Hajde da se volimo, Balcani 2007
La decisione più azzeccata di tutto viaggio è stata prendere il volo Ryanair Roma-Treviso e il pullman per Mestre: 21 euri in tutto, contro i 51 che avrei speso con le Ferrovie. Poi, da Mestre parte il treno per Zagabria, la prima semitappa del viaggio. Il vagone su cui salgo non è molto comodo per passarci la notte perché ha le poltroncine che non si allungano; in più davanti a me è seduto un ragazzo croato dalle gambe enormi: prevedo una notte turbolenta. Quando arriviamo alla frontiera di Villa Opicina, il treno ha un ritardo di tre quarti d’ora. Alle cinque e mezza di mattina si giunge a Zagabria. L’ora e mezza di ritardo accumulato mi è utile: in questo modo c’è qualche speranza in più che la biglietteria sia aperta, devo comprare il biglietto per Sarajevo: il treno parte alle 8h40. È aperta, faccio il biglietto, con gli spicci del resto mi piglio un caffè alla macchinetta automatica, deposito i bagagli nell’armadietto e mi faccio un giro rapido nell’alba di Zagabria. Alle 8 e poco più torno in stazione.
Il mio treno è già sul binario. Salgo, vagone fumatori: evvai! Che bello, qui in Croazia non sono ancóra arrivati i talebani antifumo! Entro nel secondo scompartimento e spero di restare solo il più possibile per sdraiarmi un po’ e fare un supplemento sonno. Tre signori anziani, però, mi stroncano la pennichella: entrano, si siedono e il treno parte.
Dai finestrini scorre la campagna croata: qualche boschetto e tanta terra coltivata e un po’ bruciacchiata dal sole. Già, il sole è caldo e il tepore comincia a farsi sentire. Alla frontiera il treno si arresta e allo scompartimento si affaccia un poliziotto col sorriso a trentadue denti, chiede i documenti, glieli diamo: io gli do il mio passaporto, lui lo apre, guarda la foto, ci mette il timbro di uscita, saluta e se ne va. Che bello, il primo timbro su questo passaporto: quest’anno voglio farne una scorpacciata! Poco dopo si sente la voce di una tipa che urla qualcosa, la gente risponde “Ne!”, arriva da noi, riurla ‘sta cosa, i vecchietti rispondono “Ne!”, lo dico anch’io per solidarietà, tanto vuol dire no, non dovrebbe essere compromettente; la doganiera risponde qualcosa che fa ridere i miei vicini e se ne va. Ma che simpatici i doganieri croati! Poi passano i Bosniaci anch’essi sorridenti, ma non mettono il timbro: peccato! Ora siamo in Bosnia Erzegovina. Il Paese è uno stato federale, diviso in due entità distinte: la “Federazione di Bosnia ed Erzegovina” dove la popolazione è per metà croata (di religione cattolica) e per metà bosniaca (di religione islamica), e la “Repubblica Serba”, abitata da Serbi e di religione ortodossa. Il treno sta passando nel territorio della Republika Srpska: le indicazioni stradali sono scritte in Cirillico, nei paesini che si vedono dalla ferrovia ci sono chiesine ortodosse. Il treno si ferma molto spesso e i tre vecchietti scendono. Finalmente, spero di potermi sdraiare un po’: giusto il tempo di arrivare alla fermata successiva, che salgono altri passeggeri. Ad infilarsi del mio scompartimento sono un poliziotto serbo-bosniaco con tanto di pistola bene in vista e un suo amico. Parlano fitto fitto, l’unica cosa che capisco è “Srpsk, srpska” (serbo, serba): direi che parlano di qualcosa legato alla politica, e lo fanno con la faccia abbastanza truce: bah, speriamo bene. Qualche fermata dopo, scendono e vengono sostituiti da altri due signori. Anche questi hanno la faccia truce e parlano a voce alta. Al tipo seduto davanti a me squilla il cellulare, la suoneria è il vecchio inno nazionale jugoslavo: sì, mi sa che qui ci tengono abbastanza alla loro identità. Boh, sarà che durante la guerra in Bosnia e nel Kosovo, in TV ‘sti Serbi venivano descritti come una specie di cannibali assetati di sangue, ma mi sento un pochettino a disagio. Il treno corre, si ferma, riparte. Ora siamo nella federazione croato-musulmana: le scritte sono in caratteri latini e nei paesini le moschee si sono sostituite alle chiese ortodosse. Entrano due ragazzi, comprano della birra dal servizio bar nello scompartimento vicino al mio e me ne offrono un po’, io dico di no, e il viaggio prosegue. I ragazzi ridono, sono allegri, scherzano. L’atmosfera è molto più rilassata. E dopo nove ore, con un ritardo di 15 minuti (Trenitalia, prendi esempio!!!) ecco Sarajevo. Finalmente! Deo gratias! Non ce la facevo più! Ho il sedere ammaccato, ho sete e ho caldo: voglio solo andare all’ostello a farmi una doccia. Attraverso