Hoggar-Tassili

Hoggar-Tassili - Il fascino del deserto Testo di Bruno Visca O uomo, che importa che tu abbia caldo o freddo? È la legge del deserto aver caldo di giorno e freddo di notte. Ma non hai che da volgere la tua fronte al cielo per ricevere il sole e poi le stelle. E sarai contento. Mussa Ag Amastane poeta Tuareg Le emozioni che si provano nel...
Scritto da: Bruno Visca
hoggar-tassili
Ritorno il: 14/03/2002
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
Hoggar-Tassili – Il fascino del deserto Testo di Bruno Visca O uomo, che importa che tu abbia caldo o freddo? È la legge del deserto aver caldo di giorno e freddo di notte. Ma non hai che da volgere la tua fronte al cielo per ricevere il sole e poi le stelle. E sarai contento.

Mussa Ag Amastane poeta Tuareg Le emozioni che si provano nel deserto vanno ben oltre alle sensazioni meteorologiche del caldo e del freddo. Sono sensazioni di calma, di tranquillità e di pace in netta contrapposizione coi ritmi frenetici cui siamo abituati, con i quali conviviamo in questa nostra società “civile”. La totale immersione in una natura incontaminata, la bellezza dei paesaggi intorno a noi, i colori delle dune che variano dall’ocra al rosso con riflessi che, al tramonto ed all’alba, assumono toni ed ombreggiature che solo un pittore può esprimere sulle sue tele ed il cielo di un azzurro intenso durante il giorno e traboccante di stelle nelle notti regalano al visitatore, che sappia affrontare i piccoli disagi che inevitabilmente s’incontrano, un senso di dolcezza e di serenità che fanno apprezzare maggiormente la bellezza del nostro “vecchio” mondo. Questa considerazione sul deserto, dove la vita sembra quasi assente, può apparire contrastante solo al viaggiatore che lo osserva in modo superficiale; infatti, specialmente nelle zone rocciose, il deserto è ricco di vita: oltre ai pochi mammiferi di grosse dimensioni come dromedari, gazzelle e fennec (la volpe del deserto), sono presenti numerosissimi insetti, piccoli rettili e molti volatili. Cosa dire poi dei rari arbusti spinosi e delle poche piante che riescono a vivere in un ambiente tanto ostile spingendo le loro radici in profondità per riuscire a catturare la poca acqua presente nel sottosuolo? Il nostro viaggio si svolge nel sud dell’Algeria, in una zona dove il 90% della popolazione è di etnia Tuareg (Targhi al singolare). Parenti prossimi dei berberi, sono ammirati per l’eleganza dei loro abiti e del loro portamento davvero regale, sono riusciti ad insediarsi ed a sviluppare una straordinaria civiltà nomade in un territorio che può sembrare invivibile. Il loro nome, probabilmente, deriva dalla parola araba targa e sta ad indicare una regione ricca di alberi e di acqua, come erano questi territori in epoche remote. I Tuareg sono molto fieri della loro etnia e si considerano uomini liberi, cavalieri straordinari e profondi conoscitori del deserto; la loro lingua è il tamashek, derivata dal berbero, ma parlano quasi tutti correttamente anche il francese. Sono chiamati “uomini blu” perché il loro shèsh (lunga striscia di stoffa di solito blu dietro la quale nascondono il viso), stingendosi fa sì che il loro volto prenda una tinteggiatura blu. Secondo la tradizione Tuareg, il shèsh serve anche per evitare che gli spiriti maligni si introducano nel cuore attraverso il naso e la bocca. Contrariamente a quanto accade nel mondo arabo, le donne non si coprono il volto e, in questa società apparentemente maschilista, sono loro che tramandano la scrittura, che insegnano ai bambini e che erigono le tende; possono anche abbandonare il marito con la stessa formula che il Corano prevede per gli uomini. Purtroppo oggi il progresso ha reso quasi inutili le vecchie attività degli uomini Tuareg, che erano principalmente la lavorazione della pelle per confezionare le selle ed il commercio effettuato con lunghe carovane di dromedari che percorrevano le piste transahariane; nonostante questo disfacimento culturale, il popolo Tuareg non si è dato per vinto e, con l’avvento dei pur rari visitatori, si è dedicato alle attività legate al turismo, quali l’artigianato e la guida dei viaggiatori nell’attraversamento del deserto. Trascorrere qualche giorno nel deserto in compagnia dei Tuareg può rivelarsi un’esperienza stupenda ed indimenticabile; abilissimi ad orientarsi anche quando non ci sono punti di riferimento e lo sguardo, rivolto all’orizzonte, non scorge che sabbia e pietre. Questa loro profonda conoscenza del territorio infonde un senso di sicurezza al viaggiatore che da solo non saprebbe certamente dove dirigersi. Prima di iniziare la traversata, che si svolge sempre con tranquillità e senza fretta, ci si procura la legna che servirà per accendere il fuoco, un vero rito che si effettua tre volte al giorno, al mattino appena svegli per il tè della colazione, per cucinare il pasto di mezzogiorno e della sera. Il cibo del Targhi, nel deserto, è costituito essenzialmente dalla “galletta”, un pane non lievitato fatto con semola di mais, acqua e sale; acceso il fuoco per procurarsi la brace, il Targhi impasta il tutto con una perizia degna del miglior pizzaiolo napoletano; ottenuta la consistenza voluta, la galletta viene coperta di sabbia su cui si deposita la brace; dopo circa 30 minuti la cottura è terminata, la galletta viene estratta dalla sabbia, pulita e ridotta in minuscoli pezzettini che sono conditi con verdure e carne tagliata a pezzi, precedentemente fatti cuocere in umido. Dopo il pasto non può mancare il tè che, specialmente alla sera, costituisce un vero rito. Le foglioline di tè, a volte accompagnate da qualche foglia di menta, sono fatte bollire tre volte per ottenere tè di concentrazione sempre minore; al termine di ogni bollitura si aggiunge lo zucchero che viene rimescolato travasando, con notevole perizia, il tè da una teiera ad un’altra, per diverse volte e tenendo le due teiere notevolmente una più in basso dell’altra. Tutti e tre i diversi tè vanno bevuti perché ognuno ha un suo significato: secondo la tradizione Tuareg il primo è duro come la morte, il secondo è forte come la vita mentre il terzo è dolce come l’amore.

