Kun Lun Shan: ai confini del mondo
E’ stata una lezione e dovevo viverla io, sono stato scelto io, non so le ragioni, ma sento il dovere di raccontarlo. I segnali mi giungono confusi ma puntuali, e non mi sorprendono più.
Il lettore potrebbe immaginare che dopo questa esperienza io abbia chiuso con i viaggi. In realtà è successo il contrario: ho viaggiato tanto, ancora di più, ho visitato ad ora circa quaranta stati di questo mondo.
Ciò non esclude che ci siano esperienze nella vita di un uomo che, per l’intensità di ciò che si è provato e per l’eccezionalità degli eventi che sono accaduti, devono necessariamente essere rivelate e condivise e non rimanere un fatto privato. Per questo ho deciso di inviare questo contributo.
Quella che un amico ed io abbiamo vissuto in terre lontane, tra la Cina e il Tibet, è una storia incredibile e terribile nello stesso tempo e credo sia utile raccontarla e condividerla e far sapere perché e come là, dove il mondo incontra il cielo, il mio amico ha perso la sua vita e io ho certamente vissuto la mia esperienza più dura, che ha profondamente cambiato il mio modo di vedere il mondo e la vita in generale.
Tutto è nato dall’idea di esplorare una zona inesplorata, con una missione italo-cinese. Io rappresentavo in qualche modo il mondo ambientalista.
I primi giorni nella regione dello Xijnkiang in Cina passano veloci e sono molto belli. Attraversiamo rapidamente il deserto del Takla Makan, detto “il deserto del nulla o del non ritorno”, ed arriviamo a Quemo, una città oasi, ultima roccaforte abitata prima di iniziare la salita verso la catena montuosa inesplorata del Kun Lun, la vera meta del nostro lungo viaggio.
Stiamo tutti bene e siamo tutti di buon umore. A Quemo forse è la prima volta che vedono tredici viaggiatori occidentali tutti insieme e improvvisano per noi una festa di benvenuto spontanea e bella. Ci divertiamo, balliamo con giovani danzatrici e c’è tutto il paese incuriosito che ci guarda. Molti sono di etnia Uiguri, non cinesi, e l’Islam è molto presente in queste terre.
L’indomani partiamo con le nostre quattro jeep e i due camion fuoristrada, uno per i viveri e l’altro per il carburante. Ci stacchiamo ben presto dalla strada sterrata per inoltrarci in una valle laterale percorrendo il letto di un fiume in secca. Il tracciato è assai accidentato e il nostro cammino è lento. Incrociamo gli unici frequentatori di questi posti: si tratta di alcuni camioncini con decine di cercatori d’oro che tornano dopo settimane di lavoro. Hanno l’aspetto provato e i volti bruciati dal sole; mi impressiona vederli trasportati così ammassati su quei fatiscenti camion, sballottati ad ogni metro come in una piccola barca durante una tempesta: sembrano gli schiavi di antica memoria.
Procediamo e raggiungiamo, dopo ripidissimi e impressionanti tornanti in salita, il passo Chok. Si apre qui una veduta eccezionale, con un primo arco di monti di fango secco, senza alberi, del colore del deserto.
Arriviamo ad una radura, dove alcuni pastori a cavallo allevano pecore, e lì sistemiamo le nostre tende per il primo campo base. Ricordo che, mentre ci apprestavamo a mangiare la nostra cena, quattro ragazzi pastori si sono seduti in fila poco lontano da noi e ci osservavano, sbalorditi di vederci e di vivere quella situazione, per loro assolutamente unica, quasi fossero atterrate delle creature aliene. Ci siamo avvicinati e ci siamo seduti come loro, ai due lati, nel tentativo di comunicare. Li abbiamo divertiti, ma non siamo riusciti a farci capire.