il grande atrio della stazione e vado a cambiare i soldi alla posta, bevo dalla grande fontana al centro della piazza e organizzo le idee. Dunque, per l’ostello tocca prendere il tram n° 1 e scendere a Bašcaršijia, ma dov’è la fermata? Nella piazza della stazione c’è solo la stazione e l’ufficio postale, poi il nulla, e fermate non se ne vedono. Boh. Sai che c’è? Piglio un taxi, quanto vuoi che mi costi? Inizio la contrattazione in anglo-bosniaco col baffuto taxista, quando una ragazza inglese mi si avvicina e mi chiede se voglio dividere con lei il taxi fino al centro. Nessun problema. Ci verrà 5 euri a testa: suppongo, un prezzo supergonfiato, ma d’altra parte a Roma con 5€ farei solo 100 metri in taxi: va più che bene! Dopo 5 minuti la ragazza è arrivata. Ora tocca a me. Il tassista ogni tanto guarda il foglietto della prenotazione dell’ostello e ripete come un mantra il nome della via. Non è convinto. Gira e rigira. Attraversa il fiume, parla con un collega, lo riattraversa. Gira, rigira, fa manovra, torna in dietro. Chiede a un altro collega. Rigira, si ferma. Mi fa segno di scendere. Mi ìndica col dito una stradina. Mi dice “Sorry!” e torna alla sua macchina. Sorry e perché? Cammino un po’ ed ecco l’ostello. In pratica sta nella zona pedonale e il tassista girava e rigirava nella speranza di trovare un varco e scaricarmi davanti alla porta. Ma poverino! Entriamo. All’ingresso, tutto buio, c’è una scala che sale ai piani superiori e scende in cantina. Non c’è nessuno al bancone. Prima tossisco, poi suono il campanello. Mi giunge un grugnito dall’oltretomba. Nello specchio sulla scala che scende individuo una mano che si agita: devo scendere. In una sala con un tavolo, un divano e una scrivania con un PC c’è l’orso Yoghi: un ragazzo enorme con capelli e barba rossa, la pancia come un mappamondo e la sigaretta al lato della bocca, che mi saluta. Lo saluto anche io e gli dico che ho prenotato, dandogli il foglio della prenotazione. Armeggia col computer, poi guarda il soffitto e mi lancia un’occhiata come a dirmi “Ahi ahi ahi!”, lo guardo anche io come a dirgli “Perché ahi ahi ahi?”. Lui tira una boccata alla sigaretta, soffia il fumo in alto e mi fa “C’è un problema!”. Azz! Se mi dici che hai fatto casino con la prenotazione e che non ho la camera ti azzanno con le ultime forze che ho! “Che problema c’è?”, “La stanza singola c’è solo per domani notte.”, e stanotte dove dormo? “Per stanotte c’è una tripla”. “È? In che senso?” la prima notte volevo passarla solo soletto, in completa pace: dividere la stanza proprio stanotte che sono a pezzi non mi va granché. “Vabè, che comporta tutto ciò?”, “Che nella camera ci sono tre letti, ma starai da solo.” E allora chissene frega! In effetti l’inconveniente è che domani dovrò cambiare stanza, ma di fronte all’idea che mi ero fatto all’inizio di dover cercare un altro albergo per questa notte, è proprio nulla. “OK, a posto, nessun problema!”. Mi dà la chiave e prendo possesso della tripla. Più che tripla è uno sgabuzzino con tre letti, ma va più che bene. Mi rilasso appena e mi passa la stanchezza. Basta, la doccia la faccio più tardi, voglio uscire. Anzi, torno in stazione e vedo di trovare un pullman. Ho due giornate da passare qui, se non decido di prolungare: voglio andare a Mostar e a Medjugorje. Vado alla fermata del tram, dopo mezz’ora passa e lo prendo. Arrivo di nuovo in stazione, chiedo per il terminal dei bus e mi metto in coda allo sportello informazioni. Lì una ragazza gentilissima mi spiega in Inglese gli orari: per Medjugorje c’è solo un pullman alle 19h00: no, non va bene; per Mostar ce n’è tanti. Perfetto, prenoto quello delle 7 e rotti di mattina. Ritorno in Centro e faccio il turista.
Con alla mano la piccola guida che mi ha dato l’albergatore mi oriento nella zona della Bašcaršijia il centro che più centro non si può. Si sta facendo buio: c’è molta gente in giro. Quello che si vede sono due grandi moschee, alcuni edifici antichi, molti negozi. Quello che si sente è un buonissimo odore di carne alla brace. L’odore permea l’aria, arriva ovunque e mi fa venire l’acquolina. Non ho granché fame, opto per mangiarmi un ‘burek’, una sfoglia ripiena di carne e spezie: fenomenale! Costa 2 Marchi, un Euro, e ho fatto cena. Giro ancora un po’, poi decido che è ora di ritirarmi: doccia e nanna. L’unico inconveniente è che a dividermi dalla strada c’è una parete a vetri, e la stanza è al pian terreno. Fino alle 3 di mattina c’è casino, poi dormo da Dio.