Il deserto non è soltanto sabbia, infatti unicamente il 20% circa del Sahara è sabbioso. La zona dell’Hoggar, da noi attraversata nella prima settimana, è costituita prevalentemente da un altopiano roccioso a gradinate sul quale si innalzano dei pinnacoli isolati, resti di antiche attività vulcaniche; tra essi il più elevato è il Tahat (2918 metri). Il Tassili n’Ajjer, visitato nella seconda settimana, è formato da un vasto altopiano terrazzato posto ai margini del massiccio dell’Hoggar, con guglie e pinnacoli di arenaria profondamente incisi dall’erosione. La zona del Tassili costituisce uno dei maggiori centri dell’arte rupestre sahariana. In particolare è celebre per le numerose ed importanti pitture parietali esplorate e rilevate in maniera sistematica dalla metà degli anni ’50 in poi.

Dal mio diario di viaggio Sabato 02-03-2002 Con un volo Air Algerie, di cui si apprezza “la puntualità”, via Roma-Algeri, atterriamo alle 21 a Tamanrasset dove ci sistemiamo in un camping-hotel per la notte. Tamanrasset, a 1400 metri sul livello del mare, in passato piccolo villaggio sperduto nel deserto, è ora al centro di un discreto traffico turistico e, grazie alla sedentarizzazione dei Tuareg, conta una popolazione di circa 40000 abitanti. Praticamente non offre nulla, ma è uno dei grandi miti del Sahara.

