Istanbul 8

Porta d'Europa, porta del tempo
Scritto da: Kingsize
istanbul 8
Partenza il: 26/08/2015
Ritorno il: 12/09/2015
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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Istanbul non esiste. A Istanbul il passato è presente, e il presente, questo istante, non ha il tempo di formarsi che è già passato, inutile e volatile come polvere su pietra che non lascia traccia. Istanbul è un buco nero che magneticamente, magicamente sublima il laico e lo spirituale, disintegrandoli in un’esplosione di proibizioni e di sensualità, di miseria nera e di colore, di imbrogli e di ospitalità squisita.

Nel cuore dell’impero gli ordini del sultano si leggono ancora nella struttura dell’harem, però la folla non è più quella, garbata e leggiadra, delle concubine, ma un’orda senza grazia di pantaloni corti e abiti discinti in cerca, nel gran caldo del pomeriggio, di echi troppo lontani, di tresche e di desideri che sono nati qui, sì, ma che solo una medium, a questo punto, potrebbe canalizzare. Nei mosaici bizantini gli angeli colle ali e colla spada son rimasti fedeli al mandato, ma la divinità che scortano è ora l’avversario, e i nuovi fedeli han cavato gli occhi ai profeti. Il paese del sultano, ombra dell’Altissimo e sovrano sugli imperatori, tende da tempo una mano all’occidente ma rimane con tutti e due i piedi in un limbo.

Istanbul non esiste. La realtà – se realtà si può definire il visibile – scivola nella storia e, spiazzati nel tempo, non si sa più dove si è: è questo un museo in fase di restauro, una moschea o una chiesa? E’ questa una città di quattordici milioni di abitanti o un assembramento di paesini, ciascuno col suo santo, coi ragazzi a giocare a palla nelle strade deserte e i vecchi seduti fuori la porta di casa a veder danzare le ore? Ma l’emulsione è stata lenta, e la maionese non è impazzita. Così per strada si vedono donne in tutti gli stadi di madonnizzazione: dal foulard in testa al soprabito fino ai piedi in piena estate, tutte colorate o in nero anche se non sono a lutto, capigliature e curve esibite o nascoste, in una glossolalia vestiaria generale e, soprattutto, in un’indifferenza completa.

E’ solo dopo una mezza dozzina di fermate di tram dalla ressa dei negozi di rivenditori di dolci per turisti che la città comincia ad allargarsi, a respirare, e compaiono piazze, benzinai, spazi verdi e architetture anonime. I palazzoni dell’università e gli alveari dell’edilizia popolare stanno ancora oltre – il necessario anello industriale di supporto al diamante dai cento raggi che brilla al centro. Dall’aeroporto bastano dieci minuti di metropolitana e altri trenta di tram per venire inghiottiti dalla voragine del tempo. Una lunga piazza, colla fontana del kaiser Guglielmo II da capo e il Museo della Repubblica ai piedi, marca il sito dell’Ippodromo, unica tradizione classica sopravvissuta ai cambiamenti che portarono allo spostamento della capitale dell’impero romano qui. Lungo la spina, come illustrato nel bel video di ricostruzione virtuale nella cisterna sotterranea del negozio di tappeti Nakkas, c’erano vasche d’acqua, obelischi, statue e monumenti, il più singolare dei quali era una fontana: l’acqua usciva dalle bocche di tre serpenti bronzei che formavano un’alta colonna tortile, ricordo della vittoria degli alleati greci contro i persiani nel V secolo a.C. L’obelisco – gemello di quello del Laterano a Roma – è nano probabilmente a causa d’un incidente durante il trasporto. L’iscrizione del basamento afferma che il governatore Procolo lo eresse con successo – il capo, naturalmente, fa tutto bene, sempre, e se i vivi sanno altrimenti, per i posteri basta un falso storico. Nei secoli, dall’era delle migrazioni dall’Asia centrale in cerca di terre fertili, dal tempo di Attila e delle sue feroci falangi, comandare era divenuta un’arte, e allo scopo di consolidare lo stretto legame tra capo e suddito, il visir selgiuchide Nizam-al-Mulk scrisse un testo di raccomandazioni diretto alle autorità, specificando la forma, il funzionamento e l’efficacia delle istituzioni governative, indicandone le debolezze e suggerendo le necessarie precauzioni. Quella selgiuchide, ben presentata in una mostra al Museo di Arte Turca e Islamica, fu solo una delle civiltà che si sono vaporizzate qui. Della grande reggia di Costantino I non restano che i mosaici pavimentali, vivide immagini di un’umanità infantile e brutale: l’asino che manda gambe all’aria il padrone, il bambino che gioca con la ruota, il pastore che tende al gregge, la scimmia che tenta con un palo di far cadere i datteri da una palma, i gladiatori che rintuzzano le belve sono irresistibili nella loro immediatezza e non fanno rimpiangere la più ingessata iconografia romana. Peccato per lo spazio angusto che è loro riservato