La nostra Africa: safari Tsavo e mare
Il viaggio inizia come una fuga; una fuga dall’ufficio, da Torino, il 4 agosto, l’ultimo giorno di lavoro, poco dopo l’ora di pranzo, lasciandoci alle spalle le carte ancora aperte sulla scrivania, le ultime cose da sbrigare al volo prima di uscire, qualcosa lasciato invece lì in sospeso; ormai è ora di andare, ritroveremo tutto al ritorno, l’aereo ci attende in serata a Malpensa.
Il volo è Eurofly, una delle compagnie charter e non solo più confortevoli con cui abbia mai volato in questi ultimi anni, se avete possibilità di scegliere il vettore con cui arrivare a destinazione, ve lo consiglio caldamente. Arrivare freschi e riposati, nonostante 9 ore di volo, pronti per lanciarsi nel safari vuol dire molto, vuol dire iniziare bene la vacanza, con spirito ed energia.
A Malpensa è un caos, sono giorni caldi, di grandi partenze e il volo è in ritardo ma nulla ci può distogliere dalla felicità e dall’emozione della partenza. Ne approfittiamo per fare il visto di ingresso in Kenya presso il banco dell’ambasciata keniota appositamente predisposto in zona check-in (40€ o 50US$), assolutamente consigliato per snellire poi la procedura di ingresso all’arrivo. Sull’aereo ci attendono due posti comodi, da soli, corridoio e finestrino, riservati nelle primissime file.
Arriviamo a Mombasa il giorno successivo, verso le 10 di mattina, il clima è ottimo, quasi fresco in confronto con i torridi giorni estivi che hanno preceduto, in Italia, la nostra partenza.
All’esterno dell’area arrivi ci attende la nostra guida, S.; carichiamo i bagagli sul furgone, tutto ed interamente a nostra disposizione e subito partiamo alla volta del parco.
Il nostro programma di safari prevede visita ai parchi di Tsavo Est e Ovest con due pernottamenti in campo tendato nella concessione privata Kishushe Camp, confinante con il parco stesso.
Alla luce dell’esperienza fatta e che di seguito troverete descritta credo di poter dare alcuni miei personali consigli. Molti (sicuramente tutti coloro che prendono un last minute) organizzano il safari non già dall’italia, ma una volta sul posto, affidandosi alla struttura del villaggio, a delle agenzie specializzate, ai ragazzi di spiaggia. Personalmente sono stato molto contento della scelta fatta, del servizio, dell’attenzione, della cura per i particolari del tour. Non ho provato le alternative, dunque non mi sento nella condizione di poter dare giudizi e raccomandare piuttosto che sconsigliare qualcosa. Sicuramente posso dire che mi sembra una buona cosa fare il safari subito all’arrivo in Kenya, partendo dall’aeroporto di Mombasa si risparmia tempo in trasferimenti e si ottimizzano i giorni di vacanza.
Distanze che sulla cartina non appaiono proibitive, subito si rivelano viaggi estenuanti alla prova dei fatti, non appena si fa i conti con lo stato delle strade in Kenya. Incontrare sul proprio percorso una strada asfaltata è già di per sé una fortuna, molto difficilmente però si avvicinerà anche solo lontanamente a quelle che siamo soliti percorrere.
Per raggiungere infatti uno dei cancelli di ingresso al parco dobbiamo prima percorrere un centinaio di chilometri lungo una delle principali arterie di comunicazione, la strada che collega le due principali città del Kenya, Mombasa con Nairobi. Il traffico è intenso, soprattutto di mezzi pesanti, camion stracarichi di ogni genere di merci. La strada non è più larga di una nostra qualunque statale e soprattutto costellata di buche, spesso così profonde, che non vi è verso se non di cercare di aggirarle. Auto e camion procedono in lunghe colonne, talora rallentando a passo d’uomo, nel momento in cui occorre affrontare una salita.