Domenica 03-03-2002 Mi alzo alle 7, in silenzio per non svegliare i miei compagni, mi accoglie subito una sorpresa: la porta della stanza non si apre. Sentendomi armeggiare con la chiave tutti si svegliano e provano a turno, ognuno con il massimo impegno, ad aprire la porta, ma senza riuscirci. Dopo circa 10 minuti un Targhi, sentendo il rumore provocato dai nostri tentativi infruttuosi, ci consiglia di passargli la chiave dalla fessura sotto la porta. Dall’esterno ci apre. Sembra non stupirsi ma di ritenere tutto assolutamente normale! Forse temono che gli ospiti fuggano senza pagare il conto e per questo motivo li chiudono nelle stanze? Dopo un breve giro in Tamanrasset per acquistare quanto manca per affrontare nei prossimi giorni la traversata del deserto, partiamo con un fuoristrada per un’escursione al rifugio di Assekrem, situato sulle montagne dell’Hoggar, dove pernotteremo. Facciamo così la conoscenza con Badi, il nostro autista. Lasciamo a Tamanrasset il bagaglio non indispensabile che verrà recuperato il giorno dopo. Lasciata la città ci inoltriamo in una pista nel deserto, zona non sabbiosa ma totalmente pietrosa. Il paesaggio brullo e desolato, ma nello stesso tempo affascinante, il senso di solitudine con lo sguardo che spazia e si chiude in lontananza sulle alture dell’Hoggar, provocano un’attrazione che è difficilmente descrivibile e che molti non capiscono fintanto che non la provano. Il viaggio prosegue con qualche sosta per scattare foto e con una deviazione per visitare Afilale; si tratta di una ghelta (pozza d’acqua) sulle rive della quale cresce una folta vegetazione. Una vera rarità per questi luoghi. Per raggiungere questa località, si dirama dal percorso principale una traccia sul terreno chiaramente visibile perché, nelle vicinanze, vi è una porta costruita con due archi in pietra, porta che sembra l’ingresso al nulla. Il viaggio prosegue in un paesaggio lunare. Dopo un continuo saliscendi, la pista comincia ad inerpicarsi e verso le 15 giungiamo al rifugio situato a 2600 metri di quota. Bellissima la visione delle cime che circondano il lato sud del rifugio; un vero anfiteatro di guglie e vette che ricorda lontanamente le Dolomiti. Siamo giunti al rifugio sporchi ed impolverati ma con l’animo e lo spirito perfettamente in sintonia con questi luoghi, dei quali apprezziamo l’aria tersa ma soprattutto l’incantevole panorama che si ammira. Alle 16, in circa 20 minuti di camminata, saliamo all’Eremo Charles Foucauld, a 2780 metri, collocato poco sopra al rifugio. Aspettiamo il crepuscolo per immortalare le guglie che si tingono di rosso per i raggi del sole che, tramontando, le colpisce con un’angolazione particolare. Purtroppo le nuvole ci impediscono di ammirare il tramonto in tutto il suo splendore. Scendiamo al rifugio verso le 19 sperando di poterci rifare ai primi albori del mattino dopo. Cena a base di “sciorba” (zuppa) e cus cus.

Lunedì 04-03-2002 Ancora assonnati, alle 5,45 ci alziamo; alle 6,10 si parte per risalire all’Eremo e contemplare il sorgere del sole previsto per le 6,45. Si sale al buio illuminando il sentiero con le pile frontali e, arrivati sulla cima, guardiamo ansiosi il cielo che a poco a poco incomincia a tingersi di rosa regalandoci un’alba bellissima che ci ripaga della delusione del tramonto di ieri sera. Alle 7,30 ritorniamo al rifugio per la colazione e , alle 8,30, si parte per Tamanrasset dove giungiamo alle 12 dopo aver percorso a ritroso tutta la pista dell’andata. Il paesaggio ed i panorami sul deserto, anche se non nuovi perché già visti ieri, provocano le stesse emozioni e sensazioni dell’andata. Qui facciamo la conoscenza con Chire, il secondo autista e con Abdellah, la nostra guida. Dopo aver effettuato alcuni acquisti, alle 16 si parte per la prima tappa della traversata verso Djanet; la meta prevista è Tamekrest dove giungiamo alle 18,30. Durante il transito proviamo anche l’emozione dell’incontro, in una località chiamata Tounen, di una tribù di nomadi Tuareg con tanto di dromedari adibiti al trasporto delle masserizie durante i loro continui spostamenti. Alle povere bestie, perché non si allontanino troppo dal luogo dell’accampamento, vengono legate tra di loro le zampe anteriori costringendole a muoversi con difficoltà ed a piccoli passi. La zona di Tamekrest, dove piazziamo il campo, si trova nell’antico letto di un fiume che, a giudicare dalle alte sponde, prima della desertificazione doveva avere acqua in abbondanza. Nelle vicinanze vi è ancora quella che i Tuareg definiscono una “cascata”; in realtà si tratta di un rivolo d’acqua quasi invisibile formato da una piccola sorgente che nasce sulle alture e che alimenta un pozzo artificiale dove i nomadi si riforniscono. Per cena, Annamaria ed Eros, preparano degli ottimi fusilli conditi con salsa di pomodoro e cipolle, molto graditi da tutto il gruppo. Questa sarà l’unica notte passata in tenda, da domani si dormirà sotto le stelle.