Il giorno dopo ripartiamo e attraversiamo un sorprendente paesaggio con colline e rocce di colore rosso vivo e ruscelli di acqua rosa. Man mano che saliamo di quota il paesaggio cambia e si aprono enormi valli di terra semidesertica con grandi montagne di fango e piccole rocce, spesso lucide e nerissime. Vediamo anche qualche asinello selvatico e un gruppo di cammelli. Ogni tanto compaiono delle timide gazzelle tibetane e si intravedono dei roditori, simili a criceti, con delle particolari orecchie rotonde. Una terra primordiale, estrema, ma affascinante nella sua grande desolazione. In serata arriviamo al secondo campo base, circa 4.200 metri di altitudine. Si apre qui una valle incredibile dove lagune salate dipingono di bianco, con strane, enormi macchie, l’altopiano. Il tramonto è vicino e saliamo veloci sulla cima di un piccolo colle per osservare dall’alto lo spettacolo…È una visione eccezionale, sembra di essere entrati in un altro pianeta o di essere atterrati sulla luna. Scattiamo molte foto e io penso che ciò che sto vedendo già vale il faticoso viaggio. Avverto fortissimo in questo luogo il senso dell’infinito.
Il gruppo sta bene, a parte qualche lieve emicrania da parte di alcuni.
Ripartiamo l’indomani di buon’ora e, dopo aver attraversato un passo di oltre 5.000 metri, arriviamo al terzo campo base, a quota 4.850.
Qui si verificano i primi problemi. La maggior parte del gruppo, compresi quasi tutti i nostri compagni cinesi, avvertono i classici malesseri dovuti all’altitudine: forti emicranie, vomito, dolori di stomaco. Io ho solo un leggero mal di testa che ben presto mi passa.
All’una di notte il mio amico ha dei violentissimi conati di vomito, sta male e lo assisto fino alla mattina, quando sembra riprendersi un po’. Non è certo l’unico a stare male, ma lui sembra essere il più grave.
La mattina si decide di non continuare, ma di rimanere lì un altro giorno per acclimatarci. Alcuni durante il giorno migliorano e tra questi anche il mio amico, ma la notte egli ha di nuovo delle violente crisi, dolori allo stomaco e indurimento dell’addome.
Il giorno dopo, considerando che sono ancora parecchi coloro che non stanno bene e il mio amico si è aggravato, si decide di ridiscendere al secondo campo base, presso le bellissime lagune salate. Il viaggio è molto doloroso per lui. Ogni sobbalzo della jeep è una fitta di dolore. Arriviamo in tarda serata e, vista la situazione, decidiamo che il giorno dopo scenderemo per raggiungere Quemo permettendo così al nostro amico un ricovero e un controllo ospedaliero.
La notte passa relativamente tranquilla anche se è molto debole: è già qualche giorno che non mangia praticamente nulla. Piove anche un po’, cosa anomala per quelle regioni.
Partiamo alle sette della mattina del giorno 10 agosto. Siamo il mio amico ed io, i due autisti Ying e Chao, e l’interprete cinese Ma con cui comunico in inglese. Stando ai nostri programmi, dovremmo arrivare a Quemo nella tarda serata. Siamo tutti ignari che sta per iniziare la nostra tragica odissea.
Già dopo pochi minuti ho la sensazione di vedere cose nuove, non le stesse che ho visto durante il viaggio di andata, ma penso che forse è solo una mia impressione dovuta alla stanchezza. Dopo circa quattro ore un fiume interrompe bruscamente la traccia che stiamo seguendo. Usciamo dalla jeep sorpresi e ci rendiamo subito conto che non è guadabile perché l’acqua è alta più di un metro e il fiume è largo una ventina di metri. Controllo con la mia bussola elettronica la direzione e mi accorgo che conduce a sud e non a nord dove noi dobbiamo andare. Faccio presente la cosa ai miei amici cinesi i quali però mi dicono che forse la traccia, oltre un certo monte che si vede, svolta e si dirige nel giusto verso. Pensano che il fiume sia nato durante la notte a causa delle piogge.
L’acqua potabile che avevamo è intanto terminata e si decide così l’unica cosa sensata da fare: bisogna tornare al secondo campo base e fare una scorta d’acqua, controllare eventuali deviazioni nella traccia che non abbiamo visto e poi decidere il da farsi.
