Leningrado addio di ricordi del ’96
Eri in trincea speranza unanime d’Europa, ma tu di rosso schermo recingevi il gulag.
…
Giace la nostra bandiera nel gran bazar d’Ismajilovo.
La “smerciano” per dollari, alla meglio.
Non ho assaltato il Palazzo d’Inverno, non ho preso il reichstag.
Non sono un “kommuniak”. Ma guardo la bandiera e piango…” (“Arrivederci, bandiera rossa” E. Evtushenko) Leningrado addio.
sabato 15 giugno 1996 Di nuovo all’aeroporto di Fiumicino, si parte.
Mi sono sempre piaciuti i luoghi dove la gente si reca per partire. Guardo l’umanità che mi circonda, è un brulicare di razze diverse, che si mescolano e s’ignorano a vicenda, ognuno perso nei suoi pensieri. Facce eccitate, smarrite, preoccupate, ansiose, curiose, stanche, sorridenti, tristi; si può provare ad intuire i motivi della partenza. Contrastano con l’imperturbabile, naturale umore dei bambini; per loro tutto è nuovo, tutto è da scoprire. Non è un caso se l’uomo ha sempre immaginato gli dei nel cielo o su alte vette. Allontanandosi da terra gli uomini e le loro monumentali opere sono come il giocattolo di un bambino, un bel modellino di plastica con gli alberelli, le casette e tante macchinine colorate che si muovono lentamente su striscioline di nastro adesivo grigio. I creatori del giocattolo non spariscono, sono troppo piccoli.
Odio i viaggi organizzati, ma questo è organizzato dall’Unità vacanze e d’impronta molto culturale, mi aspetto partecipanti ed accompagnatori di un certo spessore: mi riserverà qualche delusione sotto questo aspetto. A Milano il gruppo si competa e si parte per Mosca. Gruppo eterogeneo, maggiormente del Nord Italia. Roma non ci fa una bella figura: ci sono solo io ed una coppia di coniugi di mezza età. In compenso ci sono sette persone di Palermo.
La discesa dell’atterraggio rivela una gran distesa di verde scuro, di foreste, solo poche case sparse. L’Italia è densamente abitata in tutto il suo limitato territorio. L’occhio raramente può spaziare senza cogliere un qualche manufatto umano, una strada asfaltata, una casa.
A Mosca il cielo è grigio e fa freddino, come un nostro inizio di primavera. L’aeroporto è un edificio grigio come il cielo, grigio anche all’interno e grigie sono le divise delle hostess. Ce n’è una seduta all’arrivo che non ci degna di uno sguardo: sta leggendo avidamente un libro ingiallito e spiegazzato che purtroppo non posso decifrare. Sulle piste si vedono quattro o cinque aerei, e all’interno dell’aereoporto non c’è quasi nessuno. Al controllo passaporti c’è il primo impatto con la burocrazia, che non sembra affatto cambiata: si deve riempire il modulo in cui si deve dire dove e per quanto tempo si alloggia, le armi o gli stupefacenti di cui si è in possesso e tutti i gioielli che si portano addosso, compresa la fede nuziale. Alcune signore milanesi hanno dovuto impiegare quasi una mezz’ora per riempire questa sezione del modulo. Nel silenzio un po’ irreale per il posto risuonano i timbri e gli scarabocchi su passaporti e visti. Le poliziotte si scusano con la nostra accompagnatrice C.S per le lungaggini dovute alla particolare confusione (!!!) di quel giorno. In seguito capirò che è stato un atto di gentilezza veramente eccezionale.
All’uscita ci attende la guida locale, un moscovita estroverso e chiacchierone, Nikolaj. Annuncia che la temperatura è di 22-24 gradi (lo dirà tutte le mattine, indipendentemente dalle reali condizione atmosferiche) e che ci troviamo all’aereoporto Šeremetev, uno dei cinque aeroporti di Mosca. Avrei la curiosità di vedere come sono gli altri.
Nei paesi dell’est europeo gli edifici grigi imperversano. Attraversando la periferia di Mosca mi torna alla mente la periferia di Praga o quella di Bratislava, tutte dello stesso tipo. Le periferie sono brutte ovunque, ma su queste regna sovrano il grigiore del cielo, delle case, dell’asfalto. Nikolaj sciorina le sue notizie storiche: Mosca è stata fondata nel 1147 dal principe Jurij Dolgorukij; ora ha dieci milioni di abitanti su un’estensione di 88.000 ettari, sette stazioni ferroviarie e venti teatri. Le strade sono larghissime e tra i suoi brutti quartieri fortunatamente ci sono ampi e numerosi parchi.
Arriviamo al Cosmos, albergo immenso (circa 1500 stanze) che mi ricorda in grande il palazzo della regione Lazio all’EUR; fu costruito nel 1979 per le Olimpiadi. Di fronte c’è il monumento agli astronauti, una volta intitolato al solo Gagarin ma in seguito collettivizzato in quanto Gagarin ha avuto altri riconoscimenti personali (una piazza, una quercia nel Cremlino…). Simboleggia senza sforzo di fantasia un razzo che parte per lo spazio, sarà alto più di cento metri. E’ molto soviet, ma lo trovo slanciato ed elegante nella sua semplicità.
La prima cena rende subito l’idea di come si mangia: poco e male. Le cameriere hanno belle divise all’altezza delle quattro stelle, ma la tovaglia è rammendata in qualche punto e le posate sono di stagno. L’acqua delle brocche sa pesantemente di cloro e quella minerale gassata sa di ruggine. E’ presente una bevanda tipo coca-cola che porta l’evocativo nome di “Mona Cola”. Una coppia di Mestre ruba una bottiglietta, sorridendo, come souvenir da far vedere agli amici.