Martedì 05-03-2002 Alle 6,30 Eros, Eugenio ed io, saliamo su di un’altura alle spalle del campo per ammirare il sorgere del sole che, come per tutta la settimana, risulta sempre velato da qualche nube. Prima della partenza per la seconda tappa che ci condurrà a Yuof Ahakit, visitiamo il piccolo pozzo e la “cascata” che si trovano nelle vicinanze. L’esile filo d’acqua non assomiglia neanche lontanamente alle cascate che si possono ammirare sulle Alpi ma, per la gente del posto, rappresenta pur sempre una ricchezza. Durante il tragitto incontriamo un villaggio in prossimità del quale vi è un pozzo con delle donne che attingono l’acqua. L’intero villaggio è formato da capanne costruite con canne, all’interno si vedono solo alcune donne, gli uomini probabilmente sono al pascolo con il bestiame. Si prosegue il cammino seguendo, per quanto possibile, i letti degli antichi fiumi ora completamente asciutti. Il paesaggio si trasforma gradatamente; il deserto, da roccioso con la presenza di qualche raro albero, diviene sabbioso con totale assenza di vegetazione. Verso le 18 giungiamo nel luogo dove sistemeremo il campo, località che affascina per la presenza di dune e formazioni rocciose che sorgono dalla sabbia innalzandosi verticalmente per diversi metri; sullo sfondo l’orizzonte si chiude su una sequenza di pinnacoli molto frastagliati che sembrano delimitare e proteggere una parte del deserto, nell’insieme di una bellezza tale da sembrare irreale! Questo è certamente il luogo più affascinante sinora incontrato.

Mercoledì 06-03-2002 Alle 6 il chiarore dell’alba mi sveglia; mi alzo e ne approfitto per godere ancora un po’ dell’incanto di questa meravigliosa natura. Purtroppo questa mattina dovremo proseguire con la terza tappa che ci condurrà a Honang. Partiamo alle 8.30 e, dopo 1 ora e ½, lasciamo le dune per entrare in una zona con prevalenza di terreno duro e rocce. Il territorio completamente piatto e la calura che ci accompagna favoriscono l’insorgere del fenomeno dei miraggi che, come già accaduto ieri, si presenta ai nostri occhi. In lontananza sembra di scorgere un bosco sulle sponde di un ridente laghetto. I miraggi sono in realtà fenomeni ottici dovuti alla rifrazione della luce negli strati bassi dell’atmosfera quando la densità dell’aria ha una distribuzione anomala. Sono osservabili su superfici intensamente riscaldate dal sole perché la temperatura del suolo e dello strato d’aria al suo contatto è nettamente superiore a quella degli strati più alti; in questi casi un oggetto lontano può apparire come riflesso su di uno specchio d’acqua. Dopo la solita sosta per il pranzo con la cottura della “galletta” da parte dei Tuareg nostri accompagnatori, si percorre una regione dove il territorio cambia in continuazione. Panorami brulli e monotoni si alternano a paesaggi spettacolari come la zona delle rocce blu; si tratta di un vasto sito di rocce affioranti dalla sabbia, di un colore azzurro intenso dovuto alla presenza di minerali. Lo spettacolo merita certamente una sosta per scattare delle foto, anche se le immagini difficilmente riusciranno a rendere la dovuta ragione ad un paesaggio di tale bellezza; per questo motivo cerco di imprimerlo in modo permanente nella mia mente. Percorrendo una deviazione che segue il corso di un fiume prosciugato ci addentriamo in profonde e stupende gole. Il posto è di nuovo spettacolare e di una bellezza talmente selvaggia che difficilmente si ammira sulle nostre montagne. Alle 18.15 giungiamo a Honang, luogo del terzo campo situato in una gola abbastanza ampia, con una ripida parete da un lato mentre dall’altro la pendenza è molto meno accentuata. Come ieri, anche questa notte, nonostante i nuvoloni neri Eros ed io dormiamo all’aperto. Nella notte cadono radi goccioloni; non possono durare (almeno speriamo), infatti siamo nel deserto dove piove solamente ogni tre anni! Mi infilo con la testa nel sacco a pelo ed attendo. Dopo pochi minuti la pioggia cessa, non ha avuto neanche il tempo di bagnarci.