e il bazar Arasta che quasi li nasconde, perché il lavoro di recupero, pulizia e restauro degli archeologi austriaci ci ha restituito dei mosaici incantevoli, che meriterebbero l’esposizione verticale e l’ampio respiro di cui godono quelli del Bardo a Tunisi. Per rendere necessario l’epocale spostamento di baricentro da Roma a Costantinopoli, il IV secolo deve aver portato rivolgimenti radicali all’assetto dell’Occidente, ma se queste erano le decorazioni, la qualità del complesso palatiale, nonostante il sopravvenire della decadenza, deve essere stata eccelsa. Il quarto lato dell’Ippodromo confina con la Moschea Blu, chiusa durante i tempi di preghiera ma invasa da orde di divertitissimi turisti obbligati a coprire le vergogne: gli uomini, le gambe pelose sotto una sottana, le donne tutto, eccetto il viso, dentro un camicione che le rende all’istante suore di clausura o predone del deserto. Ed ecco, bardati nella nuova, impresentabile foggia, si entra in una stampa orientalista d’epoca: le colonne hanno dimensioni ciclopiche e l’interno è talmente vasto che ci si sente Gulliver a Brobdingnag, il paese dei giganti. Nonostante le geometrie infinite e le iscrizioni che corrono tutt’attorno, però, manca un punto d’attrazione che dia un senso e giustifichi tanta iperbole. Le moschee presentano le medesime scene che Pieter Saenredam dipinse quattrocento anni fa nelle nostre chiese: lezioni, conversazioni e… distensione. Perfino nella zona riservata ai musulmani i bambini corrono senza alcun riguardo tra oranti in ginocchio e ozianti seduti. E, a proposito di bambini, noi che ne abbiamo pochi abbiamo dimenticato quanto insistente, incessante e irritante la loro richiesta di attenzioni sia. Quante grida, quanti pianti, quanti capricci prima della ragionevolezza!

Separata dalle incantevoli trine rosa d’un giardino di giovani mirti crespi fioriti e dalle terme di Haseki Hurrem recentemente restaurate, Aya Sofya pare la copia più malandata della Moschea Blu. In realtà il capolavoro di Isidoro di Mileto e di Antemio di Tralle costituisce il prototipo della maggioranza delle moschee di Istanbul. Per il 537 d.C. la dimensione e l’ambizione saranno state pari a quelle della nostra San Pietro, e di una esibizione di potere si tratta, considerandone la storia travagliata. Nel 404, i contrasti tra l’imperatrice e il patriarca sfociarono nell’incendio della prima chiesa. Teodosio II la ricostruì. Nel 532 la politica di Giustiniano I aveva esasperato i sudditi e quale migliore dimostrazione di malcontento che dare per la seconda volta Aya Sofya alle fiamme? Di nuovo, fu ricostruita. Verso il 1570 il grande Mimar Sinan, l’architetto per antonomasia di cui tutta Istanbul porta la firma, ne consolidò la mole considerando la sismicità del territorio. Convertita in moschea nel 1453 dai nuovi padroni, la valenza istituzionale dell’edificio rimane ancor oggi, prova ne sia l’annosa diatriba della destinazione a museo o al culto – come se a Istanbul mancassero le moschee di rione! Istanbul ha tante moschee come Roma ha chiese. Per ora, è museo. Estromesse dall’edificio, le dodici pecorelle del bassorilievo del Buon Pastore riposano sull’erbetta del giardino antistante. I mosaici monumentali e la dimensione dei due narteci, larghi quanto una strada, riducono da subito il visitatore a mero spettatore, imponendogli di far parte d’una folla. Qui l’individuo, infatti, sta alla società, all’identità collettiva fornita dalla religione, come una zampetta sta al millepiedi. Il verbo indiscusso verrà dispensato dall’al‑minbar, lo slanciato podio del predicatore, mentre l’impulso della fede salirà alla cupola, alta ed ampia, in una sublimità ineffabile. Nella galleria, dove avvennero incontri epocali, una deesis di emozionante compassione e due coppie di sovrani sono tra i mosaici più espressivi sopravvissuti ai terremoti e agli iconoclasti, aizzati nell’VIII secolo dall’imperatore Leone III. Ogni altra moschea, per quanto imponente, rilevante o antica, impallidisce all’appassionante racconto di queste pietre vetuste e ai vividi squarci di storia che s’incuneano durante la visita. Il tempo trattiene invece il fiato dentro ai cinque piccoli mausolei circolari, corollari sul lato meridionale, dove famiglie di sarcofagi, da enormi a piccoli, secondo importanza ed altezza, ospitano sultani e principi: a quel tempo, per garantire la pacifica successione del primogenito, era usanza strangolare gli altri figli maschi. Nella punta del promontorio Sarayburnu, la reggia di Topkapi conclude il trittico delle antichità imprescindibili. La moltitudine entra nel giardino, ignorando la coppia di guardie armate ai lati del grande arco, attraversa la Porta del Saluto e si perde nelle sale e negli spiazzi dell’enorme complesso, attenta alle guide che illustrano le tattiche architettoniche