Il destino di una regina

Gli accadimenti quotidiani vissuti da ognuno di noi succedono come se fossero determinati e quasi segnati nelle pagine di un immaginario libro già scritto. Così è stato il nostro viaggio di quest’anno in Andalusia, inaspettato e iniziato alla vigilia delle ultime partenze di agosto, quasi a volerci ricordare che siamo tutti attori nella...
Scritto da: Sormaestro
il destino di una regina
Partenza il: 14/08/2006
Ritorno il: 21/08/2006
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
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Gli accadimenti quotidiani vissuti da ognuno di noi succedono come se fossero determinati e quasi segnati nelle pagine di un immaginario libro già scritto. Così è stato il nostro viaggio di quest’anno in Andalusia, inaspettato e iniziato alla vigilia delle ultime partenze di agosto, quasi a volerci ricordare che siamo tutti attori nella commedia della vita.

L’incontro con la comitiva di viaggiatori con cui ci accompagneremo lungo tutto il percorso è freddo, come accade di solito in questi casi, ma il passare dei giorni ci rivelerà gli uni agli altri e renderà la compagnia piacevole e allegra.

Con l’aiuto dell’accompagnatrice spagnola, o meglio andalusa, partiamo da Málaga di buon mattino. E’ il giorno di Ferragosto, la mattina è fresca e siamo tutti ancora intorpiditi dal viaggio e dal brusco risveglio nella terra di Spagna. Il pulmann serpeggia lungo le strade che si arrampicano sulle montagne della Serranía. Siamo nel tipico paesaggio dominato dai Pueblos blancos: agglomerati di case di pietra, dipinte di bianco per contrastare il calore del sole, simbolo della vita rurale di questa parte del sud della Spagna. Arriviamo in cima dove Ronda domina tutta la vallata. La cittadina è costruita a strapiombo su due costoni rocciosi, unita da un’imponente ponte alto più di 100 metri che la unisce e quasi la sorregge mentre sotto scorre il fiume Guadalevín. Teresa, una guida del posto, ci accoglie alla porta est della città. Inizia così il nostro viaggio nella terra dei mori. La sua posizione dominante e le alte mura che la circondavano, ancora pressoché intatte, ne facevano una fortezza inespugnabile. Fu infatti l’ultima roccaforte a venire abbandonata dai mori nel 1485 dopo secoli di dominazione su tutta l’Andalusia. Le stradine strette di ciotoli, le due porte d’ingresso delle case, basse e bianche, le inconfondibili grate di ferro battuto alle finestre, è questo lo stile architettonico dell’Andalusia dei mori. Ronda è ancora addormentata quando silenziosi ed ordinati la attraversiamo a piedi salendo per la via principale. Teresa ci rivela che ormai la cittadina è divenuta una residenza privilegiata dei signorotti spagnoli. Le case all’interno delle mura sono molto ambite e per questo i loro prezzi hanno raggiunto cifre da capogiro. Qui hanno soggiornato tra gli altri scrittori come Ernest Hemingway, famosi toreri, don Luis Miguel Dominguín e don Antonio Ordóňez, mentre all’interno di un pozzo costruito nella casa di quest’ultimo, è sepolto l’attore Orson Wells, il cui nome significa proprio “pozzo d’acqua”. Lenti nel nostro proseguire, arriviamo in cima alla piazza passando per la scala dei condannati. La chiesa di Santa Maria la Mayor la domina. Il suo frontale attira la nostra attenzione: due piani con balconi costituiscono l’insolita facciata. Iniziamo la discesa verso il ponte Nuevo. Si tratta di una costruzione veramente imponente risalente alla fine del XVIII° secolo, dal centro del quale si gode di un’ottima vista sulle vallate circostanti. Vista di cui potevano godere anche i condannati, perlopiù bandoleros, briganti, che