Giovedì 07-03-2002 A causa del forte vento e con la sabbia che penetra da tutte la parti, la tappa odierna non risulterà certamente monotona. Solita sveglia alle 6.30 e perlustrazione, in compagnia di Eugenio ed Eros, della sommità della gola che risaliamo dal lato in cui la parete è meno ripida per ammirare l’alba dalla cima. Alle 8.15, mentre i nostri due autisti e la guida stanno ancora caricando i bagagli sul fuoristrada, ci incamminiamo a piedi per la quarta tappa che dovrà condurci a Erg Admer, una zona completamente sabbiosa e con grandi dune; desideriamo sgranchirci un po’ le gambe dopo tre giorni di traversata passati prevalentemente seduti sul fuoristrada. Il cielo è sereno e promette bel tempo. Risaliti sui mezzi, in mattinata facciamo una sosta nei pressi di un pozzo per rifornirci di acqua e per rinfrescarci; nonostante la calura esterna (circa 40°) l’acqua, che si trova in profondità, risulta freschissima ed è un vero piacere sentirsela sulla pelle. I Tuareg la bevono, deve essere una vera delizia fresca com’è; noi non ci fidiamo, dobbiamo prima depurarla e di conseguenza la berremo calda, peccato! Attraversiamo un enorme altopiano sabbioso a circa 1100 metri di quota. È completamente pianeggiante e soltanto a tratti si intravede qualche rilievo all’orizzonte, per la maggior parte però risulta piatto e identico da tutti i lati. I Tuareg riescono ugualmente ad orientarsi in un paesaggio del genere, senza punti di riferimento se non la posizione del sole nel cielo. Comincia ad alzarsi il vento che, in questo luogo, sembra essere sempre presente. Nonostante i finestrini chiusi, la sabbia inizia a farsi sentire ed a penetrare ovunque. Fortunatamente siamo tutti provvisti di shèsh e di occhiali, che ci permettono di ripararci completamente il viso. Neanche durante la sosta per il pranzo il vento accenna a calmarsi, anzi, sembra aumentare il suo vigore. Ci ripariamo a ridosso di una piccola duna tendendo un telo tra i due fuoristrada per avere un minimo d’ombra. Siamo totalmente avvolti nel turbinio di questa tempesta di sabbia e ben presto ci accorgiamo che le nostre “protezioni” servono a poco: la sabbia penetra in ogni parte: nel collo, in bocca , negli occhi, ecc. Si prosegue con il vento che non ha nessuna intenzione di diminuire di intensità. Arriviamo in vista delle dune che dobbiamo risalire per piazzare il campo. Il paesaggio è spettacolare, diverso da quelli incontrati nei giorni scorsi: le dune si susseguono a perdita d’occhio in tutte le direzioni, un vero mare di sabbia in burrasca dove le dune rappresentano le onde. Quando si intraprende la salita, nonostante le marce ridotte, il nostro fuoristrada fatica ad avanzare e dopo diversi tentativi scendiamo e proseguiamo a piedi. Sulla cima del colle il panorama è da mozzafiato, il mare di dune si perde all’orizzonte e sembra non avere fine; la bellezza del paesaggio riesce persino a farci dimenticare la persistenza del vento che, continuando a soffiare imperterrito, anche se di intensità leggermente minore, seguita a sollevare la sabbia ed a sospingerla in ogni direzione. Sistemiamo i fuoristrada in modo da ottenere un riparo dove accamparci. Non è possibile piazzare le tende perché il vento ostacola il lavoro, quindi questa notte dormiremo tutti all’aperto. Anche la cena risulta condizionata dalla situazione ambientale, non si può accendere il fuoco, quindi niente pasto caldo; dobbiamo accontentarci di una cena fredda con sabbia in abbondanza. Nonostante le difficoltà, per la verità abbastanza sopportabili, nessuno di noi si lamenta anzi, il morale risulta molto alto e siamo tutti affascinati dall’incantevole panorama. Il vento ha spazzato il cielo e con l’arrivo della notte risulta essere particolarmente luminoso per l’effetto di milioni di stelle che brillano con una luce intensissima. Nessun ostacolo e nessun bagliore impediscono la visione a 360 gradi della volta celeste e vorremmo che i nostri occhi catturassero questo spettacolo unico per non dimenticarlo e poterlo raccontare al nostro ritorno. Sicuramente è il cielo che ogni astronomo sogna di vedere almeno una volta nella propria vita! Malgrado la sabbia penetri anche all’interno dei nostri sacchi a pelo, ci addormentiamo contenti perché di fronte allo splendore naturale di questi luoghi ogni disagio diventa un’inezia.