Arriviamo così alle lagune salate dove c’è una piccola vena di acqua bevibile, anche se dal gusto terribile. L’interprete Ma mi dice di chiedere al mio amico se se la sente di continuare e lui acconsente. Poiché non si sono visti bivi, i cinesi ritengono infatti che il percorso giusto conduca proprio dove eravamo la mattina e quel fiume è sicuramente la conseguenza delle piogge della notte precedente.
Dopo altre quattro ore siamo di nuovo lì. E’ sera, sistemiamo la tenda, convinti che durante la notte il livello dell’acqua scenderà permettendoci così di guadare il fiume e proseguire il viaggio. Accudisco il malato, che è molto debole, e trascorro l’ennesima notte insonne.
La mattina presto sento il rumore di un motore provenire dall’altra parte del fiume. Corro a vedere: c’è una grossa jeep, dalle grandi ruote, che sta attraversando con difficoltà il fiume. Chiamo i cinesi e blocco la vettura. Ci sono alcuni uomini Uiguri, forse cercatori d’oro in incognito. Uno di loro approfitta della pausa per distendersi e pregare, secondo i modi della religione islamica. Gli altri parlano con i miei amici cinesi. Dopo un po’ Ma si avvicina e mi dice “Avevi ragione tu, questa pista conduce a sud, verso il Tibet; queste persone ci hanno spiegato dove passare evitando di tornare al secondo campo base, tagliando per un certo passo”.
Ripartiamo subito e prendiamo il percorso indicato. La strada sembra non avere più fine, ci inoltriamo in valli sconosciute con tracce quasi inesistenti. Il mio povero amico sta sempre più male. Io lo illudo che la strada è quella giusta, ma in realtà mi convinco che ci siamo persi e lì, penso, non ci troverà nessuno per giorni o settimane. Intanto il tempo cambia e fa sempre più freddo, inizia a piovere e non riusciamo a scendere sotto i 4.500 metri di altitudine. La benzina finisce e Ying utilizza le due taniche di carburante che prudentemente si è portato dietro come riserva.
Nevica.
Durante il pomeriggio vedo in lontananza due camioncini stracolmi di cercatori d’oro e ritorna in me la speranza. Urlo al mio amico che ormai è fatta e corriamo con la jeep verso di loro.
Questi cercatori d’oro sono persone molto rudi e un po’ primitive, di un’antica etnia tibetana. Per questa ragione Ma mi dice che non devo assolutamente scendere dalla macchina e ci chiudono dentro. Non so se per eccesso di prudenza, ma mi spiegano che questi uomini possono essere pericolosi per la vita di tutti noi. Sta di fatto che attorniano la macchina e ci guardano sorpresi dai vetri scuri con sguardi divertiti, mentre Ma e gli altri chiedono informazioni sulla strada e acquistano del carburante. Sono imbarazzato e ho un po’ di paura quando qualcuno tenta di aprire le portiere che sono fortunatamente chiuse.
Comunque ci indicano che oltre il passo c’è una traccia che scende e si unisce a un certo punto con la pista che abbiamo seguito durante la salita.
Quemo sembra ormai essere vicina. Rincuoro il mio amico e gli dico di resistere perché è solo questione di poche ore.
La strada è pessima perché in realtà è il letto di un fiume pieno di sassi. Ogni sobbalzo è una pugnalata per lui e lo sento sempre più debole. Mi accorgo che ha dei momenti di perdita della coscienza. Allora comincio a parlargli in continuazione, raccontandogli qualunque cosa e pretendo che lui mi segua e mi risponda stringendomi la mano una o più volte in un linguaggio muto che invento in quel momento. Lo sento pregare e un dolore fortissimo all’addome lo fa urlare che è finita e con la mano ci saluta. Poco dopo sviene. Aiutato dagli amici cinesi tento di farlo riprendere con degli schiaffi, gli grido di respirare, e inizio a praticargli il massaggio cardiaco. Non voglio accettare l’idea che sia già morto e continuo così per circa un quarto d’ora. Non mi sento più le braccia dalla fatica e Ying mi prende una mano e me la pone sul mio polso. Sento il mio cuore che batte rapidamente. Dopo la toglie e la mette sul polso del mio amico, freddo e immobile. Mi allontano dalla macchina e mi accascio piangendo disperato per terra, sentendomi mancare. Ying mi abbraccia e dopo cinque minuti ripartiamo.