escogitate dai costruttori dell’harem per salvaguardare ordine, procedure e gerarchia. Sebbene fossero solo incidentali al motivo della loro presenza, le concubine studiavano danza, canto e comportamento signorile, quel bon ton che le avrebbe ingraziate al sovrano rendendo più piacevoli i rapporti interpersonali, e che sarebbe benvenuto anche nei nostri servizi pubblici. Dappertutto le infiorate delle preziose piastrelle di Smirne, iscrizioni, marmi, legni intagliati, vetrate colorate, dorature e, nell’ombrosa sala privata del sultano Murat III, due fontane. Il mobilio non s’usava a quel tempo, e i bassi divani di velluto rosso corrono spesso tutt’attorno alle sale. Un balconcino per le cene all’aperto e un’ampia vasca per rinfrescare l’estate erano i piaceri innocenti del padrone d’un impero con la pretesa dell’umiltà – questo, infatti, simbolizza l’orizzontalità di tutta la corte. Si guarda ma, di più, si immagina… E la sera, mentre i turisti, a fiotti, sgocciolano lungo i viali del giardino d’accesso, restano solo le fiammelle dei gerani rossi e i ghiaccioli dei gerani bianchi ad aiutar le sacre reliquie dei profeti a passare un’altra notte, quei tesori che a mezzogiorno una fila lunga un’ora voleva vedere: la tazza di Abramo, il turbante di Giuseppe, il bastone di Mosè, la spada di Davide, i papiri di Giovanni e l’orma marmorea che Maometto lasciò prima di ascendere al paradiso. Nelle notti d’agosto, al profumo dei fiori delle aiole, di quelli delle majoliche e di quelli scolpiti, sembra che l’autunno coi suoi languori si sia già seduto sulla balconata della palazzina Mecidiye, sopra il boschetto che chiude la penisola, gli occhi fissi sul Corno d’Oro, mentre le stelle, che hanno aspettato che il padrone del cielo girasse l’angolo, si riuniscono per specchiarsi nel Bosforo. Questo è davvero patrimonio dell’umanità, perché rende ben conto dell’ingegno e dell’intento felice dei sultani che qui, lontani dal passaggio, s’erano isolati per secoli osservando l’impero estendersi e fiorire.

Nell’Ottocento la Turchia era additata come il malato d’Europa, e i progressi fatti in Occidente cominciavano a rilevare più dei salamelecchi di cui l’Oriente si beava. Abdulmecid, cogliendo lo zeitgeist, decise di sperperare le risorse rimaste per la costruzione di una reggia moderna a Beşiktaş, con accesso da terra e da mare ed affacciata sull’importante direttrice che procede verso il Bosforo. Novanta chili l’oro per le dorature, pavimenti intarsiati di legni di vari colori, il lampadario più pesante d’Europa (450 kg), la scalinata di cristallo colle colonnine della balaustra in vetro inglese, bagni (alla turca, ovviamente) in alabastro scolpito ad altorilievo, tappeti, tendaggi, mobilio e tredici anni di lavori hanno creato un palazzo enorme vissuto dagli ultimi sei sultani e in cui morì il padre della patria, Atatürk. L’abolizione del commercio degli schiavi, la creazione di istituzioni e servizi sociali, civili e religiosi, il primo censimento, la carta d’identità, la costruzione di nuovi ponti e ferrovie sono novità di metà Ottocento, sollecitate dall’influenza socioculturale continentale che indusse cambiamenti radicali anche nella vita di corte. Pur non rinunciando all’harem – la varietà è il sale della vita, dopo tutto – la reggia di Dolmabahçe, completata nel 1856, rivela una virata decisa verso l’Europa, confermata, nel 1928, dall’abbandono degli svolazzi della scrittura araba in favore dell’alfabeto latino. L’Oriente cambiava anche nella considerazione dell’Occidente: nel 1867 Abdulaziz fu ospite delle dinastie reali europee attirando l’attenzione estatica della stampa, a differenza dei suoi predecessori che vedevano l’Europa solo come possibile conquista. Nelle innovazioni di quel periodo si colloca l’istituzione dei musei, conseguente alla presa di consapevolezza del popolo come attore della storia e fruitore dei beni comuni. Annunciata da una raccolta di colonne abbattute, di capitelli rovesciati e di steli illeggibili, la salita al Museo archeologico si lascia alle spalle l’incessante brulichio e i richiami del contingente e s’addentra nel silenzio di pietra del passato. Il museo era stato creato nel 1875 per dare riparo agli inusuali sarcofagi fenici antropoidi del IV secolo a.C. provenienti da Sidone e da Beirut ma, con l’accentramento dei reperti e l’aumentare delle collezioni, è divenuto un ineguagliabile campionario delle civiltà antiche, dagli assiri agli ittiti, dai fenici ai greci, dai romani ai bizantini. All’uscita, al termine d’una giornata tra i leoni di Babilonia, le poesie delle tavolette cuneiformi e le iscrizioni dei cippi e dei rilievi, pare d’essere stati resuscitati nell’epoca sbagliata, trovando, al posto del mondo commosso e arcaico degli dèi, dei re e dei guerrieri, i commerci triviali d’un’umanità plebea.

