Le nostre avventure tra Sudafrica e Mozambico
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15 Ottobre 2015
La sveglia questa mattina è stata presto, anzi prestissimo. Il primo volo, Venezia-Amsterdam, è alle 6.10. Alle 4.15 eravamo sotto casa dei genitori di Martina, pronti per farci accompagnare all’aeroporto. Non sentiamo la stanchezza. L’adrenalina ci tiene svegli, carichi per questa nuova avventura.
Seduti sul sedile dell’aereo, davanti a noi la cartina del mondo e un piccolo aereo che piano piano sta attraversando il continente africano da nord a sud direzione, Johannesburg, Africa. Africa, un’impronta indelebile lasciata dal viaggio namibiano due anni or sono. Africa, dove la luce accende paesaggi e il cielo di colori incredibili. Africa, dove c’è il tempo e non l’orologio. Africa, dove ognuno ha il suo posto nel grande Cerchio della Vita. Africa, dove le persone si muovono lentamente camminando per chilometri.
Siamo arrivati a tarda sera sera all’aeroporto di Johannesburg, un sacco di stanchezza sulle spalle e poca sorpresa nel rivedere un luogo in cui avevamo già transitato. All’uscita dal gate rivediamo il negozio “Out of Africa”, enorme business di articoli africani che ci sono solo nelle città turistiche e che di fatto non fanno Africa. Ci appuntiamo di comprare al ritorno le cose che non troviamo durante il viaggio. Carichiamo le nostre valigie su un carrello e cerchiamo le indicazioni per l’autonoleggio, che ci conducono in un lungo corridoio, proprio frontale all’uscita della hall. Decidiamo di prendere in affitto la macchina il giorno prima, così l’indomani possiamo partire immediatamente dall’albergo alla volta del Kruger. Ci danno una Toyota Corolla che è una gran bella macchina davvero, confortevole e comoda. Primo problema: guidarla! La macchina è incastrata in parcheggio con la guida a destra e il cambio automatico. Massi si siede al volante e inizia a muoverla: è bravissimo a capirsi, non tanto con i comandi che sono familiari ma nelle strade caotiche e intricate di Johannesburg: è un eroe! All’uscita per l’albergo, che dista solo qualche km dall’aeroporto, siamo subito in Africa: le strade sono un po’ sabbiose e il buio le rende sinistre. Parcheggiamo di fronte all’albergo e un tipo ci apre la porta con quel solito sguardo di tranquillità che è tipico della gente africana. Aviator Tambo Hotel è molto caratteristico e soprattutto comodo. L’hotel è vicinissimo all’aeroporto, ottima soluzione per chi come noi è di passaggio e vuole una soluzione pulita e comoda, senza troppe pretese. Per arrivare alla camera percorriamo dei lunghi corridoi. L’hotel è in stile anni 50 e tutto l’arredo ricorda il mondo dell’aviazione: per terra, lungo i corridoi, valigie in pelle, appesi qua e là cappelli dal comandante, aerei e immagini che ricordano aerei vecchi. Le stanze sono ampie, bagno e doccia molto grandi. Ahimè il Wifi non è disponibile in tutta la struttura come da descrizione: la connessione funzionava solo fuori dalla porta della camera e così abbiamo passato un po’ di tempo sull’uscio, per scaricare un po’ di mappe e indicazioni di viaggio per il giorno successivo. Doccia e letto, pronti per il giorno dopo!
16 Ottobre 2015
La sveglia suona alle 6:30. Da fuori sentiamo il rombare dei motori degli aerei che partono e arrivano ma, durante la notte, forse causa stanchezza, non li abbiamo sentiti! Facciamo armi e bagagli e ci ricarichiamo sulla nostra Toyota Corolla. Ipad con le mappe stradali sulle ginocchia, macchina fotografica legata al collo, ci sentiamo subito a nostro agio. Un po’ ci intimorisce la strada che dovremo percorrere: abbiamo letto che è una vera superstrada con tanto di Autogrill, ma in Africa non si sa mai. Ci fermiamo dopo un’ora circa per prendere una piccola scorta di bevande e alimenti da tenere in macchina. Gli Autogrill sono occidentali e ci stupiamo sempre nel vedere quanti articoli italiani si riescano a trovare all’estero, compresa l’Africa. Ci sono le Smarties, la cioccolata Milka, questa volta non vediamo le merendine Balcone!
Grazie al navigatore imbocchiamo l’autostrada, a tre corsie, bella asfaltata. A tratti ci ricorda una di quelle grandi arterie di Los Angeles o San Francisco. Ci lasciamo Johannesburg alle spalle, e percorriamo centinaia di chilometri. Chiacchieriamo come non facciamo da tempo, coccolati dal paesaggio verde e collinare. Dopo circa 250 km ecco la nostra prima avventura: arriviamo ad un casello convinti che si possa pagare con il telepass come avevamo fatto nei precedenti tre caselli. Ma così non è, e non abbiamo un rand che sia uno. Facciamo capire al casellante che non abbiamo contante e ci fanno accostare: probabilmente non siamo i primi che incappano in questo errore e ben presto ci raggiunge con il lettore per la carta di credito. Salvi! Impariamo la lezione e ci appuntiamo di fare bancomat appena possibile. Mai girare senza soldi e senza benzina in Africa!
Ci rimettiamo in marcia e il paesaggio che sfreccia ai nostri lati inizia a cambiare: talvolta appare sabbioso e disabitato, altre volte si fa fitto di case tutte uguali che di fatto sono l’equivalente delle favella sudamericane, modello Mandela. Ogni tanto vediamo un cartello che indica di rallentare in caso di nebbia: ci chiediamo se sia uno scherzo. Invece… una nebbia pari se non peggiore alle nostre tipiche della pianura padana ci avvolge e ci minaccia per la metà del viaggio. Ci prendiamo in giro più volte dicendoci: “Ma siamo in Valsugana?” – “Oh ma questo è il Montello?”. La nebbia flette i nostri animi: è la prima volta che il meteo ci è avverso e ci sentiamo sconsolati: abbiamo atteso così a lungo le vacanze, non sarà mica il meteo a rovinarcele?
Le altre auto intorno a noi non provviste di antinebbia accendono le quattro frecce per farsi vedere meglio. Percorriamo diverse decine di chilometri con visibilità bassissima. Attorno a noi non vediamo più nulla, se non qualche albero tinto di viola vicino alla strada: alberi di Jacaranda, sono meravigliosi!
Raggiungiamo la nostra prima meta, la cittadina di Sabie: è una tipica town africana costituita da una via e da alcuni piccoli negozi. Forse è un po’ più kitsch di quelle viste in passato, ha molte insegne colorate e perfino un KFC. Sono le 11.30: ci facciamo una foto di fronte ad un meraviglioso albero di Jacaranda ed entriamo in un piccolo shop. Facciamo due passi, ma non c’è veramente nulla. E così prima di mangiare decidiamo di andare a vedere le Lone Creek Falls, distanti al massimo una decina di minuti da Sabie. Le indicazioni sono molto chiare, paghiamo la fee di ingresso (qualche euro) e parcheggiamo. Una breve passeggiata in mezzo al bosco (oddio, sembra una vera e propria foresta pluviale!) ci porta di fronte alla grande cascata: una potenza della natura. A dirla tutta però niente a confronto con le cascate dello Yosemite Park, in California.
Torniamo a Sabie per il pranzo. Alcune persone locali ci indicano un fast-food sudafricano, il Chesa Nyama. Si trova lungo la strada principale a Sabie: parcheggiamo ed ordiniamo due mega hamburger, una coca, una fanta e le patatine. Il nostro primo pranzo africano non è niente male.
Ci rimettiamo in macchina, in direzione Graskop. Seguiamo l’itinerario verso nord e lungo la strada incrociamo il bivio per le Mac-Mac Falls. Quando imbocchiamo il gate… lo facciamo dalla parte sbagliata! Il ragazzo che raccoglie i soldi si fa una gran risata: probabilmente non è la prima volta che un europeo sbaglia a prendere la strada. Parcheggiamo, comincia anche a piovigginare. Attorno al piazzale ci sono delle capanne, organizzate per fare mercatini per turisti. Causa pioggia la merce è tutta nascosta e i venditori intirizziti sono avvolti da coperte. Noi prendiamo il sentiero che scende verso le cascate. Ora siamo sopra ad un canyon e in fondo al sentiero la cascata ci appare dall’alto. Peccato per l’inferriata che ostacola un po’ la vista, ma la cascata, un rigolo che salta da un centinaio di metri, è davvero suggestiva.
Riprendiamo l’auto e puntiamo il passo, ovvero Graskop. Siamo davvero immersi nella nebbia e la visibilità è scarsissima. Parcheggiamo nel centro della cittadina e prendiamo qualche informazione all’info-point. Poco più in là vediamo delle bancarelle e facciamo due passi, nella speranza che le nuvole si alzino. Invece niente da fare, siamo immersi nell’umidità: fa freddo e cominciamo a bagnarci. Ritorniamo in macchina: ora, scendendo di quota le cose dovrebbero cambiare!
Arriviamo al bivio per God’s Window, ma niente da fare. La nuvole non ci permetterebbero di vedere nulla. E così un po’ demoralizzati procediamo nell’itinerario.
Piano piano il panorama attorno a noi si fa più chiaro. Il paesaggio è molto simile a quello del Damaraland: grosse rocce rosse emergono dai prati. È davvero suggestivo. Notiamo un bivio sulla destra: ci avventuriamo a passo d’uomo oscillando a destra e a sinistra mentre attraversiamo delle buche. La stradina sterrata serpeggia fra dei campi irti, attraversiamo un torrente su un improbabile ponte: la pista ci conduce fino ad un ristorante, che si affaccia proprio sul torrente. È un posto idilliaco, vorremo restare qui a giocare per ore, a goderci finalmente il panorama, ma la giornata sta volgendo lentamente al termine e dobbiamo assolutamente andare avanti. Ritornati sulla strada principale, cerchiamo il bivio per “The Three Sisters – le tre sorelle”: è distante una decina di chilometri, sulla destra. Lo imbocchiamo, paghiamo qualche euro di ingresso e percorriamo la lunga salita che conduce al parcheggio. Il cielo imbrunisce, ma siamo fortunati: le nuvole sembrano essere molto più alte di noi. Nel parcheggio è pieno di baracche che vendono prodotti artigianali, che ormai sono in chiusura. Prendiamo il sentiero che scende verso il canyon: davanti a noi uno spettacolo simile a quello del Gran Canyon, con molto molta più vegetazione. Il vento è fortissimo: ci godiamo (ma non troppo) il panorama e scappiamo in macchina. Quando saliamo in macchina ci accorgiamo che le suole delle nostre scarpe sono tutte rosse: siamo proprio tornati in Africa!
Ormai è l’ora del tramonto e ci incamminiamo a malincuore verso il nostro albergo, il Kaja Tani, a Phalaborwa. Questa cittadina, situata ad ovest del parco, non ha nulla a che vedere con i piccoli villaggi africani: è un villaggio europeo stupendo che è cresciuto grazie al turismo e al commercio dell’Amarula, il famoso liquore africano che è la bandiera del Sudafrica. Ci accoglie Daniela, una signora altoatesina bionda con la “R” dura tedesca che ci fa vedere subito la nostra camera. E’ stupenda, un po’ mi ricorda l’agio degli alberghi della luna di miele. Abbiamo tutto quello che ci serve, gli ambienti comuni sono deliziosi e la cena è molto buona. Prenotiamo per l’indomani il Safari con Alberto, suo marito, che di professione fa la guida del parco. Ci dicono che saremo in quattro e che la sveglia è alle ore 4. Ci sembra assurdo, è quasi peggio che al lavoro! Qui però viene facile l’adeguarsi al ciclo del sole e della natura e, per quanto indubbiamente faticoso, ci sembra che stia riportando in noi l’equilibrio perduto. Domani sveglia ore 3.30: carichi a paletta! Notte mondo!
17 ottobre 2015 – In bocca al leone
Ci siamo svegliati alle 3.30 prima della sveglia: uno shock, fuori il buio, e un Alberto che in pantaloni corti ci aspetta al cancello e ci dice di muoverci. Dobbiamo essere i primi ad entrare dal cancello. Saliamo a bordo di una jeep da otto posti e Alberto ci dà l’incarico di organizzarci con le scorte di cibo e the che si è portato dietro. I ragazzi che viaggiano con noi sono in viaggio di nozze: sono molto silenziosi, soprattutto lei che proprio non spiaccica parola. Quando entriamo nel parco è ormai l’alba: Alberto tira giù il finestrino perché dice che vuole sentire meglio suoni e odori. E’ un personaggio, i diari di viaggio lo descrivevano come appassionato, a noi sembra più che altro invasato: dopo 13 ore di viaggi no stop ha avuto il coraggio di rientrare al Kruger il giorno dopo, sempre alle 5.30, come se non lo avesse mai visto. Incredibile. Massi stamattina indossa la maglietta dell’Etosha e il suo cappello africano e, neanche a dirlo, occupa la poltrona anteriore della jeep.