Ho il suo corpo al mio fianco.
Finalmente riconosco la vecchia strada e purtroppo inizia di nuovo a piovere. La macchina si ferma per un guasto, ma Ying riesce a ripararla in pochi minuti. Incredibile Ying. Intanto il livello del fango sulla pista cresce sempre più e diventa difficile proseguire perché la jeep si impantana e bisogna creare dei binari con delle pietre. Stiamo salendo verso il passo Chok ed è ormai notte. Ogni cinquanta metri ci fermiamo per ripristinare la pista che è tagliata di netto da rivoli d’acqua sempre più violenti e profondi.
La pioggia aumenta.
Superiamo finalmente il passo, ma mi viene male all’idea di percorrere in quelle condizioni i ripidissimi tornanti ormai divenuti un torrente di acqua e fango. Incrociamo un camioncino di cercatori d’oro bloccato e impantanato nel senso opposto che ci impedisce di proseguire perché la strada è troppo stretta.
Ying ferma la macchina proprio sull’orlo di un precipizio, tornare indietro non è infatti possibile e la jeep slitta. Non rimane che aspettare la mattina sperando che nel frattempo la pioggia cessi. Mi accorgo che a fianco di noi c’è un’alta parete verticale di fango con pietre che sembrano attaccate con la colla. Dico a Ma che è quasi certo che, se continuerà a piovere, si staccherà qualcosa oppure una colata di fango ci travolgerà trascinandoci nel baratro. Mi rispondono che potrebbe capitare, ma non c’è altra scelta. Siamo tesi e leggo la disperazione sul volto dei miei amici.
Piove tutta la notte, una notte spaventosa, con il cadavere del mio amico sul fianco. La mattina la pioggia cessa. Siamo vivi, un angelo ci ha protetti.
I cinesi aiutano i cercatori d’oro a far partire il loro mezzo e, dopo vari tentativi, ci riescono. In una specie di slargo, con una manovra azzardata, Ying riesce a passare e possiamo proseguire.
Finalmente il sole. L’ho desiderato e scendo dalla macchina per godere del suo calore.
La strada è tutta rovinata e dobbiamo fermarci spesso per ripristinarla. Ci blocchiamo davanti a un fiume nato dalle piogge e c’è anche un camioncino di cercatori d’oro che aspetta che il livello dell’acqua scenda per proseguire. E’ mezzogiorno e fa molto caldo, il sole è ora fortissimo. Io sono chiuso dentro la macchina e non posso uscire per la sicurezza di tutti. Passo così più di tre ore e spesso sento mancarmi il respiro. Mi sembra di vivere un incubo e cerco di convincermi che quella non può essere una situazione reale.
Ripartiamo alle ore 16, quando il livello dell’acqua è sceso.
In serata arriviamo finalmente a Quemo. Chao abita qua e torna a casa stremato: non lo vedrò più.
Io adesso ho tre priorità: andare subito all’ospedale per sistemare la salma nell’obitorio e conservarla, telefonare ai suoi familiari per informarli dell’accaduto e contattare Urumqi, il capoluogo della regione, affinché avvisino con un ponte radio i nostri compagni rimasti in montagna che siamo arrivati, visto che saremmo dovuti arrivare teoricamente la sera di due giorni prima e forse sono già partiti alla nostra ricerca.
Mi dicono che le linee telefoniche sono guaste, tutto è bloccato e l’intera zona è isolata a causa dell’alluvione. Parlo con il responsabile dell’ospedale. Mi dice che non hanno il posto per conservare un corpo. Pretendo di parlare con la polizia. Vengo subito portato in un hotel e lì mi siedo con il capo della polizia, il sindaco della città, il responsabile turistico, un quarto individuo non identificato, probabilmente un potente politico di passaggio, e il mio amico Ma.
