In Patagonia, da solo

Viaggio nella mitica regione della Patagonia, a cavallo tra Cile e Argentina
Scritto da: zingarosardo
in patagonia, da solo
Partenza il: 23/11/2013
Ritorno il: 08/12/2013
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
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Destinazione importante, sogno degli escursionisti e meta irrinunciabile degli alpinisti di tutto il mondo. La Patagonia è lontana, una regione immensa, che si estende a cavallo tra Cile e Argentina fino alla Terra del Fuoco. Una di quelle terre di cui ne hai appena sentito parlare, che sai a malapena dove possa essere.

Il viaggio comincia, come sempre, con l’immaginazione: vado qua, vado la, no la non riesco eccetera. Terra del Fuoco, Ushuaia, Osvaldo Soriano, Capo Horn, Walter Bonatti. Ricordo bene il suo racconto dell’esperienza in quel posto impossibile, invivibile, dove abita solo la furia del mare e del vento. Luogo mitico, di naufragi e leggende. Il trekking più a sud del mondo si trova proprio qua, Isola di Navarino, di fronte a Ushuaia ma in terra cilena. Il circuito “de los dientes” così si chiama. Un trekking circolare attorno a delle montagne che spuntano come denti. Sei immerso nel nulla, dura cinque giorni, nessuna struttura ricettiva, solo tu, la tua tenda, la tua pioggia, il tuo vento, la neve magari. E Ushuaia, dove Soriano racconta del campionato del mondo di calcio che venne giocato durante la seconda guerra mondiale.

E poi c’è il mitico Cerro Torre, un pilastro di granito rosso, che quando lo vedi ti zittisce, ti spegne, e ti dici che no, non è possibile che qualcuno possa essere salito lassù.

E leggi delle Torres del Paine, montagne dalle forme spettacolari, isolate in terra cilena, dove il primo vero insediamento umano lo trovi solo se cammini per 100km.

Oceani, ghiacciai, pinguini. Troppa roba, distanze quasi proibitive. La forza è saper rinunciare, fare delle scelte, dettate dal budget di soldi e tempo. E la scelta mi porta a escludere l’estremo Sud e puntare sui 3 siti: Parco Nazionale Los Glaciares (Cerro Torre e Fitz Roy), Perito Moreno e Parco Nazionale delle Torres del Paine.

Il periodo a disposizione infatti è di due sole settimane, che sceglierò dal 23 novembre all’8 dicembre. In Patagonia in quel periodo la primavera volge al termine, novembre in pratica corrisponde al nostro maggio.

Tutti i dettagli tecnici li metto in coda al racconto.

24 Novembre 2013

“Vuoi cenare con noi?” Si presenta così Hennieke, una ragazza olandese il cui viaggio di un mese, da sola, in Argentina volge al termine. Certo che voglio. Ed ecco Jorge, lui sì che gioca in casa, direttamente da Buenos Aires, mi viene incontro mentre esco dalla camera, mi stringe la mano con un caloroso “hola companero” e un sorriso che mi fa sentire a casa. Mentre mi preparavo per la mia prima isolata serata, ecco che mi ritrovo felice e colpito dall’accoglienza all’hostel Condor de los Andes, El Chalten.

Il viaggio non era cominciato benissimo.

A Buenos Aires ho infatti un po di tempo a disposizione, circa un’oretta, e dovendo cambiare aeroporto e quindi attraversare la città decido di scendere al capolinea del Bus Manuel Tienda Leon, zona Retiro, per fare un giretto, il tanto di vedere qualcosa e bere una birra. Ho il mio enorme zaino in spalla e davanti la zainetto della macchina fotografica. La zona non mi sembra delle migliori, c’è la stazione centrale, spazi aperti, strade enormi, un po di traffico, il sole e il caldo si fanno sentire per la prima volta. Mi dirigo verso il centro a piedi, passando sotto un lungo portico di un blocco di edifici. A un certo punto sento un getto d’acqua che mi cade addosso, appena dietro la testa e centra in pieno lo zaino. Ma non è acqua quella, a meno che da queste parti l’acqua non sia verde. E’ infatti una salsa, un qualcosa che usano per condire i piatti al ristorante. Frazioni di secondo in cui penso che sopra di me c’è un ristorante e allora a qualche sbadato è cascata la salsa. Ed ecco venirmi incontro un uomo asiatico, per me è un cinese, sulla quarantina, con gli occhiali, a porgermi, dispiaciuto, un fazzoletto di carta, per aiutarmi a pulirmi. Ora sono fermo, mi pulisco un po, ma il fazzoletto non basta. Il cinese premuroso si ferma dietro di me, si sfila il suo zainetto e tira fuori una bottiglia d’acqua. Mi vuole aiutare, mi da un altro fazzoletto, ma intanto mi versa un po d’acqua dietro il collo dicendo che sono sporco e di togliermi lo zaino che mi aiuta a pulirmi. Frazioni di secondo. Attimi. Mi vogliono derubare. Resto lucido e capisco di essere da solo con lui, non c’è nessuno, e allora grazie amico mio, gli dico che lo zaino non me lo tolgo, che non importa, mi volto e tiro dritto, passo deciso, spedito verso un gruppo di persone che aspettano l’autobus a una fermata più avanti. Solo allora mi sfilo lo zaino e lo pulisco, prendo il primo taxi e via verso l’aeroporto.

Finalmente arrivo a El Calafate, piccolo aeroporto. La Patagonia mantiene subito le promesse: grandi spazi, sterminate distese di giallo e verde da bassa vegetazione che per via del vento non può che essere così. Ma la prima gioia è quando vedo il mio zaino spuntare fuori dal nastro, segno che ce l’ha fatta, che ha resistito alla tentazione di molti amici suoi di perdersi, di prendere altre destinazioni da quelle previste dal suo padrone… e invece lui è arrivato per fortuna, insieme a me, senza di lui la mia avventura non avrebbe potuto iniziare, ma è là, lo prendo, sembro dire a tutti che quello è il mio e che ora si comincia.

Ma tra me e la mia prima destinazione, El Chalten, ci sono ancora 200km da percorrere in circa tre ore e mezza, ma sono sereno, vado dritto allo stand della compagnia che effettua il servizio di collegamento diretto dall’aeroporto per El Chalten, prenotato dall’Italia. Fuori l’aria è frizzante, pulita, il vento comincia a dirmi che mi tormenterà per buona parte della mia permanenza, ma è giusto così. C’è un bel sole, ancora alto, sono le 5 del pomeriggio. Il viaggio in bus scorre abbastanza bene, la tappa obbligata in questo percorso è all’osteria La Leona, un bar con servizi, posti letto e un negozietto di souvenir. Spicca la foto del ricercato Butch Cassidy, noto criminale trattato anche nei racconti di Osvaldo Soriano e Bruce Chatwin.

Bevo un matè concido e una fetta di una squisita torta di mele. Il piccolo bus è pieno, ci sono tre coppie, una famiglia coreana con una bimba spettacolare di 17 mesi. Fuori dai finestrini distese infinite, il lago Argentino, un mare azzurro ghiaccio, e le montagne in lontananza, dove noi stiamo andando, proprio incontro al Fitz Roy e al Cerro Torre.