Dopo cena approfitto della lunga luce estiva e vado verso la stazione della metro dove c’e’ un mercato. C’è molta gente in giro, molti giovani con la faccia da Sabato Sera. Quasi tutti hanno in mano una bottiglia di birra, donne comprese, e bevono camminando. Le contadine vendono su un foglio di giornale o su una cassetta di cartone la loro merce: tre pomodori, quattro cipolle, una dozzina di uova, un salame, tre pagnotte incartate nel cellophan. Molte vendono semplici mazzolini di fiori legati con il filo e le fidanzate hanno in mano una rosa. Quasi tutti hanno in mano un sacchetto di plastica, di quelli molto sottili; una vecchietta li vende.
Mi fermo ad un chiosco per comprare dei biscotti per integrare la cena; all’interno una coppia sta mangiando una minestra calda con il pane. Alcuni ragazzi mi guardano e mi sorridono. La povertà si vede dai denti guasti, così diffusi. Anche noi siamo stati così, e nemmeno troppo tempo fa. La povertà, quella vera, quasi mai suscita in me sentimenti di commiserazione o pena. Provo invece soprattutto rispetto. Non so bene perchè, ma sento che dovremmo avere più rispetto per la povertà.
Rientrando in albergo noto nella hall una diffusa ma discreta presenza di belle ragazze con minigonne cortissime e tacchi altissimi. Domenica 16 giugno 1996 Si va nel cuore di Mosca, la piazza Rossa. Mentre percorriamo strade larghissime Nikolaj racconta nomi e storia di tutte. Quella che dall’albergo porta verso il centro si chiama Prospekt Mira, che significa Viale della Pace. Le chiese tipiche ortodosse hanno cinque cupole. Nikolaj indica con un certo orgoglio dei bruttissimi palazzi grigi progettati da Le Corbusier; gli preferisco addirittura il costruttivismo sovietico di Stalin, squadrato ed imponente come da noi l’architettura fascista. Sembra che gli alloggi migliori, oggetto di grandi dispute per l’assegnazione, siano quelli fatti costruire da Stalin: case ampie, ben riscaldate e con soffitti alti. Il successore Krusciov puntò di più al risparmio.
E’ preoccupato per la vittoria di Eltsin, di cui è uno sponsor convintissimo; dice che le zone rurali voteranno di più per il neo-comunista (o vecchio-comunista?) Zjuganov. Non c’è da stupirsi se lo voteranno, il “miracolo capitalistico” in pochissimi anni li ha portati alla fame; la ricchezza ora si è concentrata in un’oligarchia, in molti casi anche criminale. Il chiacchierone Nikolaj ha torto a preoccuparsi: quella spugna di Elsin è l’uomo di paglia degli USA, gradito all’occidente, e la Russia una democrazia troppo debole, perchè sia messa in pericolo la sua vittoria, reale o con qualche aiutino.
La piazza Rossa non ha questo nome in onore della rivoluzione ma perchè nel russo antico “Krasnaja” significa “Bella”, oltre che rosso. Il vero significato è “Piazza Bella” ed è ampia e bella veramente. Oggi è chiusa per metà a causa delle elezioni presidenziali.
S.Basilio (XVI sec.) ne occupa un lato con le sue colorate cupole. L’interno delle chiese ortodosse è molto diverse da quelle cattoliche, per le stanze più piccole e raccolte, l’assenza di sedie e statue, la diffusione degli affreschi su tutta la superficie delle pareti, le icone. In realtà si chiama Cattedrale dell’Intercessione, ma è conosciuta da tutti con il nome del santo che vi e’ sepolto: Basilio (Vasilij Beato). Costui era un pazzo mistico dell’epoca dello zar Ivan il Terribile, proprio quello che fece costruire la chiesa. Sembra che questi cosiddetti folli mistici fossero molto amati dal popolo perchè potevano parlare più o meno impunemente contro i potenti, coperti dalle loro stravaganze e dalla religione. “Je sò pazzo…”. Con Ivan il Terribile aveva di che predicare.
Le mura del Cremlino (XV-XVI sec.) sono di due architetti italiani che vivevano in Svizzera, Ruffo e Solari. Di fronte si estende il grande palazzo settecentesco dei magazzini GUM, una sorta di Harrods moscovita per grandezza e varietà di merci, ma certamente non per sfarzo.
Dalla riva della Moscova si vede un bellissimo panorama delle cupole d’oro del Cremlino.
Tornando in albergo passiamo per la piazza della Lubyanka, famosa perchè era la sede del KGB. I russi dicono (o forse dicevano) che da quel palazzo si vede tutta la Siberia. Nikolaj dice che il regime di controlli si è allentato ma non è certo finito. Non stento a crederlo, cambia solo il manico.
L’Università si trova su una piazza immensa, la più grande di Mosca, sulle colline Lenin. C’è un ampio belvedere sulla città, ma non m’ispira fotografie: troppo grigio. Non credo sia tutto dovuto all’architettura, ma anche al colore del cielo dei paesi freddi: ebbi la stessa sensazione anche a Londra, dopo essermi affaticata a salire gli oltre settecento scalini della cupola della cattedrale di S. Paolo. Londra era una grande distesa di fumo e grigiore. L’edificio è uno delle tipiche torri staliniane a guglia, di 36 piani. Ce ne sono diverse sparse per Mosca, credo sette, adibite ad uffici o abitazioni; una è sede del ministero degli esteri.
Per pranzo un piatto tipico, la saljanka: è una zuppa di cetrioli, cipolle e barbabietole rosse. Il secondo piatto sarà poi sempre lo stesso sia a Mosca che a S.Pietroburgo: un pezzetto di carne con patate al forno e qualche carota lessa.