Si conviene che l’unica possibilità sia quella di trasportare il corpo nella città di Korla, distante circa quindici ore di macchina, dove esiste un’attrezzatura idonea per la conservazione delle salme. Se ne occuperanno due autisti dell’ospedale con un pulmino della croce rossa, ma è necessario avvolgere il corpo nel ghiaccio perché fa molto caldo e dovranno attraversare il deserto.
In una fabbrica di conservazione degli alimenti il responsabile turistico prende almeno un quintale di ghiaccio. Lui, io, Ying e Ma procediamo nel penoso compito di costruire un sacco in cui inseriamo il corpo del mio amico e poi lo riempiamo di ghiaccio. Nessun altro ci aiuta. Ying è di grande aiuto e coordina il terribile lavoro. Incredibile Ying.
All’una di notte il mezzo parte. Solo dopo io, Ying e Ma andiamo a mangiare e poi a dormire qualche ora per poi partire per Korla la mattina. Sono cinque o sei giorni che non dormo, mi corico sul letto e crollo in un sonno pesante.
Partiamo alle dieci. Sono ansioso di controllare che il trasporto della salma sia stato regolare. Ci dirigiamo verso Minfeng lungo la strada sterrata. Da lì una nuova strada asfaltata attraversa tutto il deserto del Takla Makan e arriva a Korla.
Dopo pochi chilometri buchiamo la ruota, ma in pochi minuti Ying la sostituisce con quella di scorta. Dopo altri venti chilometri ne buchiamo un’altra e la ruota di scorta non c’è più. Non rimane che aspettare che passi qualcuno perché non abbiamo il kit per riparare le camere d’aria.
Passa il primo mezzo dopo quattro ore trascorse sotto un sole di circa 45 gradi. Ha il kit. Ying in un’ora ripara la ruota e possiamo ripartire. Dopo due ore buchiamo un’altra ruota.
E’ notte ormai.
Mi distendo nella sabbia del deserto e guardo l’incredibile cielo stellato. Mi dico che ciò che sto vivendo non può essere vero: io sono sempre stato una persona estremamente fortunata, cosa mi sta accadendo ora? Leggo di nuovo la disperazione negli occhi dei miei due amici cinesi e anche Ying ha gli occhi umidi.
Vengo distratto dalla fioca luce di fari che si intravedono in lontananza. Il camion arriva dopo due o tre ore. Ha il kit e dopo un’ora riusciamo a ripartire. Dopo pochi chilometri Ying si sente male, inizia a vomitare e non riesce a stare in piedi. Lo aiutiamo. Decidiamo di passare la notte in macchina e dormire.
Riusciamo a ripartire la mattina presto e dopo due ore siamo a Minfeng. Facciamo una veloce colazione, ripartiamo e attraversiamo senza intoppi il deserto. Arriviamo a Korla in nottata. Chiedo immediatamente di telefonare, ma mi dicono che tutto è bloccato e non è possibile: la città è isolata. Mi accerto che la salma del mio amico sia al sicuro e mi confermano che il corpo è conservato in una cella frigorifera lì vicino. Andiamo a dormire.
La mattina voglio andare a controllare la salma; mentre sto parlando con Ma, entrano quattro amici che ci hanno raggiunto dal Kun Lun. Ci abbracciamo e racconto tutta l’incredibile avventura.
Poco dopo ci informano che le linee telefoniche sono state ripristinate. Mia madre mi informa che la notizia della morte è stata già diffusa nei telegiornali nazionali. Non riesco a capire come ciò sia potuto accadere e chi sia stato a comunicare la notizia. Solo più tardi capirò che aveva avuto successo l’appello lanciato dalla torre di controllo del minuscolo aeroporto di Quemo quando, non avendo ricevuto alcun segnale di risposta, pensavo che nessuno ci avesse ascoltato. Nei giorni successivi ci occupiamo delle numerose pratiche burocratiche necessarie per il rimpatrio. Dobbiamo effettuare l’autopsia sulla salma: il mio amico è morto di peritonite. Il giorno dopo ne cremiamo il corpo e noi stessi raccogliamo le ceneri in un’urna.