Inoltre posso affermare senza paura di essere smentito che per vivere a pieno un safari è assolutamente necessario pernottare in un campo tendato nella savana, un’esperienza unica che da sola vi varrà il viaggio che avete deciso di fare. A mio giudizio il safari deve essere di almeno tre giorni e due notti, con minor tempo vedrete che passerete molto tempo in trasferimenti, non avrete una giornata intera da dedicare agli avvistamenti dall’alba al tramonto e vi perderete gran parte della magia del viaggio. Più giorni, dipende dal fisico e dal portafogli. Dal fisico perché il safari è abbastanza pesante, si è sempre sulla jeep, non si può scendere “a fare due passi” tra gli animali, a forza di sobbalzare continuamente sulle piste sterrate, il terzo giorno ho la schiena a pezzi. Dal portafogli, perché è senza dubbio la parte più cara del viaggio, con prezzi sui 500€ a testa per un programma di due notti. Ultima raccomandazione (direi superflua se pernottate nel campo tendato per due o più notti, ma essenziale in caso contrario) assicuratevi che il vostro itinerario di safari preveda almeno un game drive all’alba o al tramonto, i colori, le sfumature del paesaggio sono incredibili e vi è molta più possibilità di osservare gli animali che sotto il sole cocente di mezzogiorno.
Lasciato l’aeroporto facciamo solo una breve pausa per pranzo, giusto il tempo di mangiare un boccone e riposarci un attimo, in quanto il viaggio verso il campo è ancora lungo. Presto abbandoniamo la strada principale, per attraversare la regione delle Taita Hills. Ormai scompare ogni traccia della presenza umana e il paesaggio inizia ad aprirsi in una distesa di arbusti a perdita d’occhio. Iniziamo ad aguzzare la vista per individuare i primi animali che fanno capolino tra l’erba. La sorpresa è grande quando dietro una macchia di cespugli a bordo strada appare un branco di elefanti rossastri. Siamo emozionati, è il nostro primo avvistamento, gli elefanti ci appaiono vicinissimi, assolutamente incuranti del nostro passaggio.
La strada asfaltata finisce con il cancello di ingresso al parco di Tsavo Ovest; al di là parte la pista, un nastro di terra rossa che si estende assolutamente in linea retta fino a perdersi in lontananza.
S. Apre anche il tettuccio del furgone, per permetterci di godere meglio del paesaggio ed entriamo nel parco, solitari, l’unico veicolo a percorrere quella pista.
Ci addentriamo veloci, sobbalzando sulla terra battuta sconnessa e sassosa: il nostro campo tendato ci attende da qualche parte, in mezzo alla savana.
L’arrivo al campo (Kishushe Camp) è un susseguirsi di forti emozioni: la sorpresa di vedere un luogo che non si crede possibile esistere, l’accoglienza da parte dello staff di sette Masai, scenograficamente schierati nei loro abiti colorati, cinque tende così mimetizzate e fuse con l’ambiente circostante, il percorso tra le sterpaglie fino alla nostra, l’ultima la più remota del campo. A tutti gli effetti definire “tenda” la nostra sistemazione è un po’ riduttivo. Si tratta di una struttura molto grande, bellissima, costruita con parti in pietra e legno e parti costituite da semplici e robuste zanzariere, il tutto coperto da un tetto in frasche makuti e con una veranda, dalle cui poltroncine, ricavate direttamente in due tronchi d’albero scavati, si può sorseggiare un termos di tè caldo, dominando la savana con lo sguardo.
Prima che il sole si abbassi troppo, accompagnati dalla scorta Masai, partiamo per un safari a piedi nelle vicinanze del campo, per conoscere un po’ il territorio, le piante, gli arbusti e i loro usi tradizionali. Lungo il percorso i Masai individuano sotto la terra il nido di uno scorpione, iniziano a scavare ed estraggono dal terreno, per mostrarci, un esemplare lungo una decina di centimetri, lucido, di colore marrone intenso.