Il bel monastero di Novodevic, sulle rive della Moscova, ha un cimitero in cui sono sepolti Checov, Gogol, Majakovskij e addirittura Krusciov e signora, dato che non volle farsi inumare nel mausoleo. Dentro la cattedrale della Madonna di Smolensk assisto ad un frammento di un rito ortodosso, che per intero durerebbe più di due ore! Le donne portano tutte il fazzoletto in testa, tutti sono in piedi e si fanno ripetutamente il segno della croce, mentre il Pope e i suoi assistenti recitano delle litanie. E’ un rito molto suggestivo; le litanie ricordano la cadenza dei canti gregoriani.
Il pomeriggio termina con la visita del parco e del palazzo di Kuskovo, che apparteneva ai conti Šeremetev (si, quelli dell’aeroporto!); pare che fossero una famiglia ricca come gli zar. C’è ancora qualche discendente sparso in Europa. C’è da aspettarsi che ora qualcuno venga a rivendicarne la restituzione. E’ una residenza sontuosa, in stile Versailles. E’ anche annesso un museo della ceramica che fortunatamente non facciamo in tempo a visitare.
In serata c’è un gradito fuori programma: la prima della Traviata al Bolšoi. Avrei preferito il balletto, ma non posso perdere l’occasione di vedere il Bolšoi. Il teatro è veramente bellissimo, con ricche ornamentazioni rosse e dorate, ed è strapieno. Molti stranieri, tra cui numerosissimi italiani (siamo ormai onnipresenti come i giapponesi), e la sfilata della nuova ricca oligarchia russa. Alcuni esageratamente eleganti, in modo un pò provinciale, alcuni esibiscono una collezione di griffe. Le donne, con i loro piccoli nasi all’insù, sono quasi tutte belle e gli uomini spesso hanno astute espressioni volpine. Le donne, nei loro vestiti eleganti, hanno l’aria di sentirsi delle vere zarine. Una milanese m’informa che abbiamo pagato un terzo di quello che si paga ad una prima alla Scala; tutti i milanesi, al ritorno, commentano differenze ed analogie con la Scala.
In albergo è aumentato il numero delle intrattenitrici, forse perchè è tardi, forse perché è domenica; tra le passeggiatrici “si porta” un biondo esageratamente platinato.
Lunedì 17 giugno 1996 La giornata inizia con una colazione a base di kaša, una pappa di cereali lessi dolci, tipo il grano per fare la pastiera. In ogni caso si possono mangiare le classiche fette di pane in cassetta con la razioncina di burro e marmellata, presenti in tutti gli alberghi di quasi tutto il mondo.
Oggi tocca al Cremlino, che significa “Fortezza”. E’ il primo nucleo della città, inizialmente in legno, poi ricostruito (XV-XVI sec.) in mattoni rossi. Le cattedrali all’interno sono costruite in pietra bianca con le cupole d’oro. Basta l’affacciarsi di un raggio di sole per vederle illuminarsi: sono bellissime. Il palazzo dove risiedevano gli zar ha la facciata bugnata, ricorda il palazzo dei Diamanti di Ferrara. Nikolaj, infatti, informa che è stato progettato da un italiano (mi pare Fioravanti?). Nella cattedrale dell’Annunciazione sono stati incoronati tutti gli zar, ad eccezione di Boris Godunov che fu incoronato a Novodevic. L’interno è molto bello, ma la suggestiva penombra di queste chiese ortodosse non permette di vedere bene gli affreschi e le icone: alcune sono di Teofane il Greco e del famoso Andrej Rublev. Confesso la mia ignoranza: prima d’ora non lo conoscevo perchè ho evitato di vedere i film di Michalcov, pare ce ne sia uno dedicato a lui.
La chiesa ortodossa non ha ancora avuto la furbizia di dotarsi d’illuminazioni a moneta, come fanno i loro corrispettivi cattolici. I pavimenti sono nientemeno che in diaspro d’agata, dono dello Scià di Persia. Le icone sono nate congiuntamente alla nascita del rito cristiano-ortodosso, avvenuta a Kiev nel 988; sono dipinte su legno, queste russe su legno di betulla, ovviamente.
Trascuriamo l’interno delle altre cattedrali per privilegiare la visita al Museo dell’Armeria. La cattedrale di S. Michele Arcangelo è in restauro; dentro ci sono le tombe degli zar, compreso Ivan il Terrile, morti prima del trasferimento a S. Pietroburgo della capitale.
Il Museo dell’Armeria ospita una collezione di armi preziose da shock (se penso all’importanza data al pugnale Topkapi a Instanbul…), troni d’oro incastonati di pietre preziose e pietre dure, vestiti ricamati di perle e pietre preziose (e non ne manca una!), il piatto d’oro di Ivan il Terribile ed una lunga serie di altri oggetti che fanno parte del tesoro degli zar. Pur escludendo il Museo dei Diamanti (ex Fondo dei diamanti dell’URSS), purtroppo ora non visitabile, se non fosse per il Ko-hi-noor il tesoro della corona inglese sembrerebbe un banchetto di bigiotteria in confronto a questo. Mi stupisce, e continuerà a stupirmi per tutto il viaggio, lo stato di conservazione degli oggetti appartenuti agli zar, anche quelli facilmente deperibili. Gli oggetti del tesoro sembra siano stati esposti al pubblico solo dopo la fine della guerra fredda. Stalin faceva conservare tutto impacchettato e sorvegliato nei sotterranei. Sono anche conservate qui un certo numero di cornici preziose di icone, ma le icone sono invece conservate in un altro museo, tra cui la famosa Vergine di Vladimiro. Ci sono un paio di carrozze e slitte imperiali, usate per gli spostamenti Mosca-Pietroburgo. Il vetro ai finestrini arrivò relativamente tardi (nel XVIII sec., mi pare) ma avevano all’interno un piccolo riscaldamento (e il cocchiere?!?). Erano trainate da sei cavalli, ma prima di entrare a Mosca ne venivano attaccati solo tre: di qui l’origine del termine troika per indicare le persone importanti, se dobbiamo fidarci di quel che dice Nikolaj.
