Koh Samui, l’isola verde

Negli ultimi decenni il vento impetuoso della modernità ha imperversato sulla Tailandia, spazzando via le antiche tradizioni e seminando ovunque i banali escrementi della modernità: plastica, cemento, lampadine colorate e mattonelle da bagno di quarta categoria. Questa tormenta ha soffiato anche su Koh Samui ma con un po' di ritardo, così che...
Scritto da: lorecoll
koh samui, l'isola verde
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
Negli ultimi decenni il vento impetuoso della modernità ha imperversato sulla Tailandia, spazzando via le antiche tradizioni e seminando ovunque i banali escrementi della modernità: plastica, cemento, lampadine colorate e mattonelle da bagno di quarta categoria. Questa tormenta ha soffiato anche su Koh Samui ma con un po’ di ritardo, così che l’isola si è riempita di alberghi e ristoranti senza però perdere del tutto il suo sontuoso manto forestale che in altre zone – per esempio a Pattaya – è stato, invece, quasi interamente sacrificato al dio del turismo. Il cemento ha in un certo qual modo risparmiato Samui, un’isola grande all’incirca quanto il grande raccordo anulare di Roma, il cui interno è pieno di montagne e giungle anche inesplorate (“paa” in tailandese) e le cui sponde sono piene di resort, per lo più mimetizzati nelle belle piantagioni di cocco una volta utilizzate per i frutti.

Samui, nonostante il casino incessante dei turisti che la scuote tutto l’anno come un brivido caldo, è rimasta un’isola verde, con tanti piccoli sprazzi delle antiche abitudini di un volta, buone o cattive che fossero… ad esempio la seguente.

Una mattina, lungo la strada di Boh Put, vidi un vecchietto che confabulava con tre-quattro casalinghe tailandesi tirando fuori da una cesta certe grosse e repellenti teste di pesce con attaccati pezzi sanguinolenti di interiora, e dopo una lunga trattativa fatta di gorgheggi bruschi e musicali una donnina indicò quella più grossa: ed il vecchietto, buttato un pezzo di plastica ed un rozzo tagliere di legno nel bel mezzo della strada polverosa, attaccò a tutto a birra a spaccare la testa in due con una specie di machete, schizzando dappertutto lische, gocce di sangue e pezzetti d’ossa, incurante di centrare i passanti o la merce esposta nei vicini negozi. E mentre il mio pur robusto stomaco si ribellava mi domandavo: che diavolo ci dovranno mai fare con quel pezzo di roba che io butterei a malapena al gatto? Probabilmente una zuppa: con la speranza che il bollore dell’acqua e l’abbondanza del peperoncino suppliscano alla totale assenza di norme igieniche… Anche e soprattutto questa è la Tailandia, dove la noncuranza è di casa. Dove le impalcature per costruire le case sono sgangherate canne di bambù legate con un filo, dove gli impianti elettrici hanno la robustezza delle ragnatele o dove i polli spennati vengono caricati a palate sui pick-up e trasportati in giro senza manco un telone per coprirli. E, almeno dal punto di vista della noncuranza, Koh Samui è la quintessenza della Tailandia! Non a caso una delle frasi che si sente più in giro nell’isola suona qualcosa come “Mai bi lai”, che vuol dire: nessun problema, non ti preoccupare, che ci vuoi fare, tira a campà, fregatene, insciallah, o giù di lì. Ti lamenti alla reception perché al cesso è finita la carta igienica nonostante ne richiedessi da due giorni una nuova scorta (carta che, invece, i ristoranti offrono in abbondanza al posto delle salviette, riposta in graziose gabbiette di paglia)? Ti arrabbi perché il taxi ti molla a mezza strada nel nulla dopo averti assicurato che ti avrebbe portato a destinazione? Ti incacchi perché durante il pranzo un cane ha rosicchiato sotto il tavolo le cinghie del tuo zaino rendendolo quasi inservibile? Ti stranisci perché le strade di Chaweng sono piene di traffico impazzito, un cantiere perenne tra buche, sassi e fogne sfondate? Tutto quello che otterrai in risposta alle tue eventuali proteste è un sorriso ed un candido “Mai bi lai”. E forse il bello di Samui è proprio questo: quell’aria di provvisorietà, di eterna festa che regna anche tra i tailandesi e non solo tra gli scanzonati turisti. Quello scuotere le spalle di fronte ai problemi ed andare avanti sorridendo, che è molto lontano dalla mentalità di molti occidentali ma che in certe occasioni – a saperlo prendere nel verso giusto – è un vero e proprio balsamo per l’animo. “Mai bi lai”, in finale, vuol dire pure essere liberi, girare per giorni con addosso pareo e ciabatte senza che nessuno ti rompa l’anima, al solo patto di rispettare un minimo di creanza locale.