in queste zone erano tristemente famosi, alloggiati all’interno della cella ricavata sotto il pavimento e la cui finestra si apriva al centro dell’arcata principale. Un bel deterrente alla fuga, non c’è che dire. Proseguiamo a scendere lungo il fianco della cittadina per arrivare infine alla Plaza de Toros. E’ la più antica di Spagna (1784). Teresa ci conferma la mancanza di notizie sulla nascita della tradizione della corrida in Spagna: forse gli antichi romani, forse i mori. L’ingresso è molto suggestivo: un alto portone di legno delimita il perimetro dell’arena, non molto grande ma pur sempre imponente; due balconate coperte, sedute di pietra e colonne tutt’intorno allo spazio dedicato alla tenzone; a terra un tappeto di terra gialla battuta, tipica dell’Andalusia. Lo spettacolo della corrida è un evento molto sentito da queste parti e raggiunge l’apoteosi in settembre con la rievocazione della Feria Goyesca in cui toreri, cavalieri e dame indossano i costumi tipici risalenti ai tempi di Goya appunto. Non vi è dubbio alcuno nel ritenere che la corrida è un po’ la regina delle tradizioni popolari spagnole. A pranzo ci servono delle ottime trote, immagino pescate dal fiume che scorre sotto il ponte. Nel primo pomeriggio lasciamo Ronda per dirigerci verso sud. Lungo la strada i cartelli stradali sono scritti in arabo. Siamo vicini ad Algeciras e da qui partono le navi traghetto per il vicino Marocco dove durante l’estate numerosi marocchini rientrano per trascorrere le vacanze. Ma siamo anche nella terra che per quasi otto secoli (dall’VIII° al 1492) è stata testimone della dominazione araba. Tutto in Andalusia ce lo fa ricordare, a partire dal nome stesso della regione Al-Andalus, quello dei fiumi più importanti incontrati a Ronda, Guadalevín, a Siviglia e Cordova, Guadalquivír, infine i tipici palazzi dell’alcázar, residenza dei califfi, e dell’alcázaba, fortezza di difesa, presenti in tutte le città visitate. Arrivati a Gibilterra, dall’antico nome arabo Gibr-al-tar, attraversiamo la frontiera e siamo in territorio inglese. Qui il rispetto della segnaletica stradale è di vitale importanza: un semaforo regola infatti l’attraversamento della pista di decollo ed atterraggio dei caccia della RAF e passare con il rosso potrebbe costare molto caro… Un simpatico inglese di mezza età ci accompagna con il suo pulmino alla scoperta di questa rocca fortificata dominio della corona inglese. Anche qui le strade sono strette e per agevolare gli spostamenti gli inglesi dopo la conquista hanno costruito migliaia di metri di gallerie e cunicoli. In effetti la rocca difende l’unico bacino di carenaggio inglese in pieno Mediterraneo. Per trasportare fino in cima i potenti cannoni, i genieri inglesi hanno puntellato la rocca di grandi anelli in ferro ancora esistenti, in modo da agevolare la salita dei muli trainati dalle funi che vi facevano scorrere. Siamo alla confluenza del Mediterraneo con l’Atlantico e, ad appena quattordici chilometri dalla costa, si intravedono le sponde africane. In cima alla rocca si trova una piccola colonia di scimmie. Si dice che Churchill saputo dell’esistenza delle scimmie a Gibilterra, volle preservarne la razza come segno beneaugurante della presenza degli inglesi e questa tradizione è rispettata ancora oggi. Il lungo Ferragosto volge al termine. Prima del tramonto ci dirigiamo verso nord. Lungo la strada sagome di grandi tori neri, simbolo della Spagna ma anche di una nota casa vinicola, fanno capolino dalle colline circostanti. Più in basso i veri tori pascolano in gruppo, i più giovani, oppure solitari, i più maturi, ignari del macabro destino che li attende.