Bisogna ora trasportare l’urna con le ceneri fino a Pechino per le pratiche da effettuarsi presso l’ambasciata italiana. Me ne occuperò io.
Dal piccolo aeroporto di Korla parte un aereo per Pechino il sabato. Andiamo la mattina e siccome non ci fidiamo molto degli aerei cinesi, riteniamo opportuno trasportare l’urna come bagaglio a mano, in modo da averla sempre sott’occhio. Sto per passare i controlli a raggi x del bagaglio a mano. Una guardia mi blocca e mi chiede in cinese che cosa c’è in quella scatola di cartone. Non so cosa rispondere e vedo in lontananza Ma che si fa strada tra le guardie che tentano di bloccarlo e dice qualcosa al mio interlocutore, non so cosa, e questo mi lascia andare.
In serata sono a Pechino. Mentre aspetto i bagagli mi peso: sono 62 chili e mi accorgo così di avere perso sette chili. Eppure nei giorni a Korla avevo mangiato parecchio…
E’ il 22 agosto, sabato. Il lunedì successivo vado in ambasciata e iniziamo subito le pratiche. Il mercoledì è tutto a posto e giovedì parto da Pechino per Milano dove arrivo nel primo pomeriggio, ora italiana.
Insieme all’addetto delle pompe funebri, che ci deve portare a Sanremo e che incontro subito nel luogo convenuto, andiamo all’ufficio apposito per ritirare e sdoganare l’urna, ma ci dicono che per un disguido ha proseguito il volo e sta andando a Roma.
Sto per impazzire.
Dico che l’indomani, 28 agosto, ci sarà il funerale e quella sera la moglie ci sta aspettando. C’è una soluzione. Andiamo all’aeroporto di Genova dove alle ore 21 arriva l’urna e dopo dieci minuti partiamo per Sanremo.
Arriviamo alle ore 22,30 e in piazza San Siro, davanti al Battistero, vedo tantissima gente che sta aspettando. Riconosco tanti amici. Forse si impressionano per il mio aspetto stanco e smagrito. Prendo l’urna e la porto in chiesa. La gente ci circonda commossa nel silenzio. Preghiamo.
Dopo mi dirigo verso la mia casa. Entro e stringo forte Tibetina, la mia dolcissima, piccola gatta di quattro mesi che mi riconosce e mi fa tante feste. Subito dopo vado a casa dei miei genitori, poco distante. Li abbraccio, loro sono in gran parte ignari di ciò che mi è successo e gli accenno solo alcune cose. Anche loro hanno sofferto molto.
Torno nella mia casa e mi metto a letto. Crollo, sono stanchissimo.
E’ finalmente finita. Domani ci sarà il funerale.
Penso che la vita, in fondo, è solo un sogno, forse un’illusione e ci poniamo troppi, inutili problemi. Eppure è bellissima e ho una grande gioia al pensiero di rivedere prestissimo la gente che amo e tornare a fare le cose che amo.
Ora devo cercare di dormire un po’, ma non ci riesco. Però chiudere gli occhi mi fa stare male.
Capisco in un attimo che non sarà facile per me adesso continuare, non sono più quello di prima. Avverto un forte desiderio di spontaneità e sincerità. Sono stato ai confini del mondo, della vita e della morte e questo mi rende per certi aspetti molto forte.
Sì, ora sono più libero e penso anche di essere stato molto fortunato e sono convinto che deve certo esserci un senso in tutto ciò che ci è successo.
La nostra breve esistenza è solo un istante dell’eternità eppure, così come è importante la dignità anche di un piccolo fiore, che dipinge con i suoi colori un prato o un bosco, penso ora che il destino di un uomo debba essere sempre da tutti profondamente rispettato perché ognuno ha il diritto di inseguire il suo sogno, ogni sogno poi sostituisce il precedente e lo trasforma in un ricordo, ed è sciocco, inutile, cercare di trattenerlo e di farlo restare in questo misterioso attimo, così difficile e meraviglioso, che chiamiamo vita.
Dario