La meta della passeggiata è un’altura poco distante, uno sperone roccioso in posizione sopraelevata, tale da aprire una vista ampia sulle distese dello Tsavo, fino alle più lontane pendici montuose al confine con la Tanzania. Attendiamo fino al calar del sole, scrutando con il binocolo la savana e scorgiamo un’aquila volteggiare sopra la parete rocciosa alle nostre spalle; infine, montati un semplice tavolo ed un paio di sedie da campeggio, ci concediamo un aperitivo sotto le stelle, brindando al nostro primo giorno in Kenya.
Al ritorno al campo scopriamo con soddisfazione che per quella sera saremo gli unici ospiti, soli a gustarci la notte nella savana. Prima di cena ci raduniamo con la guida e i Masai attorno al fuoco; col calar del sole anche la temperatura è scesa parecchio, l’aria è fresca ed asciutta.
Ci sediamo nelle imponenti poltrone scavate nei tronchi, in silenzio, solo con il crepitio della fiamma e i versi degli uccelli, circondati dall’oscurità più fitta.
La cena è abbondante, curata nella preparazione, veramente di ottima qualità, la consumiamo seduti ad un immenso tavolo di legno, pensato per accogliere tutti insieme, in un pasto comunitario, i visitatori. Con S. Noi siamo solo in tre, raccolti ad un’estremità del tavolo, in penombra, nella quiete più assoluta. I Masai, i fieri guerrieri Masai, si avvicinano discreti, quasi fossero maggiordomi inglesi, a porgerci i piatti che il loro bravissimo cuoco ha cucinato; mi sento un po’ in imbarazzo.
Dopo cena ci ritiriamo subito nel cottage, scortati come sempre da due guerrieri; avremo ancora una mezz’oretta di corrente elettrica per lavarci e prepararci, dopodiché accendiamo le candele.
Fa freddo di notte, anche se siamo ben coperti. Distesi in un letto immenso e protetti da una zanzariera che cala dal soffitto ascoltiamo le voci della natura che arrivano da fuori; ci sembra di sentire qualche rumore vicino alla tenda, forse dei passi di animale, abbiamo un po’ paura, forse in lontananza riconosciamo il grido delle iene.
Il secondo giorno di safari inizia che ancora non ha fatto giorno. Infreddoliti, ma corroborati da una sostanziosa colazione, partiamo per un’intera giornata nella savana a caccia di animali, dall’alba al tramonto. Davanti ad un tè caldo guardiamo nella luce incerta dell’alba i movimenti di animali tra i cespugli, alcune antilopi zebrate, i cudu, passano saltando veloci. Il sole inizia a sorgere, gli ultimi animali notturni ritardatari si ritirano nelle loro tane, uno sciacallo si allontana, attraversando la strada una ventina di metri davanti a noi.
I primi incontri che facciamo, come il giorno precedente, sono ancora impala e piccoli e rapidi dik dik, così ben mimetizzati tra i bassi cespugli. Su un albero, più avanti, un folto gruppo di scimmie, babbuini, ma noi siamo in cerca del re dei “5 grandi”, il leone.
S. Si tiene in contatto via radio con le altre guide sparse per i sentieri di Tsavo; il primo che avvisterà il leone darà il segnale e tutti convergeranno verso il punto di avvistamento. Per un po’ non succede niente, poi giunge il segnale, nella Rhino Valley è stata avvistata una famiglia intera di leoni. Subito ci precipitiamo.
Arriviamo nella valle e sulle pendici di fronte a noi avvistiamo dapprima un grosso leone maschio ed una femmina, sdraiati, in riposo, all’ombra dei cespugli. Guardando nelle vicinanze più attentamente, con il binocolo, scorgiamo poi, dello stesso colore della vegetazione circostante, altre tre leonesse. Rimaniamo a lungo in osservazione, nel frattempo arrivano e ripartono altri due o tre gruppi su altrettanti pulmini. I leoni decidono che è ora di muoversi, pigramente il maschio si alza, le femmine seguono ed iniziano ad allontanarsi lungo il fianco della vallata, permettendoci così di osservarli molto bene.
Anche noi ci allontaniamo alla ricerca dei grandi erbivori.
