La Piramide di Cheope
Giugno 2008: viaggio organizzato in Egitto con piccola crociera sul Nilo, visita della diga di Assuan e, per finire, soggiorno al Cairo per entrare in qualche mercato della cittá, nelle moschee piú importanti e, ovviamente, per compiere la immancabile escursione alle piramidi, nonché la visita al Museo Egizio.
Nella regia del programma di viaggio, la visita alle piramidi rappresenta uno degli ultimi atti, non solo perché si ritorna al Cairo, da dove ripartirá l’aereo per il rientro in Italia, ma anche perché é giusto che in una razionale “excalation” delle cose da vedere, le piramidi vengano lasciate… Verso il termine del viaggio, per creare una piccola “suspence”, provocare quel senso di aspettativa che costringa il turista a pensare, piú o meno inconsciamente, “Tutto bello fino ad ora, ma le piramidi, chissá che meraviglia”.
Siamo partiti da Torino e la comitiva é naturalmente tutta di italiani: unica eccezione Conchita, che comunque l’italiano lo capisce abbastanza bene, anche se preferisce esprimersi in spagnolo.
La guida, un trentenne circa, egiziano di nome Raafat, parla un italiano molto ma molto approssimativo, tanto che a volte faccio fatica a tradurre a Conchita parole che neppure io capisco bene. E’ un laureato in lingue, con specializzazione in italiano, o per lo meno cosí dice lui, e quel che preoccupa é immaginare come parlerá le lingue in cui non é specializzato.
Peró é compreso nel prezzo e c’é poco da protestare. Tanto piú che Raafat, per lo meno quando é al lavoro, ha un carattere tale che é meglio non protestare, per non correre il rischio di essere lasciati abbandonati in qualche tratto di deserto senza acqua, senza cammello e senza cappello.
Al di fuori del lavoro, cioé quando lo si incontra nelle ore “libere”, per i turisti e quindi anche per lui, é un gran simpaticone: ti invita a fumare dal narghilé, ti offre il té alla menta e alle altre strane erbe che evitano i giramenti di testa a chi fuma con lui il narghilé anche se normalmente non fuma sigarette, addirittura si offende se vuoi pagare, perché ti ha detto che sei suo ospite e l’ospitalitá é sacra e se la rifiuti vuol dire che lo vuoi offendere e ti spiega che gli arabi non bisogna offenderli su due cose: l’ospitalitá e la sessualitá.
“Se li offendi sulla ospitalitá che ti offrono, spiega Raafat, rischi di essere ucciso; se li offendi sulla loro sessualitá, anche solo mettendola in dubbio, rischi di essere evirato e, quindi, aggiunge , forse é migliore la prima offesa”.
Sul lavoro, invece, anche se cerca di farlo bene, rispondendo a tutte le domande a cui sa rispondere, é molto scorbutico e soprattutto permaloso. Il senso del comando lo trasforma, lo ingigantisce e, piú che di una guida turistica, assume l’atteggiamento di un faraone che si degna a parlare ad un gruppo di schiavi.
Non ha, come dicevo, una grande padronanza della lingua italiana e di tanto in tanto bisogna indovinare il significato di quello che dice. Comunque, anche se a formare il nostro gruppo di circa 30 persone ci sono anche 7 o 8 romani (e quindi particolarmente strafottenti, dato che la strafottenza rientra nella loro indole di “romani”), tutto procede abbastanza serenamente e tranquillamente, fino a quando una signora, tra l’altro neppure romana ma di Bergamo, dopo che per quattro volte Raafat ha ripetuto, parlando al microfono dell’autobus, che i Faraoni erano erano dei veri “padronati” di tutti i loro sudditi, si permette in tono piú che benevolo di correggerlo e gli dice, ad alta voce, “no padronati…, padroni”. Raafat interrompe la sua spiegazione e tutti pensiamo che lo faccia per ringraziare la signora che lo ha corretto, ma invece le risponde in tono incredibilmente nervoso, scavalcando decisamente le soglie della maleducazione:
“Si, bene, va bene, padroni, no padronati. Va bene! Va bene! Certo che mi faccio sbaglio qualche volto, peró sono studiato italiano, senza stare a Italia e per due anni solamenti e vuoi vedere come sa arabo lui quello che potrebbe studiare il arabo stando a Italia e egiziano particolare piú dificile che tutto arabo, come dicerebbe parola padrone. Questo perché se facio errore é giusto, no si puó pretendere. Va bene?”.