Dopo aver percorso una lunga statale al buio, con la sola luce dei catarifrangenti gialli sui due lati della strada, vediamo stagliarsi all’orizzonte il Parco. Piano piano fa capolino il sole: alla nostra destra vediamo la savana mentre a sinistra le montagne che abbiamo percorso ieri, ancora avvolte dalle nuvole. Alle 5.10 siamo davanti al cancello verde di Orpen: le donne preparano la colazione per tutti a bordo della jeep: mangiamo un buon muffin fresco che fa il pari con pessimo Nespresso in polvere. Alle 5:30 il gate apre: paghiamo i rand dovuti e via spediti all’interno del Parco.
La giornata è stata nuvolosa dall’inizio alla fine e nonostante la relativa penuria di animali abbiamo imparato molto della vita della savana. Ci sono state spiegate le regole dei combattimenti, il ruolo di ciascuno nella catena alimentare, perché le zebre sono a strisce! Ciò ci ha dato la sensazione, una volta da soli nel parco, di riuscire a comprendere meglio quello che vedevamo.
Le strade del Kruger sono diverse da quelle dell’Etosha in quanto quasi tutte asfaltate. L’impressione è che in Namibia ci sia una maggiore cura, soprattutto degli spazi comuni. Il parco è in ogni caso stupendo, vastissimo, e il paesaggio cambia di continuo assumendo le tonalità del verde acceso, giallo paglierino e anche nero carbone. Alberto scorrazza a destra e a sinistra infilandosi, di tanto in tanto, in stradine sterrate. Si vede che conosce il Kruger come il palmo della sua mano.
Avviamo il più classico dei giochi della savana: “Vediamo chi avvista il leone!”. Il gioco sembra anche vincente, almeno per il primo quarto d’ora. Passa più di un’ora e non vediamo niente se non qualche eland. Alberto tenta di giustificare la situazione, raccontando che è già piovuto, che gli animali non sono più nelle pozze, che branchi si sono sparpagliati, bla bla-bla. Arrivati al bivio con il camp Satara giriamo a destra, in direzione sud.
Lungo la strada ci fermiamo ad ammirare un grande baobab, simbolo dell’Africa. A proposito del Baobab si narra che fu uno dei primi alberi creati da Dio. Quando però vide la successiva pianta creata, una palma slanciata verso il cielo, il Baobab cominciò a brontolare, perché lui voleva essere alto come lei. Dio ascoltò le sue lamentele e lo fece crescere; ma questi aveva appena raggiunto l’altezza della palma quando vide la spettacolare fioritura della Flamboyant, e si lamentò perchè lui non aveva fiori. Dio provvide un’altra volta, e dotò anche lui di fiori. Ma non era ancora abbastanza: si mise infatti a piagnucolare che lui, a differenza del fico, non aveva frutti. Questo fu troppo pure per la pazienza del Creatore che, in un accesso d’ira, sradicò il Baobab dalla terra e ce lo riscaraventò con la chioma in giù, e le radici per aria. Leggenda o realtà, è la pianta regina della Savana.
Al camp avevamo osservato una piantina del parco: su di essa ci sono molte puntine di colori diversi, che stanno ad indicare l’avvistamento degli animali (fatto da altri). Ci sono molti rossi (leoni!) sulla H12, verso il Camp Skukuza. Quella sarà la nostra prossima direzione!
Ripartiamo e il bottino è fin da subito ghiotto: due leoni che amoreggiano sulla destra, altri due molto vicini sulla sinistra, un gran bel colpo. Pochi chilometri dopo la ciliegina sulla torta: un rinoceronte bianco che mangia l’erba lì sul ciglio della strada, sicuramente uno degli avvistamenti più belli di giornata. La sua pelle era scura, tirata, senza alcuna grinza. Attorno a lui molte mosche soprattutto nella parte inferiore. Mangiava imperterrito, come se attorno a lui non ci fosse nessuno: tranquillo, pacato. Peccato che Alberto abbia sempre un po’ di fretta e non ci dia il tempo di goderci l’attimo.
Ripartiamo e giunti sul ponte sul grande fiume, prima di arrivare al Camp Skukuza, imbocchiamo una pista sterrata sulla sinistra alla ricerca del ghepardo, ricerca che ahimè rimarrà vana per tutto il giorno. Il terreno attorno a noi è rosso e, a tratti, la vegetazione molto folta. Un panorama molto diverso rispetto a quello dell’Etosha. Lungo il percorso incontriamo molte antilopi e anche i bufali! Sulla destra il paesaggio si apre nella savana, sulla sinistra il monte che stiamo circumnavigando. Lungo la strada incontriamo molti volatili di cui non ricordiamo il nome: simpatica la storia dell’uccello chirurgo che va ad aprire la pancia della preda morta che permette agli altri di mangiare. Ecco che prima di uscire dalla pista quattro leoni in un leoncino sulla sinistra molto molto lontani stanno sventrando una zebra. Fortunatamente sia Alberto che i nostri compagni di viaggio hanno dei binocoli, per cui riusciamo a goderci lo spettacolo da distante.
Usciamo dallo sterrato e imbocchiamo la H10 sulla sinistra, in direzione nord. Lungo la strada vediamo ancora molti erbivori, tra cui un orice fermo, immobile, quasi a guardarci.
Prima dl pranzo ci fermiamo ad uno view point. E’ uno dei pochi posti dove si è autorizzati a scendere dall’auto. Scendiamo e ci godiamo il panorama: dalla collina si ammira tutta la savana di sotto: qua e là vediamo delle giraffe, due rinoceronti. Ci risuona nelle orecchie la frase: “Tutto ciò che è illuminato dal sole è il nostro regno”
Siamo affamati e mangiamo in una specie di piazzola di sosta dove cucinano carne alla griglia. Alberto ordina per tutti salsiccia di kudu e una specie di polenta con salsa piccante. E’ il primo pranzo di bushmeat ed è buonissimo! Mentre ceniamo alcune scimmiette ci girano intorno: puntano i nostri avanzi e verso la fine diventano proprio fastidiose. Alberto scandisce i tempi come un generale: è ora di rimettersi in marcia, in direzione nord.
In questa zona del parco abbiamo avvistato molti elefanti, i nostri preferiti. Gli elefanti sono davvero i padroni della savana, non si fermano davanti a nulla. Sono sbucati dai cespugli improvvisamente per ben due volte; la prima erano lontani, e non hanno accennato a fermarsi; la seconda volta è stata una vera e propria scena da film. Non appena ci siamo accorti della loro presenza noi, e una macchina accanto a noi, abbiamo inchiodato: un giovane esemplare di elefante seguito da uno più vecchio, stavano attraversando la strada. Guardarli è stato un vero spettacolo. Indimenticabile il momento in cui l’elefante più anziano ha spinto con la proboscide quello più giovane quasi a volerlo incitare ad attraversare la strada. Un gesto, un solo tocco, ma che emozione! A metà strada l’elefante più grande si è fermato, e ha guardato fisso l’automobile di fronte a noi. È stata una sfida, a chi cedeva per primo. Ovviamente ha ceduto prima l’auto: solo quando l’elefante ha visto che faceva marcia indietro sulla striscia di asfalto, lui ha proseguito la sua strada lasciandola sgombera.
Mano a mano che proseguiamo la strada si inerpica sul plateau e la vegetazione si fa più fitta. Alla nostra sinistra il grande fiume: il panorama sotto è stupendo, forse è la parte più bella del Kruger: elefanti, ippopotami e coccodrilli si abbeverano. Siamo fortunati: non c’è il sole e non fa caldissimo per cui gli ippopotami sono fuori dall’acqua e li vediamo benissimo. I coccodrilli invece sono immobili sulla sabbia, tanto che è difficilissimo riconoscerli.
Prima di rientrare al nostro lodge, passiamo per Olifant dove c’è un Museo degli Elefanti. Non ha di certo la struttura dei musei moderni, però è lo stesso interessante. È esposto il cervello di un elefante, e sono narrate le storie dei più grandi elefanti del parco Kruger… e ne sono conservate le zanne!
Sulla strada del ritorno troviamo anche “il resto della savana”: iene, zebre, antilopi, giraffe. Ci sono tutti, ma la nostra attenzione è tutta volta al leopardo che non vuole saperne di farsi vedere. Stanchi per il viaggio, ci addormentiamo, con tanto di tazze piene di the in mano. Martina si sveglia quando la macchina si ferma per vedere la tana delle iene, che ci guardano con una faccia insulsa. Sembrano dei cani venuti fuori male, e non possiamo non associarle alle stupide del Re Leone. Alberto invece dice che sono animali super intelligenti e che sono i suoi preferiti. Francamente non lo capiamo.
Riprendiamo la strada: ci fermano le guardie per un normale controllo. Controllano i nostri biglietti e la tessera di guida di Alberto. Lasciamo loro una bottiglia d’acqua e una stecca di cioccolata.
Rientriamo al Lodge giusto in tempo per il secondo tempo della partita del Sudafrica, impegnato nei mondiali di rugby. Immaginavamo di vederla in un pub in mezzo ai tifosi sudafricani, ma siamo troppo stanchi per fermarci a mangiare fuori. E così ce la guardiamo al lodge, dove la padrona e i suoi amici sembrano essere tifosi seri! La giornata è stata molto lunga e soprattutto “di fretta”: domani ce la prendiamo con calma!
18 Ottobre
Puntiamo la sveglia ma non la sentiamo. Ci svegliamo di soprassalto, consci del fatto che alle 7 i cancelli sono aperti da almeno due ore e il Parco sarà già pieno di gente. Ci congediamo da Daniela: ci ha invitati a tornare nel loro nuovo lodge, che stanno finendo di costruire poco distante da quello in cui soggiornavamo noi. Ci siamo fatti l’idea che si siano comprati una vera e propria riserva da ricchi, ma siamo sicuri che sapranno trarne il meglio. Pensiamo a questa gente che ha lasciato una vita agiata per l’Africa, e ci chiediamo se saremo mai in grado di farlo. Per quanto questa terra sia stupenda, con il suo senso della Vita e del Tempo, non possiamo fare a meno di pensare che la nostra mente giri molto più velocemente e forse non sarebbe mai in grado di rallentare fino a questo punto. Dopo tanto tempo siamo soli e possiamo fare quello che ci piace fare. La giornata è baciata da sol!
Il piano è di attraversare il parco da Nord a Sud, e di dormire all’interno del parco, a Skukuza.
La prima parte di parco praticamente deserta, fino ad Olifant. Il parco in questa parte è molto boscoso e si fa fatica a vedere gli animali. Dopo Olifant troviamo i due leoni di ieri sera ancora fermi nello stesso punto. Poco più avanti un elefante, che ha scavato una buca con la proboscide. Spegniamo la macchina e rimaniamo ad osservarlo per minuti Ci godiamo con calma il viaggio, e costeggiamo il grande fiume visto ieri di corsa. Ci affacciamo su due o tre view point e scorgiamo tantissimi ippopotami, coccodrilli ed elefanti. Come abbiamo già detto, per noi è una delle parti più belle del parco.
Attraversiamo il grande fiume: il ponte sarà lungo 200-300 metri e molte persone ne approfittano per scendere e farsi qualche foto. Sul ponte infatti è più facile tenere d’occhio eventuali attacchi di carnivori. Ne approfittiamo anche noi e attacchiamo bottone con il nostro fotografo, un signore europeo che ci spiega come fare a trovare il punto esatto dove, solo una mezz’ora prima, ha avvistato tre leoni. Si trova un po’ all’interno, bisogna percorrere diversi chilometri di sterrato, ma nulla ci può fermare.
Lungo la strada ci fermiamo ad acquistare un pranzo al sacco al Camp Sabie: prendiamo una pizza pesantissima, stile americano, solo che al posto del pomodoro c’è il ketchup! E’ pessima ma non ci importa. Acquistiamo anche un binocolo (finalmente per Massi!).
Dopo un po’ identifichiamo il luogo descritto: ci sono un leone e due leonesse. Ci godiamo lo spettacolo gustandoci qualche trancio della nostra pizza, sembra di essere in una specie di drive-in, ma che spettacolo! Il leone è splendido, ma assonnato, e più di rotolarsi a terra non fa. Siamo appagati.