Ma basta allontanarsi dalla vetrina turistica di Sultanahmet e di Eminönü perché Istanbul diventi personale e perfino intima: papà a piedi nudi che giocano sul prato della moschea coi bambinetti, ragazzi che si allenano nel campetto di calcio, passaggi nascosti sul retro di piccole imprese casearie, vicoli definiti da case in legno che, a ben guardare, son tuguri, a due passi da altre simili restaurate dalla Sovrintendenza, amici e coppie sedute sotto gli alberi della sera a conversare, carretti di mele piazzati, surrealmente, in crocicchi deserti… Una città dove due sprovveduti turisti, stanchi e assetati, trovata una panchina libera, si son seduti a bere una birra, per esserne presto allontanati perché troppo vicini a una moschea, e che, il giorno appresso, ripassando per la stessa strada, han trovato la panchina sparita… Il profeta, che disapprova il consumo di alcool, può ancora contare su guardiani solertissimi. E su moschee tirate a specchio: quella della Piccola Santa Sofia incanta coppie di appassionati fotografi, attratti dai delicatissimi capitelli scolpiti a traforo, dal serafico tappeto celeste cielo e dal giardino frondoso che ospita artigiani in vena di chiacchiere. La fontana interna a pompa non funziona più, ma rivela come una moschea fosse non solo un luogo di culto ma il cuore d’un mini-universo dove fontana, scuola, biblioteca, ospedale, mensa per i poveri e ricovero per i pellegrini provvedevano ai bisogni dei fedeli: la vocazione alla carità è centrale nel Corano tanto quanto nel Vangelo. L’Islam è una delle poche religioni in cui il rapporto col divino non è mediato da simulacri con cui identificarsi che fungano da promotori della fede, e l’avversione alla rappresentazione di esseri viventi è motivata unicamente dal rispetto per il Creatore e per il suo ruolo. Del resto, si può comunicare in altri modi, come dimostra il nuovo Museo dei Tappeti, una imaret (mensa di madrassa, la scuola musulmana) splendidamente riconvertita per l’esposizione di preziosi arazzi antichi: le geometrie hanno infatti un linguaggio preciso e affascinante e, decifrandolo, si viene a sapere d’un augurio di matrimonio, di auspici di fortuna, di scongiuri contro il malocchio e di invocazioni di protezione divina. L’assenza di immagini promuove il contatto diretto colla divinità, che di per sé non ha forma, e la struttura delle moschee, tutte fedeli al medesimo stereotipo architettonico di una scalata di mezze calotte fino alla grande emisfera ellittica centrale, simbolizza la convergenza dell’assemblea, per la quale pietra ed acqua, elementi sacri, creano un luogo benedetto. Lo scroscio d’una cascata già rinfresca avvicinandosi al cortile di marmo chiaro della moschea di Solimano il Magnifico, che domina il panorama che si gode al tramonto dal ponte di Galata. La luce che filtra dalle vetrate bianche e colorate pervade il raccoglimento gioioso dell’interno, dove il color pesca del tappeto a celle individuali riprende quello degli archi a raggi bianchi e rosa arancio. E’ un tripudio di arte ed eleganza. All’esterno, accarezzate dagli aliti che salgono dal Corno d’Oro, si affollano steli tombali decorate da iscrizioni arabe o rose rococò, mentre il sultano riposa in un tempietto circondato da un colonnato, accanto a quello, simile al suo, dell’amore della sua vita, Roxelana, che lo aveva meravigliosamente ammaliato al punto che per lei scrisse poesie e per lei, per averla sempre accanto, ruppe tradizioni secolari. Una schiera di donne? Come dice la Canzone dei vecchi amanti, “Il fallait bien passer le temps”, ma anche un sultano, tra una spedizione bellica e l’altra, può venir travolto da una passione esclusiva. “Magnifico” Solimano fu chiamato per il periodo di splendore che seppe dare al suo regno, ma l’appellativo non tragga in inganno: come Lorenzo, il Magnifico di casa nostra, la fata della bellezza non si era presentata alla sua nascita. Nel 1529 arrivò tanto vicino a noi da assediare Vienna: è difficile immaginarlo, ma se avesse vinto, invece di pagar le tasse per il progresso del paese, a quest’ora staremmo finanziando gli intrattenimenti libertini di un nostro pascià autoctono.