Duecento chilometri di niente, di nessun insediamento, fatta eccezione per La Leona e per qualche estancia. Ogni tanto vedo tristi scheletri di guanachi, appesi come tappeti stesi ad asciugare, rimasti là nel filo spinato, nel tentativo di scavalcare la rete che separa la strada dalle praterie, in cerca di chissà cosa.

El Chalten mi piace: è una distesa di casupole, più o meno ordinate, attraversata da una strada principale ed altre piccole, alcune sterrate, come ad esempio la mia dove si trova il mio ostello, ad accogliermi c’è la simpatica Marianna che mi spiega che la camera è quella, che la chiave la devo lasciare in portineria, mi mostra la cartina e mi dice del supermercato, dei ristoranti, del sentiero per il Cerro Torre, il tutto con il sorriso. La disponibilità, il sorriso di questa gente mi accompagnerà per tutto il viaggio.

Cerco il gas per il mio fornellino da campeggio, riesco a trovarlo in un negozio in chiusura sul lungo viale San Martin e trovo anche due panini e due mele in una panetteria gestita da una deliziosa signora del posto. L’aspetto dei panini e delle mele non è dei migliori, a casa mia non li avrei mai acquistati, ma sento ancora il gusto, la freschezza che pulisce la bocca di quelle mele, quando anche il luogo e il momento in cui le assapori ti cambia il punto di vista.

Ma ecco che mentre provo a connettermi col mio smartphone alla civiltà e segnalare in Italia che sono vivo, la voce di Hennieke mi interrompe. E così usciamo, io lei e Jorge, alla ricerca di un posto dove cenare. La sera è sopportabilmente fredda, ma chissenefrega, in fondo, ora, in quella strada un pò in discesa camminano un italiano, un argentino e un’olandese, insieme, come se il destino avesse deciso così. Penso che la gran parte di un viaggio è questo, l’incontro, casuale, in comune solo la voglia di vedere posti nuovi e gente diversa. Il freddo bussa alle ossa ma nessuno di noi lo sente perchè camminiamo e sorridiamo. Il primo ristorante scelto per noi dalla guida turistica scritta è ovviamente strapieno e allora optiamo per il “Mi vejo” che ci era sembrato carino sulla via. Lasciamo fare ovviamente a Jorge, che ci sceglie un ottima carne di agnello e un rosso argentino Malbec. Ci si racconta un po delle nostre vite lontane. L’indomani Hennieke farà il sentiero Laguna Torre e allora le propongo di farlo insieme, mentre Jorge che l’aveva appena fatto farà il giro dalla parte del Fitz Roy. Faccio la mia conoscenza del “dulce de leche”, in questo caso in formato digestivo. La serata termina in una cerveceria artigianale che però aveva già finito le loro birre e alle 2 siamo di ritorno all’ostello.

25 novembre, il Cerro Torre

Ore 7.30 colazione nella calda saletta, poi prima di partire vado a prelevare un po di pesos argentini che potrebbero servirmi nei 3 giorni di trekking, ma che non userò mai… Il tempo di fare un paio di foto con Jorge, che poi non rivedrò più, chiudo lo zaino e partiamo. Hennieke sorride nel vedere il mio zaino enorme, dice che mi rispetta, sorrido. Guida lei, la vedo sicura e poi mica ci si perde, il sentiero è segnato abbastanza bene. Comincia subito con una ripida ma breve salita, da dove ammiriamo il paese dall’alto. El Chalten giace appiattito cercando di ripararsi dal vento con l’aiuto delle montagne e sembra riuscirci.

Nella mia mente cominciano i confronti con i luoghi alpini a cui sono abituato. Comincio a misurare la fatica, guardo per terra, i sassi, gli arbusti. Il sentiero come si muove, dove trova spazio. Le rocce segnate tipiche dei più frequentati sentieri di casa mia sono solo un ricordo, ci sono solo rari cartelli, ma è davvero impossibile perdersi. I primi 20 minuti mi fanno capire che la maglia a maniche lunghe con cui ho iniziato è troppo, comincio già a sudare, e allora via. Cominciamo a incrociare alcuni escursionisti a cui chiediamo strada. Il vento è praticamente assente. La vista delle torri arriva dopo un’oretta di cammino.

Quando vedi per la prima volta dal vivo qualcosa che hai visto solo in fotografia le cose sono due, o ti sorprende o ti delude. Se dici che era come te lo eri immaginato vuol dire che non hai poesia dentro di te, o che semplicemente ti ha deluso ma non vuoi ammetterlo. Lo spettacolo del Cerro Torre, con pochissime nubi ad accarezzargli la pancia, col cappello di ghiaccio in testa è già chiaro, anche se siamo ancora molto lontani. C’è una cosa che non mi sono mai detto guardando le fotografie del Torre, ed è la prima cosa che ho invece detto vedendolo ed immaginando di spingermi con lo sguardo fino ai suoi piedi immersi nel suo stesso ghiaccio: non è possibile che un essere umano sia salito fin là sopra, non è una cosa fattibile. La certezza dell’impossibile, che sarà solo mia, si acutizzerà man mano che mi avvicino, perchè il sentiero che seguirà sarà seguito solo dai miei scarponi, mentre i miei occhi saranno ipnotizzati dal suo granito, rosso, spinto verso l’azzurro. Le montagne che piegano a sinistra non sono anonime, sono quelle di Walter Bonatti, scalate in splendida progressione con l’amico lecchese Carlo Mauri: Cerro Adela, Cerro Doblado, Cerro Neto, Cerro Luca. L’anfiteatro della valle, in una giornata come questa, lascia il segno. Forse la vista migliore è quella che chiamo “Silver”: una distesa di alberi argentati e spogli, mischiati nel verde e che fanno da base alle vette che chiudono la valle, un po’ bianche un po’ rosse.

Al bivio tra il campamento De Agostini e la “scorciatoia” per il Mirador Maestri teniamo la destra e attraversiamo il camping degli alpinisti, i marziani che oseranno sfidare le montagne dalle pareti strapiombanti. Solo il pensiero mi mette inquietudine, il campo base sembra disabitato, chissà, penso, dove sono i sognatori.

Usciti dal bosco e saliti per una lenta ascesa su terreno detritico, eccoci dimenticare i piacevoli e leggeri raggi di sole che scaldavano le spalle, per passare subito alle raffiche di vento intenso e freddo che arrivano direttamente dal ghiacciaio del Torre che ci troviamo di fronte e che va ad adagiarsi sull’omonima laguna, sotto di noi, piatta e leggermente ingrigita. Gli occhi ricevono e trasmettono al cervello la meraviglia del paesaggio, con il Cerro Torre, adesso, quasi beffandoci di noi, ha deciso di coprirsi le spalle con qualche nuvoletta.