Ricordo quando atterrammo a Samui: la pista era un lungo graffio nella giungla e l’aeroporto piccolo ma grazioso, con un trenino kitsch dipinto, tipo Rimini, che raccoglieva i turisti scesi dall’aereo e li portava al terminal, composto da baracche dal tetto di paglia ma provviste di aria condizionata. Era il gennaio 1999 e noi eravamo in sette: oltre a me e mio marito Franco c’erano cinque amici di Torino, due dei quali conosciuti a Bali, e con i quali – nonostante quanto solitamente capita con le conoscenze di viaggio – siamo sempre rimasti in stretto contatto, telefonandoci e vedendoci ogni tanto. Giacomo, assiduo frequentatore dell’isola anche in quanto istruttore di sub nel tempo libero, aveva organizzato per tutti il viaggio, che si rivelò una sorta di avventura fai-da-te molto economica, divertente e ben riuscita. Ce la godemmo proprio nell’ottica di Samui: tanta natura di giorno, tanto casino la sera, tirando a star bene e divertirsi senza grossi pensieri.

All’aeroporto ci accolsero Nello, simpaticissimo ligure strabico e fuori di testa che aveva piantato tutto e si era stabilito lì da quattro anni insieme alla sua ragazza tailandese Pen, ed Enrico, un italo-svizzero ribelle stile Iron-Maiden, che spostava le sue gambe paralizzate su una carrozzella col massimo dell’indifferenza, in un’eterna festa trasgressiva al grido di “Why not?”. Noi eravamo intontiti dal lungo viaggio ed anche per il brusco scambio di stagione: e Nello ci accolse con uno spontaneo “Benvenuti a casa” che noi, anche dopo tre anni, abbiamo ancora nel cuore. Trovammo l’isola bellissima nonostante tutto e ci accomodammo in uno dei tanti resort di Boh Put, spiaggia graziosa, tranquilla e dai prezzi molto abbordabili: in tre settimane la girammo praticamente tutta, grazie ad un motorino affittato per poche migliaia di lire al giorno, dai fari scassati che funzionavano solo di giorno e dai freni così inaffidabili che una notte, ad una curva, ci fecero finire allegramente a capofitto nella giungla. I tailandesi in generale ed gli abitanti di Samui in particolare sono un branco di allegri ed incoscienti casinisti: ed i tanti automezzi che, di mattina presto, si ritrovano infilati nei negozietti che circondano la strada principale non fanno che confermare questa impressione. Infatti la notte turisti e tailandesi ci danno dentro col bere ed i divertimenti vari, e spesso capita che qualche pick-up – solitamente stracarico di gente – vada fuori strada e becchi in pieno una delle tante baracchette adibite a negozio. Una volta ci trovammo perfino una macchina della polizia… Gli abitanti di Samui, persone pratiche, hanno capito subito che col turismo si facevano più soldi e ci si divertiva di più che non a spezzarsi la schiena a pescare: pertanto si sono trasformati quasi tutti in negozianti, autisti, camerieri e traffichini vari, tanto che l’isola ora importa quasi tutto da altre zone, perfino le rozze camicie di cotone vendute ad ogni bancarella vengono dal nord della Tailandia mentre le tele dipinte con pesci sfumati assomigliano stranamente allo stile di Pukhet. I “samuesi” sono gentili e disponibili, sorridono spesso, danno pacche sulle spalle (ma mai sulla testa), e spesso dimostrano il loro interesse chiedendo alla gente, in un inglese improbabile “Where you go” o in tailandese “Bai pi naai” (dove vai?): però nell’insieme danno l’idea di considerare i “falang” – vago termine dispregiativo che sta ad indicare gli occidentali che hanno il “naso lungo” – poco più che polli da spennare a forza di mance e fregature e probabilmente avranno pure ragione, visti i guai che noi occidentali, nella nostra arrogante superficialità, abbiamo seminato in giro per il mondo. Ad ogni modo a Samui appena si girano gli occhi il “pacco” è in agguato: dall’acqua di rubinetto spacciata per minerale al biglietto del taxi collettivo venduto a 100 bath anziché agli ordinari 20 così come previsto dalle leggi locali (ma esistono davvero?) al Rolex spudoratamente finto spacciato per vero, eccetera.. A mia sorella, andata giù l’anno scorso, hanno scippato il borsellino appena arrivata ed alla sua camera nel resort hanno cambiato la serratura difettosa con un’altra usata facendogliela però pagare per nuova. Una mia collega sintetizzava il tutto dicendo “Ti guardano come una banconota che cammina”. Mai bi lai … Eppure Samui merita veramente di essere visitata, ed i perché sono tanti. Ci sono cascate meravigliose (noi ne abbiamo viste almeno tre), seminascoste nel verde assoluto della giungla ed incorniciate da pietre grandissime e da nuvole di spruzzi. Ci sono tante stupe, tempietti e pagode di ogni genere, che colpiscono per la loro grazia e non sono solo punti di ritrovo turistici ma anche veri centri di studio e culto per i locali: in particolare segnalo il Big Buddha, una enorme statua all’aperto con la faccia un po’ tonta che si affaccia su una delle più belle e luminose baie dell’isola, nonché il tempio tra Lamai e Nathon che in una grande teca conserva il corpo di un monaco, imbalsamato nonostante l’umidità del clima. Ed ancora il giardino delle farfalle, che è un pittoresco giardino tropicale circondato da reti che celano al suo interno tante farfalle insieme a curiose collezioni di insetti: il “nonno” e la “nonna”, bizzarre formazioni geologiche naturali che si affacciano sulla costa rocciosa dopo Lamai e ricordano assai da vicino … gli organi genitali maschili e femminili… E poi elefanti e scimmie ammaestrate, fattorie di perle e coccodrilli, palme mutanti, giardini di statue, case in legno e quant’altro di strambo, bizzarro ed anche pacchiano possono creare la natura tropicale e l’uomo fantasioso messi assieme.