Sorprendente è la mandria di bufali, massicci, imponenti, assolutamente incuranti di noi, ad un passo dal furgone. Si spostano in un centinaio di esemplari, attraversandoci più volte la strada.
Un bufalo, indispettito dal fatto che gli abbiamo tagliato il passo, tenta anche di caricare il furgone, inseguendoci per un tratto, mentre S., con una pronta accelerata, riesce ad indurlo a desistere.
Successivamente avvistiamo zebre in quantità, un branco di gnu, piuttosto inconsueti in questa zona del parco, isolati facoceri, ma assolutamente spettacolare è la vista maestosa della giraffa.
Una striscia verde intenso che compare improvvisamente, così inconsueta in una pianura dominata dalle sfumature dall’ocra al mattone, denota con la sua rigogliosa e fitta vegetazione la presenza di un corso d’acqua. Avvicinandoci alle sponde scorgiamo le sagome arrotondate degli ippopotami, usciti tra la vegetazione sulla riva. Li osserviamo ad una certa distanza, in assoluto silenzio; di carattere imprevedibile ed aggressivo, anche se solo a scopo di difesa, sono ogni anno gli animali selvatici cha causano all’uomo il maggior numero di vittime. Il corso d’acqua è il fiume Tsavo, verso le cui sorgenti, le Mzima Springs, ci stiamo dirigendo. SI tratta di una serie di laghetti generati da una sorgente di acque sotterranee provenienti dalle falde del Kilimanjaro, circondati da una lussureggiante vegetazione e in cui si possono osservare imponenti coccodrilli e nuovamente gli ippopotami, questa volta però a riposo, semisommersi, simili a grossi e levigati massi, con il solo muso e la sommità del dorso affioranti.
In un lato riparato del lago, una camera semisommersa, dalle pareti di vetro, permette l’osservazione di una fitta schiera di pesci, alcuni dei quali, provvisti di una strana bocca a ventosa, dall’aspetto insolitamente preistorico.
Consumiamo il pranzo al sacco su un’altura riparata, un punto di osservazione privilegiato sull’altopiano di Tsavo e sul corso del fiume. Quando ridiscendiamo ci dirigiamo verso il settore Est del parco, passando prima per la zona vulcanica di Shetani. Un picco di roccia nerissima si erge in mezzo alla pianura, completamente spoglio di vegetazione: si tratta della Devil Mountain; su di un fianco si allunga per vari chilometri il flusso, recente di circa 400 anni, di lava fuoriuscita, un fronte nero, compatto, simile ad una muraglia che procede a zig zag, per terminare poi improvvisamente là dove la forza di espansione del vulcano è venuta meno.
Tsavo Est si presenta, per molti aspetti, simile al settore Ovest. Stesso paesaggio di arbusti spinosi e sterpaglie. Intravediamo isolati alcuni tronchi di baobab dalle dimensioni considerevoli, che si ergono privi di foglie al di sopra della vegetazione circostante.
Siamo alla ricerca di un raro quanto fortuito avvistamento di uno dei pochi esemplari di rinoceronte nero rimasti in Kenya.
Nonostante ancora una volta S. Si metta in contatto radio con le altre guide, precipitandosi ben tre volte a tutta velocità nella zona in cui sembra ne sia stato individuato un esemplare, non riusciamo ad avvistare nulla. In compenso giunti ad una pozza d’acqua ormai nel tardo pomeriggio troviamo un grosso branco di elefanti con i cuccioli che si sta abbeverando e due giraffe alle quali riusciamo ad avvicinarci quasi tanto da poterle toccare.
Terminato di abbeverarsi, il branco di elefanti si allontana di nuovo tra gli arbusti; anche per noi è ora di volgere l’auto verso il campo, ci aspetta un lungo percorso di ritorno.
Il sole è ormai basso, decidiamo comunque di tornare ancora una volta a far visita al gruppo di leoni e facciamo bene. Una madre con tre cuccioli è scesa ad abbeverarsi in un fossato in cui scorre un po’ d’acqua; noi siamo fermi a pochissima distanza, ci godiamo tutta la scena, anche se riusciamo a scattare foto con grande difficoltà vista ormai la scarsità di luce.