Ma ecco che assisto ad una delle scene per cui credo valga la pena viaggiare. Davanti a me, praticamente lo è sempre stata (I will follow!), vedo Hennieke che saluta un ragazzo che, insieme ad altri, arriva dal vicino Mirador Maestri. Il biondo capellone, Billy o Willy o sicuramente qualche nome diverso, non ricordo, risponde al saluto contento e sorpreso, si abbracciano. Si scambiano parole che il vento porta via, non le sento, un minuto, qualcosa in più, arrivo anche io e gli stringo la mano, in segno di saluto, va via: “See you in Europe!”

“Ci siamo visti qualche giorno fa a Bariloche e adesso ci incontriamo nuovamente qua!”. Questo mi dice, Hennieke, subito dopo, felice, divertita, sorpresa.

Bariloche, città argentina, a circa 1400km di distanza.

Ecco, il punto è questo. La casualità, l’incontrarsi e magari il rivedersi fosse solo per un saluto. Un sorriso, un’emozione. Nel viaggio di ritorno in pullman verso El Calafate, con la strada che scorre su paesaggi aridi, secchi, segnati dalla natura spietata di questi luoghi, penserò molto a questo incontro. Viaggiare ti emoziona. Ne valeva la pena fare un viaggio così lontano? Si, mi dico, ma non per la distanza geografica che tende a solcare lo stacco con la routine. Guardando fuori dal finestrino, mentre il giallo dei bassi cespugli scorre inesorabile, pensavo che in quel momento ero felice. Un occhio all’orologio e mi dico, se non ero qua dove ero? A casa, mezzanotte, l’indomani sarei andato al lavoro per sentirmi dire che in banca non si fischietta nei corridoi perchè non è decoroso. Chi mi guardasse ora scorgerebbe un sorriso disteso e sereno.

Dopo aver saggiato l’acqua gelida della laguna torre, con qualche secondo di piedi a bagno, ci dirigiamo verso il Campamento De Agostini, dove passerò la notte. L’immaginazione corre tranquillamente verso quello che troverò, cioè una bella struttura coperta con un bar dove poter bere qualcosa di caldo, dei comodi tavoli dove poter leggere qualche pagina.

Pochi minuti di cammino in leggera discesa verso un bosco ed ecco il grande cartello che indica l’ingresso del Campamento. Gli occhi vanno subito alla ricerca della struttura in legno e vetro immaginata poco prima, ma purtroppo là ci resterà. Di fronte a noi non c’è nient’altro che alberi e terra. Piazzole per mettere le tende. Un bagno, anzi, una latrina che non è altro che un metro quadro coperto da 4 pareti di plastica alte due metri. Mi sento un po perso, deluso perchè mi aspettavo un qualcosa che non c’è ma non c’è proprio per niente, non c’è neanche una misera copertura semiaperta. Niente. Anche Hennieke è sorpresa, entrambi sorridiamo, lei forse un po di più guardandomi vagare per l’area alla ricerca di qualcosa che non fosse un albero, o una piazzola… ma quello che trovo è solo un piccolo cartello che segnala la fine dell’area di campeggio… Mi rassegno, individuo il posto dove metterò la mia tenda, e da li a poco sarò di nuovo solo. Hennieke infatti deve andare, torna ad El Chalten e l’indomani comincerà il suo ritorno in Olanda. Saluto, con una punta di dispiacere, questa bella ragazza, jeans chiari, scarpe allstars, occhi azzurri e capelli chiari, viaggiatrice solitaria.

Tenda montata, preparo uno zaino leggero e via verso il Mirador Maestri. Il sole è ancora alto, il tempo è molto bello. Il primo tratto è un po faticoso, sale lungo il lato destro della Laguna Torre, poi sale dolcemente senza mai abbandonare la vista della laguna e di tutta la valle, Cerro Torre ovviamente compreso. Cammino per un’oretta circa, finchè il sentiero sembra finito. In effetti è segnalato molto male. Da qui il Cerro Torre sembra davvero vicinissimo. Resto da solo con lui, un condor mi passa sopra la testa.

Rientrato al campeggio, trovo altre 3 o 4 tende. La notte passerà molto serena senza un filo di vento. L’isolamento, se non fosse per le poche anime che dormono attorno a me, sarebbe totale. Non c’è possibilità di comunicazione con la civiltà, non c’è linea telefonica, El Chalten è a 2 ore e mezza di cammino.

Il tramonto è meraviglioso, la notte, per niente fredda, scorre serenamente. Riesco anche a uscire dalla tenda in piena notte per provare a fare qualche fotografia ma il risultato non mi soddisfa pienamente.

26 novembre, il Fitz Roy

Prendo coscienza delle ore di luce. Sono tante, non c’è nessuna fretta. I primi bagliori cominciano già verso le 4 per terminare poco prima di mezzanotte. Luce, non sole. Ma il sole c’è anche oggi, bello caldo e forte. Parto dando le spalle al Cerro, non senza prima esserci salutati, lui ancora immenso e pulito, io carico di spirito e di zaino per la volta della traversata bassa del Fitz Roy. Ma il percorso sarà duro oggi, anche se ancora non lo so. Il bosco durerà molto, il sentiero che porta al Campamento Poicenot attraverso le Lagune Madre, Figlia e Nipote comincia quasi subito a salire. La scena tipica di questi boschi sembra quella di una guerra e gli alberi sono i guerrieri, molti dei quali giacciono morti, con le radici all’aria, spezzati. Uno sembra resistere: caduto di testa, disegna una specie di N, mentre cerca di rialzarla verso la luce.

Incontrerò solo una ragazza solitaria in questo tratto che durerà circa quattro ore. Solo al termine della salita comincerò a respirare e godermi il paesaggio. Sembra quasi che la laguna Hija spunta solo perchè è da un’ora che la chiamo, perchè so che significa sentiero in piano. E con lei comincia a spuntare il fianco del Fitz Roy, rosso che spicca sull’azzurro. E’ ancora nascosto, si svelerà piano, mentre percorro tutta la valle.

E’ durante questo percorso che capisco le mie capacità e ciò che riuscirò a fare durante il trekking. Abbandono il programma che prevedeva in giornata il superamento del Campamento Poicenot e l’arrivo al successivo camping/refugio Los Troncos, Preda del Frailes, più a nord, oltre il Fitz Roy. Decido che non ne vale la pena. La vista da sopra la Laguna Madre è eccezionale, grazie anche al bel tempo. Il vento che comincia a presentarsi e che non mi lascerà più in pace per tutta la giornata di oggi e domani, non mi impedisce comunque di sedermi, fermarmi, ammirare il panorama del gruppo del Fitz Roy. Riesco a vedere la cima. Vedo il vento che ci sbatte sopra, con le scie bianche e veloci che l’accarezzano. Verso la fine del percorso incrocio le uniche anime vive della valle delle lagune, cioè un gruppo di ragazzi alla ricerca del Mirador Fitz Roy, segnalato nella cartina, ma per niente nella realtà, e un gruppo di lama carichi di attrezzatura al servizio degli alpinisti.