Venerdì 08-03-2002 Mi sveglio alle 6.15. Il vento è quasi completamente cessato ma un sottile strato di sabbia ricopre completamente i nostri sacchi a pelo. Mi alzo ed esploro le dune alla luce del sole che sorge; con l’aumentare del chiarore il colore della sabbia assume tutte le gradazioni del grigio, per passare all’ocra quando il sole è completamente sorto. Siamo in una località talmente affascinante che dispiace lasciarla, si vorrebbe poter restare almeno qualche giorno. Purtroppo si deve ripartire per l’ultima tappa che ci condurrà all’oasi di Djanet. Si ridiscendono le dune sul versante opposto a quello della salita. Arrivati alla base, dove il terreno risulta più duro e compatto, ci fermiamo per gonfiare le gomme che erano state parzialmente sgonfiate ieri, prima della salita alle dune, perché avessero maggiore aderenza sulla sabbia. L’operazione avviene con una pompa simile a quella che, da noi, si usa per le ruote delle biciclette. Mentre i nostri autisti gonfiano le gomme, ci incamminiamo a piedi per sgranchirci le gambe; ci troviamo in una pianura immensa, completamente sabbiosa, circondata in lontananza da dune. Percorriamo volentieri un buon tratto fintanto che non sopraggiungono i fuoristrada, risaliamo a bordo e, con andatura veloce (circa 60 Km/ora) permessa dal fondo pianeggiante e compatto, raggiungiamo la strada asfaltata che proviene dal nord e conduce a Djanet. Dopo qualche chilometro di asfalto abbandoniamo nuovamente la strada e, con una deviazione su pista sterrata, arriviamo nella zona di Terarat, famosa soprattutto per un graffito del neolitico chiamato “la vache que pleure” (la mucca che piange). Nell’incisione sono rappresentate diverse mucche, ad una di queste sembra scendere una lacrima da un occhio; questo particolare ha dato il nome al graffito. La zona è formata da dune sabbiose e da grossi monoliti che fuoriescono dalle stesse; è su uno di questi che si trova l’incisione della mucca, probabilmente una delle più famose di tutto il Sahara Algerino. Ripreso il cammino, in breve raggiungiamo Djanet dove ci sistemiamo all’Hotel Teneré; finalmente possiamo assaporare il piacere di una doccia che ci toglie tutta la sabbia accumulata sulla pelle durante la traversata. Domani si partirà per visitare il Tassili n’Ajjer, questa volta non con i fuoristrada ma a piedi, con l’aiuto di asini per il trasporto dei bagagli.

Sabato 09-03-2002 Il Tassili n’Ajjer è una delle più grandi concentrazioni al mondo di arte rupestre preistorica, le cui opere più antiche risalgono a 9000 anni fa. Il desiderio di visitarlo ci aiuta a superare la fatica della sveglia alle 5 del mattino per recarci con un fuoristrada a Tafilatet, a circa 15 chilometri da Djanet, luogo di partenza del nostro trekking di 5 giorni sull’altopiano del Tassili. Qui facciamo la conoscenza con la nostra nuova guida, Mohamed, con 6 asinelli adibiti al trasporto dei bagagli e con i loro due giovani conducenti, Mohamed junior e Ibrahim. Inizialmente pianeggiante il sentiero diventa gradatamente più scosceso e, con circa 1 ora di marcia in salita, raggiungiamo Tafetest, un grande altopiano circondato da pareti verticali. Attraversato il pianoro ci inoltriamo in un canyon, con salita prima dolce e poi molto ripida arriviamo sull’altopiano del Tassili, a circa 1700 metri. Dinanzi a noi si apre un tavoliere pietroso che si perde all’orizzonte e sembra essere senza fine. Ci incamminiamo in questo paesaggio lunare che gradualmente cambia aspetto. Dopo un’ora di cammino totalmente pianeggiante entriamo in un vero labirinto: si tratta di una zona di canyon non molto profondi ma da cui, non conoscendoli, sarebbe difficoltoso uscirne. Fortunatamente la nostra guida Mohamed sembra avere una buona dimestichezza della zona per cui alle 13.30 si raggiunge Tamrit, luogo del nostro primo campo sul Tassili, caratterizzato da bellissime guglie verticali alte diverse decine di metri. Sostiamo per il pranzo e alle 15.30, con un trekking di 3 ore, possiamo ammirare delle bellissime pitture rupestri e la valle dei cipressi millenari di enormi dimensioni. L’altopiano del Tassili è caratterizzato da rocce erose dai venti che formano numerosi anfratti in cui si può pernottare, quindi non si montano le tende ma si dorme sulla sabbia sotto questi ripari di roccia.

Domenica 10-03-2002 Oggi ci spostiamo nella zona di Sefar. Si parte alle 8 e con 4 ore di tranquillo cammino, giungiamo sul luogo dove piazzare il campo. Durante lo spostamento si fanno numerose soste per visitare i siti dove sono localizzati interessanti disegni rupestri, quindi la tappa non risulta faticosa. La zona di Sefar, caratterizzata da formazioni rocciose che sorgono da bellissime dune, è ricchissima di pitture e si divide in Sefar Blanc e Sefar Noir. Nel pomeriggio visitiamo il sito di colore rosso scuro. Nuovo pernottamento all’aperto con l’aria che si rinfresca notevolmente durante la notte.