Naturalmente nessuno gli risponde che va bene. In un breve, brevissimo istante di puro sadismo, del quale io stesso mi stupisco, sento addirittura la voglia di rispondere che invece non va per niente bene, dato che non ho capito un cavolo di quello che ha cercato di dire in quell’italiano che ha studiato, come sua specializzazione, solo due anni e che penso che non sia colpa nostra se non ha potuto o voluto studiarlo in Italia…, ma probabilmente una risposta del genere sarebbe un’altra offesa che un arabo laverebbe chissá come, forse con il taglio della lingua, che é sempre meglio del taglio di quell’altra cosa, ma che comunque non é il caso, date le circostanze (siamo in vacanza) di provocare.
L’incidente quindi termina senza ulteriori provocazioni, perché siamo tutti spaventati da quella reazione veramente spropositata e Raafat continua a spiegare (come meglio puó e senza che nessuno abbia il coraggio di fare ulteriori interventi di correzione linguística) quello che stava spiegando a proposito dei Faraoni, “padronati” di tutti gli esseri viventi di allora.
E ci racconta della perfetta architettura delle tre piramidi alle quali l’autobus si sta lentamente avvicinando, ci parla della genialitá di un popolo, il suo popolo, che ha edificato quelle meraviglie 5.000 anni fa, dell’esercito di schiavi che deve aver lavorato per anni e anni. E adesso eccole lí, davanti a noi, le tre piramidi piú famose del mondo, quella di Chefren, di Micerino e di Cheope. E, parlando in modo particolare di quest’ultima, fa un cenno a quel famoso “centro universale di energia” che secondo tanti esperti nasce proprio nel suo interno e si irradia per il mondo intero, distribuendo quella energia positiva che favorisce i buoni pensieri e le buone intenzioni. Conchita, a questo punto, vuole che le traduca tutto e bene, perché é una fanatica di questi argomenti di “energia positiva” e crede profondamente nelle benevole influenze che possono procurare certe fonti naturali di energia cosmica, crede molto nelle strane e misteriose forze della natura che premiano i pensieri volti al bene fortificandoli e contrapponendoli decisamente alle forze contrarie, cioé a quegli altri sentimenti negativi come l’odio, la gelosia, l’invidia, il desiderio di vendetta, ecc…
Ormai siamo di fronte alle piramidi: tutti con gli occhi spalancati dalla meraviglia, con la bocca aperta dallo stupore e per dire “OHHH! Che spettacolo!” e, Conchita, anche con le orecchie dritte, per captare ogni parola delle ultime spiegazioni o, meglio, delle mie libere traduzioni, di quanto Raafat continua a raccontare a proposito della energia che si puó raccogliere in questi sacri luoghi in un solo momento di profonda concentrazione.
Delle tre piramidi, l’unica con un “interno” degno di essere visitato é quella di Cheope, e non solo per l’energia. Peró questa visita non é compresa nel prezzo, bensí facoltativa. Anche se costa poco, soltanto in quattro decidiamo di effettuarla: Conchita ed io, naturalmente, ed una coppia di novelli sposi, entrambi infermieri di un grande ospedale di Genova.
Raafat non ci accompagna. Si fermerá con la maggioranza e ci informa che disponiamo di un quarto d’ora, massimo venti minuti. Ci spiega che il tempo é piú che sufficente, dato che le “sale” da visitare sono soltanto due, quella inferiore, totalmente vuota, che era la tomba della moglie di Cheope e quella superiore, la tomba del faraone, che contiene solo un sarcofago di pietra, ovviamente vuoto.