Ai piedi della collina, e simile in grandiosità a quella di Solimano, la moschea Yeni (la “Nuova”) sembra sfidare la Torre di Galata al di là del canale. Una elegante sequenza di semi-cupole si incornicia nell’arco d’ingresso del cortile. Rivestito di sobrie ceramiche celesti e delicati dipinti geometrici e ingentilito da capitelli dorati, da finestre istoriate e da uno stupendo tappeto azzurro, l’interno regala una grande gratificazione agli amanti del bello. La sua è una nota discordante nel trambusto incessante di Eminönü, dove il traffico tramviario, pedonale e automobilistico fatica a incanalarsi sul ponte di Galata e l’andirivieni dei traghetti è talmente fitto che è un prodigio non si scontrino. Devono essere provetti i marinai, tanto quanto i conducenti dei mezzi che riescono a non strusciare vetture e furgoncini andando avanti e indietro per gli stretti vicoli che circondano il vicino bazar egiziano, quello delle spezie. Il bruno mattone della paprika, il color ambra del curry, il rosso scuro del sumac, l’arancione del tanduri, il grigio del garam, il marrone dell’anice stellato, il verde della menta, il viola del tè alle rose, il seppia del pepe, il rosa del pepe rosso, il verde tenero del cardamomo, e poi l’arancione delle albicocche secche, e i datteri, i fichi ripieni d’un gheriglio di noce, i lukumi dalle cento tonalità, i colori delle luci al neon, le nicchie illuminate a mille watt, agghindate e accecanti come una sposa, e tutto perfettamente presentato – non è estesa, la galleria coperta del bazar egiziano, ma l’impatto è incontenibile. Nelle stradine attorno, il mercato continua: si vende di tutto, dal mestolo di legno al frigorifero, dall’accappatoio ai pneumatici. E si mangia. In dieci metri si passa dall’impettita esposizione all’europea all’emporio di strada africano. E, a giudicare dalla quantità di rifiuti sui gradini sbreccati che non sanno cosa sia un detersivo, ci deve essere un servizio di nettezza urbana efficace o si verrebbe sommersi dall’immondizia nel giro di due giorni. Come dappertutto nell’ex-impero ottomano, i negozi tendono a far comunella tra loro: c’è la strada dei giocattoli, quella delle vernici, degli attrezzi, delle catene. Quella degli strumenti musicali porta, passato il ponte, alla Torre di Galata, un faro costruito dai genovesi nel 1308 per controllare il traffico. Da lassù, affacciata sulle sue acque, la città appare piatta, grandi spazi che fanno trasparire sogni ancora più grandi, sotto un cielo basso punto dagli steli acuti dei minareti. La nuova realtà del Corno d’Oro – ponti, atenei, moschee e, finalmente, alberi sul ciglio dell’acqua – non rivela d’esser nata nel segno della violenza, ma il monastero di Chora ne porta ancora le ferite. Si scende dal traghetto a Ayvansaray e ci si addentra nei vicoli, contorti dal tempo e bruciati dal sole, tra abitazioni silenziose e costruzioni coloniali in legno memori d’un passato migliore. La chiesa di Chora, ora Museo Kariye, è uno scrigno di affreschi e mosaici preziosi come quelli di Ravenna. La fece costruire, nel 1312, Teodoro Metochete che, in una delle rappresentazioni, con un ingombrante turbante e in una veste dalla curiosa fantasia a picche e fiori, la offre a Cristo, che non lo degna d’uno sguardo. La nitidezza del tratto, l’incisività dello stile, l’eleganza del disegno, la sensibilità al dettaglio pur nell’essenzialità dei quadri, l’armonia della paletta dei colori, il movimento e la spigliatezza delle figure e la completezza del progetto iconografico restituiscono accuratamente lo spirito del medioevo. Da ultimo, il fatto che riceva molti meno turisti di Aya Sofya, l’altro irrinunciabile capolavoro bizantino, permette calma ed agio, rendendo la visita un’esperienza archetipica che va oltre il tempo. Contemporanea è la minuscola cappella di Pammakaristos, ora Museo Fethiye, a cui sono rimasti, sopra i mattoni nudi dei muri e sotto la cupola e gli archi più stretti e inaccessibili, profeti in mosaici di grande finezza, ancora apprezzabili nonostante gli sfregi. Il quartiere si chiama Fener e, tra le moschee nate moschee e le chiese riadattate a moschee, si può trovare una cappella rimasta, per decreto di Maometto II, Santa Maria dei Mongoli. La chiesetta ortodossa, protetta dall’enorme monolito in mattoni rossi del Collegio Greco, ha l’aria sorniona di chi l’ha scampata bella ma – non si sa mai! – continua a nascondersi dietro un portone di ferro sormontato da un architrave sghimbescio. Basta suonare e il custode sospenderà l’amabile conversazione che intratteneva sotto i tralci della vite che ombreggia il cortile. La vite qui, come anche più a oriente, non è la mera produttrice di uva che è per noi, ma un’amica che protegge dal sole e una compagna che fa casa, senza contare che i dolmades, senza le sue foglie, non sarebbero stati inventati. Si entra dunque in questo piccolo tempio del kitsch: assieme al trono a baldacchino illuminato al neon, ai lampadari da salotto, ai candelabri da riffa, alle suppellettili da rigattiere e ai fiori di plastica, non può mancare l’icona di San Fanurio, il santo del perduto e ritrovato. Ci si può risparmiare il tunnel che da qui porta direttamente ad Aya Sofya: meglio andare a verificare se la vicina Santo Stefano dei Bulgari sia effettivamente stata tutta prefabbricata in ghisa. Purtroppo dall’impalcatura emerge solo l’immacolata torre campanaria: è in restauro e ci resterà per un bel po’. La chiesa patriarcale di San Giorgio è pure in questa zona, come la Moschea delle Rose, ma più interessanti sono i residenti di questa periferia tradizionalista e il loro abbigliamento che parla un dialetto musulmano stretto, assente altrove: con i pantaloni a sbuffo, la fascia in vita e il fez in testa, persino i bambini hanno l’aspetto di eleganti califfi in miniatura.