Sveglia alle 6, caffè, sigaretta, gabinetto, rifare i bagagli e uscire, si va a Mostar. Devo ridare la chiave all’orso Yoghi che però dorme. Prima titubo, poi decido di scrivergli un biglietto: “Io me ne vado, questa è la chiave, in stanza ci sono i bagagli, se ti serve spostali dove ti pare. A stasera, ciao.” Alla stazione dei bus mi piglio un espresso macchiato (1 Marco, mezzo Euro), salgo sul pullman e via. Si passa per la periferia della città che si sta svegliando or ora, alcuni palazzi hanno le facciate sforacchiate da buchi rotondi: mi sa che sono i rimasugli della guerra contro i Serbi, fanno abbastanza impressione, direi. E dopo pochi minuti inizia la campagna: colline, montagne, il fiume che scorre azzurrissimo a destra; immagini incantevoli. Dopo un paio d’ore l’autista si ferma in un ristorantino con vista sul lago: pausa pipì. Nell’attesa che il guidatore si rifocilli gironzolo un po’. C’è una grande stanza dove stanno arrostendo una pecora che gira e rigira su uno spiedo: l’odore è buonissimo, lei mi fa un po’ pena; comunque non la lasciano sola, ma ne mettono altre due a farle compagnia; prevedo che qui ci saranno pranzi succulenti tra qualche ora. Il pullman riparte e si arriva a Mostar. Scendo, m’informo sugli orari del ritorno e vado a visitare la città antica; per arrivarci percorro strade assolate, fiancheggiate da palazzi, alcuni dei quali diroccati o bucati dai mortai. Anche qui c’è stata la guerra, anzi qui la guerra è stata terribile a quanto ricordo. Bellissima la città vecchia: le case di pietra, il pavimento acciottolato, finalmente si arriva al ponte vecchio, l’emblema di Mostar, quello distrutto dalle cannonate e ricostruito. Davanti al ponte c’è una foto con la scritta “Don’t forget”: è un’immagine aerea di una Mostar completamente rasa al suolo. Cacchio, ma qui è tutto ricostruito, non solo il ponte! Cacchio, finita la guerra, Mostar non c’era più! Che disastro. Comunque la città s’è risollevata bene e l’hanno rifatta bella.
Il caldo è tanto, e dopo la visita alla città, compro due cartoline e mi rifugio in un bar ombreggiato per scriverle bevendo un bel caffè. E mi ci fermo un’oretta: il bar è ricavato dal fianco di una collina, scavato nella roccia, molto pittoresco, in stile arabeggiante. Tornando indietro verso il pullman, mi fermo a guardare i temerari che si tuffano nel fiume dal ponte vecchio, mi faccio un giro nella periferia e poi torno a Sarajevo.
Lì appena giunto, compro un biglietto del pullman per il Montenegro: destinazione Ulcinj per l’indomani alle sette di sera: è l’unica possibilità di lasciare la Bosnia Erzegovina, l’altra è andare a Belgrado, ma voglio arrivarci in séguito, quindi prenoto un posto per Ulcinj, costo: 14 €.
La mia seconda serata a Sarajevo è magica. Gironzolo per le stradine della Bašcaršijia, visito la Begova Džamija, la moschea più importante della città. È l’ora della preghiera serale, la gente inizia ad entrare; entro o non entro? Sì, entro; mi tolgo le scarpe e m’infilo anch’ io. Mi piazzo in fondo, vicino alla porta e osservo la cerimonia. Appena termina, esco per primo e mi confondo tra i turisti rimasti fuori. È ormai buio, le luci sono tutte accese, dai ristoranti l’odore della carne alla brace riempie tutta l’aria, si sentono le musiche tradizionali uscire dai localini. Mangio un burek alla verdura e uno yogurt per bevanda: 1,50 € tutto e mi gusto lo struscio della piazza Bašcaršijia dal tavolino della locanda. Gironzolo un po’, vado sul luogo dell’attentato all’Arciduca Francesco Ferdinando, quello che diede inizio alla prima guerra mondiale, poi inizia a piovere e rincaso.
L’indomani faccio i bagagli, saluto ed esco. Si visita Sarajevo. Attraverso il fiume e vado al birrificio cittadino e gironzolo per i suoi dintorni, poi m’arrampico fin sulla collina Žuta Tabija da cui si gode il panorama della capitale. Scendendo, passo attraverso l’immenso cimitero che raccoglie i corpi soprattutto dei morti nella guerra d’indipendenza dalla Jugoslavia. Continuo perlustrando il Centro: la cattedrale cattolica, la chiesa ortodossa, la moschea di Ali Paša, le stradine. In una caffetteria tipica, mi godo una bosanska kafa, un caffè bosniaco che poi sarebbe quello turco, ma qui lo chiamano così: veramente buono, molto cremoso. Poi giro ancóra, salgo e scendo fino al momento di prendere i bagagli e partire.