Ci rimettiamo in strada in direzione Skukuza e in vicinanza del camp ci capita l’avventura più incredibile. Sulla destra, tra la vegetazione folta, notiamo un rinoceronte mangiare l’erba. Ci fermiamo per goderci quest’ultimo spettacolo di giornata (o almeno pensavamo!). Spegniamo il motore per non disturbare, e così la macchina dietro di noi. Passano alcuni minuti, e ci accorgiamo che davanti a noi, a circa 100 metri sbuca un primo elefante, poi un secondo, un terzo. Non siamo troppo preoccupati. Abbiamo visto questa scena ormai più e più volte. Sappiamo che glie elefanti escono dalla radura, e attraversano la strada perpendicolarmente. Ma non questa volta: si dirigono verso di noi a tutta velocità. Con calma avviamo il motore per fare retromarcia ma l’auto dietro di noi non sembra accorgersi di niente. Siamo bloccati: avanti non possiamo andare avanti né indietro. Osserviamo la situazione impotenti. Due elefanti si buttano nella radura una decina di metri davanti a noi, un altro ci passa molto vicino, alla nostra sinistra, il resto della mandria attraversa la radura appena al di là del ciglio della strada. Non ricordiamo se sia passato qualche secondo o qualche minuto, di certo li abbiamo passati in apnea!
A questo punto non siamo lontano da Skukuza, e poco distante dall’ingresso del Camp ci accorgiamo che in centro alla strada c’è una tartaruga. Che facciamo? È in pericolo lì in mezzo alla strada: la spostiamo? Per il momento fermiamo la macchina: la nostra presenza farà da scudo per le altre. La tartaruga sta immobile, quasi come se noi non ci fossimo. Passa un auto, poi una seconda. La tartaruga improvvisamente si sveglia e in pochi secondi si butta nella radura alla nostra destra.
Arriviamo al Camp ed è quasi il tramonto: facciamo il check-in alla reception e andiamo alla ricerca della nostra tenda. Il campo è molto bello: i sudafricani sono venuti qui per il week end e tutt’intorno si vedono spiedi caldi ardere! È loro usanza lasciare le città e venire nei campeggi del Kruger. Troviamo la nostra tenda: è carina, poteva andare peggio, anche se la Marti non sembra troppo convinta. Scarichiamo i bagagli e andiamo alla scoperta del camp, o meglio dello shop del camp! Passiamo quasi un’ora a cercare magliette, adesivi, souvenir per amici… compriamo anche l’immancabile bottiglia di Amarula.
Il tempo dentro lo shop è volato: ci accorgiamo che sono già le 19:0 e alle 20:00 ci aspettano per il nostro safari notturno. Ci affrettiamo al ristornate dove ci assicurano che abbiamo tempo sufficiente per cenare. Quando sono le 19:35 i nostri due hamburger non sono ancora pronti. Chiediamo il take-away e scappiamo all’ingresso del parco, dove stanno aspettando noi!
Montiamo sulla camionetta e ci danno una lampada per illuminare il bush intorno a noi durante il Safari. Massi è super contento di averne una tutta per sé. Lungo la strada vediamo poco o nulla. Imbocchiamo uno sterrato sulla sinistra: solo kudu e qualche scoiattolino. Fa molto freddo, e gli avvistamenti sono di poca qualità Verso la fine avvistiamo tre rinoceronti. Diciamo che il giro non è stato molto fortunato.
Torniamo alla nostra tenda, ci mangiamo i nostri hamburger (ormai freddi) e ci accingiamo a dormire. Facciamo un giro insieme ai bagni pubblici, per denti e pipì. Martina dimentica il suo dentifricio e così, timorosa di tornare ai bagni, si lava i denti fuori della tenda, poi temendo che possano entrare dei serpenti in camera, ci protegge a modo suo, con un asciugamano sulla fessura inferiore della porta.
Buonanotte Africa, a domani!
19 Ottobre
Finalmente oggi c’è il sole. Dopo due giorni di cielo grigio, oggi ammireremo i colori della savana in tutta la loro bellezza. Ci alziamo di buon’ora, che per noi vuol dire comunque ben dopo l’alba. Facciamo i bagagli e ci dirigiamo verso l’area centrale del Camp. L’area ristorante all’aperto dello Skukuza Camp è davvero suggestiva: dai tavoli si ha la possibilità di vedere tutto il fiume, a perdita d’occhio. Ci soffermiamo un po’, per scorgere qualche animale. Purtroppo le piogge scese nei giorni scorsi hanno portato acqua lungo il fiume e le piante sono già rigogliose. Chissà quanti animali nascosti dietro quelle fronte. Ci facciamo un’ultima foto di rito di fronte all’ingresso del camp, facciamo diesel, lasciamo le chiavi e ripartiamo all’avventura!
Scorrazziamo su e giù per la savana, a dir la verità vedendo poco. Costeggiamo il fiume dove una calca di macchine sembra aver avvistato qualcosa. Si dice sia un leopardo, ma nessuno l’ha visto. Proseguiamo, e una decina di km dopo c’è una grande calca: ci sono due leonesse accovacciate fra i cespugli lungo il fiume. Si fa davvero fatica a vederle, si mimetizzano perfettamente. Strada facendo, sotto un grande albero identifichiamo una famiglia di elefanti, almeno quattro adulti e due piccoli… uno piccolissimo! Sono all’ombra, in riposo. È una scena bellissima.
Prima di arrivare a Lower Sabie una pozza colore del cielo, sulla destra, attira la nostra attenzione. Ci fermiamo nel grande piazzale di fronte alla pozza a vedere cosa succede: in lontananza tantissimi ippopotami e dei fenicotteri. Uno prende il volo, poi un altro e un altro ancora. Lo stormo si alza in uno spettacolo bellissimo. Qui sotto, non lontano dalla nostra macchina, un ippopotamo sembra scrutaci: nuota lentamente sollevando di tanto in tanto le narici, per prendere aria. Dopo poco si gira. E noi facciamo altrettanto.
Arriviamo al Camp Lower Sabie: ne approfittiamo per fare un pit-stop, comprare qualche merendina e… guardare la mitica mappa con le puntine. Cosa sarà stato avvistato oggi in questa parte del parco? Sembrano esserci stati tantissimi avvistamenti tra Lower Sabie e Crocodile Bridge, la parte più ad est del parco: molti leoni, ma anche tanti ghepardi. Decidiamo di andare. La strada verso Crocodile Bridge è molto panoramica, soprattutto nella prima parte, ma niente altro. Siamo stati molto sfortunati, chissà a che ora sono stati effettuati quegli avvistamenti o se qualcuno ha messo qualche puntina di troppo! Quel che è peggio è che questo camp non ha nemmeno il ristorante: solo una pompa di benzina. Con l’amaro in bocca e lo stomaco vuoto torniamo di fretta e furia a Lower Sabie. Sono le 13 passate e la fame è molta. Spingiamo sull’acceleratore, anche un po’ oltre i limiti di velocità. Ripercorriamo la stessa strada: rivediamo gli stessi bufali, le stesse antilopi, le stesse giraffe, che in quel lasso di tempo sembra si siano congelate in attesa del nostro ritorno, ma dei carnivori ancora nessuna presenza. Ci piazziamo sotto la grande capanna del Lower Sabie e ci godiamo il panorama del fiume gustandoci un’ottima insalata. Che spettacolo davvero impagabile, forse questo è il Camp più bello del Kruger.
Riprendiamo il viaggio alle 14:30: dovremmo attraversare tutto il parco da est ad ovest ed uscire prima che chiudano i cancelli, alle 18. Ripercorriamo le strade della mattina: gli elefanti non ci sono più, e nemmeno le leonesse. Passiamo lo Skukuza Camp e andiamo in direzione Pretoriuskop perché in quella zona è indicata una puntina nera, il leopardo.
La zona Ovest del Parco è molto meno frequentata. Il paesaggio è completamente diverso rispetto a quello visto finora: è più secco e anche più collinare. Vediamo poco. Forse è anche la stanchezza che ci limita la vista, forse anche l’entusiasmo è andato via via esaurendosi. Ci saluta una zebra, lungo la strada. Sarà il nostro ultimo avvistamento al Kruger. Sono stati dei giorni intensi, il bottino è stato grosso, molto più grosso rispetto a quello collezionato all’Etosha. Basti pensare solo alla quantità di leoni visti.
Usciamo dal parco, e rientriamo di colpo nell’Africa vera. È stata una nuova sberla. Siamo passati da un posto creato a misura di turista alle town sovrappopolate. Ritroviamo le solite file di persone che camminano sulla strada, mercati improvvisati sul ciglio della strada, le baracche dove vendono di tutto.
Per arrivare a Johannesburg dobbiamo percorrere oltre 400 km. E’ una bella sfacchinata, ma il sole per un po’ ci aiuta a correre lungo le strade ovviamente prive di illuminazione. Ripercorriamo la strada che abbiamo fatto all’inizio di questo viaggio ma per noi è come se la vedessimo per la prima volta! Sono vallate meravigliose, di un verde impagabile piene di vigneti e di coltivazioni di agrumi.
Il viaggio è animato dalla Marti, in versione Fernando Alonso. Si piazza dietro il culo dei camion, e appena vedere la seconda corsia apparire sulla destra ci si butta dentro, facendo andare a mille i giri del motore! Tramontato il sole Massi si mette alla guida. Verso le 20.00 ci fermiamo in un mega Autogrill, al cui interno c’è una varietà di fast food mai vista. Scegliamo di prendere di un hamburger mega, che non riusciamo a finire. Raggiungiamo l’Aviator Hotel che sono le 22: ormai qui siamo di casa e ci muoviamo ad occhi chiusi.
Doccia e nanna. Domani si parte per il Mozambico!
20 Ottobre
Siamo super eccitati, stiamo per partire per il Mozambico! Lasciamo la nostra Toyota Corolla all’Avis ed espletiamo le formalità di imbarco. A mezzo di un autobus improbabile ci portano nel posto più lontano dell’aeroporto dove ci attende un piccolo aereo di circa 30 posti che sembra una specie di bagnarola. Massi lo guarda esterrefatto e continua a chiedere dove siamo finiti. La sicurezza, o forse è il caso di dire l’insicurezza più totale lo sconvolge, ma ci marcia sopra nel nostro “gioco del rischio”. Quando saliamo ci accorgiamo che sembra esserci una perdita d’acqua dal soffitto, che si manterrà anche durante il volo. Per fortuna arriviamo sani e salvi! Atterriamo e ci assale subito un’ondata di caldo: ci saranno almeno trenta gradi e la felpa è subito di troppo. Entriamo nel piccolo aeroporto che sembra più che altro un hangar e intravediamo la figura di Damiano, il nostro amico, dietro ad un vetro. Ci si stringe il cuore, che bello rivederlo! E’ abbronzato, o meglio, scottato e il suo sorriso sornione ci riporta ai giorni in cui lavoravamo insieme per l’organizzazione degli eventi di Medici con l’Africa Cuamm, ONG per cui lui adesso lavora. Sarà bellissimo scoprire questa parte di Africa con lui. Sbrighiamo in controlli doganali e ci troviamo fuori in strada, piedi sulla sabbia. Ci carichiamo a bordo del primo majibombo della vacanza, una jeep di grandi dimensioni con delle specie di “panche” al posto dei sedili. Le strade sono sabbiose e il nostro amico guida come uno scalmanato. Che ne è stato del ragazzo ingessato che girava per Padova in giacca e cravatta?
La strada che va fino a casa del nostro amico è asfaltata, o almeno è stata asfaltata parecchi anni fa. Ora è un tappeto pieno di buchi da schivare: ai lati della strada la gente cammina inesorabile a piedi. Qua e là casette e negozietti colorati, che vendono frutta, vestiti, ogni tipo di merce commerciabile. Alcune sono molto colorate, interamente colorate da sponsor, in particolar modo Vodafone che qui è Vodacom, e le altre due compagnie telefoniche che hanno una copertura massiva. Arriviamo sull’Oceano, in questo tratto molto sporco a causa del grande fiume che si butta sulle acque di fronte a Beira. Poco male, ci rifaremo gli occhi nei prossimi giorni! Percorriamo la strada lungo il mare fino ad arrivare al Grand Hotel o meglio, a quello che ne rimane. La guerra civile ha devastato il Paese e così le sue strutture. Ora il Grand Hotel di Beira è un vero e proprio Bairo ovvero un quartiere a sé stante, nel quale vivono quasi 4000 persone. E’ devastato, ma vive: la gente è dappertutto e i colori delle stoffe africane spuntano in ogni dove. Poco lontano c’è la casa di Damiano: parcheggiamo di fronte al cancello bianco, scarichiamo le valigie e le portiamo su fino al secondo piano.