L’indomani siamo pronti a partire alla volta di Siviglia, prima però, facciamo una sosta nelle cantine di Jerez de la Frontera. Siamo nella parte occidentale dell’Andalusia e tutte le cittadine ed i paesini di questi luoghi avevano la peculiarità di rappresentare il confine, la frontera, degli antichi regni della corona di Castiglia e di Aragona. Jerez è conosciuta nel mondo per la produzione del vino sherry (dalla pronuncia inglese di Jerez). A dire il vero arrivando da Gibilterra non abbiamo incontrato coltivazioni di vite da vino, eppure ci assicurano che al nord di Jerez, in un triangolo compreso tra i fiumi Guadalquivír, Guadalete e l’oceano Atlantico, la vite della qualità Palomino, è la regina delle coltivazioni fin dai tempi dei fenici, dei romani e degli arabi. Nel 1835 Manuel González fondò a Jerez la casa vinicola González Byass depositaria del conosciutissimo marchio Tio Pepe. Più che la visita di una cantina facciamo un vero e proprio viaggio. Un piccolo trenino ci prende all’ingresso e ci conduce lungo i viali di questo pezzo di storia di Jerez, mentre una graziosa signora dall’accento francese ci narra le vicissitudini del fondatore e del suo famosissimo vino. Giardini inglesi ricchi di piante esotiche e rare, piccoli filari di vite di uva bianca, un padiglione in ferro battuto del noto Eiffel per gli spettacoli dei cavalli andalusi all’aperto, montagne di botti di rovere dipinte di nero, segno distintivo della casa vinicola González Byass, autografate dalle firme più note della politica, dello sport, dello spettacolo, contemporanei. Scesi dal trenino arriviamo in un salone bellissimo in cui un enorme botte troneggia dal centro; simboli araldici ed iscrizioni dorate ne fanno un esemplare unico realizzato in onore della visita della regina. Qui tutto sembra fermo al tempo in cui il titolare spediva il suo vino sherry in Inghilterra: il profumo intenso delle uve palomino in fermentazione, la terra gialla bagnata per mantenere il fresco, le tende di foglie di palma intrecciate. Vino che prese il nome dallo zio di Manuel González, Tio Pepe, ed il simbolo della bottiglia con cappello e chitarra sembra ricordare la sua fantasiosa firma. Arriviamo a Siviglia e la scopriamo quasi addormentata sulle rive del rio Guadalquivír. Il fiume nel suo lento scorrere, la culla dalla notte dei tempi. Furono gli arabi, dopo i cartaginesi ed i romani, a farne addirittura la seconda capitale del regno marocchino, tanto che la Giralda, la torre del minareto simbolo della città, è la gemella della Koutubia di Marrakech. Arriviamo nel cuore della capitale della regione andalusa quando il sole del pomeriggio è al suo culmine. Lenti procediamo dai quartieri orientali verso il centro. Lungo le vie strette ed acciottolate, incontriamo la casa de Pilatos, appartenente ai duchi di Medinaceli, residenza di ricchi possidenti spagnoli. Più avanti la chiesa de la Caridad, infine la Basilica della Macarena, dove è conservata una la statua di Nuestra Seňora de la Esperanza, una delle più venerate di Siviglia. Nel 1929 venne organizzata a Siviglia l’Esposizione Universale ibero-americana; in questa occasione si cercò di rinsaldare rapporti politico-economici con le colonie dopo le varie lotte d’indipendenza succedutesi dalla conquista del nuovo mondo, alla colonizzazione spagnola. La grave crisi del ’29 (crollo di Wall Street) fece fallire il progetto. Restano i bellissimi padiglioni realizzati per l’occasione, splendide costruzioni in stile liberty, lungo la sponda occidentale del fiume, e la imponente plaza de Espaňa. Una costruzione di mattoni rossi e splendide azulejos della storia di Spagna. Una grande fontana centrale ed il ponte che congiunge le sponde, la mano tesa verso i paesi latino americani. Nel corso dei decenni Siviglia ha cercato di ricostituire la sua immagine internazionale, riuscendoci infine nel 1992, con la realizzazione dell’Expo, una delle manifestazioni più partecipate e con il maggior numero di visitatori mai