In fila davanti al pullman c’è una masnada di ragazzetti con gli zaini che fanno un casino assurdo. L’autista li guarda male e ogni tanto li rimprovera. Il tempo di fumarmi una sigaretta, e il bus parte. Il percorso è lo stesso che ho fatto il giorno prima per Mostar, stessa fermata al ristorantino. A Mostar alcuni scendono, altri salgono: tra loro una signora con due figli. Io sono giù dal bus a fumare mentre lei armeggia con la prole vicino al mio posto. Mannaggia, speravo di restare solo senza nessuno seduto accanto, anche perché i posti non sono granché larghi. L’autista ci fa segno di montare. Mentre entro, noto sul cruscotto la custodia di un DVD su cui è raffigurata una tipa bionda dalla coscia lunga che cavalca una moto. Sembra un film porno: ne ha tutta l’aria. Mica l’autista ci vorrà mettere un pornazzo durante il viaggio? Mica per niente, ma ci sono alcuni bambini, compresi i figli della signora che mi si è piazzata accanto. Boh. Si parte, il TV del pullman s’illumina, qualche secondo e partono i primi fotogrammi. Le immagini sono sbiadite, c’è una tipa bionda succinta ma impellicciata su un palco, circondata da lustrini, che ancheggia a ritmo di una musica suadente. Titoli di testa: “Lepa Brena”. Dal fondo del pullman partono fischi e incitamenti: i ragazzi sono tutti su di giri. Poi compare il titolo “Hajde da se volimo”: un boato! È il finimondo. Cori da stadio, i ragazzi urlano estasiati. Ma cos’è? Questa tipa bionda continua a cantare, il film entra nel vivo. In pratica si tratta di una pellicola trash anni ’80, abbastanza simile alle nostre commedie dello stesso periodo. È la storia di una cantante che viaggia per la Jugoslavia inseguita da un gruppo di malviventi che vogliono rapirla. Il viaggio è in realtà una tournée, e ogni tanto la cantante, che si chiama Lepa Brena, la più famosa cantante jugoslava di tutti i tempi, si ferma in un paese e si esibisce. Il film è tutto costellato di canzoni, tra cui quella che dà il titolo al film e che verrà cantata almeno 4 volte, tanto da restarmi nelle orecchie a lungo. Nonostante la mia conoscenza del serbo-croato sia abbastanza limitata, qualche risata me la faccio pure io: ovviamente i passeggerei del bus ridono da matti, la signora snob seduta vicino a me, un po’ meno: evidentemente ha gusti più raffinati e non ama le commedie demenziali. Il pullman attraversa la frontiera con la Croazia, poi rientra in Bosnia, poi di nuovo va in Croazia. Fa una sosta in un bar, si scende, si sale e si riparte. Il film finisce e il viaggio pure! Il cielo da nero che era, ora è rosso. Rosso fuoco, rosso incendio! Il pullman rallenta, dal buio spunta un’auto della polizia che blocca il traffico: non si passa. L’autista frena, parlotta con le guardie, fa inversione, torna all’incrocio, gira a destra: poche centinaia di metri, poi si ferma, in coda. La strada è bloccata, Dubrovnik è circondata dalle fiamme: non si passa. Sono le due del mattino, il motore si spegne, chi vuole scende.
Resto seduto, ma dopo cinque minuti chiedo scusa alla signora e passo. Esco a fumare. I ragazzi hanno intrapreso una discussione molto animata con una tipa, anche lei passeggera del pullman, litigano. Altri sentono la musica dai loro cellulari e ballano. Altri vanno a far pipì nelle fratte, altri s’incamminano verso un autogrill più avanti. Tornano stracarichi di birre. Iniziano a bere, i litiganti si riappacificano. Le ore iniziano a passare.
Io cammino su e giù sfumacchiando. C’è un vento fortissimo e mi metto dietro al pullman per ripararmi, vicino al gruppo che scola birre. Uno dei ragazzi mi si avvicina e mi dice qualcosa, gli faccio segno che non ho capìto una sillaba. Mi fa “Speak english?” Sì, “Where are you from?” “Italy.” “Talijanski, talijanski!!” Cala il silenzio. Tutti i ragazzi si girano verso di me. Oddio, che c’è? Sono circondato da venti adolescenti bosniaci più cinque signore altrettanto bosniache che mi guardano, sorridono, parlottano. Uno dei ragazzi parla inglese e inizia a farmi 200 domande sull’Italia, su Berlusconi, sul Duce. Mi chiede se siamo tutti ricchi, se conosco una ragazza che sposerebbe il suo amico che si è rotto le palle di vivere in Bosnia e vuole trasferisrsi. Mi offrono una birra: io di solito non bevo, ma accetto. Parliamo, parliamo. Di storia, di politica, della situazione economica italiana, di musica, di cinema. Finisco la birra e me ne offre un’altra. Parliamo ancora. I ragazzi chiedono, lui traduce, io rispondo, lui ritraduce. Gli spiego che negli ultimi anni siamo diventati precari, poveri, che il lavoro non c’è, che la vita costa un casino. Mi dice che da loro non è che si viva meglio, quindi tanto vale venire in Italia anche se non gli piacciono gli Italiani perché fanno gli spacconi, sono maleducati e pensano solo alla moda: “tu non sembri italiano”. Mi chiedono se gli posso dare 5 Euri in cambio di 10 Marchi perché all’autogrill accettano solo Kuna croate o Euro e loro non hanno ancóra cambiato. Tornano con altre birre e me ne fanno bere per forza un’altra. Non so nemmeno io come, ma all’improvviso sono le sette di mattina. Mi gira un po’ la testa e credo di essere leggermente rincoglionito. Non ho idea di come ho fatto a sostenere 5 ore di conversazione in anglo-bosniaco! L’autista ci dice di salire: incendio domato, si riparte.