Torniamo al campo quando ormai è già buio inoltrato.
Attorno al fuoco scorgiamo altre cinque persone, che per quella sera ci faranno compagnia. Siamo stanchi, crolliamo subito dopo cena, ma siamo proprio soddisfatti; S. È stato un ottimo autista e un’ottima guida, attivo, attento a scovare le tracce degli animali e nel farci apprezzare il più possibile l’esperienze nella savana. Molto della riuscita di un safari, per non dire quasi tutto dipende dalla guida e dalla sua motivazione; chiedete di lui, secondo me è una garanzia per un buon safari.
Anche il terzo giorno la sveglia è all’alba, è in programma una nuova passeggiata nei dintorni del campo, tutti insieme. Infreddoliti come il mattino precedente prendiamo una tazza di caffè che ci è stato portato nella veranda del cottage, mente i primi raggi di sole scavalcando la collina iniziano ad accendere le sterpaglie di colori bronzei. Ritorniamo al punto di osservazione, la rupe sporgente sulla pianura sottostante, che già avevamo raggiunto la prima sera; aspettiamo che il sole salga, si sente che inizia a scaldare la terra e la nostra pelle, in lontananza si intravede, completamente avvolta da nubi, la sagoma triangolare del Kilimanjaro, sporgere al di sopra delle catene montuose più basse circostanti. Al rientro al campo ci aspetta la colazione, poi con calma è ora di prendere i bagagli e iniziare il lento viaggio di avvicinamento al mare.
Al mare alloggiamo all’Africana Sea Lodge una tipica struttura di residence internazionale, frequentato tanto da italiani quanto stranieri, tedeschi ed inglesi in maggioranza, ma con un buon rapporto qualità prezzo.
Il complesso è grazioso, un’insieme di bungalow bianchi con tetto makuti, immersi in un rigoglioso giardino, con gli spazi comuni aperti, ma riparati da un’ampia tettoia, disposti attorno alla piscina. Una delle attrattive del nostro residence sono le scimmie, una nutrita schiera di scimmie di varie specie che vivono sugli alberi del giardino o nella boscaglia oltre il muro di cinta, ma che comunque girano in tutta tranquillità tra i bungalow in cerca di cibo. Sono divertentissime, soprattutto gli esemplari più piccoli; non perdono occasione per cercare di sottrarre ed impossessarci di qualsiasi tipo di cibo. Assistiamo alla scena di una scimietta che beve una birra da un bicchiere che un turista stava sorseggiando e che ha appoggiato un attimo a fianco della sdraio su cui prendeva il sole oppure al fulmineo furto di un casco di banane dalla borsa di un altro ragazzo che le aveva appena acquistate lungo la spiaggia da un ambulante, per fare uno spuntino. Chissà da dove ha avvistato le banane l’astuta scimietta, che ha attraversato in un lampo il prato della zona solarium, afferrato parte del casco, prima che il ragazzo riuscisse ad allungare la mano per afferrarle e difenderle e se ne è andata poi tutta fiera, a balzelloni, quasi ridacchiando felice del prezioso bottino.
Anche se il periodo di agosto è identificato come uno dei periodi secchi dell’anno, tutto il soggiorno al mare sarà caratterizzato dall’incertezza di un tempo tipicamente equatoriale, imprevedibile, che con una rapidità sorprendente alterna momenti di sole pieno e cielo azzurro intenso a scrosci violenti di pioggia che ci sorprendono all’improvviso. Impariamo però, fin da subito, a non curarcene più di tanto, in maglietta e costume non è poi così grave bagnarsi; anche sotto la pioggia la temperatura rimane pur sempre calda, gradevole e presto il sole ritorna ad asciugarci.