L’area del Cremlino esternamente è molto vasta e per fortuna è arrivato il sole. Fuori c’è un’enorme campana detta la “zarina delle campane”, che non ha mai suonato perchè si ruppe durante un incendio, e la quercia piantata da Gagarin.
A pranzo c’è un piatto ucraino, il borš, una zuppa di barbabietole rosse con alloro e panna acida. Fortunatamente la panna acida galleggia in blocchi compatti e riesco a fare il dribbling con il cucchiaio.
Non può mancare una visita alle stazioni storiche della metropolitana. Non c’è molto da commentare: sembrano saloni da ballo. Per la soddisfazione dei sentimenti nostalgici, ammiriamo una grande profusione di falce e martello. Non potendo più impressionare borghesi e benpensanti, ormai impressionano le pellicole dei turisti.
Visitiamo la Arbatskaja, la Komsomolskaja (con mosaici rappresentanti le lotte del popolo), la Novoslobodskaja (con bellissime vetrate), ma la più bella è per me la Majakovskaja, in stile liberty.
Coinvolgendo un paio di improvvisate compagne di viaggio torniamo sulla piazza Rossa. So che non ho speranze per entrare nel mausoleo di Lenin, ora lo aprono solo per due ore al giorno la mattina, ma mi piazzo davanti e chiedo ad una ragazza di farmi la foto, con tanto di pugno chiuso alzato. In breve si radunano alcuni turisti e quando andiamo via si è formato un piccolo crocchio di persone che a turno si fanno fotografare con la scritta “Lenin” sullo sfondo. E’ la funzione delle avanguardie…
La serata è un fuori programma personale; sono riuscita a rintracciare il giovane diplomatico A.D., amico di un amico napoletano che, contrariamente ai miei scrupoli di arrecare disturbo, sembra ben felice di vedere un’italiana. E’ gentilissimo, pur se nei modi formali e misuratissimi da prete novizio (o forse da diplomatico?). Mi riceve in ambasciata nonostante il mio abbigliamento sia a dir poco inadatto: il mio abbigliamento da viaggio sembra uscito dalla Caritas. Mi porta a vedere casa sua, un ampio appartamento arredato con gusto ricercato (ovviamente i mobili sono suoi) dentro un palazzo più squallido del Laurentino 38 o di Tor Bella Monaca. A casa aspettiamo invano l’arrivo di un altro diplomatico, anche lui napoletano, che deve tornare da Kazan (repubblica Tatara) dove ha fatto l’osservatore durante le elezioni, evidentemente le lungaggini burocratiche all’aeroporto e il mercanteggiamento per la tariffa del taxi devono essere stati più lunghi del solito. a.D. Alla fine si decide e andiamo a cena solo noi in un grazioso ristorante georgiano proprio di fronte Novodevic. Durante la cena finalmente si rilassa e mi racconta perfino dei suoi tormenti sentimentali; credo però che la tristezza sia una componente base del suo carattere. Di sicuro l’inverno russo e la lontananza dal mare e dalla famiglia non aiutano. La cena non è eccezionale ma senz’altro superiore a quella dell’albergo: si mangiano delle focacce di pasta con formaggio fuso, carne fredda speziata e manzo alla piastra con funghi, ma il vino rosso georgiano è disgustosamente dolce, sembra Porto di bassa gradazione.
Quando usciamo dal ristorante è il tramonto, il lungo tramonto estivo del nord. Le cupole d’oro, l’azzurro del cielo riflesso dalla Moscova, il verde del prato, alcune piccole luci accese nel monastero compongono un’immagine delicata. A.D. Dice che d’inverno, con la neve, questo posto è completamente diverso ma non meno affascinante.
Recuperiamo M.B. Che nel frattempo è arrivato e, dopo aver consultato un giornale in inglese che potrei definire “il TrovaMosca”, decidono di andare in un locale notturno dal significativo nome di Tabula Rasa, che si trova in fondo ad una strada buia e sterrata , dove alle 23 suona un gruppo che fa “acid jazz”. All’entrata ci chiedono se abbiamo armi, bombe o droga (hanno imparato queste stronzate dagli americani?). A.D. E M.B. Vengono sommariamente perquisiti da due energumeni di grossa taglia. Con me si accontentano di farmi svuotare lo zaino. L’ambiente ricorda un centro sociale occupato. La cameriera è lenta e molto sgarbata, come quelle dell’albergo e degli uffici. I due diplomatici mi spiegano che qui è la norma anche nei locali privati; il personale non è più statale ma si comporta come se lo fosse ancora, forse si devono ancora abituare… Parliamo molto delle elezioni; anche A.D., durante il fine settimana, è stato a Kazan a fare l’osservatore. Questi due ragazzi di buona famiglia non sono certo comunisti, ma confermano con la loro esperienza le mie sensazioni. Si è ancora ben lontani dalla democrazia: sia la campagna elettorale, monopolizzata e manovrata da Eltsin forte del sostegno anche economico degli USA, che le operazioni di voto, svoltesi nel più totale pressappochismo e in molti casi addirittura con brogli, hanno portato alla vittoria di Eltsin su Zjuganov, ma di misura. Negli strati sociali meno protetti, che per ora pagano con la fame nera il prezzo del libero mercato, serpeggia una certa nostalgia per il poco che avevano sicuro prima; ma Eltsin è il candidato gradito all’occidente per cui gli osservatori devono sorvolare e tutti suoneranno la fanfara per lui. Certamente i nostri giornali saranno i primi a suonarla.
Il gruppo che deve suonare l’acid jazz fortunatamente non si presenta (pare che anche questo sia nella norma), ma nessuno insorge o protesta e ce ne possiamo andare a letto con i timpani ancora intatti.