realizzato. E’ sera e proprio in questi momenti si compie la meraviglia della città. Questa volta entriamo attraversando i vicoli del quartiere di Santa Cruz. Camminando in gruppo, ascoltiamo in silenzio i racconti affascinanti di Ramon. E’ questa l’ora in cui il Barbiere di Siviglia esce per incontrare la sua bella. Sembra quasi di vederlo spuntare dal Callejon del Agua, il rumore dei passi sui ciotoli e la voce sussurrata di Rosina affacciata al balcone. Il Barrio de Santa Cruz era l’antico ghetto ebraico. Le case basse e bianche, i cortili fioriti, le cancellate alla fine dei vicoli, e poi il vicolo della morte: un teschio campeggia sulle maioliche che abbelliscono la parete sotto le inferriate di un balconcino. La leggenda vuole che sia stato messo per volontà della sua inquilina, a memoria della cupidigia che causò la sua stessa morte e come monito per tutti i futuri passanti. Subito dopo però, il vicolo della vita. Ramon è abile nel presentarci gli scorci più suggestivi della Siviglia illuminata e così, con la complicità delle luci artificiali scopriamo il profilo della cattedrale spuntare dagli archi di una piazzetta, e poi la Giralda da sopra i tetti dell’Alcázares. Le storie che racconta sono quelle che si tramandano nei secoli, aneddoti curiosità, spose, principi e cavalieri. Proprio da queste storie rimase affascinato Washington Irving, ambasciatore americano, che qui soggiornò, una targa di pietra ce lo ricorda, e che raccolse tante di queste storie nei suoi racconti dell’Alhambra. Uscendo dalla Plaza del Triunfo è ormai notte fonda e sulla strada del ritorno incontriamo il palazzo di San Telmo, dove un tempo la Carmen di Bizet lavorava il tabacco. Il caso, la coincidenza, il destino. E’ la mattina del 17 agosto 2006 ed a Siviglia scende una pioggia battente e incessante. Il cielo plumbeo non promette nulla di buono per il resto della giornata. Eppure eccoci pronti per la visita alla cattedrale della città. Prima dell’ingresso mi faccio scattare una foto con tanto di ombrello sullo sfondo della Giralda. Sembra che a Siviglia la pioggia mancasse ad agosto da più di trent’anni! Conserverò con cura questo ricordo, come un segno del destino. La cattedrale è un monumento alla cristianità spagnola. Maestosa, con i 23.500 metri quadri di superficie, imponente, l’altezza del transetto è di 37 metri, grandiosa, durante la Settimana Santa migliaia di fedeli ne fanno il centro vivo della religiosità andalusa. La sua imponenza la pone fra le più grandi cattedrali del mondo. La storia della realizzazione è lunga alcuni secoli. Come molti monumenti religiosi dell’Andalusia, nasce sulle rovine della moschea del XII° secolo, di cui rimangono il Cortile de los Naranjos e parte della Giralda; già nel 1401 viene consacrata a Cattedrale; iniziano poi i lavori di abbellimento, dapprima in stile gotico (1434-1517), poi rinascimentale, riconoscibili soprattutto nella Cappella Reale e nella parte superiore della Girlada (XVI° sec.), infine barocco, Sagrario e cappelle minori. Entrando dal lato del cortile, attraversiamo la navata di sinistra; al centro il coro, come in tutte le chiese spagnole, sta di fronte all’altare principale: una gigantesca pala fatta di 45 riquadri in cui vengono riproposti i principali accadimenti della vita del Cristo, della Vergine Maria e dei Santi sivigliani. Bisogna ricordare che la maggior parte del popolo era pressoché analfabeta e queste figure illustrate sulla cristianità fungevano da breviario della religione. Seduti ammiriamo le decorazioni della volta e la ricchezza degli altari laterali. Prorpio alla destra della cappella Maggiore sta la tomba di Cristoforo Colombo. Si dice che il suo corpo abbia viaggiato più di quanto abbia fatto lui stesso in vita. Eccolo finalmente sorretto da quattro paggi in bronzo, ognuno con le effigi della corona riunita della Spagna. Toccare i piedi di uno dei paggi è di buon auspicio per un prossimo ritorno a Siviglia e tutti ci sottoponiamo al gesto. Sulla navata