Quando arrivo al Campamento Poicenot non mi aspetto niente di diverso dal De Agostini ed infatti l’unica cosa da fare è trovare la miglior piazzola disponibile per piantare la tenda. Molto stanco per la camminata mattutina, ma assaporo davvero la libertà, l’essere in un posto isolato, nessuna comunicazione con il mondo esterno.

Mentre assaporo il panino al jamon acquistato dalla tziedda in paese, riposo spalle e gambe appoggiato ad un tronco d’albero sdraiato in un prato, di fronte a me le montagne per le quali mi trovo la. Il gruppo del Fitz Roy, le guglie Poicenot e S.Exupery. Perfette, nessuna nuvola intorno.

Organizzo uno zaino leggero, e via verso la Laguna Los Tres, luogo immancabile per chi passa da queste parti. Arrivo dopo 1 ora e 20 di cammino sudato, salita impegnativa, anche a causa del vento. A differenza di stamattina, ci sono tantissimi escursionisti su questa via. Dietro di me lascio il bosco con dentro la mia tenda, e mentre salgo si vedono Laguna Madre, Figlia, Laguna Capri, e più lontano l’azzurro del Lago Viedma. In cima resto a bocca aperta. Tipico, quando ti aspetti una cosa e ne trovi un’altra.

Il lago che avevo visto in immagine, blu, non c’è. O meglio c’è ma non è per niente blu, bensì bianco, ghiacciato. Prima stupore, poi meraviglia, comanda il bianco in questo colle a soli 1000 metri di altezza. Cerco subito un punto di riparo dal vento per potere ammirare e scattare qualche foto. Poi via giù a fare assaggiare ai miei piedi la temperatura e la purezza dell’acqua del lago ghiacciato. Il sole ti scalda la faccia e l’animo, ti ridà quello che il vento ti toglie. Breve escursione sul lato sinistro, verso uno dei punti più emozionanti. La dove il lago trova sfogo e manda giù a poco a poco la sua fredda acqua, verso un lago che sta forse 200 metri più a valle.

E’ la Laguna Sucia, ferma, lei sì blu ghiaccio, una lingua adagiata sotto uno dei ghiacciai che scende dal Fitz Roy. E’ una meraviglia, perchè arriva agli occhi all’improvviso.

La notte dura non so quante ore, è la notte del vento, indelebile il ricordo del fischio che parte da lontano e i momenti in qui penso “ecco ora questa raffica mi fa volare” e invece resto ogni volta saldo a terra, la tenda fa bene il suo lavoro. Il fischio dentro è un tuono, poi prosegue il suo percorso, via verso le altre tende. Momenti di silenzio, in cui sembra che abbia finito, ma non sarà così. Perchè non sarà lui a lasciarmi stare, ma io a lasciarlo qua in questa valle soltanto quando salirò sul pullman il giorno dopo.

27 novembre, ritorno a El Calafate

Abbandono la tenda per una veloce escursione lungo il Rio Blanco fino a Las Predas Blancas, che si trova a circa 45 minuti.

Mentre vado capisco che piove anche se non piove. Il cielo è infatti leggermente velato, le montagne sono un po coperte, ma c’è il sole pieno. Ma l’acqua mi arriva di traverso lo stesso. Il vento infatti la raccoglie dai fiumi e dai laghi dei dintorni, la porta a spasso per l’aria e infine la sbatte in faccia agli escursionisti. Penso che lo faccia apposto, per burlarsi un po di noi, e io accetto lo scherzo a brutto muso. La Laguna Predas Blancas è chiamata così per le grosse rocce bianche che si frappongono tra il sentiero e il lago. Per arrivare al lago infatti occorre superarle e non sempre è banale. Meriterebbe più tempo anche questo spettacolare laghetto su cui cadono i blocchi di ghiaccio azzurro, meriterebbe anche il bel tempo in effetti, ma le gocce di cui prima ti arrivano in faccia a ripetizione. Mi ritrovo ad eseguire metodi da guerra da trincea per poter fare una fotografia. Appostato dietro una grossa “preda blanca” aspetto il momento in cui il nemico abbassa la guardia per ricaricare le munizioni e solo allora balzo fuori e scatto le mie foto.

Rientrato al camping, disfo la tenda, preparo lo zaino e mi avvio verso una lunga camminata che in circa 3 ore e mezza mi porterà a valle, alla civiltà. Il percorso è in lenta discesa, con punto intermedio rappresentato dalla Laguna Capri, l’ennesimo lago alle cui sponde sorge l’omonimo campeggio.

“Siete in due?” No che non siamo in due, il mezzo litro di vino che ho chiesto lo voglio tutto per me… Sorrido alla domanda del cameriere che non sa con chi sta parlando! Giunto ad El Chalten mi fiondo infatti, affamato, al primo ristorante che mi ispira. Mi godo appieno il momento di relax, seduto al caldo, al riparo dal vento finalmente, tavolo fronte strada, mi gusto la bistecca definitiva, cioè il filetto di manzo più buono che abbia mai mangiato.

Il ritorno in pullman è dolce, riposo un po, cullato dalla marcia lenta, dal paesaggio fuori e dai pensieri a quello che ho passato questi giorni e a quello che mi attende. Pensieri che volano fino all’Italia, alle differenze, alla realtà a cui mi sono sottratto per un po di tempo.

L’ostello è l’America del Sur, posto su una lieve altura sopra il paese, arrivo a sera inoltrata, c’è ancora molta luce. I ragazzi ti mettono subito a tuo agio, sembra una sorta di autogestione, se non si trovassero al di la del bancone non sapresti che gestiscono l’ostello. Tant’è che poi li trovi a bere una birra ai tavoli in comune o sui divani a chiacchierare con noi ospiti. La mia camera per due notti si chiama “Atacama”, due letti a castello, gli altri ospiti sono una coppia che vedo di sfuggita e un ragazzo tedesco. Ma in mente ora ho solo la doccia liberatoria e il letto.

28 novembre, Perito Moreno

La mattina dopo si va a ammirare il Perito Moreno, meta inevitabile per chi viene da queste parti. Altra bellissima giornata, sembro a credito con la fortuna, anche il vento mi darà un po di tregua oggi. L’avvicinamento è lento, prima tappa dall’alto dove cominci a vedere il mare di ghiaccio che va a baciare il Lago Argentino. Già da questa distanza ammiri l’immensità. Ma è dal battello che capisci di cosa si sta parlando: una parete con punte di sessanta metri, un fronte lunghissimo di ghiaccio tra il bianco, l’azzurro, il blu.

Le guide ci spiegano alcune cose, sul comportamento da tenere mentre faremo il minitrekking. Per me non è la prima volta quindi non si tratta di una novità, diversamente da una signora australiana che sarà oggetto d’attenzione per il gruppo, ma soprattutto per le guide, per l’intero percorso. Non ha mai trovato l’equilibrio, la sicurezza e la tranquillità, probabilmente non si dimenticherà mai questa esperienza (più in senso negativo…) ci diciamo io e Christine. Già, Christine, dottoressa brasiliana in vacanza solitaria per due settimane, facciamo conoscenza proprio sul ghiacciaio.

