Marocco: Rabat, Marrakech, Ait Ben Haddou
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Superati i controlli di sicurezza, zaini in spalla siamo pronti per l’imbarco.
Intorno al banco si accalcano i passeggeri in partenza per Casablanca, italiani e soprattutto marocchini di rientro in patria: la prima cosa che mi colpisce osservando i miei compagni di viaggio è che tra di loro vedo mio nonno; solo che mio nonno è morto circa 30 anni or sono! Eppure il viso scavato e rugoso di quest’uomo che sto osservando di profilo è proprio quello di mio nonno, almeno come me lo ricordo io; perfino il vestito, giacca nera, camicia e pantaloni lisi mi ricorda l’immagine che ho di lui, dignitoso e consumato impiegato in pensione del comune di Roma a cavallo tra gli anni 70 e gli anni 80.
Comincia il viaggio, Marocco, terra di affinità.
Durante il viaggio in aereo io e KK chiacchieriamo un po’ con una famiglia Marocchina, marito e moglie di ritorno in patria dopo aver visitato un parente malato in Italia: sono persone semplici, i lineamenti segnati dalle abitudini di una vita che noi non conduciamo più e che pure ha lasciato segni indelebili nella memoria, i volti della mia infanzia, le abitudini ed i modi di fare dei nonni e delle persone anziane che vivevano nella mia parte di mondo; non è la prima volta che viaggiando all’estero ho l’impressione di fare un viaggio all’indietro nel tempo, ritrovando gesti, odori, sapori, sguardi ed usanze che, conosciute da bambino, avevo poi dimenticate nell’accelerazione inarrestabile della vita; non è la prima volta che viaggiando all’estero mi sia sentito a casa, nella mia Heimat, anche più e meglio che a casa mia: forse anche stavolta sarà così, chissà. Mi carico d’aspettativa che è la madre di tutte le delusioni! Accetto il rischio.
Io e KK abbiamo scelto il volo da Roma per Casablanca, solo per una questione di convenienza economica (KK lavora in Alitalia.): infatti da quella città, che non è la capitale del Marocco e che tutti ci hanno sconsigliato (guide turistiche e conoscenti Marocchini), da quella città muoveremo subito per Rabat, la vera capitale del Marocco.
Ma a Casablanca comincia il nostro Marocco e quel poco che abbiamo visto e vissuto lì vale la pena di essere raccontato.
Dunque io e KK, bagaglio a mano e zaino in spalla atterriamo all’aeroporto di Casablanca che si chiama Mohammed V: sbrighiamo le prime formalità con i passaporti, niente di particolare. Io e KK sbiascichiamo poche parole di Francese, Arabo neanche a pensarci; ciò non ostante non incontriamo grossi problemi burocratici, veniamo aiutati a compilare qualche modulo e poi “sdoganati” dai baffuti agenti di polizia.
Come descrivervi l’aeroporto Mohammed V? un aeroporto internazionale come tanti, abbastanza moderno, nessun problema.
Al suo interno c’è la stazione del treno che ci condurrà a Rabat, trovarla non è stato molto difficile: degli addetti ci indicano il percorso e poi un ragazzo marocchino in fila allo sportello ci aiuta a fare il biglietto avvalendosi di una minima conoscenza dell’inglese. L’impiegato allo sportello ci fà il biglietto e alla mia richiesta “Wich Platform?”, “Quale Binario?”, quello risponde con un gesto del pollice indicando la porta dietro di se: in effetti subito dietro il gabbiotto della biglietteria c’è una porta da cui si accede alla stazione, appena due binari e le piattaforme d’attesa per i passeggeri. Un luogo un po’ strano, misero, lugubre e claustrofobico; comunque il treno non è ancora arrivato e così io e KK decidiamo di concederci la prima boccata d’aria marocchina. Dato che alla fine delle lunghe piattaforme i binari escono all’aria aperta, percorriamo sornioni la banchina ed oltrepassiamo la tettoia di pochi metri: poichè non ci sono segnaletiche di divieto in tal senso, diamo una sbirciatina allo spicchio di cielo che il cemento della struttura sovrastante ci concede e facciamo la prima vera conoscenza del Marocco. Notiamo che dall’ingresso della stazione un tizio in uniforme, presumibilmente un poliziotto, si dirige molto pigramente verso il punto dove ci troviamo, oltre la tettoia. L’andatura lenta e caracollante del soggetto non ci incute un particolare timore e quindi lo ignoriamo continuando a parlottare appoggiati al muro; non crediamo stia venendo per noi ma il poliziotto ci raggiunge, ci saluta cordialmente e poi comincia a chiederci chi siamo, cosa ci facciamo li, ecc. ecc.
Ci convinciamo che quella sia la nostra festa di benvenuto. Il poliziotto ci informa che non è consentito sostare oltre la tettoia della stazione, è per motivi di sicurezza ci dice indicando con gli occhi i cavalcavia sopra di noi; io gli rispondo che mi spiace ma non avendo notato cartelli di divieto abbiamo pensato di prendere un po’ di sole in attesa del treno.
Nessun problema, mi fa il poliziotto sorridendo, ora però dovete seguirmi!
Ma no, seguirti dove? In guardiola per un controllo? ma no monsieur, volevamo solo prendere un po’ di sole, non c’erano i cartelli e poi il treno sta per arrivare, s’il vouz plais, please ci scusi tanto ma non ci faccia perdere il treno.
Niente da fare, il poliziotto sorride, è gentile ma inamovibile: dobbiamo seguirlo! E allora interviene KK con la solita diplomazia: la storia del cartello non le va proprio giù, lei è una donna di regole e non la si può accusare di aver infranto un regola che non c’è. KK attacca una filippica micidiale alternando l’italiano a qualche frammento di francese ed aiutandosi con un ampio gesticolare nervoso, un misto di scattosità Sovietica e di sovraccarico emotivo Mediterraneo che diverte non poco l’amico tutore dell’ordine il quale tuttavia, pur sorridendo sotto i baffi e lanciandomi delle occhiate complici, non può che ribadire: madame, oui ma dovete seguirmi.
Colgo l’attimo e sfoggio i miei occhioni dolci confidando al poliziotto: monsieur, c’est la femme! Che ci vuole fare, lo sa come sono le donne, parlano troppo ci deve scusare, è solo che non vuol pedere il treno…
Mi chiede se KK è mia moglie e io con fare complice rispondo con un alzatina di spalle: abbracci, raccomandazioni di stare più attenti in futuro e lasciapassare per il treno. Italia 1 Marocco 0, è stata un partita divertente, anche per il poliziotto credo.
A dire la verità io un giretto in guardiola con il nostro amico in divisa me lo sarei fatto pure volentieri, non penso avrei fatto la fine del protagonista di Fuga Di Mezzanotte; comunque meglio così, siamo sul treno per Rabat e certamente abbiamo risparmiato qualche ora e qualche mancia per la buonuscita.
Il treno lascia l’aeroporto e ci consegna le prime immagini vere del Marocco: la periferia di Casablanca sembra dar ragione a chi ci ha sconsigliato di visitare quella città, e quello che vediamo dopo la periferia conferma ulteriormente che questo non sembra proprio essere un posto da Mille e Una Notte. Attraversiamo villaggetti sudici con case di terra molte delle quali, noto con un certo sgomento, non hanno neanche il tetto; in compenso molti animali in giro, cani, capre, galline, molte stradine in terra battuta, molta immondizia precipitata dai bordi delle strade nel letto della ferrovia.
Finchè dopo circa un ora di viaggio su un treno comunque più che decente arriviamo a Rabat.
Primo Giorno – RABAT
Rabat Ville: le città in Marocco arrivano così, senza preavviso.
La stazione di Rabat Ville consta di due o tre binari appena: abituati alle monumentali stazioni delle capitali europee rimaniamo un po’ delusi, ma l’ambiente è carino, in stile coloniale e aperto alla luce del sole, cosa che ci conforta un poco. Speriamo solo di non aver sbagliato fermata, dato che ormai la giornata volge al tardo pomeriggio.