di destra invece stanno gli ingressi alle Sagrestie. La più bella, la Maggiore, raccoglie i tesori della Cattedrale, veri e propri pezzi unici di storia e di bellezza. Il tempo continua ad essere inclemente (chi ha detto che visitare Siviglia nel mese di agosto è sconsigliato per le alte temperature?), così ci rifugiamo nel vicino palazzo dei Reales Alcazares, residenza dei reali di Spagna. Lo stile è tipico andaluso, il mudéjar, un misto tra arabo e rinascimentale, realizzato dai mori dopo la reconquista cristiana. La struttura architettonica ripete quella dei palazzi di concezione araba: il patio centrale è il cuore di tutta la costruzione dai cui quattro lati si aprono altrettanti ingressi nei saloni dove si consumava la vita di tutti i giorni: il patio de las Doncellas, ricco di azulejos, il Salón de Embajadores, il patio de las Muňecas con teste femminili a decorare i capitelli delle colonne. In tutte le residenze che si rispettino non possono mancare i giardini. Anche questi di concezione arabeggiante, ricchi di piante rare e profumate, con fontane di piccoli zampilli e grandi vasche con pesci e piante galleggianti. Mentre usciamo un pallido sole fa capolineo e la mattinata termina a bordo di un’imbarcazione lungo il Guadalquivír. A pranzo ci rinfresca la tipica zuppa di gazpacho, fresca di pomodori maturi, cetrioli, peperoni e condita da olio, aceto, sale e dall’inconfondibile aglio. Nel primo pomeriggio partiamo alla scoperta di terre lontane. L’archivio generale delle Indie ospita un’interessante raccolta di carte, manoscritti, strumenti e pubblicazioni sulla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Fin dalle prime udienze alla corte della regina, ai preziosi insegnamenti dei francescani di Huelva, alle carte di navigazione. Il palazzo tra l’altro conserva il prezioso archivio di oltre 90.000 scritti sulle colonie spagnole di quel tempo. Per un attimo rimaniamo affascinati da questa cartografia così antica e così dettagliata: mappe, rotte, città. Purtroppo a Colombo venne negata la paternità di tale scoperta, destino beffardo di chi per primo mise piede sulla nuova terra. I giorni trascorrono velocemente. Così come velocemente ci spostiamo da una città all’altra. Siamo diretti a Cordova, nel cuore dell’entroterra andaluso. Il paesaggio che scorre dai finestrini del pulmann è verde e ondulato. Di tanto in tanto bianche costruzioni punteggiano la campagna. Sono i cortijos, case di campagna di calce bianca, basse e caratterizzate dal cortile centrale di eredità araba. Cordova si rivela sorprendente ai nostri occhi. Col pulmann da lontano si scorge la parte antica della città a ridosso del Guadalquivír, col ponte romano in primo piano. La nostra visita sarà guidata dal professor Luis Recio Mateo, ordinario di storia e filosofia presso l’università di Cordova, già esperto accompagnatore di Patrizio Roversi nel corso della trasmissione dei Turisti per caso che era stata realizzata qui sotto la sua preziosa guida. Già dalle prime indicazioni il professore si rivela una miniera di sapere e di conoscenza. Il suo è stato un vero e proprio trattato di filosofia alle cui basi stanno sicuramente Seneca, originario della città, Maimonide, grande pensatore ispano-ebraico ed il grande erudito Averroé, noto per i suoi trattati di medicina, matematica, astronomia e filosofia. Cordova dunque come una vera e propria fucina, regina del sapere universale. La prima pietra per la costruzione della città fu sicuramente romana, il professore ce la mostra lungo le mura antiche: una pietra di tufo nero proveniente dalle rive del Tevere. Poi all’interno percorriamo dietro di lui gli stretti vicoli alla ricerca del sapere e della conoscenza. Il primo incontro lo facciamo con la statua di Maimonide fuori la sinagoga ebraica: possiamo credere che Cordova fosse veramente il primo esempio di società multirazziale e multietnica. Più avanti gli stretti vicoli sono esempio del metodo arabo di concepire le città, difficili da