Ma la vera perla verde di Samui è il parco marino di Ang Thon. Comprammo l’escursione sulla spiaggia di Chaweng, la più affollata ma bella dell’isola, trattando con un simpatico venditore che girava tra i bagnanti con una specie di catalogo casareccio, e scoprimmo poi di essere quelli che la avevano pagato meno. Uno sgraziato traghetto, del tipo di quelli che fanno la spola per l’isola del Giglio, ci trascinò nel mare per un paio d’ore, e ci portò a vedere questo meraviglioso arcipelago di isole dalla bizzarra forma a W rovesciata sotto la guida di una biondissima ragazza romena (!!). E lì tutto era davvero verde ed ancora incontaminato, nonostante quel giorno ci fossero almeno altri sette barconi di turisti in visita: verde di palme le sponde, verde il mare, verde quasi pure l’aria, praticamente nessuna costruzione in muratura. Nell’isola sede del centro visitatori ricordo un grosso cartello che in inglese e tailandese esponeva, con dovizia di particolari, tutte le multe previste per ogni danno arrecato all’ambiente del parco: scoprimmo così che, in teoria, quasi tutto era vietato salvo fare il bagno e respirare. Vietato raccogliere foglie, fiori, coralli e persino conchiglie, vietato toccare praticamente ogni cosa, vietatissimo e addirittura punito con la galera il trasporto e l’uso di armi da fuoco. E speriamo che un cartello irto di divieti minacciosi sia sufficiente per preservare quasi intatto l’ambiente di quelle meravigliose isole… Dopo aver consumato a bordo del naviglio un colorato e piccantissimo pasto tailandese, composto di riso bianco, peperoni verdi, ananas giallo e seppie viola-fucsia con fette di cocomero rosso, che deliziò la nostra vista e ustionò irrimediabilmente buona parte delle nostre papille gustative, fummo portati nel top dell’arcipelago: un isoletta dalla forma simile ad un vulcano che al centro celava un lago verde smeraldo. Certo, c’era un po’ da arrampicarsi per una serie di ripide scale costruite per valicare l’orlo del cratere composto di scabre rocce chiare, ma lo spettacolo ripagava veramente di tutto: il laghetto che luccicava nel sole, sfiorato dalle fronde di migliaia di alberi, nel vento caldo che portava il canto degli uccelli ed il profumo dei fiori … a scriverlo sembra solo una cartolina tropicale “manierata”, ma era davvero così! Ci sarebbe da far notte a raccontare tutto quello che c’è da vedere a Samui e dintorni, e quindi per chi voglia saperne di più consiglio un’occhiata al sito www.Samui.Org, dove è possibile godersi alcune immagini dell’isola (anche in tempo reale), prenotare un albergo, informarsi su feste e ricorrenze, visitare l’arcipelago, eccetera. Vale forse la pena di ricordare che sull’isola abbondano anche i divertimenti chiassosi ed a basso prezzo: appena scende la notte Chaweng, in particolare, si popola di bancarelle, supermercati sfavillanti, motorini, musica assordante dalle discoteche e spettacoli di ogni genere, adatti a tutti i gusti e le tasche. Noi lo show più bizzarro ce lo godemmo al Crystal, una specie di bar dove si aggiravano fragili e leggiadre bellezze orientali, caratterizzate da occhio mandorlato, sorriso gentile … e voce da camionista! La sera alle undici un branco di travestiti (“cattoi” ) si esibiva in un garbato spettacolo, composto soprattutto da imitazioni di cantanti famose, con gags e scherzi finali e dove per pochi spiccioli ci si poteva scattare una foto con queste geishe angeliche dai bicipiti piuttosto ben disegnati .In effetti la prostituzione, sia femminile che maschile che “omo”, è assai praticata nell’isola e non sembra essere oggetto di particolare riprovazione dai tailandesi, che ci si dedicano con una certa allegria: insomma, sembrerebbe quasi un modo come un altro per spremere soldi ai soliti danarosi e stupidi occidentali (“falang tin-ton”), se non fosse che dietro a tutto questo ambaradàn sfavillante si cela lo spettro della povertà e quello mostruoso dell’AIDS, che dilaga silenzioso ma inesorabile anche a Samui … E visto che ho imboccato la strada dei divertimenti notturni, posso segnalare per gli eventuali amanti del genere la discoteca “Reggae Pub”, un grosso capannone in legno semiaperto e con due piani dove si celebra in musica ed effigie Bob Marley: la sera c’è un tale casino di gente che quasi non si riesce ad entrare, tutti affannati ed agitati per l’alcol e gli eccitanti di ogni tipo che vengono consumati a bagnarole. Ritengo, comunque che lo spettacolo più “sui generis” sia il “Full moon party” al quale non sono stata, una grande festival collettivo all’aperto che si consuma una volta al mese, quando c’è la luna piena, sulla vicina isola di Koh Phangan: dicono che lì la gente si scateni davvero alla grande, al ritmo di “sex, drug and rock & roll” e si rincoglionisca al punto che la mattina c’è spesso ci si ritrova ripulito di tutto, soldi, scarpe e memoria compresa. E tanto per far soldi c’è pure chi a Samui s’è inventato il “Black moon party”, chiaramente celebrato quando c’è la luna nuova. Ad ogni modo l’isola è piena di ogni sorta di spettacoli e merci consumistiche, quasi tutto costa molto poco ed è anche per questo che Samui è tanto frequentata dagli italiani. Da non perdere i massaggi – ovviamente quelli seri – un’oretta dei quali è in grado di rimettere in sesto il più arrugginito dei vegliardi, sbrogliare le articolazioni più ossidate e suscitare sensazioni celestiali, permettendo di toccare il cielo con un salto. Ma torniamo per un attimo a noi, che ci siamo goduti l’isola soprattutto dal punto di vista naturalistico, anche se non abbiamo disdegnato qualcuno dei divertimenti più turistici e di massa. In quattordici – otto italiani, quattro tailandesi e due svizzeri – abbiamo salutato Samui una sera con un party sulla spiaggia, realizzato a suon di pesce grigliato, birra, risate e musica tailandese sussurrata da un mangianastri con una cassetta dei Charrapao. Sulla lunga spiaggia frangiata di palme c’eravamo solo noi, fatta eccezione per una piroga di pescatori che tornava dal mare e da cui comprammo dei grossi granchi da arrostire alla brace. La notte cala presto a Samui ed il party, dopo ricche mangiate e bevute, si concluse con un “bagno di mezzanotte” fatto verso le nove (buio pesto) in cui ci godemmo il fenomeno della luminescenza del plancton, e dopo il quale sparammo in cielo un mazzo di fuochi di artificio comprati sulle bancarelle di Nathon, con il cuore pieno di sogni e desideri, tanti quanti i riverberi colorati che fiammeggiavano per un attimo sull’acqua.