Usciamo dalla stazione e ci troviamo in un quartiere abbastanza moderno, in stile post coloniale, attraversato da un lungo viale che dovremo percorrere per raggiungere la medina dove si trova il nostro Hotel. Avenue Mohammed V è l’arteria principale della città, un ampio vialone con dei giardini a centro dove passeggiamo insieme alle famiglie marocchine ed osserviamo i bambini intenti ai loro giochi di bambini: si respira una aria rassicurante, il traffico non è esagerato e decidiamo di concederci un tè alla menta in un grande bar sulla prima piazza che incontriamo. Dopo aver bevuto il tè ed osservato brevemente la fauna umana di passaggio, decidiamo di rimetterci gli zaini in spalla e riprendere il cammino; lasciamo alcuni clienti del bar nella loro posizione immobile, immutabile, seduti davanti ad un bicchiere di tè sempre pieno a metà; ci guardiamo stupiti chiedendoci come mai tutto quell’immobilismo, capiremo in seguito.
Dunque camminiamo per una ventina di minuti lungo Mohammed V, il crepuscolo avanza sornione, infine avvistiamo la medina. Un muro di umanità brulicante al pascolo frenetico sotto le vecchie mura viene inghiottita e rigettata in strada senza sosta dalla grande Bab El Had, la porta d’accesso alla medina che dovremo attraversare tutta, fino al lato opposto, per giungere infine al nostro Riad (si chiamano così gli alberghi tradizionali in Marocco); l’impresa mi appare improba e confido a KK che preferirei prendere un taxi per raggiungere l’altro capo della città vecchia: sono stanco, frastornato e penso che non ce la farò mai ad infilarmi in quella folla impenetrabile. Quello che ancora non so è che lo spettacolo a cui assisto terrorizzato, la turba della medina di Rabat che ora mi disorienta e mi appare caotica è appena il minimo sindacale, niente in confronto ad altre medine che incontreremo di li a breve. Comunque a me pare impenetrabile ma con KK non c’è niente da fare, si va e basta, chi si ferma è un uomo morto! Oltrepassiamo Bab El Had (Bab in arabo significa porta, e solitamente le medine sono circondate da imponenti mura che ospitano le monumentali porte d’ingresso) e ci facciamo trascinare nel suk dal moto caotico ma nient’affatto spiacevole della folla. Il primo impatto con il Suk è disorientante, non capisco un granchè di quello che vedo e sento, mi limito a seguire le mie scarpe che mi porteranno dritto, dritto all’altro capo della medina, al nostro Riad. Ma quello che gli occhi non riescono a cogliere viene recepito più facilmente dal naso che non è intelligente ma istintivo: odori e profumi deliziosi mutano di passo in passo con una velocità che fa aumentare il disorientamento ma anche la curiosità e l’appetito. Ci fermiamo ad un banco dove tra fumi infernali ed un vociare assordante preparano e servono Hamburger Marocchino, che si chiama Kefta: carne macinata che viene estratta da enormi sacchi di plastica simili a sacchi del cemento o, volendo, simili a giganteschi involucri di carne per cani; la carne viene riversata su una piastra bollente e addizionata di un congruo numero di uova fresche che cotte rapidamente e mischiate alla carne vengono poi infilate in un panino e servite agli avventori: de-li-zio-so! Kefta, non avrete modo di farvelo mancare.
Riprendiamo la marcia verso il fondo della medina, attraversando l’inverosimile: banchi di mutande, di datteri, di olive, ambulanti che fanno il succo di canna da zucchero, negozi grandi metà del mio sgabuzzino, asini, carretti, motorini, biciclette, pedoni che provengono da ogni direzione; il crepuscolo è ormai calato ma ce l’abbiamo fatta, siamo arrivati dall’altro lato.
E ora? Scusi, il Riad Dar Zouhour? Ah si, seguite le mura poi rientrate nella medina alla seconda a destra e poi seguite prima il muro azzurro e poi quello rosso. Mercì Monsieur. De rien mon amis, Wa Aleykum As Salam. Non è che Zouhur non ci avesse fornito le indicazioni necessarie per raggiungere il Riad ma data l’ora, il frastuono, la stanchezza, il buio ormai incombente e, non ultimo, il fatto che fin li avevamo completamente disatteso le indicazioni dell’albergatore, ci sembra più saggio seguire le informazioni fresche raccolte in strada ed in effetti, sbagliando direzione appena un paio di volte ci ritroviamo di fronte al portone del Riad Dar Zouhur. Bussiamo, entriamo, reception e poi il patio: in-can-te-vo-le! Sul patio (che non sto a descrivervi, andate e cercate le foto su internet) si affacciano tre grandi porte in legno alte circa tre metri, sovrastate ognuna da un arco moresco di pietra finemente intarsiata: la porta di destra conduce alla nostra stanza che è lunga e stretta, con i soffitti (mi pare) a volta ed i muri tappezzati di Zellij, le famose mattonelle a mosaico dal cui nome proviene anche il termine Azulejos, le famose piastrelle portoghesi. Bello, molto bello Dar Zouhur, uno di quei tipici luoghi da mille e una notte che hanno reso l’oriente affascinante e famoso in tutto il mondo: ricavato come tutti i Riad da vecchi palazzetti che per semplicità definirò andalusi e ristrutturati da europei ad esclusivo uso e consumo dei turisti (con prezzi ovviamente da turisti), i Riad non sono frequentati dai viaggiatori marocchini i quali non possono permetterseli; peccato!
Nella stanza noto tra le altre cose il più geniale oggetto di design che abbia mai visto in vita mia: su un tavolino vicino al divano ci sono due bicchieri ed una piccola bottiglia d’acqua rivestita di metallo decorato in stile marocchino e chiusa con tappo anch’esso di metallo. Quando vado a svitare il tappo per assaggiare e rendere onore al gentile omaggio mi stupisco non poco nel notare che la bottiglia in realtà è una comune bottiglia di plastica da supermercato, contenente ordinaria ma innocua acqua da supermercato, infilata dentro un cilindro di latta intarsiata e decorata: a completare il travestimento un tappino di latta, collegato con una catenella al resto del cilindro, nasconde perfettamente il brutto tappo di plastica blu. Geniale: come rendere bellissimo un oggetto bruttissimo (tale io considero le bottiglie di plastica) ad un costo bassissimo e con una durata infinita nel tempo; ne ho comprato uno l’indomani mattina e ce l’ho a casa da oltre cinque anni senza che presenti neanche un puntino di ruggine: io abito al mare, a Torvajanica dove si arrugginiscono anche le unghie dei piedi J
Bene, bando alle ciance, sono le 21 e 30 usciamo a cercare un ristorante, sia mai di andare a letto senza cena.
Ma di ristoranti non ce n’è: nonostante lo zelo e la gentilezza di vari passanti che incrociamo nella medina che ci indicano o ci accompagnano presso locali di loro conoscenza, troviamo tutti i ristoranti chiusi. Oggi è festa, il compleanno di Maometto….. una cosina così!
Troviamo aperto solo un baretto a ridosso delle mura denominato Restaurant El-Bahia dove i clienti marocchini sorseggiano tè e fanno due chicchiere; comunque servono anche da mangiare ci facciamo due insalate! Ho evitato di mangiare datteri e olive al Suk, e vi assicuro che è stato un grande sacrificio perché l’odore era irresistibile; poi mi mangio un insalata! Verdura cruda! Ma si può essere più scemi! Intendiamoci, niente ripercussioni intestinali di rilievo, ma a quel punto non potevo anche rimpinzarmi di datteri e olive al Suk?
Fine della giornata, rientriamo al riad, doccia, bacetti e sogni d’oro inebriati dal profumo di sandalo proveniente dai mobili.