La spiaggia non è un luogo di relax come potemmo desiderare noi in vacanza. I lettini e gli ombrelloni si trovano in posizione sopraelevata, su un prato, all’ombra di palme da cocco, riparati dal crescere della marea, ma soprattutto in zona off limits per i locali, che invece fanno della spiaggia il teatro delle loro trattative commerciali con i turisti. Eravamo già stati messi in guardia al riguardo, non vi è verso di scendere sulla spiaggia sabbiosa, nemmeno se solo in costume e mostrando tutta l’intenzione di voler semplicemente raggiungere l’acqua per un bagno, senza essere fermati da uno o più persone che propongono safari, escursioni in barca, oggetti di artigianato. Del resto è più che comprensibile, il turismo sulla costa è l’unica fonte di reddito e speranza di migliorare le proprie condizioni di vita per tutti gli abitanti dei paesi vicini ed in particolare del grosso agglomerato di Ukunda che sorge pochi chilometri nell’entroterra, lungo la via per Mombasa.
Verso le 9 del mattino, il giorno seguente, la marea è prossima al suo minimo e lascia libero un tratto di spiaggia molto ampio. Decidiamo di iniziare con una lunga passeggiata verso sud, ben consapevoli che ciò vorrà dire iniziare un’estenuante trattativa con i locali, per cercare di non farci rifilare nulla sin da subito. Infatti, puntualmente, non appena mettiamo piede sulla sabbia, individuati immediatamente come nuovi arrivati, veniamo circondati e tempestati di proposte: il safari in primis, la gita più cara ed appetitosa ma, visto che ne siamo appena reduci, ecco spuntare l’escursione in barca alle isole vicini, l’immersione alla barriera corallina, la visita del villaggio e così via.
Riusciamo a dribblare le prime proposte solo promettendo che daremo retta loro al ritorno dalla passeggiata e riusciamo ad avanzare di qualche metro.
Quella mattina, complice forse il brutto tempo del giorno precedente, sul bagnasciuga è stata deposta dal mare una sottile striscia di alghe verde bruno, che emanano un fortissimo odore di zolfo, ma che non riappariranno più per il resto della vacanza.
La sabbia così fine è incredibilmente compatta, il piede non sprofonda neanche, lasciando a mala pena l’impronta.
Dopo pochi passi ci propongono di incidere i nostri nomi su targhette di legno, di tek o in scuro ebano; la loro richiesta iniziale è di 60€, non mi fermo neanche a contrattare.
Poco più avanti ci scorgono due ragazzi, poco più che ventenni, si vede ancora alla prime armi con l’arte di fare business; hanno alcune collanine, ma non possono contare né su di una bancarella tutta loro, né hanno la struttura per mettersi ad organizzare da soli le escursioni. Si chiamano A. E C. (o così almeno ci sembra di ricordare essere il suo nome d’arte), un look da reggae-boy, capelli rasta, pantaloncini e canottiera persino un po’stretch, quasi trendy, o sicuramente più delle mia magliette larghe e senza forma che mi porto apposta in ogni viaggio.
In effetti il loro approccio è meno pressante, iniziano a chiacchierare in inglese, ci chiedono da dove veniamo, cosa facciamo, poi iniziano a passeggiare con noi, parlando del più o del meno, raccontandoci un po’ di sé e della loro vita ad Ukunda. Insomma ci stanno simpatici, decidiamo di affidarci a loro per organizzare le escursioni che vogliamo fare, si incaricheranno loro di trovare il contatto, ovviamente ci guadagneranno una provvigione. Del resto si capisce subito che, indipendentemente dalla persona con cui si prenota, poi l’organizzazione della gita è unica e tutta uguale. In più ci fanno risparmiare 10€ a testa rispetto alle prime proposte che avevamo ricevuto sulla spiaggia.
Camminiamo con loro fino a quando si interrompe la catena continua di hotel e resort e vi succedono invece abitazioni private di villeggianti europei. La spiaggia in quei punti è pressochè deserta, ci si gode ancor di più la bellezza del posto. Sulla strada del ritorno ci accordiamo per ritrovarci il giorno successivo, per concordare l’escursione all’isola e parco marino di Wasini e per fare con loro un giro ad Ukunda a vedere il villaggio. Ci congediamo all’ora di pranzo acquistando tre collanine, senza contrattare sul prezzo; in fondo hanno perso tutta la mattinata con noi, senza concludere altri affari, senza abbordare altri turisti, senza aver raggranellato qualcosa per mettere insieme un pasto.