Lunedì 11-03-2002 Senza smontare il campo si parte alle 8 per visitare le pitture che si trovano nel vicino sito di Tin Tazarift. La località, oltre che per i bellissimi disegni rupestri, merita una visita per la spettacolarità del paesaggio, come d’altronde la maggior parte del Tassili. Un labirinto di altissime guglie erose dagli agenti atmosferici ed adagiate a ridosso di piccole dune sabbiose create dal vento. La giornata è magnifica; il colore ocra lucente della sabbia si fonde in un tutt’uno col colore rossastro della roccia dei pinnacoli che si stagliano sullo sfondo di un cielo azzurro intenso e totalmente privo di nuvole. Alle 11,30 si rientra al campo che sarà smontato per trasferirci , nel pomeriggio, nella zona di In Etouame, senza tralasciare una visita al sito di Sefar Noir. Lasciata la bellissima zona di Sefar, ricca di guglie, si attraversa, dirigendosi verso ovest, un immenso altopiano pietroso di cui non si vede la fine. La direzione del nostro cammino, avvicinandosi alla zona del campo, si rivolge a sud ed il paesaggio cambia nuovamente. Si incontrano altre guglie ed altri pinnacoli, non belli come quelli di Sefar, ma ugualmente affascinanti. Durante il cammino visitiamo altri siti con disegni rupestri e finalmente, alle 17,40, si raggiunge il luogo del campo.

Martedì 12-03-2002 Dopo la partenza, che avviene alle 8, le guglie riacquistano un fascino simile a quelle di Sefar. Godiamo della loro bellezza ancora per un’ora, dopo di che si ritorna sull’altopiano roccioso già visitato nei giorni precedenti. Lo si attraversa e, alle 10,45, si giunge a Tamrit, nello stesso punto in cui abbiamo piazzato il campo la prima notte passata sul Tassili. Sostiamo in anticipo per il pranzo e ripartiamo alle 14; si esce dalla zona di Tamrit e si attraversa per l’ennesima volta l’altopiano che sembra essere infinito. Si inizia la discesa seguendo un sentiero diverso da quello percorso durante la salita e, alle 17, raggiungiamo la zona di Akba dove sistemiamo l’ultimo campo. Quella di oggi è risultata una tappa di trasferimento, poco interessante per quanto riguarda i disegni rupestri, ma sempre attraente dal punto di vista paesaggistico. Poniamo il campo in una piccola rientranza rotonda, circondata dalle solite rocce calcaree e molto bene riparata dai venti. Eugenio, Eros ed io non ci lasciamo sfuggire l’occasione per un ultimo giro di esplorazione sulle rocce che attorniano il campo.

Mercoledì 13-03-2002 Purtroppo oggi lasciamo definitivamente il Tassili. Si parte alle 8 per scendere a Tafilatet dove, alle 14, abbiamo appuntamento con i fuoristrada per il ritorno a Djanet. Un sole caldissimo ci accompagna per tutta la discesa e, alle 12, arriviamo al luogo dell’appuntamento. L’acqua non deve essere sprecata essendo un bene prezioso, specialmente da queste parti; così quella depurata e avanzata nelle nostre taniche è subito recuperata dai nostri accompagnatori e versata in una “jerba”, (otre in pelle di capra) che sarà lasciata sul posto per le future escursioni. La scarsa ombra di un albero ci ripara dai raggi del sole e ci regala un po’ di sollievo. L’attesa dei fuoristrada si prolunga oltre l’ora stabilita; ci muoviamo continuamente sotto l’albero per seguire l’ombra che si sposta e, ben presto, l’acqua delle nostre borracce finisce. La bocca riarsa e la forte sete provocata dalla calura del posto sono più forti delle attenzioni sin qui seguite e decido di bere l’acqua prelevata dalla “jerba”; dopo tutto contiene quella delle nostre taniche che era stata depurata, anche se probabilmente mescolata ad altra. Finalmente, verso le 15,30, scorgiamo i fuoristrada che arrivano a prelevarci. Scopriremo poi che si erano dimenticati del nostro rientro! Arrivati all’oasi di Djanet ci sistemiamo nel centrale camping-hotel Zeriba. Cena a base di “sciorba” e cus cus.

Giovedì 14-03-2002 Il termine oasi deriva dall’egiziano “waha”, significa stazione ed è, per definizione, un’area limitata in una estensione desertica ove, per l’affioramento locale di una falda idrica sotterranea, compare la vegetazione e si rendono possibili le culture e l’insediamento umano. L’oasi di Djanet, situata al sud dell’Algeria al confine con la Libia, è da decine di anni chiamata la “perla del deserto”. Dista centinaia di chilometri da qualsiasi altro centro abitato ed è a circa 1000 metri di altitudine. Quasi tutte le costruzioni sono abbarbicate sull’erta di una scarpata, sui contrafforti del Tassili; la pianura sottostante, preziosa perché fertile, viene utilizzata quasi esclusivamente per le coltivazioni. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi; la storia certa risale alla fine dell’800 ed alle guerre coloniali; la sua posizione strategica, proprio all’imbocco della catena del Tassili, ne fece una preda ambita dai Francesi che la occuparono. Nella parte alta dell’abitato è ancora visibile Fort Chalet, che prende il nome da un comandante Francese e ospitava i soldati della Legione Straniera.