SECONDA E TERZA GIORNATA – Rabat
Colazione nel patio, piadine di mais, burro, marmellata, caffè, latte, datteri, frutta secca, yoghurt ed altre simili amenità: molto gustose ma col difetto di essere l’unica ed inviolabile variante di colazione marocchina per turisti, in qualsiasi riad io abbia soggiornatato.
Le macchinette fotografiche cominciano a scaldarsi, KK si concentra sugli intarsi dei muri e sulle lampade del Riad, io boh, scatto a casaccio, sono ancora troppo stanco e frastornato. Poi usciamo all’avventura.
Che dire di Rabat? E’ una città piccola e ben curata (del resto ci vive il Re) che alterna quartieri antichi (Kasbah, Medina), quartieri in stile più o meno coloniale (Ville Nouvelle) e siti archeologici.
Abbiamo visitato vari siti a Rabat (ed ora ve li descriverò tutti) ma la cosa che ci ha colpito di più è stato il cimitero As-Shouadà che vi raccomando vivissimamente e lo sottolineo tre volte perché non è uno dei luoghi più gettonati sulle vie turistiche.
Siccome io e KK faccio turismo free, che consiste sostanzialmente nel seguire le punte delle scarpe e l’istinto, ci capita a volte (quasi sempre) di scoprire cosine niente male e questo cimitero a mio giudizio è una di quelle cosine, che forse neanche dovrei raccontare che poi se diventano di massa…
Inoltre, occhio! È un cimitero! Non è sacrilegio il volerlo visitare ma, mi raccomando, comportatevi bene: so che ce la potete fare.
Dunque il cimitero As-Shouadà (che credo significhi cimitero dei martiri, stando a Google Map e non certo alla mia conoscenza dell’arabo) è una distesa immane di tombe islamiche e non è tenuto particolarmente bene, pero… le tombe sono adagiate su una collina che digrada verso l’oceano infinito, uno spettacolo da mozzare il fiato. Vi consiglio di visitarlo entrando dalla sommità della collina, da un piccolo cancelletto di ferro che si trova su Avenue Laalou proprio di fronte alle mura della medina; il cancelletto non è molto visibile e non sembra dover condurre a niente di speciale, buona ricerca.
La Moschea di Hassan e l’annesso mausoleo di Mohammed V sono i monumenti più famosi ed importanti della città e sono situati nella Ville Nouvelle a circa 20 minuti a piedi dalla medina (ma dipende dai piedi). La Moschea di Hassan è chiamata anche la moschea incompiuta per via del fatto che la sua costruzione fu interrotta in corso d’opera quando orami mancava “solo” (si fa per dire) il tetto! Nel 1199 alla morte del sovrano Yacoub el Mansour, che voleva costruire la più imponente moschea del mondo arabo, i lavori terminarono bruscamente lasciando il monumentale progetto incompleto oltre che del tetto anche di buona parte del minareto (Torre di Hassan) che aveva raggiunto appena 44 degli 86 metri di altezza previsti. Si accede quindi al giorno d’oggi in una grande spianata a cielo aperto dove a farla da padrone sono le colonne in numero tale da proiettare il visitatore in una sorta di bosco di marmo; se qualcuno di voi lettori ha avuto modo di visitare la moschea di Cordoba potrebbe capire di cosa sto parlando: immagini questo qualcuno di scoperchiare il tetto della Mezquita Andalusa e si ritroverebbe più o meno a passeggiare nello scenario surreale della Moschea di Hassan a Rabat con le sue innumerevoli colonne ed il suo mezzo minareto puntati verso il cielo aperto. Molto bello, affascinante, surreale… stimolante.
La Necropoli di Chellah è un interessante e ben tenuto sito archeologico che si trova a circa un’ora a piedi (ma dipende sempre dai piedi) dalla medina: per gli amanti del genere, e anche per i non amanti, vale senz’altro la pena di visitarla perché la grande attrattiva del luogo, oltre come detto alle ben tenute rovine della necropoli, sono le cicogne che lo hanno adibito a loro lussuosa ed esclusiva dimora. Dopo la visita, rientrando verso il centro attraverso Rue Yacoub el Mansour potrete anche ammirare l’esterno dell’università e del palazzo reale.
La Kasbah Oudaia, situata appena fuori dalla medina nella zona nord, la zona dell’oceano per capirci, affaccia oltre che sull’oceano anche sul fiume Bou Regreg; è carina, c’è di meglio in giro.
Suk. All’interno della medina, non sto a descriverlo: visitatelo senza una meta o una direzione precisa, non c’è grosso pericolo di perdersi ma c’è sicuramente il rischio di trovare qualcosa di interessante per riempire la valigia che vi consiglio di portare alquanto vuota.
Dar Naji, ristorante panoramico situato subito fuori le mura della medina dalla parte sud-ovest in Avenue Jazirat Al Arabe: si mangia bene, è pittoresco senza sembrare di plastica, il tè è buono così come la musica, la clientela è quasi esclusivamente turistica giacchè purtroppo i marocchini non usano sovente mangiare al ristorante, anche se le nuove generazioni stanno un po’ cambiando la tendenza.
Per concludere, Rabat è una città molto gradevole, il suo colore predominante è il bianco ed è a mio avviso il miglior punto di partenza per visitare le città imperiali del Marocco: le sue dimensioni contenute e la relativa omogeneità urbanistica tra i quartieri antichi e la Ville Nouvelle la rendono relativamente facile da visitare ed educano il viaggiatore impreparato (come lo eravamo io e KK all’epoca di questo primo viaggio in Marocco) ad affrontare realtà più complesse. Insomma a Rabat puoi farti le ossa e poi, ad esempio, puoi prendere un treno per Marrakech.
4-5-6-7 GIORNO – Marrakesh
Marrakech è una città infernale, ma dopo due giorni che stai li non vorresti più andartene.
Cinque ore di treno da Rabat (un buon treno, la rete ONCF non è troppo peggiore dei treni italiani) e dopo lunghissimi chilometri di apparente nulla marocchino, improvvisa incontriamo una fatiscente periferia che lascia presagire che di li a mezz’ora incontreremo forse la città; e invece bastano due o tre minuti e il treno si ferma, capolinea, Marrakech! Il Marocco è così. Improvviso.
Usciti dalla stazione, come sempre deludente per le dimensioni, capiamo subito che l’aria qui è diversa. Polvere, taxi, frenesia… dov’è la medina? Ci rechiamo all’immancabile Ibis (immancabile alle stazioni dei treni) dove ci indicano la giusta direzione: più o meno dobbiamo seguire Avenue Hassan II. Prima di iniziare il cammino ci fermiamo brevemente a visitare il suggestivo Theatre Royal a due passi dalla stazione e dall’hotel: ne vale la pena.
Dopo oltre un’ora di marcia attraverso viali molto ampi giungiamo all’ingresso della medina e ci fermiamo per un caffè; poi, dopo aver osservato i soliti clienti immobili con il loro bicchiere di tè sempre a metà, zaino in spalla riprendiamo il cammino chiedendo indicazioni per il nostro Riad convinti che debba trovarsi da quelle parti, che la meta sia ormai vicina: macchè! Occorre un’altra ora per districarci in un inferno di traffico e confusione, tra suggerimenti di negozianti e guide improvvisate che, a differenza di Rabat, qui sono moleste. Siamo in un quartiere semi moderno e semi periferico, una specie di anello intorno alla medina nella quale infine, non so come, riusciamo a penetrare; inghiottiti dai vicoli della città antica occore un’altra ora per districarci tra angoli claustrofobici popolati da strani personaggi incappucciati ai quali svoltiamo e guide ancora più moleste di prima, ma infine, coraggiosi e zaino in spalla giungiamo al nostro hotel,
Riad Ariha Marrakech Medina 90, Derb Ahmed Elborj Sidi Ben Slimane Kaa Sour Marrakech
Situato quasi alla fine di un vicolo cieco sperduto nel labirinto notturno della medina di Marrakech tra Riad Laarouse e Diour Jdad quartieri che però, come quasi tutte le cose in Africa, hanno tanti e tanti nomi diversi. L’ora scarsa di cammino che abbiamo impiegato per coprire il percorso tra la stazione e i confini della medina è stata un tempo impiegato esclusivamente a marciare e coprire la distanza chilometrica, senza perdite di tempo superflue; le due ore impiegate per trovare il Riad sono state tempo impiegato a coprire altri tipi di distanze, distanze a cui presto ci si abitua in questi luoghi e che alla fine ti prendono l’anima e non te la rendono più.