Che ritmo batte qui il metronomo del tempo? Non per tutti è regolare e lineare come per noi. Lo sanno le pendole delle moschee, che vedono ogni giorno le preghiere elevarsi ad un’ora diversa, dipendente dal sole. Lo sanno i bassi tavolinetti e gli sgabelli che offrono una pausa ai maturi lavoratori che, usciti dall’officina di falegname o dall’atelier di sarto, si scambiano sommesse confessioni sorseggiando da un bicchierino il tè, qui molto più popolare del caffè. Lo sanno i gatti, perennemente addormentati alla calura pomeridiana all’ombra d’una vite o di un fico cresciuti per strada. Le piante degli edifici, colle loro rientranze, tentativi di cortili, irregolarità e cambiamenti d’asse che da noi complicherebbero la vita, qui permettono scampoli di intimità. Gli abitanti di Istanbul (gli “istanbullu”) mantengono vive con piacere queste abitudini radicate, poco produttive ma molto cordiali, improvvisando angoli di vita di clan per strada, punti dove la città e il privato si agganciano, un po’ come gli edifici stessi, lasciati gli esibizionisti tra loro ad affacciarsi sulle grandi arterie, si raccolgono in stradine serpentine, instaurando misteriosi rapporti nella scenografia della città, in cui gli umani sono solo ignare comparse. O in cui gli umani, inconsapevolmente, hanno trasfuso la propria necessità di vicinanza, per amore o per convenienza. Nel Grand Bazar si possono trovare oasi di requie dal gran viavai negli han, piazzette un tempo usate dai caravanserragli per dare riparo agli animali nel cortile, a piano terra alle merci e al primo piano ai carovanieri. Nello slargo può esserci un albero a dar ombra ai tavolini del bar, scalette che portano al ristorante seminterrato o sovrastante, e nella gabbia un pappagallo che sa ripetere alla perfezione il fischietto del messaggio del telefonino. Gli han che danno su viale Istiklal, invisibili se non li si conosce, sono sorprendenti: mimetizzato da un accesso con banchi di bigiotteria, magliette e borse, Hazzopulo Passage è il ritrovo di tanta bella gioventù che beve birra e fuma il narghilè sotto un olivo, all’ombra delle tende, su un acciottolato levigato da secoli di passi. Il vicino Balik Pazar conferma il nome (balik=pesce) con pesci freschi o già sfrigolanti nelle padelle, mentre l’Avrupa Pasaji, un corridoio per gioielli, vasellame e vestiario, è il solo bazar al mondo dove nessun negoziante solleciti all’acquisto. Al Çiçek Pasaji, poi, si possono vincere, al ritmo di musica anni ’80, 5 trilyon lira al lotto.