Sonnecchiando si arriva al confine col Montenegro: controllo passaporti e via. A Herceg Novi il pullman s’imbarca su una chiatta che ci traghetta dall’altra parte del grande golfo, poi di nuovo sulla terra ferma, direzione Budva. Tramite sms chiedo a casa chi tra Budva e Ulcinj si trovi più vicino a Cetinje: mi rispondono Budva, saluto i ragazzi e scendo. Appena il tempo di comprare il biglietto di un nuovo pullman e via verso Cetinje. Dopo una quarantina di minuti il bus si ferma davanti ad un edificio porticato bianco tutto screpolato in una piazza vuota: “Cetinje?” chiedo? “Da!”, e allora aspetta che scendo! Appena il tempo di appoggiare il primo piede sull’asfalto che due tizi mi fanno “Taxi, taxi?”. E che ne so, aspetta. “Taxi?” Oddio, no, niente taxi, nemmeno so dove cavolo sto, dammi il tempo di rendermi conto! Vado sotto ai portici alla ricerca di una cartina, un cartello, un post-it che mi faccia capire in che zona mi trovo. Niente, la biglietetria (o presunta tale) è chiusa, vicino c’è un’altra porticina chiusa anche lei. All’improvviso non c’è più nessuno. Solo io e uno dei tassisti. Faccio per affacciarmi dai portici e quello “Taxi?”. Ti odio! Sai che c’è? Taxi, tanto l’alternativa non la vedo! Salgo e gli dico di andare al centro. Parte poi mi fa “Centro dove?” Eh eh eh! Lo sapessi… Boh, centro centro, in una zona dove ci sono hotel. “Hòtel?” Sì hotel! “Grand?” Oddio, grand, mica tanto, pure piccolo, anzi meglio se è piccolo… Little, pension… Come glielo spiego l’albergo piccolo? Già il centro città me lo pronuncia diverso da come lo so dire io in montenegrino. Comunque mi dice OK. Bah… Speriamo bene.
Il brutto è che guide turistiche sui Balcani non esistono in Italia e i siti internet del Montenegro non spiegano molto. Il viaggio di quest’anno è parecchio alla ventura, ma se avevo il nome di qualche hotel era meglio. Mentre camminiamo mi ìndica un po’ di edifici importanti tra cui la sede del Presidente della Repubblica, una chiesina sperduta, un monastero infrattato. Cammina cammina, arriviamo davanti ad un palazzo enorme e bruttissimo, mi fa: “Hòtel!”. Lo guardo meglio: “Grand Hotel”. Oh Madonna! M’ha portato al grand’hotel! E con che cavolo lo pago il grand’hotel? Inizio a sudare freddo. Pago la corsa: 5 euro, temevo peggio… Scende con me e mi porta in albergo. Vedo che accanto al nome ci sono tre stelle e un po’ mi risollevo. Certo, un grand’hotel con tre stelle… Alla reception domando se ha una stanza libera. Sì. Il portiere mi chiede il passaporto, glielo do, lui adocchia lo stemma e mi fa “Siete italiano?”, sì, e proseguiamo in italiano. La stanza costa 45 euro: non è poco, ma sto una notte sola, e poi sono stremato: va bene. Oltre tutto non si tratta del grand’hotel, ma dell’Hotel “Grand”: un altro paio di maniche! Brutto, comunque: tipico palazzone socialista, coi tavolini e le poltrone squadrati, massicci, molto anni ’60. In camera mi faccio una rapida doccia e il bucato veloce, mi preparo un nescafè e crollo morto sul letto sùbito dopo aver messo la sveglia del cellulare alle 2 del pomeriggio. Neanche il tempo di cadere esanime che la bastarda suona: due ore sono passate in un lampo. Alziamoci, bisogna visitare Cetinje, non dormire. Esco, attraverso un parco alberato e arrivo in una strada ampia con casette basse, la percorro un po’. Sono solo, non c’è un’anima, nemmeno una. Quanto ci vorrà ad arrivare in centro? Sulla cartina attaccata al muro vicino alla reception ci doveva essere qualcosa svoltando qui a sinistra. E infatti c’è. Un palazzetto in stile simil-umbertino, rosso con la bandiera del Montenegro sul balcone. E’ il vecchio palazzo del Re. Frugale questo Re! Vado avanti e becco la chiesina piccina picciò che avevo visto dal taxi. Chiusa. E lì? C’è il monastero addossato alla montagna, andiamolo a vedere. Toh, un turista, anzi due! Finito il monastero ritorno verso la via coi palazzetti. Voglio vedere il palazzo del Presidente. Camino, giro, svolto e trovo il porticato bianco e screpolato: ma questa è la fermata dei pullman! Ma sta proprio qui dietro! Ecco perché il tassista mi guardava strano quando gli ho detto di andare al centro! Già ci stavo! Sì, comunque Cetinje è già finita. Tutto qui? Ecco perché sul sito internet della città non cera scritto niente di che: non c’è proprio niente di che! In ogni caso, gironzolo ancor, faccio un po’ di spesa in un supermercatino, rientro in hotel e mi riposo di nuovo. Ceno al volo con un panino, e dopo le nove di sera riesco. Ora c’è un po’ di gente in più: c’è un paio di bar aperti con qualche persona che beve seduta al tavolo. Dopo un’oretta rientro e vado a dormire. L’indomani lo passo sui pullman. Vado a Kotor, a Sveti Stefan e a Podgorica. Da lì alle dieci di sera parte il treno per Belgrado. La bigliettaia della stazione avrà una settantina d’anni e parla solo montenegrino: faccio il biglietto, e con circa un’ora di ritardo il treno arriva e riparte per la Serbia.