Martedì 18 giugno 1996 La città santa Zagorsk, che ha da poco ripreso il suo vecchio nome di Sergiej Posad, è una delle città dell’anello d’oro, quella più vicina a Mosca. Il vecchio nome Zagorsk pare fosse il nome di un qualche pezzo grosso del Partito di non so quale periodo. Nella furia restauratrice dei nomi che imperversa in questo periodo in Russia questa mi sembra la più giustificata; non so chi fosse questo Zagorsk ma forse neanche lui avrebbe voluto il suo nome associato a quello della città dei credenti russi.
Lungo la superstrada si vedono le izbe di legno dei contadini e le dacie (case di vacanza in campagna), molte di nuova costruzione, nascenti proprietà private, seconde case dei nuovi russi benestanti. Ieri sera, infatti, A.D. Mi ha detto che F. (corrispondente da Mosca per Repubblica e suo amico) ha scelto di andare ad abitare in una dacia. In realtà l’unica differenza tra izbe e dacie è che le seconde sono moderatamente più lussuose, specialmente all’interno, da quanto ci racconta Nikolaj. Veramente anche le izbe sono molto dignitose, molto più dei palazzoni cittadini. Sulla strada incrociamo una grossa autobotte che trasporta benzina: si tratta di un distributore ambulante! Mi ero chiesta, in effetti, dove i moscoviti si rifornissero di carburante, dato che si vedevano pochissime stazioni di servizio, persino in città. La città santa è cinta di mura, da cui spiccano le cupole d’oro e quelle azzurre dipinte di stelle d’oro; molti edifici sono già restaurati o in restauro, come penso la gran parte delle chiese russe in questo periodo. Fino ad ora la chiesa russa ha vissuto sulle offerte dei fedeli, ma ho la sensazione che prima o poi cercheranno di battere cassa al governo. Speriamo tengano duro. Durante quest’ultima campagna elettorale molti dei candidati si sono ipocritamente prodotti in grandi manifestazioni di fede e di sostegno alla chiesa, fenomeno che noi conosciamo molto bene.
All’entrata della città santa, due giovani preti biondi mi fanno l’occhiolino in modo inequivocabilmente ammiccante. Vengo poi a sapere che c’è un ordine di preti, quelli col capo scoperto e la tonaca grigia, come i due intraprendenti agganciatori di turiste, che non fanno voto di castità.
Il complesso religioso fu fondato nel 1337, ma è stato molto rimaneggiato nel XV sec. Dopo la rivoluzione fu chiuso ma Stalin, il distruttore di chiese a Mosca, ne autorizzò la riapertura in omaggio al contributo portato dalla comunità religiosa del monastero alla resistenza contro i tedeschi.
All’interno della città i pellegrini sono d’aspetto ben diverso dai moscoviti: l’abbigliamento è molto più modesto, le donne portano gonne lunghe ed hanno il tipico fazzoletto in testa, anche all’esterno delle chiese. Soprattutto le donne ed i bambini hanno l’aspetto straccione degli zingari o dei profughi, a causa dell’abbigliamento, detto senza alcuna intenzione dispregiativa. La cattedrale dell’Annunciazione all’interno è identica a quelle dei monasteri delle Meteore in Grecia. I pellegrini lasciano bigliettini con le richieste di grazia che ogni tanto vengono raccolti dai preti. Nikolaj dice che insieme ai bigliettini vengono anche lasciate offerte di cibo per i poveri, secondo la tradizione; a dire il vero non ho visto nessuno che lasciava offerte di cibo e mi riesce difficile pensare che esistano poveri più poveri dei pellegrini che lasciano i biglietti. All’ingresso viene offerta acqua calda (in cinque/sei tazze di vetro che non vengono mai lavate) e pezzettini di pane secco; anche in questo costume legato all’eulogia si manifesta il carattere primitivo del cristianesimo ortodosso. Da una fonte l’acqua santa viene attinta e venduta dentro bottiglie del detersivo vuote.
Il ritorno a Mosca, nel pomeriggio, viene dedicato alla galleria Tetryakov, un’importante collezione di pittura russa creata appunto da Tetryakov: è conosciuta soprattutto per le icone. L’arte delle icone è cristallizzata nei secoli: dalle prime risalenti al X secolo fino ad oggi non ci sono stati significativi cambiamenti. Qui è conservato l’originale della famosa Madonna di Vladimiro (XII sec.), che ha veramente un’espressione di tenerezza, e le icone di Rublev (XV sec.): di quest’autore mi colpisce quella dei “tre arcangeli che visitano Adamo”. Alcune delle Madonne rappresentate nelle icone hanno in mano il velo, simbolo d’intercessione. Secondo il rito ortodosso questo rappresenta il velo steso dalla Madonna per proteggere Costantinopoli. In ogni caso non trovo le icone particolarmente emozionanti; mi è sembrato notevole, forse perchè diverso dagli altri, solo un Cristo stilizzato nelle tonalita’ grigio-marrone, dell’arte balcanica del ‘300.
Nell’ala moderna scopro la bellezza di quadri dipinti da pittori a me sconosciuti: belli i quadri di Leviatan e Polenov (primi ‘900), coloratissime le donne di Malyavin, le scene di vita russa di Korovin, i ritratti di Serov ed inoltre Ryabushkin e Ivanov. Sulikov e Repin dipingevano scene di vita popolare: diedero vita ad un movimento detto degli “itineranti” perchè portavano i loro quadri nelle strade. Repin fu per questo rivalutato ed osannato dalla cultura socialista; in un parco del centro gli è stato dedicato un monumento. Bellissime le scene della Russia d’oriente di Vereshchagin. Mi ha positivamente colpito constatare che ci sono diverse donne nella pittura russa.