Tra crepacci e piccoli laghetti blu facciamo dei saliscendi, brevi soste, e l’idea di camminare sopra uno dei ghiacciai più famosi del mondo è decisamente appagante, ma la sorpresa, divertente, arriva all’ultima sosta, dove le guide ci offrono un bicchiere di whiskey con il ghiaccio del Perito! Idea simpatica e originale.

La prossima tappa è la balconata, un percorso proprio di fronte al Perito, da dove possiamo ammirare il fronte immenso del ghiacciaio, sentirne i rumori del lentissimo movimento, ammirare qualche pezzo che cade in acqua senza, ovviamente, avere il tempo di poter immortalare il momento in una foto. Quello che colpisce di più è l’imponenza, la maestosità della muraglia che si apre a ventaglio e ti senti impotente, perchè qualsiasi ostacolo possa frapporsi tra lui e il suo percorso verrà arginato. Io e Christine percorriamo l’intero percorso di una mezzoretta, tra chiacchiere e foto e preghiere disattese per far cascare un pezzo di ghiaccio mentre cerco di filmare… Arriveremo per ultimi al pullman guadagnandoci lo sguardo di disapprovazione del capogruppo. Inevitabile anche la cena insieme a El Calafate, in un bel locale suggerito dal mio ostello. Vino Graffigna, filetto di manzo, crepes al dulce de leche, liquore di calafate. Nel mezzo tante chiacchiere, viaggi, politica, film e libri, sport e Martin Lecce, un illusionista che si siede di fianco a noi e cavoli, ancora oggi non so come faceva a girare quelle quattro carte ogni volta diverse.

Rientrando in ostello ripercorro l’intera giornata e come, ancora una volta, il viaggio ti sorprende e ti arricchisce, soprattutto nell’incontro.

29 novembre, Torres del Paine

Destinazione Torres del Paine, salto sul pullman che ancora dormo, anche perchè sono appena le 5.30 del mattino, il viaggio che mi aspetta sarà quasi interminabile attraverso la sterminata pianura patagonica, ma anche a causa di un improvviso sciopero dei doganieri cileni. “La buona notizia è che dovremo aspettare solo 6 ore”: così esordisce Alejandro la nostra guida cilena che ci accoglie proprio alla frontiera tra Argentina e Cile, a Cerro Castillo.

Evidentemente, deduco, la cattiva sarebbe stata che dovevamo tornare a El Calafate…

Il programma che avevo in mente dall’Italia era di fare il circuito intero delle TDP, ma i tre giorni passati a El Chalten, la fatica di camminare con lo zaino pieno, il fatto di avere i giorni contati previsti per l’intero percorso, cade definitivamente oggi stesso, anche a causa del ritardo alla frontiera che mi fa praticamente perdere una tappa. Decido insomma di prendermela comoda facendo l’altrettanto bellissimo “trekking w“, più sicuro e con la possibilità di muovermi anche con lo zaino alleggerito. L’arrivo nel tardo pomeriggio nella zona dell’Hotel Torres avviene sotto un cielo nuvoloso. Mi trovo ai piedi del gruppo delle Torres del Paine, nel versante del Monte Almirante Nieto. Il campeggio stavolta è come me lo auguravo, cioè provvisto di bagni, docce, e poco distante il rifugio, dove poter mangiare qualcosa. Finisco di piantare la tenda, con qualche coniglio che passa nei dintorni. Il primo insediamento umano è a circa 100km da qua, gli abitanti del posto sono gli escursionisti e le persone che lavorano nei vai rifugi sparsi per il Parco, si tratta di un posto selvaggio dove la mano dell’uomo è leggerissima. Gli stessi sentieri sono segnalati in maniera essenziale, non ci sono deviazioni, solo il sentiero principale, per salvaguardare il più possibile l’ecosistema.

30 novembre, Mirador Las Torres

Il risveglio mi dice che non sempre può andarmi bene. Non piove, ma stavolta il cielo è coperto e le vette sono velate dalle nuvole. Lascio la mia tenda in campeggio e parto con lo zaino leggero. Il passo è spedito, respiro aria e libertà, a volte un po troppa gente, per fortuna siamo solo all’inizio della stagione, immagino come possa essere in estate piena… Raggiungo il Refugio Chileno in un’ora e un quarto, molto in anticipo rispetto alle due ore previste dalla mappa. Risalgo ancora la Valle del Rio Ascensio e giungo alla destinazione del Mirador Las Torres con un po di pioggia, la prima e unica che incontrerò nel mio percorso. Riesco a trovare riparo sotto una grande roccia e godermi il paesaggio anche se a metà. Le torri infatti, maestose, sono coperte.

Ricordano moltissimo le tre cime di Lavaredo. Ed è qui che penso a quanto siamo fortunati noi italiani ad avere le Alpi in casa, le Dolomiti, posti eccezionali e facilmente raggiungibili. La perfetta solitudine tra me, le torri, il ghiacciaio e il lago di fronte dura una decina di minuti, fin quando cioè un gruppo con guide al seguito raggiungono la mia postazione, ovviamente invidiata. Gliela lascio dopo un poco, non senza essermi assicurato un pezzetto di cioccolato gentilmente offerto.

Al rientro sosto con piacere al Refugio Chileno dove mangio un ottimo sandwich con “carne y queso”, sotto le bandiere del Chile e della Patagonia (quest’ultima scoperta grazie ad uno dei ragazzi del rifugio), in semicompagnia di un viaggiatore coreano solitario come me.

L’Hotel Las Torres è il lusso qua alle Torres del Paine. Dormire qua costa almeno 250 dollari americani a notte, sicuramente dotato di ogni confort, per quel che mi riguarda passerò la serata a sorseggiare un paio di cervezas austral, e utilizzerò il wifi per la connessione con il mondo e far sapere che sono vivo. Il telefono infatti non avrà mai linea fino al mio rientro in Argentina, e ciò non mi dispiace più di tanto.

Mi dirigo alla tenda con il tramonto delle 23 alle mie spalle.

1 dicembre, traversata bassa delle TDP

“Ti sei perso?” Ecco Jordi, spagnolo, professore di matematica in pensione, che mi viene incontro mentre ho qualche dubbio tra cartina e cartello. “Vado verso il Refugio Los Cuernos“, gli dico e lui pure, mi dice, che se vogliamo possiamo fare lo stesso percorso insieme. A dispetto dei più di sessant’anni Jordi cammina bene, anche se attrezzato non benissimo, zaino non grande, una specie di borsa da computer e una busta della spesa ad occupare le mani, niente bacchette. Faremo diverse soste, più del previsto per i miei canoni, ma gradite perchè in compagnia. Piccolo episodio, l’amico Jordi non sentendosi di superare un fiume attraverso le pietre poste in mezzo, cerca una soluzione alternativa che lo vedrà battere traccia in mezzo ai cespugli, spesso spinosi, e agli alberi bassi. Lo sentirò lamentarsi, imprecando contro la sua scelta. Non è stata una buona idea mi dice, ringraziandomi per averlo aspettato.