Il Riad Ariha non è niente di che: si, è carino e ben tenuto ma lo stile ascetico e la gestione un po’ asettica lo rendono privo di fascino e di mistero.
Comunque siamo arrivati, è notte e usciamo alla ricerca di un ristorante.
Passeggiare per i vicoli bui di Marrakech la prima sera, senza una meta precisa e con il solo scopo di mangiare qualcosa in un posticino possibilmente romantico e non troppo turistico, è stato tutto un fidarsi: ma fino a un certo punto, quindi non siamo andati troppo per il sottile nella scelta e ci siamo fermati al Ristorante Le Jardin, abbastanza vicino a casa da poter memorizzare la via del ritorno. Molto bello questo ristorante Le Jardin: un gigantesco patio a cielo aperto adorno di vegetazione lussureggiante, contornato da un elegante portico dove ci facciamo servire la cena, sotto il cappello protettivo di un grosso ficus ed un enorme salice (o magnolia non ne sono molto sicuro); la cameriera è una ragazza marocchina dai modi molto Europei, nel senso che è “affettata” come un cameriere europeo: “Signore” di qua, “Signore” di la. Tonno Crudo, verdure crude, vin blanc! Ma sono proprio stupido eh! Il cibo è buono, ma mi sento un pò a disagio a stare qui dentro dopo quello che ho visto fuori: l’atmosfera è troppo diversa, ovattata, protetta, non è il tipo di ristorante che amo. Comunque anche stavolta niente ripercussioni intestinali di rilievo, clienti marocchini neanche l’ombra, il conto è di cabotaggio europeo.
Per oggi può bastare, torniamo al Riad, doccia, bacetti e sogni d’oro.
L’indomani mattina colazione nel patio: piadine di mais, marmellata, datteri, frutta secca ecc. ecc. poi si parte alla scoperta della città.
Prima tappa la mitologica Jemaa El-Fna, la piazza dove si sono esibiti Jimmy Page e Robert Plant… in-tro-va-bi-le! Eppure è lì, a due passi, ma ci giriamo continuamente intorno senza riuscire ad orientarci e suscitando le attenzioni di tante molestissime guide i cui servigi rifiutiamo con garbo: io e KK amiamo perderci ma stiamo gradualmente perdendo anche la pazienza. Infine il miracolo, Jemaa El-Fnaa sia apre maestosa dinnanzi ai nostri occhi sbigottiti: ve la potrei descrivere in mille modi ma voglio usare un aggettivo sintetico e azzeccatissimo (a mio avviso) che ha usato il cantante Daniele Silvestri in una sua canzone allorchè parlando della sua casa che si troverebbe metaforicamente a Marrakech definisce questa piazza SGANGHERATA! Cosa altro aggiungere: visitatela più e più volte durante il giorno, scoprirete molte diverse Jemaa el Fnaa. Un Banco che alle 10 di mattina vende dolciumi può trasformarsi in un ferramenta alle 12 e poi in ristorante alle 14 e poi in banco di sciarpe e mutande alle 16 e poi di nuovo ristorante per la sera… non ci credete? Provare per credere. D’altronde anche molti negozi del suk dotati di mura si comportano allo stesso modo, rendendo l’orientamento in questa città roba per uomini duri, e modestamente io e KK lo siamo.
Gli altri attori del grande teatro della vita che è Jema El-Fnaa sono i dentisti: provvisti di due sedie, un banchetto su cui sono disposti i ferri del mestiere ed un bel secchio pieno di denti se ne stanno seduti, quieti e sornioni ad aspettare i clienti. Poi ci sono i cantastorie, i grandi gruppi di musicisti berberi, i danzatori sufi, i suonatori di Krabeq, i marabutti, le donne che fanno i tatuaggi con l’Henna, i venditori di prodotti naturali, gli incantatori di serpenti, i saltimbanchi, i venditori di medicine miracolose, i venditori d’acqua e le imancabili, molestissime guide incappucciate; i mendicanti non mancano ma a differenza delle guide non sono molto invadenti, forse perché hanno pudore e riverenza nei confronti di chi un mestiere almeno lo improvvisa, forse perché per lo più sono invalidi.
Da Jemaa el-Fna si dipana l’immenso Suk di Marrakech che ovviamente dovrete visitare e dove ovviamente dovrete accettare di perdere l’Orientamento per scoprire la meraviglia di ritrovarvi…d’altronde siamo in Oriente no? Ah no? Mhhhh…. Interessante, devo rifletterci su!
Nel Suk di Marrakech, come in tutti gli altri suk del Marocco, troverete l’eccellenza in fatto di decorazione e lavorazione di ferro, legno, ceramica, vetro, cuoio e tessuti: artigianato di altissima qualità a prezzi convenienti; se avrete anche la pazienza e la buona educazione di trattare (trattare per un commerciante Arabo è una questione di rispetto, ricordatevelo!) i prezzi possono diventare anche Molto Convenienti.
La Medersa Ibn-Youssef situata nella zona nord di Souk el Kebir è molto bella, molto bella! Oltre alle splendide decorazioni degli ambienti potrete visitare le celle dove anticamente soggiornavano gli studenti. Se riuscirete a trovarla visitatela senz’altro.
Oh attenzione! Non voglio spaventarvi, sicuramente riuscirete a trovarla soprattutto se assolderete qualche ragazzotto che vi offrirà, oltre alla sua abilità di guida, anche l’opportunità di starvene in pace per un po’ di tempo senza essere molestati dagli altri ragazzotti. Oh! non voglio spaventarvi con questa storia delle molestie: sì, questi ragazzi di Marrakech intabarrati nei loro Caftani (o come si chiamano quei mantelli col cappuccio a punta) che rivelano le facce scavate, gli occhi spiritati e le lingue imprigionate nella gabbia dei pochi denti rimasti, fanno un po’ paura; si certo, in certi angoli di certi vicoli puoi avere l’impressione che da un momento all’altro qualcuno ti darà una coltellata e violenterà la tua donna… ma poi capisci, almeno io ho capito, che al 99,99 percento si tratta di un gioco, si un gioco, una recita, un teatro! Questi ragazzi sanno benissimo che la città ti disorienta, sanno benissimo che agli europei in genere non piace perdersi, sanno benissimo che il loro aspetto altero e feroce terrorizza i musetti lisci e rosei dei turisti e sanno benissimo interpretare questo copione nel grande teatro della loro vita, per guadagnare un po’ di soldi ed al contempo ammazzare la noia. Quando hai capito questo, vai in pace e serenità; se ti và ne scegli uno, lo paghi e ti fai trasportare nei segreti della città; se invece acceti la sfida, ami perderti e ritrovarti e non li vuoi intorno, basta sorridere e dire “no, mercì!”: solo che lo devi dire decine e decine di volte nel corso della giornata.
I quartieri europei Hivernage e soprattutto Gueliz, che si trovano a ovest, nord-ovest della medina sono piuttosto interessanti in quanto a differenza dei quartieri moderni che abbiamo visitato in altre città del Marocco, sono coerenti e simbiotici con lo stile architettonico e cromatico della medina. Perdendovi tra i loro vicoli e dirigendovi sempre più a ovest lasciandovi alle spalle la medina, arriverete ai piedi di una collina dello stesso colore della città in cima alla quale potrete ammirare una suggestiva fortezza che mi pare sia un ex carcere abbandonato: i ragazzi del luogo, cioè non quelli europei che stanno rinchiusi nei loro recinti ma quelli marocchini, si inerpicano sulla collina; io e KK eravamo francamente troppo stanchi quindi non so dirvi se le rovine siano visitabili o no. Sempre a Gueliz si trovano inoltre i Giardini Majorelle, molto belli: un tempo dimora di un semisconosciuto ma benestante pittore francese, vi consiglio di visitarli quando avrete bisogno di ricaricare le pile e di godere di un po’ di fresco e un po’ di silenzio. Ospita tra le altre cose un Memoriale dedicato a Yves Saint Laurent.