In serata mi tocca compiere l’avventura di prendere la metropolitana da sola per andare all’ambasciata italiana; a questo scopo ho dovuto scovare una piantina della metro scritta in cirillico, per avere qualche possibilità di decifrare le indicazioni delle stazioni ed arrivare alla fermata Arbatskajia senza perdermi nel dedalo sotterraneo. Riesco ad arrivare quasi in orario all’appuntamento, dove trovo A.D. Elegantissimo ma un pò stucchevole a causa di un ricevimento in corso all’ambasciata. Insieme a M.B. Ed un’altra ragazza moglie di un diplomatico, si va a trascorrere la serata in una delle nuove discoteche, il Nightflight. Stavolta mi sono attrezzata come meglio potevo con il mio abbigliamento da viaggio, sfoggiando una minigonna jeans che mi ha causato qualche tentativo d’approccio in metropolitana. Sono lo stesso molto al di sotto dello standard. In questo locale le intrattenitrici, alcune veramente bellissime, vanno all’assalto degli uomini d’affari stranieri, di cui il locale è pieno. Fuori ci sono dei ceffi da paura. La serata per me trascorre con un senso di sofferenza e disagio; sembrano tutti contenti, fanno una bella vita, ma sento un senso di tristezza, falsità e sforzo dietro tutto ciò. A tarda notte saluto A.D., malinconico e gentilissimo, che in queste due serate mi ha usato, pur se involontariamente, la gentilezza dovuta ad una rappresentante di una qualche importante ditta italiana. Al ritorno in Italia gli spedirò, per ringraziarlo della disponibilità e cortesia, un bellissimo romanzo di Evtuschenko, “Il posto delle bacche”.
Mercoledì 19 giugno 1996 Finalmente oggi si visita il museo Puskin, dove vedremo il famoso tesoro di Troia, scoperto da Schliemann. Questa era per me la principale attrattiva di questo viaggio. Nel 1945 l’Armata Rossa prelevò dal museo di Berlino il famoso tesoro e se lo portò a casa, dove però finì dimenticato nei sotterranei del museo Puskin. Solo da quest’anno è stato recuperato e esposto al pubblico per la prima volta dopo oltre cinquant’anni, sollevando anche un certo putiferio: la Germania lo rivuole indietro e la Russia non lo molla, argomentando che si può considerare un parziale risarcimento di guerra. Io sarei del parere che chi ha avuto ha avuto… Certe opere sono patrimonio dell’umanità, ovunque vengano esposte. Tra l’altro Schliemann proprio non voleva darlo ai suoi connazionali e tentò persino di venderlo al miglior offerente, come ritorsione per essere stato snobbato e sbeffeggiato dalla baronia del mondo accademico tedesco in quanto archeologo dilettante. E’ impropriamente detto tesoro di Priamo, ed in realtà non lo è perchè quella che Schliemann scoprì era una Troia di oltre mille anni più antica di quella dei tempi di Priamo e della bella Elena.
Un giornalista presente nel viaggio, osannato da giorni dall’accompagnatrice quale luminare di non so che cosa, avrebbe dovuto illuminarci con la sua cultura preparandoci all’evento. Di fatto ci ha intrattenuto con una breve presentazione della mostra che mi ha deluso non poco, fatta di notiziole scontate e pure imprecise. Sono stata tentata di correggerlo in più punti ma poi ho lasciato perdere.
Il tesoro invece non delude: si tratta di oltre 200 pezzi d’oro, tra cui un bellissimo diadema con pendagli reso famoso per la foto in cui lo indossa Sofia, la giovane moglie greca di Schliemann, quasi a far rivivere la mitica Elena. Nel Puskin scopro altri grandi tesori d’arte, soprattutto nelle arti figurative: oltre alla pittura russa di fine ottocento ed inizio novecento, ci sono quadri di Monet, Degas (Le ballerine blu), Van Gogh, Gaugin, Matisse, Picasso. Mi colpiscono i quadri di un certo Krasnopevtesev, dai tratti stilizzati e le tonalità invernali.
Per strada mi accorgo che i tombini riproducono l’immagine del piatto d’oro di Ivan il Terribile.
Lo spostamento a S. Pietroburgo (che per settant’anni ebbe il rivoluzionario nome di Leningrado) avviene in treno, un bel treno pulito e poco affollato, un treno per turisti o per ricchi; centinaia di persone con le buste legate con lo spago affollano altre banchine in attesa di altri treni. Una sterminata e piatta campagna verde si srotola dal finestrino; per ingannare l’attesa ci rechiamo a prendere il the nella carrozza ristorante. E’ decorata con centrini di carta, vasetti con fiori di plastica e merletti di plastica o di carta, tipo quelli che ci facevano ritagliare da bambini.
Siamo nel periodo delle notti bianche, arriviamo quasi alle 23 ed è ancora giorno. Ci accoglie Natascia, una ruvida ed austera signora assai meno chiacchierona del moscovita. M’ispira subito simpatia. Il mastodontico hotel Pribaltiskajia affaccia sul mar Baltico, come dice il nome, e anche qui non perdo l’occasione per fare una passeggiata solitaria sulla spiaggia e godermi la luce del lungo tramonto estivo sul mare. C’è un grande quartiere proprio vicino all’albergo, che oserei definire la”Garbatella di S. Pietroburgo”, ma in chiave moderna, molto più grande e molto più brutto di quello romano. Appoggiati ad una vecchia Lada ammaccata alcuni giovani ascoltano ad alto volume un rock casareccio: ”…One, two, three, karasciò…”; in mano hanno la solita bottiglia di birra e mangiano un’aringa salata incartata nel giornale. Rientro tardi in albergo ma ancora con la pallida luce del crepuscolo. L’hotel, oltre ad essere molto più bello di quello di Mosca, non ha il solito puttanaio nella hall; ci sono addirittura telefoni che funzionano a scheda e carta di credito, e funzionano davvero.