conquistare, favorivano il combattimento corpo a corpo, piuttosto che il più rischioso attacco delle cavallerie ed inoltre permettevano facili repressioni delle rivolte del popolo. Passando nella piazza del Cardinal Salazar, il professore ci mostra la facoltà di lettere e filosofia, la sua seconda casa, come ama chiamarla lui. Siamo all’ingresso del Patio de los Naranjos. Un giardino di vaste dimensioni in cui palme e piante di aranci fanno da cornice alle fontane per le abluzioni. Alle nostre spalle il minareto. Entriamo nel tempio della religiosità musulmana, ma anche cristiana della Mezquita Catedral. Il colpo d’occhio è sorprendente: un salone di dimensioni gigantesche, centinaia di colonne con capitelli di stile diverso disseminate per tutta la sua superficie, archi realizzati alternando mattoni di colore rosso ad altri mattoni di colore chiaro. Il bisbiglio dei turisti, le preghiere recitate ad alta voce creano quasi un sottofondo mistico insieme alla luce soffusa delle gelosie delle finestre ed all’odore acre delle candele che bruciano. I nostri sensi sono rapiti da questa meraviglia e tutti insieme seguiamo il professore in direzione del Mihrab. Migliaia di intarsi in oro impreziosiscono la nicchia dove veniva deposito l’antico libro del corano. La volta a conchiglia, anch’essa di ispirazione coranica, lo rende unico ed inconfondibile. Siamo sempre all’interno dello stesso salone eppure i diversi angoli ne fanno un esempio di luogo dedicato alla pratica della preghiera, dello studio, alla divinizzazione del sapere. In un arabo perfetto, il professore accenna i richiami del muezzin alla preghiera. Al centro si trova la cattedrale cristiana. Forse Carlo V non sbagliava nel rimproverare gli architetti che la realizzarono nel XVI° secolo dopo aver distrutto parte della moschea risalente al I° secolo d.C., così unica e così ricca nel suo genere. L’ultimo angolo della visita il professore lo riserva all’erudizione. Siamo nella parte delle Mezquita, dedicata agli studiosi appunto. Da qui si diffuse l’uso dei numeri arabi, algebra è una parola di derivazione araba, la prima teoria sulla rotondità della terra risale all’anno 1100, molto prima di Galilei. Salutiamo il professore all’uscita della Mezquita; ci mette sulla strada del ritorno e ci saluta calorosamente, non prima di avermi confidato che oltre la passione per la cultura ed il sapere, condivide con Patrizio Roversi anche quella per la buona cucina. Lungo la strada del ritorno siamo tutti ancora estasiati dalla splendida visita appena termianata. C’è il tempo però per ammirare i terrazzi fioriti delle case bianche della città vecchia, gli scorci con la torre del minareto, i patii tipici delle case arabe con zampilli d’acqua fontane e piante di aranci.

Inizia la nostra discesa verso la costa, verso il ritorno. Il territorio che attraversiamo in direzione di Granada, è un interminabile distesa di olivi piantati ovunque sulle colline fino a ridosso delle montagne. L’olio che ne viene ricavato è noto in tutta la penisola iberica e la gran quantità permette anche di esportarlo in tutto il mondo.

Arriviamo a Granada giusto in tempo per il pranzo. Ci viene servita una zuppa tipica di ceci, patate, salsicce di fegato di maiale, costine di maiale e lardo; poi un bel pesce condito con molto aglio. Margarita ci confida che l’aglio da queste parti è l’elemento dominante del gusto di ogni piatto. Granada deve la sua denominazione al frutto della pianta del melograno a cui assomiglia: adagiata sulle colline che la circondano, sorge al centro di una vasta pianura, la Vega, ai piedi delle alte montagne della Sierra Nevada. Victoria ci accompagna in cima alla Collina Roja dove è stata realizzata dagli arabi (XIII° sec.) la città fortificata dell’Alhambra, la rossa. Innalzata a scopo difensivo, la sua importanza e la sua bellezza sono cresciute nel tempo tanto che Carlo V (1526) volle realizzare qui la sua dimora reale e vi fece costruire un palazzo in stile rinascimentale.