La casa del nostro amico è una delle tante case “a schiera” che si alzano su tre piani lungo le vie di Beira. In soggiorno sventola la bandiera italiana. Ci ha dato subito un senso di nostalgia, e ci ha fatto pensare a quanto debba essere dura vivere all’estero, soprattutto quando questo è Africa Vera, e non Phalaborwa. Il ostro amico si è portato via anche la macchina della Nespresso, e noi gli abbiamo portato dall’Italia le capsule per fare il caffè! Quando le abbiamo messe in valigia abbiamo pensato che fosse quasi ridicolo; quando siamo arrivati in Africa abbiamo capito che forse è un modo per sentirsi a casa, là dove la casa è distante migliaia di chilometri non solo per vera distanza ma anche per cultura.
La casa, come tutte le case qui a Beira, è protetta da inferriate, presenti sia al piano terra che al primo piano: sembra di essere in carcere.
Poco dopo le 15 ci rechiamo all’Ospedale di Beira. Qui conosciamo Arlindo, un medico molto giovane che ci farà da cicerone per questo nostro primo pomeriggio. Ci porta in giro per l’ospedale che è costituito da una serie di stabilimenti tra cui il più grande con Reparti di Medicina e Chirurgia. La struttura è vecchia ma ha uno stampo europeo. In alcuni posti ci assale un odore nauseabondo, anche se sono prevalentemente i corridoi. Le stanze invece sono decorose anche se essenziali. Per Martina che è abituata a lavorare in ambienti di Terapia Intensiva è uno shock: qui ci sono letti, zanzariere e qualche medicina, null’altro. La visita ci fa riflettere in silenzio.
Quando usciamo dall’Ospedale è ormai l’ora del tramonto e decidiamo di sportarci verso l’Oceano con Arlindo per bere un aperitivo. Le strade sono scassate e il traffico assolutamente disordinato: il nostro amico si muove tra le vecchie macchine di Beira come farebbe il migliore dei Napoletani sotto il Vesuvio, è diventato un animale di strada. Ci fa capire che qui a Beira, o guidi così o soccombi (un po’ ci marcia…)
Parcheggiamo la jeep sulla spiaggia e ci sediamo su tavoli vista mare. Prendiamo una bibita all’estratto di succo di mela (Savannah Dry) e Damiano offre ad Arlindo un mega panino in stile Mc Donald’s. Probabilmente era la prima volta che vedeva un hamburger dato che ci ha chiesto come si mangiava! Ci scoliamo la nostra bibita respirando il profumo di salsedine, con il sole che sprofonda dentro al mare. Accompagniamo a casa Arlindo, che ci conduce alla periferia di Beira nel Bairo di Makurungu. Arrivare è un vero dedalo: le strade sono un disastro, la gente è ovunque e andiamo avanti a passo d’uomo. I riferimenti per arrivare a casa di Arlindo sono un carretto con la frutta, un cartello di lavori in corso: in pratica se li spostano non riusciremo mai a ritrovare la via del ritorno. Arriviamo davanti ad una casa in mattoni che si trova alla fine di una via buia: Arlindo ci tiene a farci entrare per farcela vedere, è molto orgoglioso di quello che è riuscito a costruire ed è un vero lusso rispetto alle baracche intorno: ci apre la porta la moglie di Arlindo, una bella signora circondata da due bambini. La più piccola, Gabry, si arrampica su Martina attratta dalla sua collana di perline. E’ bellissima. In casa hanno solo un tavolo da giardino e la cena portata da Arlindo, che è fatta di due filoni di pane. Sono proprio una bella famiglia.
Ceniamo in un locale tipico con riso e dell’ottima carne alla griglia. E’ una bella serata, ma molto ventosa, e di tanto in tanto, nonostante siamo al coperto, i bordi della tovaglia si alzano con una folata. Facciamo discorsi sconclusionati, abbiamo troppe cose da dirci. Quando usciamo dal locale troviamo un bambino che dorme riparato tra due macchine, coperto dalla sabbia. Il nostro amico ci dice: “Qui è così, abituatevi”.
21 Ottobre
Le notti africane cominciamo e finiscono presto e Beira non fa eccezione: alle sei è già giorno e non essendoci alcun tipo di persiane o tende coprenti è giorno anche in camera. L a luce e i rumori della vita che è fuori non si possono fermare e così siamo svegli anche noi. Di notte i cani abbaiano in continuazione: quando scendiamo in soggiorno chiediamo a nostro amico come faccia a dormire con il latrare dei cani perenne che dura tutta la notte. Si fa una risata, dice che ormai è abituato e che non li sente più, e che i cani abbaiano perché hanno fame.
Lui comincia a lavorare alle 7:30 per cui ci vestiamo di fretta e furia e passiamo per una locanda a fare locazione. Poco dopo arriviamo alla sede del Cuamm, una palazzina anonima a poche centinaia di metri dal mare. Il nostro amico ci presenta i suoi colleghi e ci mostra gli uffici. Con molta sorpresa vediamo molti Mozambicani lavorare all’interno della struttura: il nostro amico ci spiega che ci deve essere un giusto rapporto tra mozambicani e italiani.
Non appena arrivati ci dicono di prepararci per un’uscita: veniamo scaraventati a bordo del nostro mitico majibombo con tre infermieri e un motorista alla volta del Centro di Salute di Makurungu. Percorriamo le strade polverose di Beira e dietro saltiamo non poco. Martina scorge il classico spaccato tipico della vita ospedaliera: davanti a noi una donna bella paffuta che sa fatto suo, sul sedile anteriore una ragazza sulla trentina con occhiali da sole e cellulare all’ultimo grido, molto sicura di sé, forse un po’ troppo spaccona, a fianco a noi quello simpatico e curioso, che ci fa sentire a nostro agio. Proviamo a intrattenere una conversazione con lui durante il percorso, ma non è semplice. La lingua è un gran bell’ostacolo, ma in un modo o nell’altro riusciamo a capirci anche se noi parliamo italiano e lui portoghese.
Arriviamo al centro di salute attraversando il Bairo di Makurungu: è lo stesso che abbiamo intravisto ieri sera, ed è fatto da un sacco di case di mattoni e lamiera arroccate lungo la strada dissestata. Il Centro di Salute è una bella struttura di mattoni che somiglia ad un grande Pronto Soccorso. La coordinatrice dell’ospedale ci porta a vedere la struttura al cui centro c’è una grande sala d’attesa. Notiamo come la maggior parte delle persone che aspettano siano donne e l’età media assolutamente inferiore a quella dei nostri ospedali. Partecipiamo alle visite: i ritmi sono lenti ma la qualità dell’assistenza fornita è buona. Durante la mattina un improvviso scroscio di pioggia sorprende tutti: la picchia sul tetto di lamiera ed è assordante, intorno a noi nessuno si muove, come se tutto fosse normale.
Quando lo scroscio finisce usciamo all’aperto e andiamo in una zona dove si occupano di malnutrizione. Qui le mamme portano i bambini per controlli: vengono pesati e si cerca di insegnare loro a fare delle “pappe” nutrienti con quello che hanno a disposizione. I bambini sono bellissimi e ci guardano con curiosità. Siamo gli unici bianchi ma non ci sentiamo mai a disagio.
Ritorniamo per l’ora di pranzo agli uffici del Cuamm e approfittiamo del sole per andare fino all’Oceano, dove il nostro conosce un “baracchino dell’onto” dove possiamo mangiare. Ordiniamo un mega panino che ha dentro di tutto: carne, uova, insalata. Rimaniamo a parlare con Dimingo, il proprietario della baracca. Gli facciamo i complimenti per i colori accattivanti del suo locale e ci scattiamo una foto che poi vorrà avere a tutti i costi per farsi pubblicità sul suo sito Facebook. La tecnologia è arrivata anche qui!
C’è molto vento e non riusciamo a stare in spiaggia: ritorniamo agli uffici del Cuamm dove il nostro amico ci spiega i progetti che attualmente sta seguendo in Mozambico e quali attività ha in mente per il futuro. Si parla anche di un fantomatico progetto “Safari” che potrebbe essere il nostro nuovo lavoro insieme.
Il pomeriggio è ancora lungo: abbiamo sete di avventura e ci incamminiamo da soli verso sul lungomare su vie polverose e pressoché deserte. Non ci sentiamo in pericolo, anche se per la strada non si aggira proprio nessuno. La spiaggia è molto mal tenuta, ci sono blocchi di cemento che all’epoca del Grand Hotel dovevano essere pontili od ormeggi, che ora sono tutti spezzati ed è molto pericoloso avventurarcisi. Proseguiamo sul marciapiede fino ad una grande rotonda dove ieri sera abbiamo visto tante persone fare ginnastica. Ci inerpichiamo sulla spiaggia: siamo gli unici bianchi. Il sole sta scendendo ma i bambini usciti da scuola non rifiutano di fare un bagno. Ci sediamo ad osservare: davanti a noi un gruppo di teenager simula delle mosse di lotta e ad un tratto sembrano suonarsele per davvero. Dietro di noi arrivano due nonni con i loro nipoti. Più in fondo delle mamme che indossano vestiti coloratissimi accudiscono i loro piccoletti, che non avranno più di 5 anni. Ci godiamo il sole, il vento, il mare… il dolce far niente.
Ci riportiamo lentamente verso la grande rotonda, nella speranza di vedere il nostro e la jeep bianca. Lungo i lati della strada ci sono venditori ambulanti che vendono cibo (pesce, frutta?). Non ci fidiamo di dare troppa confidenza: Damiano sbuca con la sua pazza guida poco dopo e ci tira su al volo per portarci al mercato, alla ricerca di regalini, capulane e oggetti di artigianato locale.
Appena rallentiamo per parcheggiare un ragazzo con una cassetta di manghi ci insegue fino al parcheggio: siamo bianchi e vuole venderci per forza qualcosa. il nostro amico contratta in modo esemplare il costo di un kilo di manghi. Quando ce ne andiamo ci accorgiamo che ci guarda un vecchio sdentato che viene subito allontanato dagli africani più giovani. E’ l’uomo più vecchio che abbiamo mai visto in Africa e ci fa un certo che vedere come venga trattato da emarginato dagli altri: è la legge della sopravvivenza? Saliamo la scala di un edificio in cemento armato ed entriamo in una specie di sottotetto che è il mercato. La merce è tutta uguale: prodotti di legno, batik, qualche collanina di noccioline. Compariamo un gran batik da mettere in cucina e alcuni uccellini di legno che sono il souvenir della vacanza: un vero miracolo che stiano in equilibrio! .
Di ritorno, non lontano dalla macchina, notiamo dei ragazzi che vendono delle capulane. Ci stanno addosso come non ci fosse un domani: ognuno voleva farci credere che la sua merce era migliore, quando in realtà erano tutte uguali. Diventano matti a tirare fuori la loro migliore e si spingono pur di andare davanti a Martina per far vedere la loro merce. Chiudiamo la trattativa e ci portiamo a casa una bella stoffa e ce ne andiamo con il sorriso sulle labbra.
Quando decidiamo di recarci a casa per lavarci (siamo impolverati fino al midollo!) squilla il telefono ed è Carla, l’amica di Damiano che lavora per Terre des Hommes: ci invita a cena a casa sua e quando arriviamo ci accoglie assieme alla sua amica Ana e a suo figlio Gabriel, un piccolo cioccolatino di tre anni con la testa piena di ricci. Ana è portoghese di nascita e ci dice che ha comprato la pasta per fare la pizza approfittando della nostra tradizione culinaria. Ci troviamo in un baleno ad impastare pizza sul tavolo della sua cucina e non possiamo fare a meno di chiederci cosa ci facciamo a 10.000 km di distanza, in Africa, con in mano una pagnotta, pomodoro e mozzarella. Ci sembra quasi surreale, ma crea un’atmosfera di intimità che è unica. Ci sentiamo davvero a casa, anche se siamo mai stati più distante da tutto e forse mai più vicini a noi stessi come allora. E’ una giornata davvero memorabile.
22 Ottobre
E’ il compleanno di Martina. Oggi ci prendiamo tutto il nostro tempo. Non mettiamo la sveglia e ci alziamo con calma verso le otto. Il sonno non è pieno, come al solito. Luce, cani e ora anche un gallo intonano il loro solito concerto e siamo costretti ad alzarci. Il nostro amico è già uscito: non ci resta che fare una rapida colazione e incamminarci a piedi verso la sede del Cuamm che dista circa un quarto d’ora a piedi. Per strada non siamo soli, è pieno di gente che va a scuola, passeggia, lavora. C’è il sole, faranno più o meno venticinque gradi; la giornata è ventosa e non sentiamo troppo il caldo. Lungo la camminata ci guardiamo intorno: le strade sono molto polverosa, non c’è traffico, solo qualche macchina sgangherata, qualche chapa (i furgoncini-corriera carichi di almeno dieci persone che fungono da autobus, costano meno di un euro a corsa e sono il mezzo più usato per spostarsi in città.) e molte chapela (gli ape-cross adibiti a taxi). Passiamo vicino ad un bidone delle immondizie a cielo aperto, di raccolta differenziata nemmeno l’ombra.