Istiklal s’arrampica sulla collina di Beyoglu, il quartiere della sponda settentrionale del Corno d’Oro, su dei faticosi sanpietrini fino alla Torre di Galata, per arrivare, dopo aver acquistato ampiezza e addirittura un tram d’epoca rosso fiammante, al motore della città moderna, piazza Taksim, perennemente avvolta da un mulinello di gente e di piccioni. Qui le turiste scollate in hot pants neutralizzano i fazzoletti in testa e le palandrane delle musulmane, lasciando un violento vuoto di significato: la luce della libertà abbacina tanto da accecare. Tutte, però, sono intente a scattarsi un selfie con, sullo sfondo, il monumento alla repubblica realizzato dal nostro Pietro Canonica nel 1928. Le bandiere si tendono al venticello fresco che, la sera, fa dimenticare le fronti imperlate del mezzogiorno mentre, nell’enorme stendardo, Atatürk, farfallino bianco da direttore d’orchestra, sembra continuare a dare il tempo alla sua nazione. Qui gli appelli lancinanti dei muezzin non arrivano, o sono comunque sommersi dagli inviti dei camerieri che, in gilè ricamato e fez, rivangano il dondurma, il solidissimo gelato turco; dai richiami dei carretti – ce n’è uno ogni cinquanta metri – di pannocchie e caldarroste (in piena estate), dagli inviti dei gruppi rivoluzionari che chiedono una firma per una qualche causa, dallo scampanellio del tram rosso che combatte una battaglia perdente per aprirsi un varco nel fiume di gente che s’accalca a ogni ora del giorno, dalle musiche dei complessini folklorici più scalcinati che si siano sentiti: fisarmoniche, violini, kalimba, tamburi, acuti improvvisati sul testo di qualche remota maledizione che strappano un sorriso incuriosito perfino ai baristi, che di stranezze ne vedono passare. Addirittura può capitare di sentire delle campane: dietro tre archi gotici, sul sagrato della basilica di Sant’Antonio di Padova, Giovanni XXIII porge una colomba mentre l’iscrizione della statua rivela: “Amico del popolo turco”, e si trasale al sottinteso “O con noi o contro di noi”. I canti gregoriani all’interno della chiesa sembrano provenire da un universo sognato, e quella anglicana di Cristo, Memoriale di Crimea, è talmente fuori luogo da essere sprofondata per l’imbarazzo in una stradina malagevole. Incongruo, a giudicare dai tantissimi che ottemperano al tacito obbligo sociale di superare i 100 kg entro i 30 anni, è anche Salt, un centro culturale ultraraffinato con due sedi per esposizioni, installazioni, programmi culturali poliglotti, ascensori, aria condizionata, wi-fi, giardino pensile in cui leggere isolandosi dalla pazza folla sottostante e una vocazione dichiaratamente progressista in una società dove la democrazia è un concetto alquanto alieno – basti pensare che, tra i libri messi all’indice dopo il colpo di stato militare del 12 settembre 1980, figurava anche un libro per bambini. Ma oltre ai profili pesanti e alle pance prominenti degli istanbulli, occupati ad apparire molto maschili o molto seri, c’è dell’altro: in un’altra traversa si trova il Museo dell’Innocenza, l’originale casa-museo creata da Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, per accompagnare l’omonimo romanzo definito dai lettori “struggente”, “scandalosamente bello” e addirittura “assoluto”. La materialità bieca dello scantinato dove si lavorano lastre di alluminio, del negozio di tappeti dove arrivano tanti semilavorati da coprire tutta la Turchia, della fila di indigenti che attendono che la cucina della carità della Moschea Araba apra le porte è infatti solo il più basso dei livelli a cui Istanbul opera. Il peculiare interesse per la manifestazione dell’invisibile, di quel che è ancora allo stato potenziale, supera le meschinità di ogni giorno. Attraverso le forme e le trame che la vita tesse, qui si studia, si denuncia, si cerca di guarire e ci si impegna per la vitalità e il progresso delle tante comunità che coabitano queste sponde. Come accanto al vortice del ciclone c’è una zona perfettamente immobile, così, al lato di Istiklal, nel piccolo, affollatissimo cimitero del monastero Galata Mevlevi, dormono indisturbati i santi dei Sufi. Tra candidi marmi e all’ombra di alberelli quasi metafisici, la corrente mistica dell’Islam si definì e prosperò, forte della protezione dei sultani. Ora museo, nelle ordinate vetrine sono i copricapi, i bastoni da viandante e le suppellettili del convento, tutto scrupolosamente commentato. Questo è un altro piano caratteristico di Istanbul, uno che dà intense soddisfazioni agli estimatori d’arte, che possono fruire di mostre curatissime – dalla scelta dei soggetti alle audioguide – e di musei all’avanguardia, corredati da spiegazioni esaurienti, prodotto forse di una deliziosa deformazione mentale indotta dalla precisione puntuale delle onnipresenti geometrie degli intarsi e degli intagli. Il curioso Museo di Pera (l’antico nome di Beyoglu) e lo spazioso Museo d’Arte Contemporanea con la sua Biennale, internazionalissima tanto che vi abbiamo trovato degli aborigeni a presentare alla stampa le loro opere, sono esemplari. Ma merita attenzione anche il notevole Museo Navale, con i caicchi reali e i relitti di storie gloriose (l’epica vittoria di Çanakkale del 18 marzo 1914) o dolorose (il tifone che affondò la fregata Ertugrul il 16 settembre 1890), e lo sterminato Museo Militare, sicuramente il più completo del mondo del suo genere: due chilometrici piani di scimitarre ageminate, scudi di pelle o di carapace, archibugi, carabine e bellissimi quadri a olio che illustrano la conquista dell’Anatolia e le vittorie di Attila, di Barbarossa e dei loro discendenti, nazionalisti talmente fieri da annunciare, per bocca di Atatürk: “Felicità è poter dire: ‘Io sono turco’!”.