Bisogna camminare lungo il perimetro delle mura merlate esterne per arrivare in cima all’ingresso. All’interno diversi palazzi costituiscono il cuore della fortezza, l’Alcázar, residenza dei sultani. Entriamo in quello accessibile anche al popolo, il Meswar, dove venivano svolte le pratiche quotidiane, un piccolo ambiente impreziosito dalle tipiche azulejos, dai soffitti in legno di cedro e dalle incisioni in gesso. Un piccolo ingresso ci conduce alla residenza ufficiale del sultano, interdetta a chiunque non appartenesse alla corte. Qui sta la sala più grande del palazzo, la sala del trono: più di ogni altra cosa, colpisce la luce soffusa dell’ambiente, che filtra dalle numerose gelosie presenti nei tre lati della stanza; Victoria ci svela che questo artificio era voluto dai sultani che intendevano così “accecare” gli ambasciatori ammessi alla loro presenza provenienti dall’esterno luminoso del cortile degli Arrayanes. Gli aneddoti che ci racconta Victoria, tipica jitana andalusa, catturano la nostra attenzione. Così si narra che in quel tempo gli ambasciatori cristiani che si presentavano al cospetto del sultano, giunti alla sala del trono provassero imbarazzo (si dice che al contrario degli arabi, i cristiani non usassero di frequente la pratica delle abluzioni, né per quanto riguarda il loro corpo, nè per i loro vestiti…) e soggezione di fronte alla luminosità del regnante. Ovunque sulle pareti scritte arabe in lettere cufiche (l’antica calligrafia) inneggianti all’islam (“non c’é vincitore all’infuori di Allah”). Passiamo in fila indiana per gli stretti corridoi della residenza del sultano, diretti verso l’harem privato e segreto. Il patio de los Leones domina questa parte del palazzo: un porticato di circa cento colonne lo circonda, mentre al centro una fontana sorretta da 12 leoni offre il refrigerio ai due padiglioni ai lati, quello delle due sorelle (dalle pietre in marmo del pavimento), con una splendida volta a stella, e quello di fronte, detto della fontana insanguinata. La leggenda vuole che il sultano scoprì una delle sue preferite intrattenersi amorevolmente con un soldato della guardia reale; non riuscì a riconoscerlo ma riconobbe le insegne della famiglia a cui apparteneva; volendo punire questo sgarbo, tenne un banchetto a cui vennero invitati tutti i componenti maschi della famiglia, oltre naturalmente le preferite del sultano; durante il banchetto convocò in questa sala uno ad uno i giovani cavalieri con l’inganno di rivelare loro piani segreti; li decapitò uno ad uno e consumò così la sua vendetta. Usciti dai palazzi dell’Alcázar, ci dirigiamo verso la parte più alta della cittadella, residenza estiva dei sultani, il Generalife. Splendidi giardini affacciano sulla reggia sottostante e ci regalano dei panorami indimenticabili dell’Alhambra. “A la cinqo de la tarde”, come direbbe García Lorca poeta granadino ispirato dalle tradizioni andaluse, siamo già di ritorno dalla collina dell’Alhambra. Appena consumata la cena, zuppa di asparagi anche questi tipici dell’andalusia, siamo di nuovo pronti a ripartire. La nostra meta è la collina dell’Albaicín. Dalla Plaza Nueva si dipanano vicoli e stradine che salgono sul colle. Scegliamo la stradina che costeggia il piccolo fiume che divide le due colline. A bordo di un pulmino è facile districarsi nel groviglio dell’antico quartiere arabo. Sulla destra le terrazze che si sporgono verso il fiume, accolgono i primi avventori della sera. Il nostro condottiero è abile e svelto, in men che non si dica siamo in cima alla collina. Scendiamo e subito ci attrae il vociare che viene dall’alto di un terrazzo. Ancora poche scale ed eccoci sul Mirador de San Nicolás. Meraviglia delle meraviglie! La rossa fortezza dell’Alhambra illuminata armoniosamente dalle luci fotovoltaiche ci appare nella sua interezza. Si riconosce la maestosa Torre de la Vela a difesa dell’Alcazaba, poi il palazzo rinascimentale fatto erigere da Carlo V e l’Alcázar con la sala del trono. Alla nostra sinistra l’altra collina, il Sacromonte, con le cuevas dei jitanos. Stavolta scegliamo di scendere a piedi e perderci nelle viuzze del quartire per raggiungere di nuovo Plaza Nueva. Ogni tanto facciamo capolino da un cancello e splendidi cortili fioriti fanno di queste cármenes delle invidiabili dimore.

