Mosca: La cortina di ferro di arrugginita
Da buon mercante quale sono stato nelle mie vite precedenti (oltre che in quella attuale), aborrisco le frontiere. Sono la morte dell’economia, barriere destinate soltanto ad generare odi e violenze. Certo ci sono frontiere e frontiere, in qualcuna non ci sono più neanche i doganieri, altre invece sono o sono state muri quasi invalicabili, preda delle bizze di ottusi personaggi in cerca di scuse per angariarti. Una delle più celebrate è stata la Cortina di ferro. Chi è stato a Mosca in quegli anni non dimentica certo l’occhio indagatore che ti spogliava (quando non lo faceva per davvero) in cerca di materiali sospetti o di piccole imperfezioni sul visto. Ed era proprio a questo ferale passaggio, che in un bel mattino di maggio, mi dirigevo per tornarmene a casa, dopo una dura settimana moscovita. Al mattino, io ed il mio collega ce ne eravamo scesi fino al bancone dell’Inturist, il mostro parallelepipedo che ancora dominava la Tvierskajia, e dopo la consueta scialba colazione, avevamo ritirato i nostri passaporti che una stanca addetta ci aveva gettato con mala grazia. Intascato ognuno il nostro, ci eravamo diretti, lui all’aeroporto di Domodiedovo per prendere un aereo per Celjiabinsk ed io a Sheremetievo dove l’airone giallo della Lufthansa mi attendeva per portarmi a casa. Conoscendo la lunga ed attenta trafila, mi ero presentato tre ore prima; cominciò così il lungo percorso ad ostacoli. Quasi all’ingresso, il primo controllo del passaporto e del bagaglio per verificare che non esportassi niente di illegale, poi il ritiro della dichiarazione di valuta inserita nel passaporto stesso. Tutto bene; poi il check in, biglietto alla mano, ritiro valigia, nuovo controllo del passaporto prima del rilascio del boarding pass, non fosse mai che partissi al posto di un altro, infine l’ultimo passaggio, la lunga fila del controllo del visto sul passaporto per evitare gli espatri clandestini. Dopo una bella mezz’ora, la fila si stava dipanando ordinata, finalmente tocca a me, mi avvicino all’occhiuta controllora e, con l’astuzia proveniente dai tanti passaggi effettuati, apro il passaporto alla pagina iniziale per facilitare la ricerca dei dati e quale non è il mio orrore quando mi accorgo che il passaporto che sto per porgere al controllo non è il mio ma quello del mio collega, evidentemente e maldestramente scambiato al mattino. Lui magro e più anziano, con barba ed occhiali, mentre io ne ero privo. Mentre cerco di inventare una via di uscita e di ritrarre il libretto, il cerbero glaucopide, me lo strappa con malagrazia di mano, se lo appone sul desco apprestandosi ad un sabba infuocato. Sono impietrito nella mia posizione, afono ed immoto in attesa del fischietti degli OMON con la mitraglietta, cercando come spiegare di essere arrivato fin lì senza pervicace intento di nuocere. Il donnone mi squadra, sfoglia il libretto, batte sui tasti, controlla ancora il visto e la foto, ecco, adesso sono morto, allunga la mano per chiamare la sicurezza. Invece afferra il timbro e con occhio severo ma giusto, appone due stampi e mi ridà il passaporto ed io mi ritrovo al di là della barriera sospinto dal cliente successivo, in terra di nessuno , forse in salvo, la fiumana mi spinge percorro il budello fino al gate, mi palpeggiano per vedere che non abbia icone nascoste o scatole di caviale da sequestrare (quelle le avevo già messe in valigia), mi ritirano il pass, salgo sull’aereo, i motori rombano, sono partito. Diversa la situazione a Francoforte, dove due gendarmi alla scaletta del velivolo, dopo aver gettato uno sguardo interrogativo al passaporto, mi caricano ghignando, su una macchina con scritto Polizei con sirena. Nell’ufficio alle mie spiegazioni stranite in anglo-tedesco-mandrogno, si fanno un sacco di risate e mi dicono che saranno cavoli del mio collega e mi riaccompagnano all’aereo che mi attendeva fedele; nessuno a Malpensa, benedetto Shengen. Dormivo così il sonno del giusto, quando alle sei di mattina mi sveglia una telefonata dalle profondità degli Urali dove erano già le 9 e la fida Stefi si era accorta che il passaporto del collega (che aveva passato altrettanti controlli a Domodiedovo) non corrispondeva. Non deve essere stato facile per Gianni sistemare la questione, anche quando ricevette indietro il passaporto buono, perchè dai timbri il collega risultava inoppugnabilmente già uscito dalla Russia e nella frontiera più controllata del mondo questi e(o)rrori non possono accadere, senza un dolo pervicace, ma in qualche modo ci riuscì e anche il collega tornò a casa. Enrico Bo enricob2@tin.It