La traversata è davvero lunga, ma la giornata è per fortuna bellissima e con un vento quasi assente. Incontriamo poche persone in questo tragitto, qualche condor si va vedere in aria, alla nostra sinistra il lago Nordernskjold, alla nostra destra Los Cuernos. Purtroppo il dialogo con Jordi non c’è, lui parla solo spagnolo, io cerco di capirlo e ribatto un po in italiano… Mi riprometto di fare un corso di spagnolo al ritorno.

Arriviamo al Refugio Los Cuernos stanchi e affamati, ma per un guasto all’impianto elettrica non c’è molto da mangiare. Riesco ad arraffare l’ultima lattina di birra, e a mangiare un piatto tipico cileno con carne e patate. Il sole è pieno, passo diverso tempo a scaldarmi con i suoi raggi all’aperto e a godermi un po di silenzio, finchè non arrivano un paio di gruppi che purtroppo poco avevano a che fare con la montagna. Riescono ad occupare l’intera panca a disposizione per sedersi con i loro zaini impedendo ad altri di usufruirne, chiacchiere ad altissima voce, insomma insopportabili. Sono le tre del pomeriggio: “Carlos, esta es la hora de la siesta!”, così ci salutiamo con il simpatico Jordi.

A me invece aspettano altre due ore di camminata verso il Campamento Italiano dove trascorrerò la notte. Il percorso mi porta prima in riva al lago in una bianchissima spiaggia di sassi, impossibile non fermarsi.

Poi attraverso continui saliscendi arrivo all’imbocco della Valle Frances e poco più avanti ecco la mia destinazione. Fa freddo stasera, il campeggio è affollatissimo, riesco a trovare a stento una piazzola per la mia tenda. Il punto di ritrovo per la piccola comunità è una copertura in legno che funge da cucina, dove in tanti cerchiamo di cucinarci qualcosa. io stesso mi adopero per il classico risotto in busta, che almeno mi scalda lo stomaco. Vado in tenda stanco ma soddisfatto per la conoscenza fatta e per la lunga camminata sotto il sole, immerso in un paesaggio unico al mondo.

2 dicembre, la Valle Frances

E’ ora di alzarsi, il programma prevede l’escursione interna nella Valle Frances con zaino leggero, poi ritorno al campeggio e via verso il Lago Pehoè. Metto la testa fuori dalla tenda e vedo sprazzi di sole. Vado al bagno, e quando torno… sta nevicando! Non credo ai miei occhi, guardo bene e quelli son proprio fiocchi. Stupito e sorridente, colpito dal meteo patagonico, rientro in tenda per capire se è il caso di muovermi. Ci metto poco, zaino in spalla e via. Descritta come imperdibile meta di chi passa da queste parti, la valle si dimostra tale nonostante il tempo inclemente.

Naturalmente anche il vento è tornato a farmi compagnia, ma ormai non me ne curo più, fa parte di me. Il sentiero iniziato dentro il bosco, esce un po allo scoperto per poi rientrare. Il Campamento Britannico, coperto di neve e privo di qualsiasi tenda, non sembra neanche un’area da campeggio. L’area centrale di ritrovo consta di un mucchio di alberi ravvicinati che formano una sorta di copertura alta forse un metro e mezzo, penso che la sua funzione sia quella di bivacco.

Lascio la desolazione del campeggio e proseguo verso l’alto, da li cammino per altri venti minuti, in compagnia separata di un altro solitario, un ragazzo giapponese dal passo spedito. Quando arrivo in “cima” e lo trovo là gli stringo la mano sorridendo, come se fossimo arrivati in vetta di una montagna andina… Lui ricambia il sorriso. Il contatto con gli esseri umani è importante, fosse anche in questa sfuggente maniera.

Il panorama da qua viaggia fino al lago Nordernskjold, attraverso i ghiacciai e i boschi e los Cuernos.

Rientrato al Campamento Italiano mi carico tutto in spalla e scendo verso il facile percorso che mi condurrà alla prossima tappa, cioè la il Lago Pehoè con l’omonimo Refugio e camping. Il vento che dopo la sosta di ieri ha ripreso stamattina e credo abbia capito che mi sta antipatico, quindi ha deciso di perseguitarmi tutto il giorno. E mi farà anche uno sgambetto. Comincia a farsi vedere, come un gallo che gonfia il petto, mostrandomi come è in grado di raccogliere l’acqua dalla superficie del lago e portarla un po a spasso, magari sbattendola in faccia agli escursionisti di turno che percorrono la via appena sopra il lago.

Come me ad esempio… Manca un chilometro al mio arrivo al rifugio e percorro il mio onesto sentiero quando mi ritrovo in un secondo sollevato da terra e gentilmente accomodato a sinistra, al di fuori del sentiero, come se volessi deviare di iniziativa per evitare, che ne so, una pozzanghera. Sorrido e ritorno a destra, nel sentiero, borbottando di non rompere i cosiddetti. Altri pochi passi e lui mi dice che no, non devo andare dritto, quindi mi ributta a sinistra, ma non si accontenta, e allora ancora a sinistra e un altro passo ancora e ancora. Pochi attimi e decido immediatamente che l’amico sta un po esagerando e siccome un po troppo a sinistra non va più bene perchè troverei un saltello verso il basso di una decina di metri, allora mi butto a terra con i miei venti chili di zaino. Continuo a sorridere, naturalmente imprecando. Ok dico, sei più forte, però ora basta, ma lui ne ha ancora un po da dire, finchè non prende un po di fiato e mi dice che ora posso proseguire. Negli ultimi metri che mi separano dal Refugio alzo lo sguardo da terra e vedo oltre le grandi vetrate le facce di chi già ce l’ha fatta, vedo i loro capelli fermi, non in aria, la faccia rilassata e asciutta e non tirata e scherzata dall’acqua di lago portata dal vento. Ok penso, tra poco tocca anche a me. La fatica e la conquista di un traguardo meritato, al termine di una giornata piena, densa di emozioni per quanto visto e affrontato, tra chilometri macinati e intemperie.

Il rifugio è il giusto premio, la cena il mio trofeo. Era un po che non mangiavo, e bevevo, così bene. Note di merito alla zuppa di legumi e al vino Casillero. La tenda montata un po così così, ma le do fiducia. L’ho messa sotto costa, per prendere meno raffiche di vento possibile, ma fuori c’è davvero una sorta di tempesta, incessante. Di sopra c’è il bar, dove sorseggio un ottimo Pisco affondato in una poltrona e accompagnato da una musica mista a chiacchiericcio multilingua della sala. E’ mezzanotte. Chiunque guardasse fuori dal rifugio vedrebbe un ombra correre con la luce della lampada frontale, zigzagando tra le tende del campeggio e buttarsi, ancora vestito, dentro una piccola tenda arancione, martoriata, ma ancora lì, orgogliosa e dignitosa.