“Tra un’oretta dovrei essere a Belgrado” mi dico appena mi sveglio nella mia cuccetta. Insieme a me viaggiano due donne, una ragazza e due bambini: nonna, mamma e figli. La sera prima mi hanno chiesto di dormire nella cuccetta bassa che era assegnata alla nonna che preferiva stare in alto, poi non ci siamo scambiati più una parola, ma ogni volta che c’incontriamo nel corridoio con la mamma a fumare sono gran sorrisi. Dal finestrino vedo alcune macchine che passano o che sono ferme ai passaggi a livello. Le targhe sono tutte serbe, dovremmo essere in Serbia, ma la frontiera dov’era? Non mi hanno svegliato per chiedermi il passaporto. Quando arrivo a Belgrado sono certo di non essere più in Montenegro. Oddio, e adesso? Sul sito del Ministero degli esteri fanno tanti annunci sulla necessità del timbro d’ingresso sul passaporto: se non ti timbrano all’entrata poi non ti fanno uscire! Boh, vedremo! Per prima cosa, devo cambiare i soldi. Appena mi metto in fila al cambio arrivano gli immancabili “Taxi, taxi?”. Oddio, Madonna che stress! Fammi cambiare i soldi, fammi prendere una cartina, ASPETTA! Il tipo non mi molla, attende tutta la fila, poi mi richiede “Taxi?”. Sì, taxi, portami a via Kralja Milana. “Che ci vai a fare a Kralja Milana?”. “C’è un ostello! “. Dopo un po’ che cammina, mi chiede se l’ho prenotato. Gli faccio di no. “Ma allora perché non te ne vai in centro? Kralja Milana è lontana dal centro, ti porto io in un ostello più centrale”. Oddio, quasi quasi… Va bene. Lui svolta e mi porta in pieno centro. Il tassametro segna un prezzo con parecchi zeri: al cambio sono 16 euri: però! Cari i taxi! All’ostello mi dicono che non sanno se hanno un letto libero, alle due di oggi pomeriggio saranno sicuri. E certo, io aspetto come un minchione fino alle due! Arrivederci. Comunque sto in centro, qualcosa troverò. Vedo che c’è un ufficio del turismo, chiedo lì e mi consigliano l’hotel Royal: 26 euri a notte: mi piace, due notti, grazie.
È bella o brutta Belgrado? E non lo so! Non lo capisco. La stazione è un po’ sul decadente, ma non ho mai visto una stazione che non abbia le sue pecche. Il centro: la zona intorno a Trg Republike e lungo la via Kneza Mihailova ha begli edifici dei primi del ‘900, un po’ più in là ci sono orrendi palazzoni grigi. L’atmosfera è strana, in giro c’è parecchia gente di tutti i tipi. Caspita, adesso, mi dico, mi trovo circondato solo da Serbi, i famosi serbi assetati di sangue che la TV ci ha raccontato. Per tre giorni vedo e parlo solo con dei Serbi: nei bar, per strada, in stazione, sul bus, nei negozi: ne avessi trovato uno assetato di sangue! Qui ridono, scherzano, cantano, chiacchierano. Sono tutti sorrisi. A parte una ragazza allo sportello della posta leggermente incazzata di suo, sono tutti disponibilissimi e gentili. In tre giorni m’innamoro dei Serbi! Macino chilometri a Belgrado. Oltre agli orrendi edifici socialisti e ai nuovi grattacieli, ci sono i palazzi del potere, antichi, imponenti; ci sono le chiese ortodosse: fiere nelle loro architetture tutte simili e dignitose. C’è la chiesa di San Marco nei pressi del Parlamento, la cattedrale col palazzo del patriarcato, il palazzo del Parlamento e quello del Comune, c’è la fortezza col parco Kalemagdan coi suoi viali alberati.