La Musica è qui: se dovessi indicare il lugo della musica in Marocco sicuramente direi Marrakech. A Marrakech troverete tutte le musiche del Marocco: la musica Berbera, frenetica ed impetuosa, la musica Gnawa, molto simile al Blues, la musica araba e la musica andalusa, la musica Reggae ed anche purtroppo la musica Pop. A Marrakech la musica è ovunque, nelle strade come nei teatri, nei ristoranti come nei tanti negozi di dischi e di strumenti musicali molti dei quali, non so perché, si chiamano Bob Music in omaggio a Marley il giamaicano. Quindi a Marrakech la musica la puoi ascoltare ed anche acquistare facendo incetta di dischi e di strumenti musicali: riguardo questi ultimi, dato che sono un musicista, mi sento di dare un consiglio a chi ne fosse interessato. La qualità degli strumenti musicali in vendita in questi negozi è molto variegata: se si è esperti si può riconoscere la qualità di uno strumento osservandolo o suonandolo e quindi giudicare se il prezzo (comunque sempre ampiamente contrattabile come per ogni altra mercanzia) è giusto o no; altrimenti, se non si ha l’esperienza necessaria, posso dire che in linea generale gli strumenti tipicamente marocchini (Loutar, Guimbrì e Bendir) sono di discreta qualità, quelli arabi (Oud, Mandole) molto meno.
Il Caos come teoria matematica mi ha sempre affascinato anche se non l’ho mai studiata in maniera seria; il fatto è che non sono un matematico e mi perdo e financo mi annoio un po’ sul terreno astratto della nobilissima arte della scienza pura. Ma l’esperienza diretta fatta a Marrakech mi ha spiegato quello che non sarei riuscito a capire attraverso un libro e cioè che: “La materia, qualora lasciata muoversi in libertà, senza vincoli o costrizioni di sorta, si autoregola ed auto conserva nel migliore dei modi.”. Erano giorni umidicci a Marrakech e le strade della medina, quasi mai provviste di asfalto, erano per lo più un pantano; un pantano abitato percorso e solcato dalle mille creature viventi del mondo, tutte affannosamente affaccendate intorno alle loro faccende, oltreché da ogni mezzo di trasporto immaginabile, su ruote, su zoccoli, a pedali, a motore, a piedi zigzagante tra bancarelle ambulanti, semiambulanti, semifisse e negozi con mura d’ogni genere e dimensione e poi immondizie varie, ortaggi trascinati via da rivoli d’acqua, plastiche, cicche e ogni altro ben di Dio. Erano giorni in cui si girava con l’ombrello e lo spazio per circolare, vi assicuro, era davvero esiguo. Eppure vi giuro fratelli, ve lo giuro su Allah il misericordioso e sulla Vergine Maria (tanto per esplicitare la mia par-condicio di italiano non molto credente), che in questo spazio angusto e sovreccitato neanche uno schizzo di fango è arrivato all’orlo dei miei pantaloni: infinite sono le vie del Signore, il caos è tra queste la migliore.
Immobilità, finalmente svelato il mistero. Alla terza sera a Marrakech io e KK ci sediamo ad un tavolino all’aperto per un tè, in uno degli innumerevoli bar che circondano Jema El-Fna; piazzo la macchinetta fotografica sul tavolino, la punto dritto davanti a me, esposizione lunga ed autoscatto infinto. Sorseggiamo, chiacchieriamo, ci guardiamo intorno, origliamo ai tavoli vicini conversazioni e suoni che non comprendiamo e lentamente ci rilassiamo e i minuti passano, i minuti… il livello del tè nel nostro bicchiere è a metà, c’è arrivato in pochi istanti e poi non è più sceso. Ci siamo scordati del tè, dei programmi, dell’ora di cena, di domani, di ieri, dell’italia, del tu sei là ed io sono qua, il tempo si è fermato eppure continua a scorrere mentre il mezzo bicchiere di tè è ormai freddo. Ci guardiamo in faccia io e KK e sorridiamo complici: abbiamo rotto il ghiaccio. Abbiamo capito che il Marocco è così, un posto “economico” sia perché la merce è a buon mercato rispetto agli standard europei, sia perché puoi spendere un soldo e startene seduto su una sedia per ore senza fare niente, senza pensare a niente, semplicemente fermo, immobile a guardare la vita che ti scorre davanti. Ho avuto l’impressione più volte, osservando il via vai ed il modo di lavorare di questa gente, che noi europei conduciamo una vita da morti: le nostre energia sono frammentate e conflittuali mentre in questo luogo il lavoro, il movimento e la vita si fondono in un flusso unico di necessità ed al contempo di destrezza, talento ed abilità. La gente qui ha sempre un obbiettivo: se le persone si muovono è perche hanno qualcosa di concreto da fare, altrimenti se ne stanno sdraiati a sonnecchiare; sono fantastici questi marocchini e vi dirò che nel profondo del mio karma non mi sento affatto dissimile da loro, anche se non sono capace di vivere come loro perche, ahimè, sono abituato ad una vita assai diversa che mi è stata imposta dall’occidente e che non rispetta la mia normalità. Ma l’Italia è l’occidente? Ah no? L’Italia è a oriente del Marocco? Mhhhh, interessante… devo rifletterci su.
La Moschea Kotoubia, situata nella zona sud est subito fuori dalla medina, come quasi tutte le Moschee del Marocco non è visitabile per i non musulmani: pare che questo divieto sia eredità dei comportamenti di un certo governatore francese che ai tempi del protettorato fece girare le balle, e non poco, agli imam del posto; una volta che lo stato marocchino si fu affrancato dall’abbraccio degli amici-invasori francesi, gli Imam imposero nelle Moschee la restrizione ancora oggi in vigore. E come fanno a capire se siete musulmani? Lo capiscono! Comunque non è che verrete sparati o sgozzati se varcherete le porte di qualche Moschea, semplicemente, se notati verrete allontanati con estremo garbo e gentilezza. Non è impossibile inoltre che, anche se io e KK per la verità non ci abbiamo provato, mostrando rispetto ed il giusto savoir-faire riuscirete anche a farvi accompagnare per un breve giretto all’interno.
I Giardini Menaria e Le Palmeraie non ci sono piaciuti anche se nelle guide che abbiamo consultato ne parlano un gran bene; bah…. Comunque se vi dirigerete verso i Giardini Menaria incontrerete ben presto lungo la strada l’Hotel La Mamounia famoso tra l’altro per gli storici incontri “politici” tra Churchill e Roosvelt; l’Hotel, almeno visto da fuori, è tuttora piuttosto affascinante e credo sia visitabile anche all’interno: sicuramente sono frequentabili il bar ed il ristorante, occhio ai prezzi però!
Dar Zelliji
Situato nella zona sud-ovest della medina, N°1 Kaa Sour, Sidi Ben Slimane, è in assoluto il miglior ristorante che ho visitato in Marocco (compresi quelli scoperti durante il secondo viaggio). Ottima la cena, splendidi gli ambienti con i soffitti alti una palma e mezzo e le grandi porte, così come ifregi murari, splendidamente decorate; fantastica la musica dal vivo assicurata da un suonatore di Oud che ci ha nutrito con a sua antica arte. Un ristorante veramente di classe, in ogni dettaglio, prezzi europei.
Abbiamo anche visitato un paio di musei e di palazzi storici… mah… mal tenuti, niente di troppo interessante dal mio punto di vista, non mi dilungherò oltre nella loro descrizione. La Mellah, il quartiere Ebraico, abbiamo provato a visitarlo ma il labirinto ci ha dissuaso in tutti i modi. Le tombe Saadiane, non ricordo perché, non le abbiamo neanche messe in programma e comunque non le abbiamo incontrate nel nostro girovagare.