Camminiamo sul marciapiede dissestato, un po’ dalle radici degli alberi, un po’ dalla completa assenza di manutenzione; svoltiamo all’angolo dove c’è un edificio di color rosa, una farmacia. Arriviamo in una grande piazza, che assomiglia per architettura alle nostre piazze del meridione. Al centro un ellisse di alberi, attorno a cui ruota la strada; alla nostra destra la Facoltà di Ingegneria, davanti il Museo delle Belle Arti. In mezzo alla piazza la gente improvvisa la vendita di qualcosa, forse pannocchie. Proseguiamo il nostro cammino: passata la piazza prendiamo la seconda laterale a destra, dove si trova la sede del Cuamm. Riconosciamo il posto perché fuori è parcheggiato il “majibombo”. Troviamo il nostro amico, e passiamo la mattinata insieme a lui e soprattutto con Marcella, giovane medico appena laureata con una gran voglia di lavorare nel settore della cooperazione oggi è il giorno delle visite mediche e noi scendiamo in campo!. Organizziamo le squadre e i materiali per la visita del pomeriggio. Marcella siede con noi e insieme iniziamo a studiare i dosaggi pediatrici dei farmaci più comuni oltre che le malattie tropicali più frequenti. E’ una specie di tour espresso prima della prova pratica, senza margine di errore. Martina è un po’ tesa: Damiano è un ricercatore, Marcella è alle prime armi, di fatto è lei il capo del battello e si sente la responsabilità addosso. Nessuno si aspetta nulla, ma non vuole deludere prima di tutto se stessa. Ci vestiamo con le casacche bianche del Cuamm: Massi sta benissimo, con il fonendoscopio al collo sembra un vero medico! Scattiamo una foto tutti insieme prima della partenza.
Quando arriviamo ci dividiamo in due gruppi: i bambini parlano portoghese e abbiamo bisogno di un’interprete, nella fattispecie Damiano e Carla, la quale in particolare traduce al volo qualsiasi cosa. La invidiamo, vorremmo poter parlare come lei. Massi ha deciso di darsi alla misura: annota temperatura corporea, altezza e peso di ogni bimbo e ci aiuta a capirci con i percentili. Lo vediamo a suo agio: la sua umanità e la sua intelligenza lo avrebbero reso un dottore con la D maiuscola. Le visite si susseguono velocemente: i bambini sono malnutriti ma in buona salute, ci aspettavamo di peggio anche se le condizioni igieniche sono precarie. Un solo bambino di quelli che abbiamo visitato era lavato, gli altri no, dava l’idea che fossero tutti impolverati. Ci guardano con circospezione, abbiamo l’impressione che non ci temano ma che siano comunque in ansia per quello che potremmo far loro. Vorremmo poter fare di più che dare un farmaco vermicida: questi bambini hanno bisogno di mangiare!
Tra i vari bambini vediamo anche la piccola Emily, che oltre ai denti cariati ha anche un dente rotto probabilmente da un colpo sferrato da qualcuno della Comunità nella quale vive. Ci vengono i brividi quando ci rendiamo contro della violenza che regna indisturbata in queste popolazioni e che è considerata “normale”, al punto che le donne vogliono essere picchiate dai mariti come prova di Amore. Anche il tradimento fa parte delle dinamiche di coppia: è normale che nei Centri di Salute le donne gravide facciano immediatamente test per HIV e sifilide, a sottendere la ovvia promiscuità sessuale in assenza di protezioni, con ovvio scambio di malattie sessualmente trasmissibili. Come dimenticare la scena della donna che non ha voluto farsi l’iniezione di penicillina nonostante fosse sifilide positiva? E il volto indifferente del marito?
Ci chiediamo dove stia il giusto, dove risieda il giusto mezzo fra la nostra società abbondante ed eccessivamente maniacale e quella così selvaggia e dove la regola del “vivo alla giornata” toglie ogni prospettiva alla parola “prevenzione” o “futuro”.
Concludiamo la visita dei nostri 18 bambini in qualche ora e al termine facciamo la foto di rito con tutta la squadra che ha lavorato. E’ quasi il tramonto: il colore acceso del sole infuoca le nostre divise bianche. That’s Africa! Quando usciamo dalla scuola il sole sta calando: ci stringiamo a guardare dei ragazzi giocare a calcio e Marcella ci fa una foto di spalle. Adesso è incorniciata in soggiorno ed è un po’ “la foto del viaggio”, carica di emozioni forti che né il mare né la savana sono riuscite a darci. Anche adesso la guardiamo a lungo: è il la per i ricordi.
Torniamo al Cuamm stanchi ma super soddisfatti: domani partiamo per il mare e il nost5ro amico deve ancora finire alcune cose di lavoro per cui decidiamo di tornare a casa da soli. Il sole è quasi tramontato, ma la cosa non ci spaventa più. Ormai siamo di casa a Beira! Torniamo sulla strada e appena avvistiamo una chapela, tiriamo fuori il braccio e montiamo quasi al volo. Non sappiamo l’indirizzo di casa del nostro amico, non sappiamo nemmeno il portoghese, ma a gesti ci si capisce. Con il motore cinquantino a palla scorrazziamo per le strade di Beira, capelli al vento. Ridiamo per l’assurdità della situazione: siamo a bordo di un Ape Cross, senza sapere la lingua del posto, senza sapere bene dove andare, in un posto a noi totalmente ignoto. Questa è la libertà!
Riconosciamo la casa del nostro amico, paghiamo i 100 meticais e salutiamo il nostro taxista. Arriviamo davanti al cancello bianco: in Africa le case non hanno la serratura ma i cancelli sono chiusi da pesanti lucchetti e da due “anelli” sul retro del cancello stesso chiusi da un altro lucchetto ad arco, motivo per cui non è proprio banale aprire un cancello. Proviamo a tentoni ad inserire la chiave nel buco della serratura che non vediamo. La chiave non entra. Per scrupolo proviamo e riproviamo anche le altre, ma niente. Ripetiamo i tentativi quando sentiamo una voce amica che ci dice: “Che fate?”. E’ Andrea, il coinquilino del nostro amico che ci suggerisce che casa loro è un centinaio di metri più in là! A Beira i ladri che vengono scoperti a scassinare le case vengono presi, letteralmente avvolti in un copertone, cosparsi di benzina e incendiati vivi. Scoppiamo a ridere immaginando la scena di noi che bruciamo all’interno di un copertone, quando realizziamo che non è un aneddoto ci viene un brivido. Sarebbe stata una fine improba! Ci facciamo la doccia e ci prepariamo per la serata: c’è da festeggiare il compleanno di Martina!
Speravamo di preparare una cena in stile italiano per ringraziare il nostro amico dell’ospitalità, invece anche questa sera abbiamo mangiato fuori, al mitico Copacabana, che il nostro amico chiama “il baracchino”. Il locale è un insieme indifferenziato di sedie appiccicate di salsedine e schiacciate sulla sabbia dove servono pollo o maiale con verdure cotte. Due amiche di Carla si sono rifiutate di venire a cenare lì per paura di stare male. Noi siamo andati abbastanza tranquilli: dopotutto Damiano ci era già stato mille volte! Ci hanno servito “porco” che a mio avviso era il pezzo di maiale che noi usiamo per fare il prosciutto: era letteralmente un disco volante di carne con l’osso al centro, buonissima da mangiare, addirittura enorme! Marcella, Carla, Andrea erano parte del gruppo ed è così che ci siamo ritrovatati a fare una festa di compleanno, memorabile a dir poco. Chiusura degna di serata il brindisi al Miramar, locale di dubbia fama pieno di prostitute. Allucinante assistere alla scene di abbordaggio sorseggiando Amarula su bicchieri talmente usati da essere quasi opachi! Siamo ancora vivi! Quando lasciamo il Miramar non è tardissimo, ma qui le notti in Africa cominciano e terminano presto. Domani ci aspetta un lungo viaggio. Quanto lungo? Non siamo più di tanto informati. Dopo tutto che importa del tempo?
23 Ottobre
La sveglia suona molto presto: alle 7.00 siamo già in strada a bordo del pick-up del Cuamm. Il nostro amico ci porta a fare colazione in un “bar da bianchi” che vende caffè e delle specie di brioches a sua detta molto buone. Sfortunatamente non ha nulla di buono da mangiare per cui ci rechiamo in città in un vero e proprio caffè-pasticceria dove facciamo finalmente colazione. Compriamo una bottiglia di acqua per il viaggio e iniziamo ad uscire da Beira, lasciando le strade che ormai erano diventate familiari. La periferia di Beira è immediatamente un mondo diverso: la settimana prima qui c’è stata l’ennesima epidemia di colera e non c’è da stupirsi visto le condizioni sanitarie del luogo. Quelle che credevamo fossero “bancarelle” altro non sono che case di lamiera e mattoni adibite a negozio durante il giorno. Le strade sono polverose, la gente è dappertutto e ogni tanto ci assale la paura che qualcuno possa buttarsi sotto la nostra macchina per fermarci. Sono paure infondate: la gente è noncurante del nostro passaggio, e la loro attenzione è al massimo rivolta alle ciapa che di tanto in tanto superiamo. Anche Arlindo, il nostro buon dottore, usa una ciapa per recarsi tutti i giorni al lavoro. Ad un tratto Damiano si ferma per raccogliere Jolindo, che si mette al posto di guida: non abbiamo idea di come abbia fatto a trovare il punto d’incontro stabilito, non ci sono riferimenti e le baracche sono tutte simili. Jolindo è un uomo estremamente cordiale: ha i capelli brizzolati e nella nostra testa è un uomo di mezza età. Poi ci dice che il suo figlio più grande ha diciassette anni e che spera di diventare presto nonno. Capiamo che non deve avere più di quarant’anni ma che tra noi e lui passano già due generazioni. E’ incredibile come viviamo lo stesso tempo in modo diverso.
Ad un semaforo il nostro amico ci fa notare una delle poche costruzioni in muratura: si tratta della sede di uno dei due partiti storici del paese (non ricordiamo se fosse della Renamo piuttosto che della Frelimo). Chiediamo a Jolindo quanto tempo impiegheremo ad arrivare a Vilankulo. “Parecchio” “Si, ma quanti chilometri sono?”. “Molti”. Le distanze, i tempi, le misure in Africa sono qualcosa di poco conto. Solo una volta tornati a casa abbiamo controllato su Google Maps la distanza: 532 km.
Attraversiamo campagne verdi. La statale e la ferrovia si rincorrono in due linee parallele, un po’ sopraelevate rispetto al suolo. In questo modo durante la stagione delle piogge rimangono comunque percorribili, anche se tutto intorno è allagato. Passiamo davanti ad un’industria lavora la barbabietola da zucchero, incontriamo qua e là qualche villaggio (il più grande è Dondo).
La strada è sempre più disastrata: temiamo che se è tutta così non arriveremo mai. Arriviamo ad Inchope, dove la statale che stiamo percorrendo noi (la EN6) incontra la EN 1, la strada che va da sud a nord. Abbiamo percorso solo 130 km e sono quasi le 10. Rubiamo qualche foto, facendo degli scatti fuori dal finestrino più o meno a caso: Jolindo ci dice che alla gente non piace essere fotografata e ci sconsiglia ci continuare a fare foto. Obbediamo. Siamo rallentati da dozzine di cantieri stradali che si occupano di rifare (o forse fare?) l’asfalto della strada. I cinesi guidano questi stessi cantieri e ogni tanto capita di vedere uno di loro a capo di un gruppo di locali che sembrano una specie di “catena del far niente”. Tutti guardano tutti e di fatto lavora uno solo: è un modo che lo Stato usa per dare un lavoro a tutti, ma che di fatto non è qualificante per nessuno. Colossi cinesi dall’aspetto occidentale di stagliano di tanto in tanto lungo la strada e mi fanno pensare a quanto questa terra venga ancora depredata dalle sue ricchezze. Jolindo non ci pensa per nulla: lui parla dei suoi sei figli e di quanto bella sia la musica di Bryan Adams che sembra acchiapparlo particolarmente sulle note di “Summer of 69”. A volte vorremmo avere la sua stessa visione “pura” delle cose e della vita.
