reggersi, ma era più preoccupato del fatto che non sapeva se sarebbe riuscito a portar su il materiale al Campo Base piuttosto che per la sua caviglia. Gli abbiamo spalmato un unguento a base di ketoprofene, raccomandandogli di stare a riposo qualche giorno e di fare impacchi freddi. La maggior parte dei portatori ha tre sacconi da spedizione sulla schiena, legati tra loro con una corda, che sorreggono sulla sommità della testa mettendo in tensione tutti i tendini e i muscoli del collo. L’anno scorso uno dei figli di Ama Sherpa è scivolato su un gradino del sentiero per Lobuche, ha perso l’equilibrio e nella caduta, la corda che reggeva i sacconi gli ha spezzato l’osso del collo per il peso.
I portatori sono come piccole formiche che trasportano foglie e sassolini che sono il triplo di loro.
I Bharya, come le formiche a piedi ai piedi degli ottomila.
Senza di loro la stragrande maggioranza di noi occidentali non salirebbe a fare trekking turismo nelle valli nepalesi. E pochissimi sarebbero in grado di salire i giganti della terra senza il loro aiuto. L’Everest viene totalmente attrezzato due volte l’anno. Almeno un centinaio di nepalesi salgono sul tetto del mondo, montando scale, corde fisse, spianando e attrezzando la via che i turisti alpinisti di tutto il mondo dovranno affrontare per arrivare in cima al tetto del mondo con le spedizioni commerciali, aiutati da almeno una guida ciascuno che li spinga e tiri su e da un portatore che porti loro in cima le bombole d’ossigeno che gli serviranno per arrivare in vetta a passo di lumaca. L’Alpinismo è un’altra cosa, come diceva Bonatti, questo è il turismo degli ottomila. Io dico che ognuno ha i suoi limiti e il suo Everest. Il mio è sempre lì, e io lo guardo con rispetto e riverenza dal basso, ai piedi delle sue pendici, ascoltando i segnali che la montagna mi manda per farmi capire fino a quanto mi posso a lei avvicinare e mai pensando di essere più forte, più audace, più furba di lei.
Prima di entrare a Lukla mi fermo una mezz’ora ad osservare i decolli e gli atterraggi da dietro l’ultima collina. Gli aerei appaiono tra le nuvole e sembrano sparire nella pineta atterrando, e spuntare da essa durante il decollo.
La sera mi faccio un bel piatto di Sizzler di pollo con le verdure grigliate e chiacchiero con una ventina di inglesi che stanno festeggiando la fine del loro trekking.
DA LUKLA A BHAKTAPUR
Il mattino seguente alle 7.30 decollo, col cielo sereno, sullo strapiombo di Lukla alla volta di Kathmandu, lasciandomi dietro di nuovo le mie montagne con un velo di malinconia.
A Bhaktapur tutti mi stanno aspettando. Francesco, Amrit, Yam e i ragazzi del Planet. Ho portato le Khate benedette dal Khumbu per tutti loro e so che mi faranno una gran festa. Starò in valle gli ultimi giorni prima di rientrare in Italia. Ma questi giorni non ve li racconto, li tengo per me nel mio cuore e nella mia memoria.
Quando il boeing della Jet Airways che mi porterà in Italia inizia il decollo, le lacrime iniziano a scendere da sole sul mio viso. Non riesco a smettere di piangere e mi addormento così, sfinita per la disperazione del distacco dal mio tetto del mondo, tutta rannicchiata sotto la coperta e distesa sui soliti tre sedili in fondo all’aereo. Dai su, tra meno di tre mesi sarò di ritorno, di nuovo in Himalaya.