3 dicembre, Lago Grey

Sprazzi di sole illuminano l’interno della tenda ondulata, il tempo di fare una delle rare decenti colazioni della mia patagonia e le nuvole hanno già preso il sopravvento coprendo il cielo. Anche il vento ha appena fatto colazione e come me si attiva per passare la giornata, io avanti in salita imbocco la valle che dal lago Pehoè mi porta sull’altopiano e lui percorre lo stesso sentiero in direzione ostinata e contraria.

L’aria è un po fredda stamattina, devo alternare molte volte la manica corta con la maglia e il guscio, tra le tante salite e discese. Sarà il centesimo lago che vedo… ma anche il Lago Grey ti lascia di stucco. Immenso, pezzi di ghiaccio che vagano, montagne innevate intorno e in lontananza l’omonimo ghiacciaio.

Mi capita spesso di riconoscere facce già viste lungo tutto il percorso, viaggiatori anche loro come me anche se in maniera diversa. Il gruppone, i francesini, il giapponese, la coreana, gli amici veloci, gli strani. Hola, hello, ciao ciao, ripetuti a caso, vanno bene tutti, ci si saluta in montagna, un sorriso a volte è sufficiente, chi viene da una lunga e faticosa salita non dimentica un saluto, piuttosto lo fa con una smorfia. Sembriamo tutti amici, sembriamo dirci a vicenda che siamo felici di essere in questo posto. Lontano anni luce da una qualsiasi camminata per le strade della città, facce tutte uguali, spesso di corsa, nessun saluto, non ci si guarda negli occhi. Hai tutto il tempo per essere solo con te stesso, con la natura, ti fermi quando vuoi, ascolti, respiri, immagini, ti stupisci. Scatti foto che non renderanno mai la meraviglia. Poi pensi anche che si, sarebbe bello anche se tutto ciò fosse condiviso con un amico. A volte non vuoi essere solo. “Happiness only real when shared”, cioè la felicità è autentica solo se condivisa (Into the wild).

Arrivo al rifugio in anticipo rispetto ai tempi previsti dalle cartine, non avevo intenzione di mangiare, ma cambio subito idea quando vedo un piatto di zuppa. Ma ecco l’ennesima sorpresa… “Professore!” Si, è proprio lui, Jordi, seduto al tavolo che termina il suo pranzo. Mi saluta, contento anche lui di rivedermi, mi dice che il paesaggio è stupendo e che ha visto un sacco di passerotti! Non so perchè ma aveva la fissa per gli uccelli… Mentre mangio lui mi saluta, come sempre, per andare incontro alla sua immancabile siesta. Per me invece, dopo essermi rovinato la zuppa con una specie di immangiabile riso freddo semiaffogato nel latte, mi avvio verso il fronte del ghiacciaio che raggiungo in dieci minuti. Cerco di raggiungere il punto più vicino per fare la foto, e quando salgo una decina di metri di rocce ecco l’inaspettato, quello che ti fa dire “o cazz!”, un enorme isola di ghiaccio che vaga nel lago, un iceberg bianco e azzurro alla deriva.

Tutto questo avviene in uno scenario isolato, lontano centinaia di chilometri dalla civiltà, qua la natura è nel pieno delle forze, acqua, ghiaccio, vento, terra. Rientro lentamente chiudendo il percorso del “trekking w”. Quando arrivo al Refugio Peohè sono felice ma stanco, stanco morto. Faccio due conti e riscontro che in questi giorni, tra El Chalten e Torres del Paine, ho percorso quasi 120 chilometri. Io, lo zaino e le mie indispensabili bacchette. E ho deciso che ora sono stanco e che può bastare così.

4 dicembre, ritorno alla base

Ora, le possibilità sono due. O prendo i miei venti chili di zaino in spalla e mi incammino verso l’Hotel Torres da dove sono partito per il “w trekking” oppure prendo la scorciatoia.

Da un lato altri 15km circa di cammino che con lo zaino pieno vogliono dire almeno 7 ore di cammino. Dall’altro un comodo viaggio tra catamarano e pullman. La decisione è immediata, non mi andava di fare un faticoso percorso peraltro già fatto. Il tratto in catamarano attraverso il Lago Pehoè verso Pudeto è molto bello, la giornata è bella e ammiro lo spettacolare fronte della catena delle Torres del Paine, se fosse una città sarebbe un perfetto skyline.

Qua se la prendono tutti un po comoda, i pullman da Pudeto alla Laguna Amarga partiranno dopo due ore. La speranza di poter arrivare in tempo utile per riprovare l’escursione del primo giorno sperando nel bel tempo svanisce perchè arrivo troppo tardi e il tempo comincia a cambiare. Rimetto la speranza alla mattina successiva.

“Very nice tent, it’s so little!” Ecco Richard, lui è del Minnesota ma lavora qui, in Cile, al campeggio Las Torres. Incuriosito dalla tenda e soprattutto dal mio martello con cui la assicuro a terra con i ganci. Scambiamo due simpatiche parole.

“Hello, I’m Mike, what’s your name?” Avevo già iniziato la mia cena, la peggiore in assoluto per qualità del cibo, quando di fronte a me arriva lui, sui quasi cinquanta con sua figlia Glorianne, una bionda ragazzina che ha l’aria di non gradire molto quello che le hanno portato a tavola. Il primo consiste in un tentativo di “zuppa di pesce”, molto acquosa, poco saporita. Glorianne assaggia un cucchiaio, smorfia e la cede volentieri a Mike. Io sorrido, soprattutto quando arriva il secondo, un coppia di carne in cartoccio, tuttora non so che tipo di carne fosse, fatto sta che era tutto tranne che buona. Glorianne la guarda soltanto, Mike l’assaggia, le smorfie si sprecano e io sorrido, anzi rido per la situazione, e Mike trova la faccia di bronzo per riportare il piatto in cucina e farsela cuocere almeno un altro po perchè semicruda. Glorianne invece torna vittoriosa dalla cucina con due mele… Loro sono di Chicago, faranno come me il “w trekking”, poi lei proseguirà in autonomia incontrando amici a Valparaiso, spero che almeno lì potrà trovare buon cibo… Gli dico di me, gli racconto del percorso fatto eccetera.

“Sei italiano?” Interviene Vera, seduta di fianco a me in un gruppo di quattro persone. Avvocatessa tedesca, lavora a Londra, ma parla un po’ d’italiano grazie ad uno stage fatto a Roma. E’ carina, ma diventa bella quando mi racconta che, con l’amica hanno fatto l’intero circuito del Paine. E’ incredibile, prima Hennieke, poi Christine, poi Vera, tre donne all’avventura, tre storie diverse unite dalla stessa passione per la natura e il viaggio. Vanno tutti via, ma io ho ancora da fare, ho infatti adocchiato una chitarra appesa al muro… Chiedo il permesso ad uno dei ragazzi del rifugio e mi ritrovo a suonare e cantare, per me e basta, in un caldo angolo della sala. Beh ho fatto anche questo!