Dedichiamo la mattinata alla visita di Djanet ed allo shopping. Nel pomeriggio ritorniamo, con un fuoristrada, nella zona di Erg Admer nella speranza di poter ammirare le dune al tramonto senza il forte vento che avevamo incontrato la sera che vi avevamo pernottato. Dopo un tratto di strada asfaltata, seguiamo una pista che attraversa il deserto ed arriviamo nella zona delle dune. È stupefacente notare come il vento modella questi enormi mucchi di sabbia con forme sinuose e sensuali. Parcheggiato il fuoristrada alla base delle dune, risaliamo a piedi una cresta e raggiungiamo la cima di una duna. Da qui il panorama è meraviglioso. A 360° gradi si vede solamente sabbia sino all’orizzonte; le dune si susseguono con dolci ondulazioni e sembrano invitare a seguirle per scoprire cosa si nasconde dietro di loro. Purtroppo il tempo passa rapidamente e, tra una foto ed un’altra, giunge il tramonto e dobbiamo rientrare a Djanet. Passiamo l’ultima sera a contatto con il deserto, domani si parte per Algeri. Ceniamo con “sciorba”, dromedario arrosto e patatine.

Venerdì 15-03-2002 Ultimo saluto a Djanet prima di imbarcarci su un volo interno Air Algerie che, con scalo a Ouargla, deve portarci ad Algeri. Invece che a Ouargla atterriamo a Ghardaia, circa 200 Km più ad ovest. Veniamo informati che è in corso una tempesta di sabbia che non permette l’atterraggio ad Ouargla, così non ci rimane che attendere che la tempesta abbia fine. Restiamo fermi dalle 10 alle 14, dopo di che ripartiamo e giungiamo ad Algeri alle 17,30, con circa 3 ore di ritardo. Dopo la sistemazione all’hotel dell’aeroporto, con due taxi, visitiamo la città. Algeri si adagia su colline che digradano verso il mare e circondano un ampio golfo aperto sul Mediterraneo. Su uno sperone che domina la baia si trova la vecchia città araba (casbah), mentre intorno al porto sorgono i nuovi quartieri costruiti dai francesi. Sulla collina il “Monumento ai Martiri” domina l’intera città: si tratta di una brutta opera di immense proporzioni, dedicata a coloro che sono morti durante la guerra di indipendenza dalla Francia, inaugurata nel 1982 per celebrarne il ventesimo anniversario. In città non vi è traccia di turisti, probabilmente siamo gli unici e veniamo guardati dagli abitanti come vere rarità. Terminiamo la visita con una cena in un ristorante sul lungomare: anche qui siamo i soli europei e veniamo trattati con molta cortesia dal proprietario; anche il cibo risulta ottimo, anche se forse un po’ piccante.

Sabato 16-03-2002 È il giorno del rientro in Italia. Arrivati a Roma salutiamo Annamaria che, essendo giunta a destinazione, ci lascia. Salutiamo anche con Eros che si imbarca per Milano mentre Marina, Eugenio ed io attendiamo l’aereo per Torino.

Conclusioni Dovendo tirare le somme per dare una valutazione sul nostro viaggio, convinto di interpretare anche il pensiero dei miei compagni, posso affermare che ha ampiamente soddisfatto le nostre aspettative. Tutto l’itinerario si è svolto secondo quanto prestabilito. Abbiamo potuto apprezzare il fascino di una natura selvaggia e incontaminata (ormai sempre più difficile da incontrare) oltre all’immersione totale nella cultura Tuareg che ci ha consentito di avvicinarci ad un mondo, almeno per me, sconosciuto. Devo riconoscere però che l’ottima riuscita del viaggio è stata soprattutto merito dei miei compagni: la loro grande disponibilità ha consentito al nostro piccolo gruppo un affiatamento come di solito avviene solo tra vecchi amici. A Roma ci siamo salutati con il proposito di ritrovarci; chissà che non si riesca ad organizzare ancora un viaggio insieme, magari di nuovo nel deserto.

Compagni di viaggio (in ordine alfabetico) · Annamaria – Roma · Bruno – Germagnano (TO) · Eros – Ponte San Pietro (BG) · Eugenio – La Cassa (TO) · Marina – Chieri (TO)



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