Andiamo di fretta, con i nostri due compagni, sposi e infermieri genovesi. Dobbiamo rallentare un po’ la marcia nel percorso all’interno della piramide, che é un cunicolo nel quale anche Conchita, nonostante i suoi 160 centimetri malcontati di altezza, é spesso costretta a chinare il capo; poi rallentiamo ancora perché veniamo quasi travolti da una enorme nord-americana alta quasi due metri e super obesa (chissá tutti i turisti enormi sono nord-americani!) che torna indietro, sudata e maloliente, sbuffando come una locomotiva, ansimando agitatissima e all’orlo di un collasso a cui la sta portando un evidente forte attacco di claustrofobia (ma non sapeva di soffrire di claustrofobia?).
Finalmente raggiungiamo le due sale, dove ci soffermiamo forse un po’ delusi (anche se eravamo stati informati) per la non presenza, ad eccezione del sarcofago, di qualche cosa che possa testimoniare la grandezza dei faraoni di quell’epoca. Pareti nude e fredde, senza un minimo disegno architettonico; solo grandi blocchi di pietra uno sopra l’altro fino al soffitto.
Le uniche particolaritá che si distaccano sono sei piccole nicchie circolari, del diametro di un metro circa, nel pavimento della sala della moglie del faraone (probabilmente erano il punto di appoggio di altrettante statue a base circolare) e, nella sala di Cheope, il sarcofago: una semplice arca in pietra grigia, completamente scoperta , vuota e con le pareti assolutamente lisce e prive della pur minima decorazione.
Cerchiamo tutti e quattro, in entrambe le sale, un po’ di concentrazione, praticando una specie di minuto di raccoglimento, cercando di captare qualche briciola infinitesimale di quella immensa energia che tutto il mondo riconosce e di cui ci ha parlato persino Raafat con il suo misero italiano.
Il tentativo sembra abbastanza inutile, perché non avvertiamo nessun cambiamento. Ma forse ci sbagliamo; forse qualcuno di noi, senza rendersene conto, ha comunicato telepaticamente con qualcun altro. E forse é stata proprio Conchita a lanciare un energico messaggio telepatico, perché, mentre stiamo per uscire, le si avvicina un egiziano, sulla trentina, modestamento vestito alla europea (pantaloni grigio chiaro con qualche macchia e una maglietta, che una volta era bianca, piuttosto sgualcita), che con uno stentatissimo inglese propone qualcosa come un “rito vietato” per immagazzinare la famosa energia. La parola “forbidden” (vietato) turba un po’ Conchita, ma lui spiega, come puó, che é “forbidden” solo perché lui non ha nessuna autorizzazione dall’ente tursitico egiziano e lo fa abusivamente in cambio di una modesta mancia a discrezione del turista. Si innesta un difficile gioco di traduzioni, dall’inglese allo spagnolo e dallo spagnolo all’italiano, affinché anche i due amici genovesi dicano se sono d’accordo o meno e poi viceversa, per dirgli che siamo tutti d’accordo, ma che debe essere una cosa veloce, non solo perché “forbidden”, ma anche perché il tempo che Raafat ci ha messo a disposizione é pressoché trascorso.