5 dicembre, rientro in Argentina

Tiro fuori la testa dalla tenda verso le 7, ma le nuvole sono ancora la, a fare da cappello alle Torri che avrei voluto vedere limpide stamattina, non come il primo giorno. Invece no, la montagna mi risponde che anche oggi non si può. Rinuncio pertanto, ma va benissimo così. A colazione rivedo Vera con l’amica, mi dicono che loro prendono il pullman e vanno a Pudeto per fare una camminata di un’ora verso un belvedere. “Se riesco a smontare la tenda e faro la zaino in tempo vengo anch’io, altrimenti… è stato bello!” Lei mi sorride, prenderà il pullman, io no, non ci rivedremo più.

Il lento rientro in Argentina è ricco di pensieri, voglia un po’ di casa, e desiderio però di tornare in questi posti, da percorrere magari in auto, per fermarmi nelle estancias, nei piccoli e rari paesini attorno alle pompe di benzina lungo la Ruta 40.

DETTAGLI TECNICI

Volo

Andata: Partenza da Milano il 23 novembre mattina e arrivo a El Calafate il 24 pomeriggio. Ritorno: partenza il 6 dicembre mattina da El Calafate e arrivo a Milano l’8 mattina

Scelgo il meno caro, ovviamente, in questo caso American Airlines destinazione El Calafate (Argentina), con ben due scali: Miami e Buenos Aires. Trattasi, per la precisione, di 11 ore Milano-Miami, 8 ore Miami-Buenos Aires e 3 ore e mezza da Buenos Aires a El Calafate. Biglietto fatto in Agosto al costo di 1070 euro A/R. A Buenos Aires ho dovuto cambiare aeroporto, arrivo ad Ezeiza e ripartenza da Pistarini. Ad Ezeiza utilizzo il bus Manuel Tienda Leon dove acquisto il biglietto per 95 ARS. Ci mette circa 50 minuti.

Pernottamenti

Farò 4 notti in ostello, tutti prenotati dall’Italia, e 8 in tenda. Gli ostelli tutti molto belli, gestiti da ragazzi simpatici e molto gentili.

Una notte a El Chalten, ostello Condor de los Andes (122ARS), camera da 4px con bagno interno.

Due notti a El Calafate, ostello America del Sur (241ARS in totale), camera da 4px con bagno interno.

Ultima notte a El Calafate, Hosteria Los Gnomos (329ARS), camera singola con bagno.

Due notti in tenda a El Chalten, campeggi gratuiti.

Sei notti alle TDP, in campeggi tutti a pagamento tranne uno (Campamento Italiano). Gli altri 6000CHP ciascuno.

Attrezzatura tecnica

Zaino 80+10, tenda da 1 posto, sacco a pelo, materassino da 3.5cm, 1 pantalone tecnico per il trekking e 1 pantalone in cotone, 2 pantaloncini corti, 4 magliette tecniche maniche corte, 2 maglie tecniche maniche lunghe, 1 pile, 1 piumino, 1 giacca/guscio, 5 paia di calze e mutande, guanti, cuffia con paraorecchie, asciugamano, scarpe da trekking basse, scarponi da trekking. Medicine e kit da pronto soccorso. Barrette energetiche. Lampada da tenda, lampada frontale e pile di ricambio, bottiglia da litro, fornellino, pentolino e posate, riso liofilizzato. Guida, 3 cartine (Patagonia, Fitz Roy-Cerro Torre e Torres del Paine), burrocacao, crema solare, occhiali da sole.

Clima e luce

E’ sempre difficile rispondere alla domanda “fa freddo?”, è ovvio che dipende tutto dal grado di sopportazione del freddo che è sempre soggettivo. La mia risposta è che no, non ho sofferto il freddo. Diciamo che la sera tardi e la notte la temperatura in alcune zone era intorno ai 0-2 gradi. In tenda ho quasi sempre dormito in mutante e maglietta o al massimo con la maglia a maniche lunghe. Importante avere sempre il cappellino a portata di mano e sei a posto. Di giorno in cammino quasi sempre in pantaloncini e maglietta a maniche corte. Diciamo che si stava tra i 13 e i 20 gradi quando c’era il sole. La cosa peggiore è ovviamente il vento, fortissimo e freddo perchè viene dallo Hielo Continental. Quando soffiava ero costretto a mettere almeno la maglia tecnica e talvolta il guscio per proteggermi. Non ho mai usato il piumino e mai i guanti. La luce è tantissima, comincia a spuntare intorno alle 4-5 di mattina per finire intorno alle 23, quindi giornate lunghissime.

Difficoltà nel trekking

In generale nessuna difficoltà tecnica lungo i percorsi fatti. Si tratta di sentieri segnalati bene, ci vuole sempre la dovuta attenzione ma solo in rari tratti. Può essere faticoso se si ha uno zaino pesante (e il mio lo era). I continui sali-scendi sono un po provanti, e soprattutto il vento ha reso le cose meno facili del previsto.

Trasferimenti, Tour e Parchi

– La cosa più difficile dall’Italia è stata trovare informazioni sul web relativamente alle escursioni e ai trasferimenti. Raramente i siti mettono i prezzi, pertanto bisogna quasi sempre scrivere email.

– Aeroporto El Calfate – El chalten: prenotata dall’Italia e pagata in loco (220ars solo andata).

– El Chalten – El Calafate: bus prenotato dall’Italia tramite ostello, 150ars

– Minitrekking Perito Moreno: prenotato tramite l’ostello, 800ars che comprende il trasferimento in pullman (che fa il giro degli alberghi di Calafate), il battello e il trekking di circa un’ora e mezza. Ingresso al Parco Nazionale 130ars, da pagare in pullman quando si arriva al parco

– Taxi: presi a Calafate un paio di volte, costo medio 30ARS, sono molto convenienti. Preso inoltre l’ultimo giorno per andare da Calafate in aeroporto dall’albergo. Costo 170ars, a me è capitato di andare con altri due pertanto ho pagato solo 60ars.

– El Calafate – Torres del Paine (a/r): prenotato dall’Italia tramite ostello, costo 1050ars (circa 160usd). Il collegamento tra i due siti è molto complicato se ci si affida a bus regolari. Nessuno, infatti, ha il collegamento diretto, attraverso Cerro Castillo, ma transitano tutti da Puerto Natales, con un grosso dispendio di tempo. I bus di linea infatti collegano Calafate con Puerto Natales con partenze intorno alle 8 del mattino, arrivo a PN intorno alle 13, poi si cambia bus (altra compagnia) che in 2 ore circa ti porta alle TDP. Il costo è inferiore (intorno alla metà), ma praticamente spendi un giorno in viaggio. Stessa cosa al ritorno, con i bus che partono alle 8 da Puerto Natales, significa che devi lasciare le TDP la sera prima. Io ho preferito spendere un po di più ma risparmiare moltissimo tempo. Molte compagnie private offrono infatti il tour di un giorno alle TDP (passando dal Cerro Castillo ed evitando Puerto Natales), oppure come me l’andata e il ritorno in giorni differenti.

– Ingresso al Parco Nazionale delle Torres del Paine 18000CHP. Trasferimenti dalla Laguna Amarga al camping Las Torres 2500CHP. Da Pudeto alla Laguna Amarga 2500chp. Catamarano dal Lago Pehoè a Pudeto 12000chp



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