Marrakech è una città elettrizzante, il suo colore è l’ocra. Una città da visitare più volte, da approfondire; non estremamente accogliente, claustrofobica ed ossessiva, mitica, ritmica, umida l’inverno e torrida in estate, scavata, surreale, misteriosa, magica… BEL-LIS-SI-MA.
8-9-10-11 GIORNO – Hait Ben Haddou
Lasciamo Marrakech in una bella mattina di sole proprio all’ora in cui i bambini più piccoli sciamano nelle scuole. A bordo del Grand Taxi ricco d’esperienza e di kilometri (un vecchio mercedes con 800.000 giri di tachigrafo), con le cinture di sicurezza inservibili ed un tappetino di pelo in bella mostra sopra il cruscotto, impiegamo un’ eternità per uscire dalla città incontrando il traffico delle grandi rotatorie e delle imediate periferie; poi ci lanciamo verso l’Atlante, direzione Ait Ben Haddou, durata del trasfrimento quattro ore circa. Il tassista è simpatico anche se parla pochissimo l’inglese così come noi il francese; si trova comunque il modo di fare amicizia e conversazione, se si ha qualcosa da dire il modo si trova sempre. Cominciamo ad arrampicarci sulle montagne e il driver fa una prima sosta ad un banchetto isolato sul ciglio della strada per comprare, da un uomo che conosce e che deve essere un suo amico, dei datteri che poi ci offre; tra tornanti mozzafiato ed un panorama che si fa via via più vasto e spettacolare saliamo ancora verso le cime dell’Atlante dove incontreremo il grande altipiano chiamato la Valle delle Mille Kasbah.
Mi restano impresse tre immagini di questo trasferimento in Taxi: la prima, è un campo di calcio situato tra due picchi altissimi, lo stadio più bello che abbia mai visto; la seconda è l’immagine di alcuni bambini che si precipitano a rompicollo giù da una cima dove intravediamo delle casette sparute, per inerpicarsi sempre correndo su un’altra cima dove intravediamo altre casette sparute: l’autista ci spiega che sono bambini che vanno a scuola; la terza è il paesaggio d’alta montagna, splendido, incontaminato, ai margini degli insediamenti urbani purtroppo disseminato di buste di plastica grigie e blu.
La Valle delle Mille Kasbah è un vasto altipiano che si estende ad altissima quota per poi, molto più in là, digradare verso il deserto del Sahara: si chiama così per via dei numerosi “siti archeologici”, antiche cittadelle fortificate per lo più abbandonate, accanto alle quali si trovano oggi i villaggi “moderni”.
Nella Valle delle Mille Kasbah c’è, tra le altre, la famosa città di Ouarzazate, famosa perché sede dei più importanti Studios Cinematografici del Marocco; noi però scegliamo per il nostro soggiorno la più tranquilla e rurale Ait Ben Haddou. Il Taxista ci deposita proprio all’interno dell’albergo che abbiamo scelto, Riad Dar Mouna: piscina, piante tropicali, edificio in Adobe, terrazza con spettacolare vista sull’antica Kasbah: stre-pi-to-so. Abdellah ci accoglie come fossimo principi ed io e KK non ci facciamo pregare: tè alla menta e pasticcini a bordo piscina sdraiati su lettini di dimensioni ottomane. Il cielo azzurro ed aperto, l’aria di montagna, il silenzio intorno a noi all’interno del Riad, il silenzio per kilometri di nulla intorno ad Ait Ben Haddou: il paradiso, un riposo dei sensi ben gradito dopo l’esperienza di Marrakech. La stanza è bella, ceramiche sul pavimento e muri in Adobe che potresti grattarlo via con le unghie; il servizio è impeccabile, la prima cena sorprendente: passato di verdure e qualcos’altro che fin’ora non avevamo assaggiato; il vino c’è ma non lo prendiamo. A fine cena Abdellah addirittura tira fuori un Loutar che ho occasione di suonare per la prima volta nella mia vita: il Loutar non è suo, Abdellah studia chitarra, ma l’elettricista e operaio tuttofare al servizio del riad, di cui non ricordo il nome e che conosceremo l’indomani, si diletta nelle pause dal lavoro a suonare l’antico liuto che ha lasciato nel ripostiglio insieme agli attrezzi. Chiacchiere, un po’ di musica e poi basta: doccetta, bacetti e buonanotte. Di notte all’aperto fa un freddo becco ed il cielo sembra molto più vicino di dove dovrebbe essere.
Il secondo giorno ad Ait Ben Haddou: colazione, piadine di mais, marmellate, burro, nocciole… e poi andiamo a visitare l’antica Kasbah alla quale si accede percorrendo un ponte che sovrasta il letto di un fiume per lo più in secca. La Kasbah è molto bella, ci passiamo una giornata intera fino al crepuscolo girovagando in lungo e largo lungo i suoi misteriosi vicoli ed anfratti: si tratta di una vecchia fortezza, una cittadella abbarbicata su una collinetta ed interamente costruita in Adobe o scavata nella roccia, dove un tempo vivevano gli abitanti di Ait ben Haddou. Da lontano sembra un castello di sabbia e da vicino anche: ai giorni nostri è abbandonata (anche se al suo interno ci sono 2 o 3 famiglie che dicono di abitarci e offrono a pagamento la visita della loro casa), un rudere, un’attrazione turistica, un’esempio mirabile di architettura, un monumento le cui mura si stanno parzialmente sbriciolando: ma solo parzialmente, sta ancora bella in piedi e la manutenzione sembra di buon livello. Poi è misterioso come queste costruzioni di paglia e argilla resistano alla pioggia… ma questo è un altro discorso.
Il terzo giorno ad Ait, colazione: piadine di mais, mandorle etc… Io e KK ci avventuriamo a piedi nell’apparente nulla marocchino che circonda la kasbah. Colline di terra rossa striate di argilla verde, percorsi, fiumiciattoli, cicogne, il cielo che si staglia infinito rendendo i radi alberi fuggevoli miraggi all’orizzonte. Poi incontriamo un nuovo villaggio, case in Adobe semplicissime e squadrate, niente strutture turistiche, così piccolo che non è neanche citato nella guida: ma non troppo piccolo per non ospitare a sua volta un deliziosa Kasbah abbandonata dove ci facciamo scortare dalla nostra prima guida marocchina, un ragazzino di nome Mohammed che se ne tornerà dopo un’oretta a casa dai suoi genitori con un bel gruzzoletto e chissà, forse la voglia di sperimentare altrove il suo talento professionale. Gli abitanti del villaggio ci mostrano anche il loro orgoglio, Le Jardins, minuscoli e decrepiti orticelli coltivati col sudore e la pochissima acqua disponibile sull’altopiano. Poi ce ne torniamo verso Ait ben haddou, soddisfatti dell’avventura, seguendo piste semiscoste dalla sabbia e rubate con l’occhio ai viaggiatori ed ai pastori berberi che si spostano in quelle zone: nessuno ci ha minimamente molestato.
Il quarto giorno nella Valle delle Mille Kasbah, colazione: piadine di mais, burro, datteri etc… Si parte alle volte di Zagora, due ore di Jeep noleggiata con conducente a Ouarzazate per raggiungere le dune predesertiche di Tinfou e farsi una passeggiata a cammello. Durante il tragitto ci fermiamo in un’interessante cittadina di nome Skoura dove ci sono delle bellissime Palmeraie e poi a Zagora dove c’è il famoso cartello stradale “TOUMBOCTOU, 52 Jours”, “Per Timbuctù 52 giorni”.