Quando arriviamo al nostro incrocio le cose cambiano e la velocità aumenta: adesso sfrecciamo su una strada ben asfaltata e le speranze di arrivare al mare per l’ora di pranzo iniziamo a farsi più concrete. Passiamo attraverso dei villaggi isolati, talvolta si vedono delle scuole, un Centro di Salute, bambini che giocano lungo la strada, mercati con negozi di scarpe, sedie ed altro esposti sul marciapiedi, a pelo di asfalto. Anche qui ci sono dei tratti di strada senza asfalto. “Perché?” chiediamo a Jolindo. Risposta: “Avevano finito l’asfalto!”… Ovvio!!
CI fermiamo per una sosta in un bar in un paese poco distante da Inchope: scesi dalla macchina veniamo circondati da delle signore che vogliono venderci degli anacardi. Rimandiamo l’acquisto a dopo. Al bar, una bella capanna di paglia grande circa 10 metri per dieci, prendiamo un succo e dei biscotti secchi, non c’è molto di più. La EN1 è asfaltata molto bene e Jolindo ci dà dentro col gas, forse anche un po’ troppo. In macchina noi tre non diciamo nulla sullo stile di guida aggressivo: in fondo per la strada non c’è nessuno e così facendo ci portiamo molto avanti.
C’è sempre un sacco di gente che cammina lungo la strada: come fanno quando viene buio? Trovano sempre un passaggio? Si fermano a dormire lungo la strada? Si ospitano a vicenda? Il viaggio è lungo ma tutte queste domande affollano la nostra testa e non ci fanno pesare le lunghe ore seduti senza cambiare posizione.
Quando arriviamo al confine fra Mozambico Nord e Mozambico Sud la tensione sale: c’è un posto di blocco e la polizia sembra davvero seria nel controllarci il bagaglio. Interroga Jolindo sulla nostra meta e la paura è che ci chiedano soldi per passare. Grazie al Cielo nessuno chiede tangenti e riusciamo a passare nella parte sud del paese che pare dall’inizio diversa. Attraversiamo una specie di confine che è un vecchissimo e lunghissimo ponte in acciaio. Dopo di questo le strade sono già sabbiose e più strette.
A questo punto Jolindo si accorge che abbiamo poca benzina: non sa bene quanto manchi all’arrivo a Vilankulo e teme di non aver carburante a sufficienza (sapremo solo dopo che dal fiume Save sono 145 km). Jolindo dice che da qui a Vilanculos non ci sono pompe di benzina: l’unica soluzione è quella di comprare la benzina in bidoni al mercato nero. Ci avviciniamo ad un baracchino dove c’è un vero e proprio castello di bidoni gialli. Non c’è nessuno e così lui suona più volte il clacson. Non si affaccia nessuno: un po’ preoccupati giriamo la macchina e ripartiamo verso il mare, che adesso sembra sempre più vicino. Si lancia in sorpassi improbabili, con la macchina che corre fra asfalto e sterrato inclinata di almeno trenta gradi verso destra, forse è il rock a dargli alla testa. Ce la ridiano in silenzio.
Verso le 13 arriviamo nella strada dove EN1 incrocia la strada per Vilankulo. Incontriamo delle persone a cui chiediamo dove sia la pompa di benzina che fortunatamente non è distante più di venti km. E’ in pieno stile africano: un piazzale in terra battuta con al centro le due pompe. Senza una pensilina, senza un ristoro.
Ormai ci siamo, Vilankulo è vicina. Gli alberi sono spariti e al loro posto ci sono dei cespugli bassi e si inizia a intravedere la sabbia bianca! Entriamo in paese che è fondamentalmente composto da due strade che si incrociano a T. Ci aspettavamo un posto turistico, dato che comunque è citato in molte guide ed affacciato su un Parco Naturale. Per fortuna la nostra immaginazione è tradita dalla realtà di un paese di mare dove il commercio del pesce la fa da padrone e dove il turismo è inesistente. Ciò avvolge di fascino il nostro luogo di villeggiatura e lo rende ancora più autenticamente africano. Ci sono il sole, il mare, la sabbia, le palme, ma sono parte di una realtà quotidiana e non turistica. Siamo noi gli “intrusi”, noi bianchi con il nostro stile di vita e le nostre abitudini. Ad un tratto vediamo uno spicchio di mare: non esiste una tonalità di azzurro che possa avvicinarsi a quel blu, riflesso di un cielo terso e pulito dal vento dell’oceano, che al nostro sta salendo di livello. Non possiamo ancora capire la magia della marea di cui saremo testimoni nei giorni successivi.
Il nostro albergo (Baobab Beach) posto non è indicato benissimo (anzi non è indicato per niente) e i locali non ci danno una gran mano a trovarlo. Un po’ per tentativi, un po’ a fiuto arriviamo davanti al cancello: una guardia ci apre e di fronte a noi il grande Baobab, da cui il posto prende il nome. Siamo arrivati!!
Il posto è carino e ben tenuto. La struttura che ci ospita è un “albergo da viaggiatori”: le camere costano 20 euro a notte e sono semplici e confortevoli. Non ci sono strutture coperte: la zona living è tutta all’esterno e dotata di bar, biliardo e tanti luoghi per riposare, comprese le amache davanti ad ogni camera. La nostra è stata subito colonizzata da asciugamani, mascherine, ciabatte, e si è subito distinta da quelle degli stranieri europei, tutte perfettamente ordinate.
Per altro la nostra capanna è vista mare, e il panorama è splendido, così come lo sarà il rumore delle onde di notte e al risveglio. Nella nostra camminata ispettiva intorno all’albergo troviamo una grande palma, e sotto due noci di cocco. Cominciamo a sbatterle l’una contro l’altra, e poi contro il tronco, nel tentativo di aprirle, ma niente, non si aprono. Ci accorciamo che poco più indietro due ragazzi si avvicinano, ridendo per la scena appena vista. Impugnano la loro accetta e con quattro/cinque colpi ben assestati aprono la prima noce di cocco. Ci fanno notare che l’interno è secco e non si può mangiare. Così aprono la seconda: noi guardiamo attoniti la scena, pensando a quanto stupidi eravamo stati a pensare di aprire la noce di cocco a mani nude. Ringraziamo per il servizio e ce ne andiamo gustandoci il nostro cocco.
Dopo aver mangiato un panino al volo ci rechiamo in spiaggia: c’è ancora la bassa marea e la luce è calda. Le barche sono arenate sulla spiaggia e ci chiediamo come mai le abbiano ancorate sulla sabbia piuttosto che in acqua. Ancora non sappiamo come funziona l’Oceano Indiano! Damiano attacca bottone con un locale che ci vuole portare e casa sua a cena per qualche centinaio di meticais; Massi prende la mascherina, si lancia in un salto acrobatico e poi via! si butta in acqua correndo come un ragazzino. Torna dopo poco sconsolato per la povertà di fauna del fondale, ancora non sa quanti pesci vedrà nei giorni successivi!
Poco lontano da noi, sulla secca della spiaggia, dei ragazzi stanno giocando a torello: Massi si aggrega. Si presenta, ma subito lo mettono al centro. Non sono bei momenti: si prendono il loro momento di gloria facendolo correre come un matto, ma alla fine prende la palla e mantenendo una strategia difensiva non entra più nel cerchio. Piano piano il cerchio si allarga e si raggiunge il quorum per il super match. Massi è in squadra con Gildo, Agnaldo e altri ragazzi. Giocare sulla sabbia è molto faticoso: i ragazzi sono ben allenati e dotati di buona tecnica. Massi prendo una brutta ginocchiata sul piede: preferisce smettere e torna agli asciugamani. E’ finito il momento sportivo!
L’indomani optiamo per l’escursione alle isole di Bazaruto e di Benguerra: Martina va a parlare con Marina, la proprietaria dell’albergo che laggiù è un vero boss. Sembra esperta e nonostante il meteo dell’indomani dica “nuvoloso” lei dice con fermezza che sarà una splendida giornata e che dobbiamo assolutamente andare via in barca perché sarà la giornata più bella della settimana. Ci parla di una “lancia” che ignoriamo cosa sia, e dice che andremo in gita con qualche altro turista di altri alberghi vicini. Siamo emozionati, non stiamo nella pelle! Le foto che abbiamo visto sono diverse da quelle che ci prospetta la nostra veduta sull’oceano e ci chiediamo come sia possibile che al largo ci siano degli atolli di simile bellezza.
In serata, a bordo biliardo, conosciamo Elder, the taylor! Elder è un ragazzo molto giovane che cuce vestiti per i turisti. Non ci facciamo pregare due volte e commissioniamo una camicia dai colori sgargianti e un vestito, chiedendogli di confezionarli nel più breve tempo possibile. Arriveranno dopo due giorni ma ne sarà valsa la pena!
Dopo un’ultima partita a stecca decidiamo di andarcene a letto. Domani ci attende Bazaruto!
24 Ottobre
Al nostro risveglio (non più tardi delle 7.00) Jolindo è già partito: chissà cosa avrà pensato della vita dei bianchi, lui che non aveva mai visto una struttura alberghiera. Chissà se abbiamo intaccato la sua inconsapevolezza. Ieri, quando giocava a calcio, sembrava un bambino di 40 anni; a cena abbiamo provato a coinvolgerlo in qualche discussione, ma piano piano spariva, come non volesse essere parte di quel nostro mondo. Ci dimentichiamo di lasciare a Jolindo il CD del rock europeo, ma lo lasciamo al nostro amico con la promessa di farglielo recapitare.
Il cielo è molto grigio, c’è molto umidità e non vediamo il sole. Siamo un po’ preoccupati per l’escursione, temiamo che senza il sole il mare non si accenda di quei suoi colori pazzeschi. La nostra capanna vista mare ci permette di goderci la calma piatta del mare al sorgere del sole. In spiaggia non c’è nessuno, e l’acqua è lontana lontana: bassa marea. Prepariamo lo zaino, senza dimenticarci le creme, facciamo una super colazione e siamo pronti per la missione.
Ci accompagna alla lancia il marito di Marina, Elder, un locale con tratto cinese che a suo modo è anche inquietante. Occhi a mandorla, statura elevata, spalle larghe, orridi calzoni dalla fantasia improbabile che ci ricorda pacchetti di caramelle colorati. Togliamo le scarpe da ginnastica e mettiamo i piedi in acqua: il terreno appiccica e a volte abbiamo l’impressione di pestare qualcosa che si muove. La lancia che ci aspetta sembra una sanpierotta veneziana: non è coperta e non ha vela, ma solo un motore che è ovviamente sproporzionato per le sue dimensioni. Abbiamo una specie di marinaio e un mozzo che ci accompagnano lungo il percorso. Damiano è già in panico perché non ha riparo: è bianco come il latte e teme di ustionarsi. Povero, deve aver vissuto questa escursione come una specie di incubo, ma non si lamenta mai, se non alla fine. Mettiamo tutti i nostri averi dentro la scatola “water proof” (ben poco di tecnologico!) e montiamo in barca, insieme ai due marinai. Costeggiamo lentamente la riva: c’è bassa marea e più volte i marinai sono costretti ad alzare il motore e andare a spinta. Navighiamo lungo la costa a passo d’uomo, per raggiungere i nostri compagni di viaggio, due milanesi e due brasiliani. I milanesi sembrano due bauscia, per modi e parlata: in realtà scopriamo che hanno viaggiato un casino, e sono stato in un sacco di posti interessanti, dal Sudamerica all’Estremo Oriente. Sono più fighi di quello che sembrano! Prendiamo il largo, e piano piano si fa largo anche il sole. Il mare è incredibilmente piatto: la lancia a motore vola sull’acqua, che piano piano si accende di un azzurro intenso.
Poco dopo la barca inizia a correre forte sulle onde e talvolta si ha l’impressione di saltarci sopra. Capelli al vento, respiriamo la salsedine che subito impregna e secca la nostra pelle riarsa dal sole. In fondo si staglia sempre più evidente l’Isola di Bazaruto che ci appare come una gigantesca duna di sabbia bianchissima. Il colpo d’occhio della costa è mozzafiato: mammano che il sole si alza il mare si carica di turchese e verde e il gioco di colori è spettacolare. Abbiamo proprio l’impressione di essere in un paradiso tropicale.
Improvvisamente avvistiamo un branco di delfini: per un paio di minuti giocano con noi, passando diverse volte sotto la nostra barca. Poi scompaiono.