Una festa per gli occhi è la collezione di ceramiche e di vestiti ottomani di Sadberk Hanim e un appagamento per la mente è la nuova sezione archeologica del suo museo, una dimora signorile sulla riva europea del Bosforo. Non bada a spese nemmeno l’altro museo privato che affaccia sul canale, quello di Sakip Sabanci, dedicato alla calligrafia – qui indiscussa forma d’arte – e a sontuose mostre temporanee. Lungo la strada costiera si pesca, si costruiscono ville e si fa il bagno sotto lo sguardo impassibile dell’Asia, mentre maschi a torso nudo improvvisano dei déjeuner sur l’herbe e cabinati d’ogni forma e dimensione si cullano pigramente, aspettando l’occasione per prendere il largo. Magari per un’escursione alle Isole dei Principi, usate un tempo per estromettere presenze problematiche come monarchi bizantini e ottomani deposti o Carlo XII di Svezia, sconfitto da Pietro il Grande, o Leon Trotsky che, scrivendo la “Storia della rivoluzione russa”, s’intratteneva con finanzieri e pascià. Dal ponte di coperta del traghetto osservare la magistrale finezza delle picchiate e dei cambiamenti di direzione e di velocità dei gabbiani è affascinante più della vista dell’esercito di edifici che dalla sponda asiatica sorveglia questo sputo di Zeus finito nel Mar di Marmara. Nessun veicolo privato qui: tra le case in legno a due o tre piani, solo il discreto ronzio dei motori elettrici dei tricicli e delle biciclette e il clip-clop dei cavalli che portano i turisti a spasso in carrozzella tra boschetti, calette e pinete. A Buyukada s’arriva alla chiesetta di S. Giorgio, costruita accanto alla fonte alla quale ricorrevano le donne desiderose d’avere un figlio. Nella vetrina dell’icona miracolosa, i doni al santo sono orologi, alcuni ancora in funzione: forse un malcelato accenno all’urgenza della grazia. Si rientra in città senza ritardi: gli orari vengono rispettati, ma per i pescatori, allineati tutto il giorno lungo il ponte di Galata, l’unico istante che conti è quello in cui il pesce abbocca. Anche i muezzin iniziano quasi contemporaneamente le loro geremiadi, anche se, tutti i santi giorni sgocciolati dal rubinetto semichiuso del tempo, ognuno pare leggere una pagina diversa del libro sacro. Istanbul è una fontana: il tempo scorre, si arresta, riparte, e adesso si può pensare sia oggi ma si vede quel che si vedeva cento o mille anni fa. Ecco, quella è la stazione dove, due volte a settimana, nel 1883 arrivava l’Orient Express, ma ora se ne servono solo i pendolari. E i due colossali volti di gorgoni, a testa in giù sotto due colonne nell’enigmatica Cisterna della Basilica, provano che perfino l’antichità aveva un passato da riciclare, e se potessimo dipanarne la spirale, potremmo vederne le diverse facce. Onorificenze del ’14-’18? Il tredicesimo cranio di cristallo? Si trovano in quell’incubo architettonico che è il Grand Bazar, dove gli occidentali sondano quanto possano tirare sul prezzo e gli orientali indagano quanto sia citrullo il potenziale cliente.

A Istanbul tutto è possibile, tutto coesiste e tutto si contraddice. Le sue vie d’acqua la dividono in tre, ma è proprio questa geografia particolarissima ad averne determinato la fortuna. Cavalca due continenti senza identificarsi con alcuno, e in questo risiede il suo carisma. Sopravvissuta alla storia, questa città anticipa la pluralità a venire, quel villaggio globale in cui speriamo, dove regnerà la mutua tolleranza e la collaborazione tra le genti, al di là delle convinzioni religiose, culturali e politiche di ciascuno. Il rabbi di Edirne e Maometto il Conquistatore invitarono nel 1454 gli ebrei scacciati dalla Spagna assicurando che in Turchia c’era di tutto e sarebbero stati bene: “Qui ognuno può vivere in pace sotto la sua vigna e il suo albero di fico”. Centocinquantadue nomi ha Istanbul, uno per ogni età, uno per ogni popolo che l’ha desiderata, che l’ha fatta propria. Qui, estranea al tempo e allo spazio, si manifesta come in nessun altro luogo l’essenza per sempre misteriosa della vita, occultata dal caleidoscopio dei colori e delle forme ma rivelata dalla relatività degli assoluti umani. In “Fisica”, Aristotele distingue il tempo dai singoli istanti che chiama “il presente”. Gli specifici momenti – come gli atomi – sono indivisibili, unità compiute in sé: son come perle, e il tempo è la linea che li unisce, il filo della collana. “E’ stato il momento più bello della mia vita, sebbene non lo sapessi”, si legge nel Museo dell’Innocenza. Nella vivacità di toni di questo elettrizzante sovrapporsi di civiltà, etnie e confessioni, può capitare, senza accorgersene, di vivere il proprio a Istanbul. Ma una Istanbul moderna non esiste. E Istanbul antica non esiste più. Istanbul non esiste, è solo un punto nero sulla cartina, un buco nero nel cielo del tempo.



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