Giovedì 20 giugno 1996 Si parte con una panoramica della città, fondata dallo zar Pietro I dopo aver conquistato l’accesso al mar Baltico facendo guerra agli svedesi. Pietro I, detto il Grande, cambiò il corso della Russia, rendendola più europea. S. Pietroburgo, infatti, ha un impianto urbanistico più mitteleuropeo di Mosca, con i suoi bei palazzi e canali. Per la precisione sono 67 canali, 366 ponti su 42 isole; in origine erano 100, suppongo che in tre secoli si siano interrate…
Molti edifici e monumenti sono in stile neoclassico, anche le maestose colonne rostrate che offrono una cornice monumentale sul porto, ghiacciato d’inverno.
La piazza dei Decabristi è dedicata ai partecipanti ad una rivolta avvenuta nel dicembre del 1824 contro lo zar e duramente repressa, cui parteciparono principalmente ufficiali ma anche servi della gleba. I servi della gleba… Ovvero gli schiavi. In Russia la servitù della gleba fu abolita solo nel 1861. Natascia, con la sua caratteristica ruvidezza e realismo, gela subito i nostri entusiasmi per le bellissime cupole d’oro della cattedrale di S.Isacco, spiegandone il processo di fabbricazione. L’oro veniva fuso insieme al mercurio per renderlo più fluido, ottenendo così una sottile lamina con cui ricoprire le cupole. Il mercurio evaporava e le sue esalazioni erano micidiali: nella coperture delle cupole di questa cattedrale morirono 40 servi della gleba. S. Isacco è molto grande, la terza in Europa dopo S. Pietro e St. Paul di Londra, ed è a tre navate come le nostre pur essendo ortodossa. Nonostante la restaurazione religiosa, è soprattutto dedicata al turismo; vi è celebrata qualche funzione solo a Pasqua. Parlando di religione, Natascia esprime l’opinione che molti russi che oggi vanno a battersi il petto in chiesa, come si userebbe dire da noi, ed in questa lista include soprattutto le signore ed i nuovi benestanti, lo fanno solo perchè è una nuova moda e lascia chiaramente capire che li considera una massa d’ipocriti (tutto il mondo è paese); considera invece la fede dei contadini più vera e sentita. Ai tempi in cui lei frequentava l’università, e sottolinea “quando c’era il socialismo…”, uno degli esami più impegnativi era “Ateismo scientifico”, in cui venivano si dovevano studiare quasi tutte le religioni e le ragioni per cui si poteva confutarle.
Parlando della storia di questa città, Natascia ci ricorda la mitica resistenza che Leningrado oppose all’invasione tedesca durante la seconda guerra mondiale: per 900 giorni la città, ridotta in condizioni disperate dalla fame e dal freddo, resistette all’assedio fin quando la Wermacht fu finalmente cacciata dall’armata rossa nel gennaio 1944. E’ incerto il bilancio delle vittime, ma è stato stimato in circa un milione di morti. Durante l’assedio Shostakovic compose la “Sinfonia di Leningrado”.
Il Palazzo d’Inverno, l’edificio più grande che ospita il monumentale museo dell’Hermitage, è veramente bellissimo, insieme alla piazza a ferro di cavallo su cui si apre. In stile neoclassico, fu disegnato dall’architetto italiano Carlo Rossi. La visita di questo mastodontico complesso museale fa impallidire il Louvre, il British e molti altri grandi musei perchè, oltre all’indescrivibile ricchezza e varietà delle collezioni, è il palazzo stesso un enorme museo per le sue stanze riccamente decorate, gli arredi, i pavimenti, i lampadari, i soprammobili e così via. Solo per dirne una, nella “sala delle colonne dorate”, la doratura è di vero oro zecchino.
In una stanza c’è un orologio fermo alle ore 2 e 17 della notte tra il 25 ed 26 ottobre 1917, ora in cui il palazzo fu travolto dalla rivoluzione.
L’odierno turista resta a bocca aperta ma, valutando l’ostentazione di una tale immensa ricchezza degli zar e pensando alle condizioni del popolo e dei servi della gleba nello stesso periodo in cui veniva costruito tutto questo, non c’è da stupirsi che tra la metà del XIX e l’inizio del XX secolo la Russia fosse diventata una polveriera…Qualche motivo di essere incazzati ce l’avevano.
In ogni caso valeva la pena sopportare la solita interminabile fila per i controlli già solo per vedere il tesoro degli Sciti. Se penso che uno dei principali scopi del mio viaggio era il tesoro di Troia! A parte il valore storico-simbolico, quanto esibito al Puskin impallidisce in confronto all’arte orafa scita. Gli Sciti erano una popolazione originaria della Crimea che si estinsero con l’arrivo di altri popoli nella zona del Bosforo (meoti, alani, etc.) e poi definitivamente con l’arrivo dei romani. Gli oggetti, del periodo che va dal 6° al 3° secolo A.C., trafugati dalle tombe ed acquistati in seguito da un ricco mercante, furono poi regalati (?!?) da quest’ultimo alo zar Pietro I. La fattura è veramente raffinata ed elegante, animali stilizzati e scene di vita o di battaglie ornano oggetti o monili. Gli Sciti ebbero sicuramente contatti con i Greci, è diffusa la rappresentazione di stili e modi di vita ellenici nei loro gioielli.
Citare tutte le collezioni sarebbe impossibile, come impossibile è visitarle tutte. Una menzione particolare va ai capolavori della pittura dove c’è veramente di tutto: tre sale sono per Picasso, ma moltissimi anche gli altri grandi pittori degli ultimi due secoli: Van Gogh, Monet, Renoir, Gaugin, Cezanne, Degas, Kandiskij e numerosi altri, anche meno noti, comunque di alta qualità.
Ammetto che senza guida sarebbe stata dura, quasi tutti i cartellini e le spiegazioni sono solo in cirillico, il museo non ha la moderna concezione della galleria Tetryakov. Lo stanno adeguando ma, viste le dimensioni, ci vorrà del tempo! Molte sale, infatti, sono chiuse.