La prima escursione che facciamo è quella in Ukunda, il pomeriggi successivo. A. E C. Ci aspettano alle 16.30 all’ingresso del residence, fermiamo un matatu, uno dei tanti furgoni adibiti a taxi collettivo fino anche ad una dozzina di persone, che fanno la spola tra una città e l’altra. Ci stringiamo nell’abitacolo già pieno di passeggeri, si parte, dalle casse dell’autoradio musica reggae ad alto volume.
Ukunda è un agglomerato di povere case e baracche, che si allunga per alcuni chilometri, sembra non finire mai, ai lati della strada principale, proveniente dalla Tanzania e diretta a Mombasa. A quell’ora del pomeriggio brulica di attività; l’incrocio con Diani è il punto di incontro e di interscambio tra i matatu che vanno nelle varie direzioni. C. Acquista un sacchetto di cubetti di canna da zucchero, fresca, da farci provare. Si morde, si succhia e poi si sputa la polpa legnosa, estraendo un succo dolce come uno sciroppo e in cui si percepiscono anche già dei granelli di zucchero.
La strada del villaggio è in terra e fango, sui lati ogni casa è un negozio, una bottega, una bancarella. Un susseguirsi di attività commerciali ad artigiane ininterrotto, lungo chilometri. Il macellaio con i suoi pezzi di carne appesi all’aria su un gancio, bancarelle in cui si preparano vari tipi di cibo, dalla griglia alle pannocchie di mais abbrustolite, patate fritte in una pastella rosa, triangoli di pasta sfoglia ripieni e così via. Un artigiano trasforma vecchi copertoni di auto in calzature, un altro ricava da latte usate lampade a petrolio, saldandovi un ugello per lo stoppino. Uno spiazzo vicino al distributore di benzina è la stazione degli autobus per Nairobi: stanno caricando come bagaglio ogni genere di merci, frutta, verdura, per terra vi sono anche alcune gabbie di polli. Lungo la via si incontrano anche alcuni bar affollati, che costituiscono un punto di ritrovo, come un minuscolo cinema, ricavato in una stanza a pian terreno di un’abitazione, la scuola primaria con un grande prato verde oltre il cancello aperto; entriamo, ci viene incontro un maestro, ci saluta, scambiamo due parole, è la scuola in cui sono andati i nostri due amici accompagnatori.
Ad un angolo, su di un carretto, non manca un anziano venditore di miraa, una pianta stupefacente, dal potere energizzante, tipo le foglie di coca, legale in Kenya.
Compriamo in una bottega un sacchetto di caramelle da distribuire ai bambini del villaggio. Alcuni si avvicinano salutandoci, altri ci seguono in silenzio, altri più timidi stanno in disparte, tutti però si accontentano di ricevere una caramella a testa, fino a che non finiscono, regalandoci in cambio uno splendido sorriso.
Anche quando non abbiamo più caramelle molti bambini continuano a seguirci o sbucano dalle case urlando “Jambo Jambo” per salutarci; uno, molto piccolo, prende per mano la mia ragazza e inizia a camminare con noi, non vuole più staccarsi. E’ una delle immagini e dei ricordi più belli ed emozionati di tutta la vacanza Alla sera, il cielo limpido, completamente sgombro di nubi, la luna piena, bassa verso l’orizzonte, il mare piatto, senza increspature ci offrono uno spettacolo naturale di rara suggestione: una superficie liscia, accesa dei riflessi più brillanti dell’argento, che scivola dolcemente verso la spiaggia bianca quasi traslucida sotto la luce chiara della luna, incorniciata dalle sagome nere delle palme in controluce.