Dopo un’ora abbondante sbarchiamo a Bazaruto. Qui la guida ci fa il briefing: ci spiega come è fatta la barriera, dove ci fermeremo e dove si fermerà la barca nell’attesa. Disegna la mappa del posto sulla sabbia, con un fare a dir la verità un po’ arrogante. Ci spiega anche che proveremo la “washing machine”: capiremo dopo che si tratta di una doccia vera e propria solo nel momento in cui ci avviciniamo al reef. Ci carica in barca e via, puntiamo il largo. Arriviamo in un punto qualsiasi e si spengono i motori. Il marinaio ci dice che al tre dobbiamo buttarci: ci guardiamo senza dire una parola, alcuni di noi si mettono il giubbotto di salvataggio e ci buttiamo in acqua, mascherina in testa e boccaglio in bocca. Guardiamo sotto: la barriera corallina, un mare di pesci tropicali. Vediamo il fondo, e un braccio di mare di divide dal mare aperto, quello vero dove il fondo è davvero fondo. Le onde ci sono e talvolta abbiamo l’impressione di respirare acqua oltre che aria. Lo spettacolo è impagabile: stelle marine rosa e viola, pesci a strisce e dai colori sgargianti. Siamo senza fiato e 45 minuti passano in fretta. Damiano galleggia come un galleggiante da pesca e sembra in difficoltà a più riprese: non sa nuotare e ai nostri occhi è un eroe. Dopo una ventina di minuti lo vediamo risalire sulla barca, coperto dal suo asciugamano giallo fluorescente. Grande!
Torniamo all’isola sfrecciando a tutta velocità sulle onde: siamo bagnati fradici, infreddoliti, ma la sensazione del vento su pelle e capelli ci dà un senso di libertà assoluto. Mentre ci preparano il pranzo ci dicono di andare a farci un giro lungo l’isola per vedere il panorama. Saliamo lungo una duna bianca che a tratti è coperta di conchiglie bianchissime, fa quasi fastidio guardarle senza occhiali da sole. Quando valichiamo la duna lo spettacolo è mozzafiato: due atolli bianchissimi emergono dalle acque turchesi dell’Oceano e sembrano due lingue di terra in bilico, pronte ad essere inghiottite da un momento all’altro dal mare. Ci affrettiamo ad immortalare il paesaggio che cambia sotto i nostri occhi. Facciamo la classica foto di rito e poi Massi ci trascina a terra lungo la parete ripida della duna. Scendiamo velocemente e nel giro di qualche secondo facciamo un sacco di metri. Aiuto, salire con il sole a picco sarà durissima! Il nostro amico ci immortala in alcune foto che ci fanno rivivere l’emozione di quegli istanti: speriamo di “non crescere mai”!
Torniamo alla spiaggia affamati e mangiamo il pranzo a base di pesce e pollo che ci hanno cucinato sulla spiaggia. E’ buonissimo! Chiudiamo il pranzo con due mini banane: a dir poco sensazionale! Queste si che sanno di banana! Siamo accampati in riva al mare come dei veri esploratori e ci rendiamo conto che siamo soli, distanti almeno 50 km da qualsiasi forma di vita. Che sensazione stupenda!
Sotto la tenda improvvisata c’è l’occasione per socializzare con i nostri compagni di viaggio; fa molto caldo e l’ombra è quello che è. Prima di partire da Bazaruto facciamo una piccola passeggiata costeggiando la costa scogliosa. Abbiamo un incontro ravvicinato con una “mandria” di granchi: sono decine e decine e si muovo velocissimi lungo la scogliera. Sulla parte sabbiosa invece centinaia di conchiglie bianche, enormi. Sembra impossibile che i turisti non abbiano ancora fatto razzia. Sarà solo questione di tempo.
Partiamo quindi alla volta di Benguerra. Una lingua di sabbia bianchissima divide il mare da una laguna interna. Qui la temperatura dell’acqua è veramente alta, quasi da dare fastidio. Damiano, forse preso da un colpo di calore in testa, forse disperato la situazione difficoltosa, la attraversa: da lontano sembra Gesù che cammina sulle acque. Ci fermiamo per circa mezzora, il tempo di farci un altro bagno in quest’acqua magnifica. Qui, sul fondale sabbioso, non ci sono pesci.
Nel frattempo il vento si è alzato, e con esso anche il moto ondoso. Il ritorno è davvero il viaggio della speranza. Massi si trova casualmente seduto sulla parte sbagliata della barca che rimbalza sulle onde, e ad ogni rimbalzo alza dell’acqua che con il vento gli stampa sulla faccia. Quando arriviamo lungo la costa è bagnato fradicio: l’ultimo braccio di mare è un incubo: corriamo a velocità assurda e la barca colpisce le onde dall’alto a basso facendoci saltare sulla barca. Vola qualche parolaccia di troppo, siamo piegati dal ridere! Usciamo ammaccati, con qualche livido sulle ginocchia e sul sedere. Accidenti alla velocità! Siamo stanchi e ustionati. Il nostro amico già pensa all’effetto doccia sulla sua pelle. Uscirà sfogonato, con le orecchie in fiamme! A noi invece è andata bene, siamo bruciacchiati ma niente di grave.
Rientriamo al Baobab per le 16:00: ci rilassiamo tra una partita di biliardo e una di chiacchiere. Ci sentiamo ancora delle energie in corpo e decidiamo di andare a mangiare a Casa Rex, a detta di Marina il miglior posto della zona. Prendiamo la chapela e attraversiamo tutta Vilankulo in poco più di 15 minuti. Casa Rex è una struttura moderna e arredata nei minimi dettagli. Legno, pelle, terrazza vista piscina, un ambiente niente male. Mangiamo dell’ottimo pesce, contorno e anche il dolce per circa 20 euro! Niente male per quello che abbiamo mangiato. Damiano ci fa assaggiare il Vinho Verde, tipico del Portogallo. Il nome e il colore possono trarre d’inganno. Il Vinho Verde non è una varietà d’uva ma è un “vino giovane”, in opposizione al vino più maturo, può essere rosso, bianco o rosee e deve essere consumato entro un anno dall’imbottigliamento.
A Casa Rex rincontriamo i nostri amici brianzoli, spaparanzati su una poltrona bianca, in attesa di Marina: stasera fanno serata all’African Bar. Ci aggreghiamo alla comitiva. Ci danno un passaggio in jeep e ci ritroviamo al nostro albergo in dieci minuti: le strade sono buie e sembrano sinistre rispetto a quando le illuminava il sole. Al nostro arrivo Marina ci propone di andare con lei appunto all’African Bar. Non ne abbiamo più ma non possiamo andarcene senza aver visto quel bar! Ci troviamo dentro ad un locale carino, in stile africano. Sfortunatamente è vuoto: Marina giura che di solito è pieno di gente, ma quella sera si batte la fiacca. Siamo stanchi e decidiamo di tornare a casa. Marina dice che possiamo farcela a piedi senza problemi. Usciamo nel buio e ci troviamo a camminare sulla sabbia, nel silenzio, lungo strade deserte. Cosa ci è venuto in mente? Damiano ha il passo lungo, ripete di continuo che non ci sono problemi ma sento una nota d’ansia nelle sue parole. Ad un tratto iniziamo a seguirci due cani randagi: sono tranquilli ma il loro essere le nostre ombre li rende inquietanti. Quando vediamo il cancello del Baobab è sollievo: siamo salvi! Entriamo, ci diamo la buonanotte e… via sotto le coperte! Domani è un altro giorno!
25 ottobre
È domenica. Ce la prendiamo comoda dopo la sfacchinata di ieri. E’ una bella giornata, anche se un po’ ventosa, e ne approfittiamo per fare una passeggiata lungo la spiaggia. Oggi c’è bassa marea e dove ieri c’era il mare, oggi c’è un grande deserto bianco: la differenza tra l’alta e la bassa marea è addirittura di quattro metri!
Il paesaggio è quasi lunare: le barche sono tutte arenate sulla sabbia e solo qualche rigagnolo d’acqua scorre qua e là. I granchi camminano nella lunga distesa sabbiosa, alla ricerca delle pozze d’acqua, che non troveranno.
In una delle pozze più grandi vediamo un ragazzo rincorrere un pesce: Zac, lo prende in pieno e vediamo inchiostro ovunque. Era una seppia! Poco più avanti una giovane ragazza con un bambino nel sacco in spalla cammina con un tridente di legno alla caccia di granchi. E ne prende diversi! Raggiungiamo il capo di Vilankulo e siamo ormai distanti parecchie centinaia di metri dalla riva, ma siamo ancora sulla sabbia. Piano piano la marea comincia a risalire: le donne e i bambini cominciano a tornare indietro, con i sacchi pieni di pesci e granchi. Alcuni bambini giocano con le barche a vela, approfittando del forte vento e dell’acqua ancora bassa, altri invece si avvicinano a noi. Sono curiosi e vogliono socializzare. Una ragazzina, la più furba del gruppo, prende un granchio con le mani. Incredibile. I bambini sono incuriositi dalla macchina fotografica: ci facciamo molte foto e non appena la macchina fa l’autoscatto loro corrono a vedere come è venuta la foto. La ragazzina più grande vuole anche delle foto in posa.
Dopo il pranzo al Baobob Beach, ci riposiamo un po’ tra una pennichella, una partita a stecca e una a carte. Il sole è forte e soffriamo ancora un po’ delle scottature del giorno precedente. Ci spostiamo in spiaggia solo nel tardo pomeriggio, quando la marea si è ormai mangiata del tutto il grande deserto. Proviamo a schiacciare un pisolino all’ombra delle palme, ma veniamo disturbati da alcuni cani randagi, i soliti, che sono inoffensivi ma che comunque ci inquietano.
Nel pomeriggio riusciamo a convincere Damiano a venire in spiaggia per qualche ora. Non se ne parla di mettersi in costume per abbronzarsi, già stare in reggiseno è difficile. La gente del posto guarda Martina come se fosse pazza e alla fine ripieghiamo tutti sulla maglietta. Quando tiriamo fuori le bocce (prese in prestito da Marina) e i bambini le vedono è subito Grest. Vogliono tutti toccarle e giocarci ma non ce ne sono abbastanza per tutti e reinventiamo il gioco in una specie di pallacanestro, dove il canestro è il cerchione di una bicicletta. Massi prova a dividerli in squadre per colore: è difficilissimo, non sono abituati alle regole ma alla fine le capiscono e a colpi di amarelo, vermelho, verde, riusciamo a intenderci e il gioco funziona. Massi è circondato da una nuvola di bambini che ridono e saltano ad ogni canestro riuscito. Scattiamo dozzine di foto: è un momento stupendo!
Torniamo al Baobab, dove finalmente è arrivato il nostro taylor. I vestiti sono spettacolari! Passiamo la serata sui divanetti del Babobab: immancabile la sfida a biliardo. Il vento cala con l’avvicinarsi della notte: la luna illumina il cielo a giorno, riflettendosi sul mare. Il paesaggio è da cartolina.
26 Ottobre
Siamo stati svegliati dal ronzio sinistro di un calabrone che, nonostante una ciabattata, è rimasto ancora tramortito ma vivo sul pavimento della camera!! Diciamo a Marina che forse è il caso di fare qualcosa: nessuno sembra turbarsi particolarmente, quando mai! Viene nella nostra camera un dipendente dell’albergo e ci spiega come i calabroni nidifichino sui pali, all’interno dei quali entrano a mezzo di buchi. Ci accorgiamo che i pali sono PIENI di buchi e vediamo che spruzza all’interno di ciascuno un’insetticida e chiude il buco con del mastice. Sentiamo ronzare ancora per qualche ora, poi più niente: di fatto abbiamo murato vivo un calabrone!
Risolta la grana calabrone, ci prepariamo per l’escursione del giorno: l’isola di Magaruque, il nostro amico non viene con noi perché teme il sole e così ci ritroviamo soli a bordo di un dhow, la tipica barca africana che riesce ad andare sia a motore che a vela. La barca è grande e tendata e fila sulle onde senza difficoltà. Ci parlano di un’isola più scogliosa, anche se a distante sembra uguale a quella di Bazaruto. Non abbiamo aspettative, siamo già appagati da tutto e crediamo sia difficile rivaleggiare con Bazaruto e Benguerra. La marea questa mattina è particolarmente bassa e il dhow è costretto a zigzagare tra i banchi di sabbia, a motore. Il mare è piatto, di un colore cristallino. Massi si gode il viaggio in piedi, sulla prua del dhow, come un vero lupo di mare. Lungo il viaggio, sulla destra, incrociamo uno stormo di fenicotteri, che appena ci vede prende la rincorsa e il volo: con le loro ali rosa sono splendidi a dir poco.
Ci avviciniamo piano piano all’isola, e la circumnavighiamo. Attracchiamo su una parete scogliosa, molto profonda. Ne approfittiamo approfitto per fare un po’ di snorkeling. Il reef non è bello come quello di due giorni fa, anche se anche qui si vedono un sacco di pesci colorati.