Dopo piazza Slavija svetta una grande chiesa in marmo bianco, voglio visitarla. È il tempio di San Sava: enorme, con la grande cupola. Entro: è ancora in costruzione, non è un edificio antico! Però lo stanno facendo bello! Alle pareti ci sono marmi intarsiati con motivi floreali, decorazioni ed architetture classiche. Non ci sono campanili a forma di traliccio né vetrate coi Santi dai corpi deformi come quadri di Picasso, né altari psicadelici come nelle chiese moderne dalle nostre parti, che tutto sembrano tranne che chiese. Questi marmi eleganti faranno risuonare per tutto il tempio le melodie solenni delle salmodie orientali: qui non si vedranno di certo quelle scene grottesche che abbondano nelle nostre chiese dove, accanto al sacerdote, sculettano imbarazzanti ragazze in bermuda, una che suona la chitarra, l’altra che, dimenandosi come una tarantolata, muove le mani e agita il tamburello mentre una terza urla dal microfono canti improbabili tipo “Signore resta con me yuppy è yuppy é!”. Nelle chiese qui a Belgrado, la gente entra in silenzio, prega, accende candele, si prostra, bacia le icone e se ne va; le liturgie sono solenni, ammantate d’incenso, cariche di pathos: niente strepiti, niente urla, niente volgarità, la religione qui è una cosa seria, mi piace proprio! Con pochi centesimi ci si compra un gelato ai tanti carrelli nelle strade e nei parchi, con quasi un euro ci si gusta una pannocchia che è la fine del mondo, un caffè al bar, un po’ di spesa al supermercato e poi via, di nuovo i giro, alla fortezza di Belgrado, nella caratteristica via Skadarlija coi suoi risporantini e i caffè. Avanti e indietro per le vie del centro.
E dopo tre giorni di Belgrado, è il tempo di partire per Skopje, dove si giunge o col bus o in treno: mi dico che le nove ore di viaggio è meglio farsele sul treno: si può fumare e mi sgranchisco anche un po’ le gambe ogni tanto. Il viaggio della speranza! Alla frontiera nessun problema per la storia dei timbri, però, il treno ritarda un bel po’ e a Skopje ci arrivo quando ormai è buio. Stavolta non faccio nemmeno in tempo a scendere dal predellino che… “Taxi, taxi?”: un tipo buffissimo sui sessant’anni (chauffeur Jonny, mi pare), coi capelli e il vestito da Elvis Presley, sigaretta col bocchino, unghia del mignolo lunga e occhiale da sole mi afferra la valigia e mi si vuole portare via.
Adesso ti calmi e aspetti! Si fa presto a dire taxi. Devo cambiare i soldi “No problem”, cosa no problem? Fammi trovare un cambio prima. C’è il cambio? “No problem”. Allora sei scemo! Come ti pago se non cambio? “In Euro”, allora non sei scemo, sei dritto! Mi serve una cartina “In hotel te la dànno loro! Ti porto io in un buon hotel” No, no, dove mi porti tu? L’hotel l’ho prenotato già! “Ma il mio è meglio, si chiama Loki!” Pure il mio si chiama Loki, mi sa che è lo stesso. “E allora no problem!”. Vabè, ma quanto vuoi? “No problem”. Ti ammazzerei, lo sai? “Allora, oggi ti porto all’hotel, domani facciamo il tour di Skopje: i monasteri, le chiese, la fortezza. Prezzo buono. Dopodomani ti porto a Ohrid”. Ma ti calmi o no? Io non so nemmeno che farò stasera, figuriamoci dopodomani! Dovrei andare in Albania se ci riesco o in Bulgaria, quindi che c’entra Ohrid? “Ma a Ohrid c’è il lago, in Albania no”. E mi dispiace per gli Albanesi se non c’hanno il lago, ma io non ce l’ho in programma Ohrid. Comunque quanto mi chiedi per ‘sta corsa? “No problem, prezzo buono”. Ho deciso, ti detesto. Arriviamo all’hotel che poi è un ostello: check-in. Ma insomma, quanto vuoi? “10 euros”. Lo pago, ma lui non se ne va. “Allora, domani tour di Skopje? 50 euros.”. Senti, amico, io ti ringrazio tanto, ma mi devo organizzare. Se mi servi ti posso chiamare io? “Sì, lo dici alla reception dell’hotel e loro mi chiamano.”. Bravo, facciamo così! Oddio! Dopo una rapida doccia, giro in cerca di un cambio, ma non lo trovo. Prelevo dall’unico bancomat che rinvengo, mi faccio un giro al centro commerciale che è l’unica cosa aperta, non prima di aver messo sotto i denti una specie di calzone di sfoglia ripieno di carne e cipolle. Poi a nanna.