Arrivati alle dune di Tinfou (un’altra mezz’ora di fuoristrada da Zagora) mi coglie un’attimo di sconforto che non riesco a codificare, d’altronde sono qui solo per far piacere a KK: a me di fare la passeggiata a cammello non frega niente, anzi non mi va affatto, e il fratello cammello sul quale vengo fatto accomodare, dopo i convenevoli di rito con i fratelli cammellieri, deve accorgersene senza dubbio. “Ok ragazzi”, dico ai cammellieri dopo pochi passi sul cammello, “fatemi scendere, io proseguo a piedi.”. No Problem, il cammelliere fa sedere l’animale e mi invita a scendere ma (fratello cammello, io ti perdono perché fai una vita di merda sempre legato al tuo palo in attesa che qualche turista magari maldisposto come me ti salga sul groppone: davvero ti capisco, l’avrei fatto anch’io.) il cammello mi disarciona e mi fa volare sulle dune dove atterro con grande dignità dopo un breve volo carpiato. Niente di rotto, grasse risate di tutti, me compreso che posso proseguire a piedi, ad un altezza dal suolo più congrua alle mie abitudini. A conti fatti, rientrando a piedi al campo base capisco cos’è che mi aveva sconfortato leggermente appena giunti a Tinfou: le dune sono carine, non c’è che dire, solo che giungendovi si passa improvvisaente, senza sfumature, dal deserto roccioso a quello di sabbia per poi tornare di nuovo a quello roccioso; secondo me ‘ste dune sono posticce, un bel mucchio di sabbia prelevata dal vicino deserto e messa lì a mò di luna park per far scorazzare i turisti sul cammello senza che debbano affrontare i disagi del deserto vero e proprio. Rientrati ad Ait Ben Haddou, chiedo ad Abdellah se mi sbaglio… lui glissa amabilmente.
Quinto ed ultimo giorno al Riad Dar Mouna, sei del mattino: fra due ore un Grand taxi verrà a prenderci per riportarci a Marrakech e di li un treno fino a Casablanca dove passeremo l’ultima notte per poi prendere l’aereo per Roma l’indomani. Bacetti, sbadigli vado in bagno e patatrak: colpo della strega! A momenti svengo, ma riesco a tornare a letto. Con grande coraggio e forza di volontà, dopo un’oretta riesco addirittura a rimettermi dritto, ma di salire in macchina non se ne parla nemmeno, tecnicamente impossibile. Dunque si rende necessario un cambio di programma: giornata supplementare ad Ait Ben Haddou e l’indomani riprovare a salire in macchina destinazione diretta Casablanca Aeroporto. Ho le medicine del caso ma mi serve qualcuno che mi faccia le iniezioni: Abdellah telefona in paese e verso le 18 arriva un tizio intabarrato nel solito Caftano che si presenta sorridente nella mia stanza: è l’uomo dell’iniezione. Tira fuori dalla tasca un batuffolo di ovatta inzuppata di sangue e me lo mostra invitandomi a scoprire le chiappe: realizzo dopo un attimo che non è sangue ma mercurio-cromo, disinfettante con il quale il solerte infermiere (o medico non so!) aveva bagnato il batuffolo rituale che poi si era infilato nella tasca. Ok, offro la chiappa, facciamo in piedi eh? No problem. Prepara rapidamente la siringa mescolando i liquidi che gli offro per la cerimonia e… amici, che ci crediate o no: la migliore iniezione della mia vita, non ho sentito veramente niente. Non so se me l’abbia fatta davvero l’iniezione ma non vuole essere pagato, PRETENDE di non essere pagato e l’indomani mattina, dopo una seconda iniezione, riesco a risalire in macchina e lasciamo AIT BEN HADDOU direzione Casablanca; poi l’aereo per Roma e fine del viaggio.
Ait Ben Haddou e la Valle delle Mille Kasbah sono un vero viaggio nel tempo. Il colore è quello della terra, ocra, rosso e verde dell’argilla; le case, quelle delle kasbah antiche ed abbandonate così come quelle dei villaggi attiugui abitati al giorno d’oggi sono realizzate completamente in Adobe, un materiale antico ed a mio avviso, anche se confesso di essere molto ignorante in materia, meritevole di un approfondimento e di una rivautazione a livello globale. Per quello che la mia intelligenza profana ha potuto osservare, i vantaggi di questo materiale sono molteplici, sia dal punto di vista economico che ambientale che estetico: difatti l’utilizzo di questo impasto di terra argillosa, paglia, sterco e poco altro (non puzza! Garantito, lo sterco è un isolante per l’umidità) è assolutamente bio, costa relativamente poco e conferisce alle mura ed agli angoli delle linee morbide ed una tonalità calda. Suppongo che il grosso guaio dell’Adobe, da un punto di vista dell’economia moderna, sia il fatto che non consente di costruire in altezza oltre i 2 o 3 piani; per lo meno non mi è mai capitato di vedere costruzioni alte più di 8/10 mt, e le più alte di queste le ho viste nelle città e forse non erano totalmente in Adobe; nei villagi massimo due piani. Devo dire inoltre che Ait Ben Haddou ed i suoi dintorni, per quanto sperduti su un altopiano semidesertico dove gli insediamenti umani posono distare tra loro diverse decine di kilometri, è un luogo assolutamente sicuro: la gente è estremamente ospitale, brigantaggio non ce n’è, ed anche una donna può andarsene a zonzo da sola per quelle colline sperdute senza timore d’essere molestata, rapita, violentata o quant’altro (KK l’ha fatto mentre io riposavo la mia povera schiena su una sdraio con vista sulla Kasbah sorsegiando tè.); senza timore non significa che bisogna essrere scemi ovviamente! Ma se si vuole essere scemi, uomini o donne fa lo stesso, non c’è bisogno di espatriare ed arrivare fino ad Ait Ben addou (4 ore di macchina da Marrakech) per mettersi nei guai. Claro?
Ed ora una serie di considerazioni generali sul Marocco, raccolte a consuntivo di questo nostro primo viaggio nella terra dei mori che ha toccato il centro nord con la ben curata ed ordinata Rabat, il centro sud con l’elettrizzante e sporca Marrakech e l’alto Atlante in abiente rurale con Ait Ben Haddou e la Valle delle Mille Kasbah.
Il Marocco alla guida
Se ne sentono di tutti i colori sul modo di guidare degli Arabi; non so se il Marocco faccia eccezione in questo senso ma devo dire che tutti gli autisti che abbiamo avuto durante questo viaggio hanno mantenuto uno stile di guida assai pacato e rispettoso sia nei confronti di noi passeggeri che nei confronti degli ammortizzatori e delle altre parti delle loro vecchissime auto.
Mi ha fatto molta simpatia notare tra le altre cose, che ai posti di blocco, che non sono molto frequenti, non è la polizia ad intimare lo stop ma gli autisti stessi a rallentare e chiedere con un segno convenzionale agli uomini in divisa se devono fermarsi oppure no.
Il parco veicoli a motore del Marocco, tralasciando camion ed autobus, è costituito da vecchie auto europee con non meno di 500.000 kilometri sul groppone e da altrettanto vecchi motorini, soprattutto Motobecane! Il motivo per cui possono mantenere in vita questi mezzi che ai nostri occhi appaiono come autentici relitti, è inversamente proporzionale al motivo per cui noi europei li consideriamo relitti: il costo della manutenzione. Se un europeo (a parte rare eccezioni) deve recarsi dal meccanico, deve prepararsi a fare un piccolo mutuo, o perlomeno a rinunciare alle cene al ristorante per un mese; il marocchino che abbia bisogno di manutenzione solitamente è egli stesso il meccanico oltre che il driver della propria auto, e se si rivolge ad un officina è più che altro per farsi costruire i pezzi di ricambio che o non sono disponibili o sono troppo cari da ordinare all’estero. Secondo KK, il Marocco potrà continuare a mantenere la sua identità fin quando saranno in vita queste vecchie vetture a basso contenuto tecnologico che permettono, a patto di saperla fare ovviamente, una manutenzione per lo più casalinga; quando nel 2040 in Marocco arriveranno le auto che attualmente guidiamo noi con 500.000 kilometri sul groppone, la NECESSITA’ di tecnologia di supporto farà cambiare radicalmente l’economia del paese e con essa inevitabilemente le abitudini.