Usciti dall’acqua ci arrampichiamo sulla scogliera, fino a raggiungere un’insenatura sabbiosa, dove ci sono anche due capanni. Sotto la capanna di paglia facciamo amicizia con un gruppo di sudafricani che sembrano facoltosi: hanno deciso di venire in Mozambico a festeggiare il compleanno di un amico e ci sono venuti a bordo di un piccolo motoscafo. Quando vedono il nostro dhow approdare vicino alla loro barca sgranano gli occhi: non credono possibile che la nostra barca sia quella e soprattutto che i marinai stiano preparando la cena letteralmente a bordo, con braci poggiate sul fondo della barca. Li vediamo dirigersi quasi di corsa vero il dhow e sporgersi all’interno della barca per curiosare. Ci fanno sorridere, ci guardano come se fossimo degli avventurieri incoscienti, e ci rendiamo conto che forse è vero. Siamo talmente entrati in sintonia con i ritmi e le abitudini africane che abbiamo perso del tutto il razionale del mondo occidentale, e in qualche modo loro ce lo fanno rivivere.
Quando saliamo in barca i marinai ci fanno mangiare su un tavolo improvvisato e si mettono subito dietro, ad aspettare che finiamo il pranzo per poi prenderne una parte. Li invitiamo a più riprese a sedersi con noi ma solo dopo infinite insistenze cedono, quasi imbarazzati all’idea di potersi sedere con noi. Ci raccontano dei quanto sia difficile lavorare per loro, e di quanto poco guadagnino: lo stipendio della giornata corrisponde a poco più di quattro euro, neanche abbastanza per comprare un frango. Uno di loro ha due mogli, l’altro non si ricorda neanche il nome di tutti i suoi figli. Com’è possibile? Che valore hanno la vita, la famiglia? Non ci facciamo più domande, qui si vive così ed è inutile cercare di piegare al nostro modo di vivere il loro. Alla fine del pranzo rimaniamo impressionati da un gesto di grande solidarietà: pur guadagnando poco e avendo figli a casa da sfamare offrono il cibo avanzato ai marinari delle barche accanto, perché oggi “tocca a me” e domani “tocca a te”.
La marea si alza velocemente e piano piano si mangia tutta la spiaggia: non riusciremo a fare il giro dell’isola, peccato. L’acqua arriva fino a lambire il capanno e ci bagna le carte da gioco e gli zaini. Montiamo rapidamente in barca, alla ricerca di una lingua di sabbia non ancora sommersa. I marinai si fermano vicino ad una piccola duna, facciamo due passi e qualche foto: dalla cima della duna vediamo l’Oceano aperto. Il vento tira fortissimo e il mare è molto mosso: l’isola per tutto il giorno ci aveva riparato dal vento e realizziamo che il viaggio di ritorno non sarà una passeggiata.
Quando risaliamo in barca il marinaio spegne il motore e alza la vela, che sbatte subito gonfiata dal vento. La barca inizia a muoversi spinta nel silenzio e beccheggia sulle onde che iniziano a farsi grosse. Cerchiamo di guardare sempre avanti a noi, anche perché le onde sono alte e talvolta si infrangono sullo scafo, bagnandoci. Ancora una volta abbiamo la percezione di essere soli al mondo, con la consapevolezza che se succede qualcosa non abbiamo alcuna speranza di salvarci. Fa parte sempre del pacchetto Africa: devi accettare la sfida se vuoi avere qualcosa in cambio. Quando arriviamo a Vilankulo siamo stanchi e nauseati e vogliamo mettere i piedi a terra. Troviamo Damiano disteso come un salame su un’amaca: ci accoglie con il suo solito sorriso, dicendoci che ha dormito fino a mezzogiorno e che si sente proprio riposato. Facciamo una maxi partita a scopa e la fortuna sembra volgere a favore di Martina che straccia tutti, al punto che poi gli uomini sentono il bisogno di farsi una partita a stecca da soli.
26 Ottobre
Notte tremenda per Martina, la maledizione del faraone ha colpito di nuovo e non ha dato tregua. Al buio, con il vento che incalza e che entra nella tenda, il rumore del mare che sembra quasi minaccioso, viene anche il panico di stare peggio e di avere qualcosa di più di un semplice scagotto. Alla luce del sole si minimizza il tutto e riusciamo a rilassarci.
Verso le 11 facciamo un giro in spiaggia, c’è molto vento, la marea è bassa: non ci invoglia molto fare il bagno, ma siamo attirati dalla folla colorata raggrumata tutta sulla spiaggia. Dal mare gli uomini arrivano con le barche cariche di pesce e lo scaricano in spiaggia, rivendendolo alle donne che lo aspettano sulle rive accalcandosi attorno ai marinai per comperare il pesce, con una vera e propria asta al rialzo. Guardiamo lo spettacolo da fuori: that’s Africa! In mare gli ultimi pescatori lottano contro le onde per fermare le barche. La marea sale sempre di più, lo spazio per il mercato si riduce. Il pesce è per terra, insabbiato, e ce n’è di tanti tipi: dalle piccole carpe, al pesce martello, ai granchi. E’ un vero spettacolo. Massi, che con la sua camicia africana è perfettamente mimetizzato fra loro, si riconosce solo dalle gambe, perché sono le uniche bianche in mezzo alle loro tutte nere come il carbone. Ancora una volta siamo rincorsi dai bambini che vogliono farsi fare una foto da noi e con noi: sono bellissimi, ce n’è una con le treccine che ci fa impazzire, ce la porteremmo a casa subito!
Nel pomeriggio ci avventuriamo di nuovo lungo le vie di Vilankulo per raggiungere il mercato: è il penultimo giorno e siamo in cerca di regali da portare a casa. Non troviamo un negozio di cianfrusaglie che sia uno: è pieno di negozietti di mattoni e pietre dalle insegne colorate che vendono solo generi alimentari e di prima necessità. Qui il turismo NON c’è!
Di fronte alla struttura del Mercato Municipal c’è un gran brulichio di gente, una lunga colonna di chapela parcheggiate, e ben poche auto. Ci addentriamo dentro alla struttura, un vecchio casermone in cemento, alto e luminoso. Al suo interno ci saranno una decina di banchetti, soprattutto donne che vendono pesce essiccato e verdure e c’è un odore tremendo, per cui passiamo avanti. L’odore è allucinante e passiamo di corsa nella parte posteriore dove si apre un dedalo di baracche e stradine che ci costringono a camminare vicini e a testa bassa, tanto bassi sono i soffitti. Ci infiliamo fra i negozietti di sale, olio imbottigliato in bottiglie di plastica usata, ancora pesce, frutta stesa a terra in cataste disordinate, vestiti senza taglia. In un angolo troviamo un negozio dove confezionano vestiti e borse con le stoffe di capulana: è troppo complicato anche solo lo spiegare come fare una borsa, lasciamo perdere subito l’idea di farci fare qualcosa su misura. Con i tempi africani non avremmo mai la merce per il giorno dopo!
Massi sembra come impazzito: adora il Mercato e vuole tornare indietro per filmarlo. Quando lo vediamo sparire nella folla ci viene un nodo alla gola: e se si perde? E se lo prendono? Poco dopo compare alle nostre spalle: non sappiamo che giro abbia fatto ma siamo sollevati all’idea di rivederlo!!
Abbandoniamo il Mercato e continuiamo lungo la strada principale, dove un sacco di gente cammina. Ci sono dei ragazzini che vendono CD: ne compriamo uno, e sorridiamo nel vedere che sono in vendita CD crackati con i nomi degli artisti occidentali tutti sbagliati (dai Quin ai Bitols).
Quando arriviamo alla piazza principale, la prima che abbiamo visto al nostro arrivo in città, capiamo che Vilankulo finisce lì. Altro da vedere non c’è, così come non ci sono altri negozi. Vediamo una ciapela con scritto sul vetro: Hakuna Matata e decidiamo di prenderla per tornare in albergo. Viaggiamo schiacciati in tre sul sedile posteriore, mentre il nostro autista guida questa mitica Ape-Cross sulla strada sabbiosa. Tagliamo per un distributore di benzina (ovvio, perché no?) e facciamo gli ultimi metri saltando sulla sabbia, in curva sentiamo che il motorino derapa e scoppiamo a ridere. Le ciapela sono troppo forti!
27 ottobre
E’ l’ultimo giorno, siamo un po’ malinconici. Facciamo colazione: siamo stanchi di mangiare sempre le stesse cose e ormai abbiamo la nausea. Massi inizia a stare male ma per fortuna è solo un vomito passeggero. Abbiamo un viaggio lungo davanti e sarebbe meglio stare bene! Optiamo per un’ultima passeggiata sulla spiaggia, cercando i nostri amici delle bancarelle.
Prima di scendere in spiaggia salutiamo il nostro amico, che deve prendere la corriera per rientrare a Beira. Lo aspetta un viaggio lungo, anche perché non sa se passerà mai il bus per Beira. Aspetterà ore sotto il sole prima di prenderlo, ma i suoi messaggini di aggiornamento ogni due ore ci confortano sulle sue condizioni. Arriverà a Beira poco prima del nostro arrivo a Johannesburg.
Camminiamo tenendo l’oceano alla nostra sinistra: veniamo avvicinati dai cani. Non ci sentiamo a nostro agio, e così ritorniamo sui nostri passi. I cani sembrano voler compagnia, ma noi non vogliamo la loro. Ritorniamo all’ingresso del Baobab Beach, dove Boa Gente, Antonio e gli altri amici stanno allestendo il banchetto. Boa Gente, che ci aspetta con la sua mercanzia ha davvero un bel banchetto di articoli “turistici”: è l’unico che ha intuito il business! Contrattiamo il prezzo per una decina di borse di stoffa, braccialetti, collanine. Ci racconta della sua aspirazione di essere un pittore, anche se capisco che con “pittore” intende “imbianchino o muratore”. Sorridiamo quando lo vediamo con la maglia di Massi addosso: chiede di che marcia sia, e dice che ama le scarpe italiane di marca. Ignora la Ferrari e vuole venire in Italia, a Parigi. Gli diciamo che Parigi è la città più bella d’Italia, dopotutto per lui è lo stesso. Lasciamo alla gente le nostre scarpe e altri indumenti: qualcuno le indossa cantando e ballando, come se fosse una festa. A distanza di mesi il nostro amico ci dirà che si ricordano di noi e che ci mandano a salutare. Qualcosa di buono abbiamo lasciato in questa terra lontana!
Marina ci accompagna all’aeroporto con lauto anticipo: ci racconta la sua esperienza di vita africana, parla della sua fuga dallo Zambia e del suo nuovo (terzo) marito, che abbiamo conosciuto in albergo. Ci lascia con un po’ di nostalgia, dicendoci di tornare a trovarla. Anche lei è diventata un’amica, e ci dispiace lasciarla in questa terra lontana. Saliamo in aereo con un senso di grande appagamento: siamo stanchi ma ricchi di vita vissuta che non vediamo l’ora di raccontare.
Martina ha le ultime forze (e gli ultimi soldi) da spendere all’aeroporto di Johannesburg. Arriviamo a Parigi dopo una notte di viaggio. Siamo molto stanchi, abbiamo voglia di tornare a casa nostra. Quella nuova, a Treviso. Secondo capitolo africano concluso. Con la sacca piena di ricordi stiamo già pensando al terzo capitolo! Africa, aspettaci! Hakuna Matata!
LINK AGLI ALTRI NOSTRI VIAGGI
Namibia: http://turistipercaso.it/namibia/69618/namibia-its-time-for-africa.html.
http://turistipercaso.it/namibia/69674/african-dreams-on-the-road-namibia.html
USA- New York: http://turistipercaso.it/new-york/71297/new-york-consigli-pratici-di-viaggio.html
USA – West coast: http://turistipercaso.it/los-angeles-shopping/64477/la-nostra-west-coast-lei.html
http://turistipercaso.it/los-angeles-shopping/64476/la-nostra-west-coast-lui.html
Italia – Umbria: http://turistipercaso.it/umbria/72320/umbria-tre-giorni-fra-sapori-e-profumi.html
Spagna – Formentera:
Germania – Baviera: http://turistipercaso.it/baviera/68164/a-spasso-tra-i-verdi-prati-a-conoscere-quel-pazzo.html
http://turistipercaso.it/austria/gallery/4347/30731/
Ungheria – Budapest, lago Balaton e Szetendre: http://turistipercaso.it/budapest/73172/budapest-tutta-da-gustare.html
Italia – Alto Adige: http://turistipercaso.it/pusteria/74800/tre-giorni-in-alta-pusteria.html
CONTATTI
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