Addio giornate spensierate a zonzo sul motorino, col sole che ci abbrustoliva fino all’osso mentre un’ingannevole brezza sembrava rinfrescare la pelle: addio gustosi pranzetti consumati nel ristorantino tailandese di Nathon da noi ribattezzato “la bettola”, dove si pranzava con duemila lire e tutto veniva cucinato in una sola padella di ferro mai lavata: addio pittoreschi mercatini di generi alimentari, tanto incredibilmente interessanti quanto sudici: addio serate pazze passate in giro per i locali, scorrazzando in branco sul pick up rosso di Nello, bevendo birra e Red Bull e dicendo stupidaggini in un misto di almeno tre lingue… Ogni tanto nei miei peggiori momenti di stress e di grigio mi torna in mente Samui, l’isola verde con un filo di follia in cui ho trascorso tre settimane spensierate: le onde di smeraldo, le spiagge bianche, le palme agitate pian piano dal vento, la frutta profumata. Il sorriso gentile ma interessato dei suoi abitanti sfoderato tra un “sawaddii” (buongiorno) ed un “krop khun kaa ” (grazie). Forse un giorno ci tornerò, con la speranza di ritrovarvi un po’ di quella magia che l’isola, nonostante tutto il chiasso che la scuote, sa ancora offrire.



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