Al giorno d’oggi, il vero problema di questa situazione è la puzza dei gas di scarico, una puzza che certamente è pittoresca e contribuisce alla Macchina Del Tempo Marocchina, ma che è anche sicuramente molto tossica per chi è costretto a viverci in mezzo soprattutto nelle grandi città e nelle anguste medine. Suppongo che una persona di cinquant’anni o più che abbia vissuto in europa la prima parte della sua vita capisca e ricordi di che puzza io stia parlando.
L’altro piccolo problema è imparare ad attraversare la strada: a parte le grandi rotatorie all’uscita delle città che sono controllate severamente dalla polizia, su tutte le altre strade vige la legge del più forte o per meglio dire la già descritta legge del caos che va imparata e capita per imparare a districarsi. Come si fa? Non è difficile, basta un po’ di spirito di osservazione, di rispetto e di fiducia nel prossimo.
I Taxi si dividono in due categorie: Petit Taxi che forniscono il servizio all’interno delle città e Grand Taxi che affrontano i viaggi più lunghi. La stessa auto, se omologata per uso privato può portare cinque persone, se omologata come taxi ne può portare sette. Non stupiatevi quindi di vedere Taxi sovraccarichi di passeggeri, è del tutto legale anche perché, finchè c’è un posto libero, potete star sicuri che il taxista interromperà la corsa per caricare gente ferma sul ciglio della strada: i Taxi sono quindi un mezzo di trasporto collettivo, se volete un taxi tutto per voi dovrete prenotarlo.
Sicurezza
Posso dire che il Marocco che ho conosciuto in questo viaggio è un luogo assolutamente sicuro: abbiamo girato in lungo ed in largo, città e montagna, periferie e medine, di giorno e di notte e non ci è mai accaduto nulla di spiacevole nè abbiamo assistito a scene di violenza a parte una scema europea che è scivolata col motorino andando a franare sulla mercanzia di un tizio a Marrakech… considerate che il tizio non l’ha neanche picchiata J
Anche se alcuni comportamenti ci hanno inizialmente spiazzato (ad esempio gli uomini quando parlano tra di loro, soprattutto nei mercati, urlano e gesticolano in maniera scomposta e potrebbe sembrare che stiano litigando, ma non è quasi mai così.), il clima sociale in generale è molto sereno ed il turista in particolare è come una vacca indiana; chi tocca il turista passa guai molto seri con il governo, il turista è denaro, il turista è sacro.
Religione
I marocchini si professano molto religiosi, amano Allah e l’islam e le loro Moschee sono vietate ai turisti. Detto ciò il popolo Marocchino è un popolo libero nei comportamenti: passeggiando per le strade puoi incontrare la ragazza scollacciata e provocante vestita all’europea così come la donna in burqa; puoi incontrare ragazzi che sembrano Rapper di un ghetto Newyorchese così come severi arabi barbuti di bianco vestiti che non sorridono mai. Quindi la religione c’è ma non è opprimente; al popolo Marocchino piace molto vivere e divertirsi, sono attratti dall’europa e l’atmosfera nelle città è in generale molto divertente. Se si ha confidenza con l’interlocutore si può anche scherzare sulla religione, senza esagerare ma si può. Dal mio punto di vista poi, il canto del Muezzin che cinque volte al giorno richiama alla preghiera i fedeli, o meglio ancora se si ha la possibilità di ascoltarla, la preghiera dell’Imam più lunga e raffinata, sono musica celestiale; questione di gusti, si capisce!
Fotografare
Premesso che fotografare non è “mestiere” per tutti, posso dirvi di andare tranquilli con le vostre digitali; certo, alla gente non fa sempre piacere che rubiate l’anima ai volti ed ai vicoli dei loro quartieri, ma con un pizzico di savoir-faire unito al rispetto che non deve mai mancare quando si va in un paese straniero, ve la caverete egregiamente e nessuno verrà a prendervi a bastonate. Io personalmente ho adottato un metodo che ho affinato durante il mio secondo viaggio ma che vi rivelo subito: se noto che qualcuno è infastidito dal mio occhio elettronico, abbasso la macchinetta, sorrido e dico mischiand gli idiomi: “Escuse moi, je trabaille, je suis un artiste. I’m working. Making a film, Art!”. Insomma è una questione di sensibilità, ma la fotografia in se è una questione di sensibilità.
Tenore di vita
Il Marocco è un paese povero ma non poverissimo, ne sia conferma il fatto che la microcriminalità è quasi inesistente a differenza di altri paesi del nordafrica. Mi sembra che complessivamente la gente se la cavi dignitosamente e che sia pittosto felice della vita che conduce. Non ho visto situazioni particolarmente fastidiose o disagevoli alla nostra comprensione. Certo, molte delle case non hanno l’acqua; naturalmente quasi nessuno ha la lavatrice; sicuro che chi lavora fa turni di lavoro almeno di dodici ore. Ma queste ed altre piccole scomodità che appartengono per noi al passato remoto non mi sembra che provochino infelicità. Credo che tutto sommato il protettorato francese sia stato di grande aiuto per questo popolo: merito del popolo si capisce, che ha saputo prendere, crescere e fermarsi quando era il momento di fermarsi. Una parte del merito credo debba ricadere anche sul defunto Hassan II, sovrano tuttora amato (e venerato almeno quanto Allah) e padre dell’attuale Re, Mohammed VI.
Gatti
In Marocco incontrerete una grande quantità di gatti: magari non tutti sono pettinati e profumati ma sono molto socievoli, tranquilli ed affettuosi. Fanno parte del già citato caos: sono ovunque, nei vicoli tranquilli così come nei cesti del Suk, fanno parte del movimento e della grazia della vita. Mi sembra che i Marocchini amino molto i gatti e gli animali in generale (asini e cammelli soprattutto). Cani se ne vedono pochi.
Il cibo
Il cibo per quanto mi riguarda è ottimo, solo un tantino noioso; ma parlo da italiano e si sa, noi italiani dal punto di vista della varietà degli alimenti e della cultura gastronomica siamo molto privilegiati. Il piatto più comune è il Tajine: prende il nome dal recipiente in terracotta in cui il cibo viene cotto e servito. Solitamente si tratta di spezzatino di carne, a volte di pesce, mischiato con verdure e spezie… gulash marocchino. Buono, dopo due giorni vorresi farti due spaghetti! Poi c’è Kefta, l’hamburger marocchino; poi c’è il cuscus ovviamente; il pollo ripieno di olive e limone, eccellente; l’immancabile Kebab; datteri, frutta e verdura fresca in abbondanza; i dolci per quanto siano piuttosto rinomati non mi hanno colpito particolarmente; tè alla menta, tisane di timo, verbena e succhi di frutta la fanno da padrone tra le bevande. La cosa più buona che ho assaggiato in questo mio primo viaggio in marocco sono le olive, al naturale o condite nei mille modi inventati da Allah: in italia possiamo rivaleggiare solo con le olive pugliesi! La ricetta che mi riporto a casa? Il tè alla menta ed un po di cultura in più sulle spezie.
Un ultimo consiglio
Un consiglio del tutto discutibile, lo riconosco.
Se amerete e vorrete ammirare il decoro dei manufatti e delle abitazioni, l’arte della decorazione in cui gli artisti marocchini eccellono ed a mio avviso sono paragonabili solo a quelli indiani, io consiglierei di evitare palazzi storici e i musei che sono spesso mal tenuti. Meglio, molto meglio visitare i suk e soggiornare in un bel riad, non necessariamente di lusso ma ben fatto e curato. Se ne trovano a bizzeffe su internet, di ogni prezzo e gusto; prenotare online è semplicissimo e sicuro. No problem. Nei riad io ho visto i dettagli, i profumi e le decorazioni migliori; inoltre quasi tutti dispongono di una terrazza da dove potrete osservare le medine da un punto di vista spettacolare.