“OK, Ok,”, conferma l’improvvisato sacerdote abusivo e ci fa rientrare nella sala della moglie del faraone, ordinando a ciascuno di sistemarsi in una delle nicchie circolari, occupando le quattro che ci sono nei rispettivi quattro angoli della sala, proprio accanto alle pareti. Dobbiamo sistemarci appoggiando bene le spalle alle pareti, prenderci il capo fra le mani , chiudere gli occhi e ripetere con lui un qualche cosa che suona come “sifr-asharaaaaaaa”, con la “a” finale lunghissima, quasi infinita. Non riusciamo a stargli dietro nel pronunciare la “a” finale di questa misteriosa e magica parola, nel senso che ci manca il fiato e dobbiamo interromperci per respirare, mentre lui, forse mezzo fachiro oltre che sacerdote abusivo, continua con questa “a” per tantissimo tempo senza riprendere fiato, come quando, nei vecchi giradischi, si incastrava la puntina. Questo prolungatissimo finale di parola mi fa anche venire in mente come terminavano, tanti anni fa, le canzoni di Nilla Pizzi e di Claudio Villa…., ma soprattutto quelle di Claudio Villa.
Un po’ disubbidiente, socchiudo gli occhi per guardarlo e mi sembra di constatare che il nostro mezzo fachiro probabilmente é anche un po’ vetriloquo, perché pronuncia la magica parola e la interminabile “a” finale senza aprire minimamente la bocca.
Terminata la quarta “sifr-asharaaaaaaa” (forse ce n’era una per ciascuno, anche se nessuno ha saputo quale era la sua) e passati ben piú di cinque minuti, ci ordina di girarci completamente, appoggiare la faccia contro le pareti, come se dovessimo cercare di entrare nell’angolo, in modo che le guance tocchino bene la pietra e distendere pure braccia e mani contro le pareti… Il corpo, insomma, deve aderire il piú possibile, sicuramente per fare in modo che l’energia contenuta nella piramide, dalla fredda pietra possa meglio compenetrare dentro di noi.
Questa volta solo lui deve dire “sifr-asharaaaaaaa” e, ogni volta, si sposta dietro a ciascuno di noi (cosí almeno sappiamo quale é il nostro “sifr-asharaaaaaaa” e possiamo concentrarci meglio). Non so come sia andata con gli altri, peró quando é il turno del mio “sifr-asharaaaaaa”, forse perché non adersisco bene con le guance alle pareti o forse perché mi vuole punire per aver semiaperto, prima, gli occhi mentre lui aveva detto che dovevamo tenerli chiusi, il tizio mi mette una mano sulla nuca e mi preme bene la testa nell’angolo, tanto che gli zigomi mi fanno male e, disubbidendo di nuovo, abbasso una mano e gli faccio cenno di smettere con quella tortura egizia. Per fortuna ubbidisce, forse perché si rende conto che, per lo meno da parte mia, il compenso volontario e a discrezione del turista straniero per le sue magiche prestazioni sta correndo un serio pericolo.
Passano cosí altri 5-6 minuti e siamo decisamente fuori tempo massimo. Mentre ci accingiamo a dare la nostra mancia discrezionale, ci spiega che per ultimare il rito vietato e fare sí che sia veramente efficace per la buona sorte e la carica di energia positiva necessaria per indirizzarci tutti verso un futuro migliore sotto tutti i punti di vista (amore, lavoro, denaro, successo, ecc.), occorrerebbe ancora salire nella sala di Cheope, per altri cinque minuti, non di piú.
Siamo un po’ indecisi, ma poi pensiamo che cinque minuti in piú o in meno, a questo punto, non modificheranno né le orami certe ire di Raafat, né le probabili animositá dei nostri compagni di autobus, costretti ad aspettarci. L’infermiere genovese, che da buon genovese non solo ha preferito, per il momento, rimandare la consegna della mancia discrezionale, ma ha anche drizzato bene le orecchie alla parola “denaro” per il futuro, commenta ad voce: “Belín, chissá che non sia la volta buona perché tutto ci vada bene!”. Prevale quindi, nel nostro piccolo ma unito gruppo di magnifici quattro, un irresponsabile spirito di solidarietá che ci spinge al rischio… O forse siamo giá talmente carichi di energia che l’iracondo carattere Raafat non ci incute il minimo timore!