M’incuriosisce una strana piccola comitiva: un signore indiano alto, brizzolato, bellissimo, d’aspetto veramente regale, seguito a due passi indietro da due giovani indiani, gira il museo accompagnato da una guida personale del museo parlante inglese. La guida è la solita scorbutica signora anzianotta, ho visto sempre e solo donne come custodi e/o guide nei musei. Entrano in un’ala chiusa e, senza pensarci un minuto, mi accodo dietro a loro. Le sale chiuse contengono bellissimi oggetti d’arte indiana. La guida è talmente presa a dare spiegazioni all’affascinante signore (sarà per il fascino o forse per una sontuosa mancia?) che non mi vede proprio, e lui è troppo alto e troppo altezzoso per accorgersi dell’intrusione. Solo i due giovanotti, piuttosto giocherelloni per essere guardie del corpo, mi rivolgono la parola per chiedermi da dove vengo, ma non sembrano disturbati dalla mia presenza.
La mitica Prospettiva Nievskij si rivela un gran vialone affollato, bighellonando ho trovato molto più suggestive le vie laterali. Non c’è dubbio che come impianto urbanistico S. Pietroburgo sia molto più bella di Mosca, grigia e mastodontica pur avendo alcuni luoghi di particolare bellezza. Per il resto tra le due città sembra esserci la differenza tra una nostra città del nord ed una del sud, sia per la qualità servizi che per la ricchezza.
Venerdì 21 giugno 1996 All’uscita dell’albergo un folto gruppo di bambini ci accoglie con la cantilena “per favore mille lire”, chi ha in mano collanine o altre piccole cianfrusaglie, chi nulla. Più dei bambini festosi e vocianti, ho pena di certe curve e depresse vecchiette, che tendono la mano senza parlare ed hanno stampata sul volto la tristezza dell’indigenza: le loro pensioni sovietiche ora non bastano più neanche per il minimo necessario.
Sulla Neva ancora galleggia la grande nave Aurora, in servizio dalla guerra russo-giapponese. Il suo valore è simbolico quanto il Cutty Sark di Greenwich; fu la nave dalla quale partì la prima cannonata che diede il via alla rivoluzione d’ottobre.
La fortezza di S.Pietro e Paolo si adagia sulla Neva. Vi sono le tombe di tutti i Romanoff ad eccezione dell’ultimo. Il primo della dinastia fu il nonno di Pietro I e l’ultimo fu Nicola II.
Nicola II e la sua famiglia, cinque figlie femmine ed un maschio emofiliaco, furono rinchiusi in questa fortezza allo scoppio della rivoluzione, prima di essere trasferiti in Siberia e poi sugli Urali, dove arrivò l’ordine di fucilazione. Ora giacciono in un camion in fondo ad un lago, e questo probabilmente ha contribuito ad alimentare la leggenda della sopravvivenza di una figlia, Anastasia. La chiesa della S.Trinità, la cui cattedrale è dedicata ad Aleksandr Nevskij, si visita più per il cimitero annesso. Era il cimitero dei ricchi e degli artisti. Vi sono le tombe di Dostojevskij e di Ciajkovskij. Al suo funerale partecipò un’enorme folle ed anche lo zar, era popolare come un moderno cantautore rock, a dispetto della sua indole introversa. La sua tristezza e depressione che lo portarono forse al suicidio, ma non fu mai provato.
Sabato 22 giugno 1996 Una bella giornata assolata, per quanto lo possa essere a queste latitudini, ci accompagna nella gita fuori porta alla residenza di campagna dell’onnipresente Pietro I, detta appunto Petrodvorec, che si affaccia sul Golfo di Finlandia. Un grande sfoggio di ricchezza, barocca e neoclassica, riccamente arredata. E’ notevole lo studio cinese e la stanza dei ritratti dell’italiano Pietro Rotari, che voleva rappresentare lo studio della bellezza e della grazia. Per i miei gusti, tutto questo lusso baroccheggiante m’irrita più che incantarmi, ed anche il pezzo migliore di tutta la regale residenza, il giardino, presenta un’eccessiva distribuzione di statue dorate. I giochi d’acqua, le fontane, i cambi di livello che hanno reso famoso e molto imitato il giardino all’italiana rinascimentale, sono qui sminuiti dall’arrogante ostentazione della ricchezza. L’invadente presenza delle statue dorate (o d’oro?) offusca la grazia dell’equilibrata prospettiva del giardino all’italiana. Mi rendo conto, guardandomi intorno, che ben pochi la pensano come me… La presenza di tanta acqua ed una temperatura che sfiora i 18 gradi favorisce la vitalità di migliaia di zanzare grandi come un’unghia ed assatanate. Una povera appetibile signora mostra le gambe piene di bolle sotto il collant! Avevo sentito parlare dell’aggressività delle zanzare finlandesi, ma anche queste di qua dal golfo non scherzano! Lascerò dunque la Russia con qualche prurito, pur se niente in confronto a quello che mi verrà per il ritardo ingiustificato di quattro ore del volo, che comporterà un imbarco -dei passeggeri- a tutta velocità sulla coincidenza a Budapest ed un mancato imbarco -delle valige- che resteranno a Budapest.
A tarda notte al bancone bagagli dell’Alitalia un impiegato pigia selvaggiamente sui tasti mentre noi, sfiniti, vorremmo sbrigarci ed andare a casa. Alla fine mi dice: “Signora, questa destinazione non riesco a trovarla. Si chiama proprio San Pietroburgo?”. Non posso credere a tanta ignoranza, ma ci provo lo stesso: ”Ha provato a cercare con Leningrado?”. Esulta senza vergogna: “Sì, c’è Leningrado! Vi stampo subito i voucher”.
Addio, indomita e coraggiosa Leningrado, ti chiamerai sempre così nel mio cuore (e nel sistema informatico dell’Alitalia).