Decido che un giorno a Skopje basta, porto il bagaglio in stazione e prenoto un pullman per Sofia per la sera. Poi inizia il tour. In effetti per vedere Skopje è sufficiente una mezza giornata. La città fu distrutta nel 1963 da un forte terremoto, quindi è stata tutta ricostruita: tranne la zona del centro, rifatta com’era, il resto è un susseguirsi di palazzoni grigi stile anni ’60 del socialismo reale. Quelli più recenti, se vogliamo, sono ancora più orrendi: una serie di forme bizzarre in cemento a vista, tanto che sembrano ancora in costruzione; la sensazione che mi dànno è di angoscia. Giro per il centro, visito le chiese ortodosse, passo a fianco delle moschee, m’infilo nel mercato, vado su e giù per le strade acciottolate e i vecchi edifici ricostruiti: una strana atmosfera, un misto di antichità e modernità appena accennata, sembra di stare in una via di mezzo tra il Marocco e la periferia di Torino. A pranzo mi mangio delle strane salsiccette che chiamano kebab, ma che assomigliano più ai cevapcici, le polpette tipiche della ex Jugoslavia, annaffiate con una bevanda che chiamano gazoza: un misto tra limonata, aranciata e cedrata, color arancio evidenziatore e un ottimo sapore di coloranti, come le buone bibite che bevevo da bambino quando i coloranti erano il principale ingrediente di bibite e gelati. Un pranzo ottimo. Dopo mangiato, un altro giro al centro commerciale per sbirciare internet e riparami dal sole che picchia da matti. La sera in stazione e via a Sofia.
Chi non sa leggere il cirillico a Sofia è perduto. Nemmeno alla stazione c’è qualcosa che non sia scritto in Cirillico: per fortuna lo so leggere, ma chi non parla bulgaro, me compreso, trova pochi che lo capiscano in qualche altra lingua. Arrivo a Sofia alle 4 di mattina, ma grazie al fatto che in Bulgaria stanno un’ora avanti, sono le 5. Cambio i soldi, piglio un caffè alla macchinetta automatica e aspetto che sorga il sole. Quando sorge, mi faccio accalappiare da un tassista e gli dico di andare al Boulevard Maria Luiza all’ostello Mariot: un prezzo altino per la corsa breve che abbiamo fatto. Ormai ci sono abituato, a Belgrado per tornare alla stazione in taxi ho speso 100 dinari contro i circa 1.600 dell’andata, a Skopje anche 100 dinari contro i 10 euros dell’andata, e a Sofia già so che al ritorno, se prenderò un taxi costerà meno dei 10 lev dell’andata (infatti ne costerà uno solo: 50 centesimi di euro!). Davanti all’ostello c’è una coppia di ragazzi olandesi seduti in terra. Chiedo se stiano aspettando che l’ostello apra: rispondono che è mezz’ora che aspettano. Urca! E dopo un’altra mezz’ora arriva Madame: una donna fuori di testa che parla un Inglese assurdo e non sta zitta un minuto. Si scusa per l’attesa e ci fa salire. Sistema gli olandesi e poi arriva il mio turno. “Ho prenotato una singola” “Le singole sono occupate, solo stanze in comune”, “Ma su internet c’era scritto che c’era posto”, “Ah, ma io internet non lo so usare, non controllo mai le prenotazioni fatte su internet!”, “E mo’?” “E mo’ dormi qui, tanto la stanza è vuota: se non arriva nessuno, resti solo”, beh, è una conclusione logica, tutto sommato: va bene, però mi fai pagare di meno! “Sì sì!”. Mi dà una cartina e inizia a parlare, a parlare, a parlare e non la finisce più. Riesco a svincolarmi, a darmi una lavata e a riposare un po’. Quando esco dalla stanza Madame mi placca e parla, parla, parla. Alla fine riesco a salutare e a fare il turista. Sofia è particolare: grandi viali, edifici maestosi, chiese belle. La vita è economicissima. Mi fermo 3 giorni e la giro in lungo e in largo. Un pomeriggio chiedo a Madame se mi dà l’indirizzo del supermercato Billa che ho visto la notte in cui sono venuto dal pullman. Decide di accompagnarmi direttamente lei perché deve fare anche lei la spesa: un pomeriggio insolito. Domenica vado al mercato vicino all’ostello e mangio un piatto di spezzatino con pomodori in un chioschetto tra i banchi della frutta. Poco più di un euro. E dopo 3 giorni di Bulgaria, riparto per la Serbia. Di nuovo a Belgrado per un altro giorno: dormo al famoso ostello a via Kralja Milana dove dovevo andare la settimana scorsa. L’indomani, col bus vado a Zemun, l’antica cittadella fortificata asburgica al di là del fiume Sava. Un caffè al tavolino sotto i platani lungo il Danubio è la ciliegina sulla torta della giornata. Il mal di testa che mi scoppia all’improvviso me lo fa passare una gentilissima farmacista che col sorriso che arriva alle orecchie cerca di trovarmi l’analgesico giusto e che costi poco; la sera si parte pera Zagabria dove resto una notte, poi passo a Ljubljana, da lì arrivo a Venezia e a Roma: il viaggio è finito.
Ho voluto fare questo tour per conoscere una parte d’Europa un po’ nascosta, per viaggiare in quei Balcani che i turisti non visitano a frotte, quei Balcani che da quando i popoli decisero che la Jugoslavia non era più la loro patria, sono stati teatro di guerre e stragi. Oggi la guerra è finita, anche se le tensioni restano: in alcuni posti le truppe internazionali controllano che non ci siano altri disordini, e quei Paesi si stanno risollevando.
Tornerò l’estate prossima in questi Balcani: ho lasciato dei buchi inesplorati. La Serbia, in particolare, mi chiama e io risponderò. Vi farò sapere.