E saliamo tutti nella sala intorno a sarcofago di Cheope, dove ci attende la parte veramente “forbidden” del rito energetico: entrare nel sarcofago, a turno ovviamente (non essendo in programma nessuna “ammucchiata”), mentre gli altri, in piedi e intorno al sarcogafo, tenendosi per mano, pronunciano non una ma due parole altrettanto magiche che suonano, piú o meno come “sabáa-sobek” (qualcuno poi ci spiegherá che “sabáa” vuol dire “sette” e che “sobek” era, forse, il nome di un antico dio egizio). Conchita, emozionatissima, scatta come una molla e, per prima, salta letteralmente all’interno del sarcofago, scavalcando con una incredibile agilitá le alte pareti laterali del sarcofago: si distede, incrocia le mani sul petto, chiude gli occhi e si lascia invadere da tutta l’energia di cui riesce a fare una provvista da cammello, per tutti gli anni a venire. Forse sono io l’unico elemento di disturbo, peró la voglia di ridere é grande e faccio grandi sforzi per trattenermi mentre la vedo tutta estasiata, distesa nel fondo del sarcofago. Non riesco a ripetere bene “sabáa-sobek”, tanto sono concentrato a non scoppiare in una sonora risata… E ancora di piú quando, uscita Conchita, sono io quello che entra e si distende nel sarcofago. Fingendo un grande desiderio di concentrazione, mi copro la faccia con le mani, perché in questo riesco meglio a frenare la voglia di ridere e se mi scappa qualche smorfia ridicola la posso dissimulare e nascondere con maggior facilitá.
Il quarto “sabáa-sobek” sussurrato in mio onore da parte del sacerdote e dei tre chierichetti che si tengono per mano intorno al sarcofago viene disturbato e coperto da qualcuno che grida fuori dalla sala, nel corridoio. Io salto fuori dal sarcofago e tutti interrompiamo bruscamente il rito “forbidden”.
Come é possibile che ci abbiano scoperti? C’é qualche telecamera a circuito interno? Se cosí é, penso, sono i guardiani che arrivano ad arrestarci per aver profanato un luogo sacro… O se non ci arrestano, chissá a quali grane dovremo andare incontro. Il sacerdote abusivo, aspirante ventriloquo perde il suo aspetto da stregone in trance e si preoccupa per la sua mancia. Gli do in fretta qualche lira egiziana mentre gli altri nostri due compagni, da buoni genovesi, ne approfittano per uscire in tutta fretta senza dargli il becco di un quattrino. Peró vengono puniti perché, in questo modo, sono i primi che si debbono scontrare con le ire di… Raafat. Infatti era lui che gridava, un po’ in egiziano e un po’ in italiano. Evidentemente quando é irritato l’italiano lo parla ancora peggio e nessuno lo capisce, peró é chiaro come il sole (anche se siamo dentro una piramide) che non ci sta facendo dei complimenti. Ci scusiamo in fretta, correndo ancor piú in fretta verso l’uscita, mentre lui, dietro di noi, ci spiega, tra un grido e l’altro, che il nostro ritardo ha superato la mezzora ed i nostri compagni di viaggio dell’autobus volevano ripartire lasciandoci dove eravamo, che lui allora ha dovuto correre, sotto il sole, fino all’ingresso della piramide e poi, nel corridoio, fino alle due sale… Cosa diavolo abbiamo fatto per tardare tanto!
Sempre correndo in fila indiana nello stretto corridoio, qualcuno parla di rito energetico. Lui non capisce la parola rito e allora il genovese, tra un “belin” e l’altro, dice che il rito é come una messa. Raafat capisce la parola, perché si é specializzato in italiano per ben due anni, ma allora crede che lo prendiamo in giro e urla: “Non si fa messa in piramide!”. E si arrabbia ancora di piú, forse pensando che vogliamo prenderlo in giro. La scena é veramente degna di un capitolo di Kafka ed io non so se ridere o preoccuparmi, poi decido di preoccuparmi di non ridere, perché se salgo ridendo sull’autobus, sicuramente mi linciano.