È domenica mattina. Siamo di nuovo in gruppo e ci dirigiamo verso il centro. Il pulmann ci lascia di fronte alla Chiesa di Nuestra Seňora de las Angustias patrona della città e della devozione dei fedeli di Granada (molte donne devono il proprio nome alla Vergine de las Angustias, come del resto a Siviglia a quella della Macarena), a piedi ci muoviamo diretti alla Cattedrale. Anche questa costruzione cristiana è stata realizzata in diversi stili, dal gotico al rinascimentale, succedutisi nel corso dei secoli. Adiacente alla cattedrale, la Cappella Reale, costruita per volere di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, di cui ne conserva le spoglie. L’altare centrale è adornato da una grande scultura lignea con le principali scene della passione. In alto le aquile con gli stemmi del regno rivolte alla tomba dei regnanti, due delle quali sono state posizionate invertite. Un’alta cancellata separa le tombe dei regnanti realizzate in marmo da uno scultore fiorentino: le figure dei reali, supine, giacciono uno di fianco all’altro; la testa di Isabella sembra sprofondare nei cuscini più di quella di Ferdinando; la leggenda vuole che dei due Isabella fosse la più dotata dal punto di vista intellettuale, di qui il maggior peso della sua testa. Si tratta di una figura storica di fondamentale importanza nella Spagna cristiana. Figlia di Giovanni II° di Castiglia, nacque alla metà del XV° secolo. Sposata di nascosto al cugino, Ferdinando appunto, con l’aiuto del clero spagnolo ottenne il riconoscimento della sua unione (1469). Alla morte del padre, Enrico IV fratellastro di Isabella, salì al trono di Castiglia e la diseredò, nominando sua figlia Giovanna erede al trono. Alla morte improvvisa di Enrico IV si scatenò una vera e propria guerra di successione, terminata nel 1474 con il riconoscimento di Isabella quale legittima erede al trono. Subito Isabella e Ferdinando dovettero fronteggiare l’avanzata di Alfonso V dal vicino Portogallo verso la Castiglia. Isabella con l’aiuto dei nobili e della chiesa diede a Ferdinando un esercito per affrontare la battaglia e vincerla (1476). Da qui in avanti Isabella e Ferdinando si dedicheranno alla riconquista dei territori spagnoli ancora nelle mani degli arabi culminata nel 1492 con la resa di Granada. Dopo questa vittoriosa conquista, Papa Alessandro VI diede loro il titolo di re Cattolici. E all’interno della Cappella Reale, dietro le inferriate della tomba, sotto ai nostri piedi riposa la regina di Castiglia, Isabella la Cattolica, di fianco a Ferdinando d’Aragona e insieme alla figlia, Giovanna la pazza e suo marito Filippo il bello, genitori di Carlo V. Il destino della regina è compiuto. Lasciamo Granada accompagnati dal racconto della leggenda del Sospiro del Moro. Si narra che questo passo a sud della città, sulla strada verso la costa, fosse così chiamato dopo il passaggio di Boabdil, ultimo degli arabi che regnarono a Granada per ben otto secoli; la madre Aicha lo volle ancora molto giovane sul trono al posto del marito, ripudiato per via del tradimento con la cristiana Soraya; durante il regno di Boabdil, el rey chico, l’unità degli arabi andò affievolendosi fino alla resa definitiva nelle mani di Ferdinando d’Aragona (1492) ed all’esilio di Boabdil. Lungo la strada che lo conduceva lontano, arrivati al passo Boabdil si voltò e guardando Granada lacrime di tristezza uscirono dai suoi occhi: piangi come una donna quello che non hai saputo difendere da uomo.



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