Il mattino seguente il tempo è terso, si preannuncia una giornata soleggiata, adatta per l’escursione all’isola e al parco marino di Wasini. Ci imbarchiamo in un villaggio di pescatori alcuni chilometri a sud di Diani con un’altra quindicina di persone. La barca non è nulla più che un vecchio peschereccio a vela e motore, in parte riadattato per ricavare delle panche imbottite lungo le mura, ma che non riesce a nascondere tutta la sua età e l’usura. Il primo tratto di mare è calmo, poi, aggirato lo sperone roccioso dell’isola di Wasini, che emerge, quando la marea è bassa, come appoggiata su alti ed inaccessibili bastioni di roccia levigati e scavati dal mare, per poi sprofondare fino a trovarsi con gli alberi di mangrovie immersi fino al tronco quando l’acque raggiunge il suo massimo livello, ci dirigiamo verso il mare aperto. Le onde iniziano a crescere, la barca beccheggia e sembra fare sempre più fatica ad avanzare. In quel tratto potremmo avvistare i delfini, ma quel giorno non appaiono. La traversata sembra non finire mai e le condizioni del mare non migliorano. Finalmente raggiungiamo un atollo in mezzo al mare, semiaffiorante, dove possiamo immergerci, per fare snorkeling lungo la barriera corallina, ricca di pesci, madrepore di vari colori anche se forse meno variegati ed intensi di quelli che abbiamo visto nel Mar Rosso.
Il tempo si volge al brutto nel giro di un attimo, la corrente aumenta, la barca non riesce a rimanere ferma ed è molto faticoso e difficile raggiungere la scaletta e risalire a bordo. Due persone non riescono ad avvicinarsi e vengono ripescate e riportate alla barca da una piccola lancia a motore. Nel frattempo però inizia a piovere a dirotto, siamo in costume, bagnati dal bagno in mare appena concluso, dunque non importa, se non che si sente un po’ di freddo. Cerchiamo di mettere al riparo i bagagli, poi aiutiamo i marinai a distendere un telone impermeabile di copertura sotto cui ci rifugiamo tutti. Sembriamo una scialuppa di naufraghi in mezzo all’oceano. Tanto veloci le nubi ad addensarsi quanto altrettanto rapide a sparire e a lasciare nuovamente posto ad un cielo azzurro ed un sole caldo ed inteso quando raggiungiamo un porticciolo di Wasini per il pranzo. Riusciamo ad ottenere di fare pranzo sull’isola, mentre una parte del gruppo è riportato sulla terraferma verso un altro ristorante e facciamo bene. Non c’è paragone (sulla via del ritorno abbiamo visto l’altro ristorante, accertateti già all’atto della prenotazione e poi insistete e pretendete che il pranzo sia sull’isola) Il ristorante è semplice, spartano, lunghi tavoli e panche su un terrazzino coperto, ma la vista sulla baia soleggiata è stupenda. Il pranzo è molto buono, tipicamente locale, ha il suo punto di forza nei granchi che apriamo servendoci di mazze di legno, ma continua con un intingolo di alghe, riso bollito, pesce alla griglia, patate nella famosa salsa rosa. E’ la prima volta che mangiavamo granchi, ci vengono serviti bolliti, al naturale, eventualmente con uno spruzzo di lime; la carne è morbida e bianca, leggermente salata quella che si riesce a scavare dal corpo, più dolce e compatta quella che si estrae dalle grosse chele.
La vegetazione sull’isola e sulla costa è ancora più rigogliosa che attorno al nostro villaggio a Diani, dominano soprattutto i baobab, dal tronco liscio, grigio chiaro di dimensioni spropositate in larghezza più che in altezza, con una chioma di foglie lucide verde scuro.
La vacanza volge verso il suo termine; l’ultimo giorno sole e pioggia si alternano ancora più volte nel corso della giornata, poi la sveglia nel cuore nella notte, macchina e traghetto per raggiungere Mombasa e l’aeroporto ed un volo di ritorno in Italia, con tante foto e ricordi indelebili nel cuore.
Enrico Se dopo che avete letto avete qualche curiosità, se volete qualche informazione, se avete commenti o per qualsiasi cosa potete scrivermi enriconava@inwind.It