All’aria aperta, ma sempre correndo in direzione dell’autobus che ci aspetta col motore acceso, impaziente pure lui, riusciamo a spiegarci un po’ meglio con Raafat, ma lui pare sempre disposto a capire poco o niente, tanto ha i nervi a fior di pelle. La salita sull’autobus é per noi quattro molto imbarazzante, perché tutti ci lanciano delle occhiate bieche e torve; meno male che lo sguardo non uccide e neppure brucia, altrimenti saremmo ridotti velocemente in cenere. Persino Giorgio e Annamaria, una simpatica coppia di Gallarate con la quale avevamo un po’ legato, ci accolgono, nei nostri posti vicino ai loro, con un gelo che per lo meno aiuta a sopportare i 40 gradi centigradi della temperatura esterna. E, soprattutto, meno male che riesco a non ridere e a mantenere una espressione molto dispiaciuta, come se avessi effettivamente il capo tutto cosparso di cenere.
Poi Raafat prende il microfono, scuote il filo come se fosse un gatto a nove code e finalmente si sfoga, tra l’approvazione generale, nonostante il suo italiano peggiorato dai suoi nervi a fior di pelle. Inaudito! Mezzora di attesa! Non é la maniera di comportarsi con dei compagni di viaggio e con lui, la Guida (da come pronuncia la parola si capisce perfettamenteche la “G” é maiuscola), che come tale ha la responsabilitá di un orario… Insomma, ce ne dice da vendere e da pendere, di tutti i colori, in un silenzio generale e in una tensione che si taglia col coltello. Ovviamente nessuno di noi quattro protesta, perché in fin dei conti sia lui che i nostri compagni di viaggio hanno perfettamente ragione a disapprovare il nostro comportamento.
Quando termina la “filippica” di Raafat, l’autobus si ferma in una piccola altura dalla quale si vedono bene tutte e tre le piramidi. E´una specie di punto panoramico dove tutti scendiamo a scattare fotografie.
Ne approfittiamo per avvicinarci a Raafat, che, una volta sfogato, sembra piú ben disposto ad ascoltarci e, con calma, gli spieghiamo cosa é successo. All’inizio appare persino un po’ incredulo, perché dice di non sapere che c’é gente che fa di queste cose all’interno della piramide di Cheope. Una volta spiegato il motivo del ritardo, aggiungo che comunque questo non giustifica il nostro comportamento, come lui, nostra Guida (chissá se capisce che anche mie “G” sono maiuscole!), ha Giustamente detto e, come Giustamente ci ha rimproverati pubblicamente, perché ce lo meritavamo, ora gli chiediamo che sempre lui, nostra Guida, sempre pubblicamente e a nostro nome, porga le nostre scuse a tutti i compagni di viaggio, spiegando –se lo ritiene opportuno-, non certo per giustificarci, questo no, ma per raccontare come sono andate le cose, che non abbiamo saputo resistere alla tentazione di celebrare quel piccolo rito nel piú importante centro energetico positivo del mondo.
Risaliti sull’autobus, ci accontenta: spiega tutto, chiede scusa per nostro conto e tutti, meno qualche romano ovviamente, riprendono a guardarci con occhio comprensivo e piú amichevole. Giorgio e Annamaria tornano a rivolgerci la parola. Molti altri, chiaramente incuriositi, ci chiedono poi a tu per tu i particolari del “rito vietato” e qualcuno arriva ad invidiarci un po’ perché pensa che deve essere stata una esperienza spirituale molto intensa.
Conchita, alla fine di questa avventura, da lei vissuta con grande entusiasmo e senza dubbio con maggiore serietá di quanto non abbia fatto io, si dichiara veramente soddisfatta e, nonostante la carica di “energia negativa”con cui siamo stati accolti al nostro ritorno sull’autobus (questa si che l’abbiamo avvertita!), ha concluso riassumendo l’esperienza in quattro parole: “Como he disfrutado todo!”.