Gli altopiani e i deserti con lama nuvole e miti

SALTA e Nord Ovest Argentino Deserto di Atacama Altopiano boliviano UYUNI POTOSI’ SUCRE Parco SAJAMA LA PAZ Penisola VALDES Pampas BUENOS AIRES 19 ottobre – 16 novembre 2003 Testo e foto: Gloria Bava ….de norte a sur,………. desde el salar ardiente y mineral, al bosque austral,………….. Le parole di questa vecchia ma sempre...
Scritto da: Gloria Bava
gli altopiani e i deserti con lama nuvole e miti
Partenza il: 19/10/2003
Ritorno il: 16/11/2003
Viaggiatori: fino a 6
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SALTA e Nord Ovest Argentino Deserto di Atacama Altopiano boliviano UYUNI POTOSI’ SUCRE Parco SAJAMA LA PAZ Penisola VALDES Pampas BUENOS AIRES 19 ottobre – 16 novembre 2003 Testo e foto: Gloria Bava …De norte a sur,….

desde el salar ardiente y mineral, al bosque austral,…..

Le parole di questa vecchia ma sempre attuale canzone sono un poco la sintesi di un viaggio lungo, faticoso e bellissimo che ha avuto al centro i meravigliosi paesaggi dell’altipiano andino. Viaggio coinvolgente non solo per l’ambiente splendido, ma anche per gli aspetti umani e sociali che paesi come Argentina, Cile e Bolivia propongono a chiunque viaggi con il desiderio di sapere e capire.

Itinerario rimasto in forse fino all’ultimo per i gravissimi fatti avvenuti in Bolivia dove la popolazione si è sollevata contro la decisione di esportare, attraverso i porti cileni, ingenti quantità di gas naturale verso gli Usa ed il Messico senza che tale prodotto potesse essere utilizzato nel paese. La repressione è stata violenta con un centinaio di vittime in circa due mesi, alla fine il presidente Lozana, proprietario di grandi miniere, è stato costretto a fuggire negli Usa ed è stato sostituito dal suo vice Mesa una personalità indipendente che ha avuto la fiducia della popolazione cui ha promesso un referendum da tenersi entro dicembre sulla questione del gas e sulla riforma istituzionale.

Dopo un buon volo di quattordici ore atterriamo a Buenos Aires e subito partiamo con un pulmino alla volta dell’aeroporto nazionale che dista circa quaranta km da quello internazionale. Essendo l’ora di punta del lunedì mattina l’autista ritiene di non prendere l’autostrada tangenziale, ma di attraversare la città: abbiamo così la possibilità di passare dai quartieri periferici a quelli eleganti del centro tagliati da amplissimi viali, fino ad arrivare all’obelisco sull’Avenida 9 Julio .

L’aeroparque Newbery si affaccia sull’immenso estuario del Mar de Plata le cui acque limacciose si mescolano con quelle più limpide dell’oceano, è un posto affascinante, fosse anche solo per il nome con l’eco di ricordi che si porta dietro.

Da questo aeroporto modernissimo ripartiamo alla volta di Salta, la capitale della provincia di Jujuy nel nord ovest argentino.

Sorvoliamo la pianura poi la Sierra di Cordoba e le montagne di Salta.

Salta è una città dinamica, piena di commerci, ha un centro storico non grande ma elegante, con belle chiese barocche, palazzi, ‘castillo’ la casa del fondatore della città, giardini e porticati. L’atmosfera è molto europea, pare di essere in una città della Spagna centrale, solo le fisionomie ci ricordano la forte componente india della popolazione.

All’ora di cena impatto con la ‘parrilla’: sarà la prima di una lunga serie! Primo giorno di vero viaggio: andremo a San Antonio de los Cobres seguendo il tragitto che percorre il famoso ‘treno delle Nuvole’. In questo periodo viaggia solo il sabato e non tutti i sabati pertanto noi faremo il viaggio in auto attraverso la quebrada del Toro salendo per la prima volta sull’altipiano ed ammirando dal basso, e forse meglio che non dal treno, gli spettacolari viadotti. Questa linea ferroviaria fu il progetto ambizioso di unire la parte nord occidentale dell’Argentina con i porti cileni e, come tante cose in Sudamerica, è rimasta incompiuta.

Qualche decina di km dopo Salta si apre la grande quebrada percorsa dal fiume Toro che ora, in stagione di secca, è un modesto corso d’acqua, ma gonfiato dalle piogge s’ingrossa e sale di parecchi metri trasportando un’enorme massa di detriti e modificando ad ogni stagione il paesaggio.

La strada segue il tortuoso andamento della valle che si apre sempre più, le montagne assumono colorazioni variopinte, la vegetazione si riduce a qualche cactus e a cespugli di erba ispida, rarissime case negli angoli più riparati, qualche piccola chiesa in adobe bianco o giallo con all’interno madonne e santi con abiti e parrucche del Settecento dipinti su fondi molto cupi: è il cosiddetto stile ‘cuzqueno’. Da qui in poi saremo costantemente a contatto con popolazioni che hanno sovrapposto il credo cattolico alle loro originali forme religiose dando origine ad una mescolanza di riti e credenze. Molto fervore raccoglie la Pachamama, la divina Madre Terra, alla quale si fanno continuamente offerte ed ad essa sono dedicati moltissimi altarini lungo le strade.

Alti sulle alture si notano i piccoli cimiteri dei pueblos. Sono posti così in alto per diversi motivi: la maggiore vicinanza del Cielo, altro elemento importante delle credenze ancestrali, la necessità di non sotrarre terreni fertili alla coltivazione, il fare in modo che la materia organica in disfacimento non contamini le acque.

Si arriva su un tavolato a circa quattromila metri coperto di cespugli d’erba gialla: è la ‘puna’ cioè la pianura d’altura.

Appaiono i grandi viadotti in ferro che permettono al ‘treno delle nuvole’ di insinuarsi in gole profonde e di acquistare altezza. Il più famoso, anche se non il più alto, è quello detto ‘La Polverilla’: in curva è molto spettacolare, ben visibile e fotografabile. Si trova poco oltre a San Antonio de los Cobres che è una cittadina di circa trentamila abitanti spersa sull’altipiano, data la sua posizione vicino al confine cileno e boliviano è sede di un’importante postazione dell’esercito ed è dotata di una grande antenna parabolica per trasmissioni televisive. Il suo nome è originato da quello di una popolazione, los Cobres appunto, deportata in questa zona dagli Incas che, dopo la vittoria su popolazioni limitrofe, le spostavano nelle più remote zone di confine; ottenendo così il duplice obiettivo di sradicarle dal loro territorio impedendo che popoli vicini e sconfitti potessero coalizzarsi contro di loro.

Per vincere i problemi dell’altura il nostro autista ci insegna a masticare foglie di coca: per me subito l’effetto è buono avendomi fatto sparire un fastidioso mal di testa, ma dopo poco il mal di capo è tornato con in più un gran senso di nausea. Non so se ciò fosse dovuto alla coca o se proprio era la mia testa ad avere dei problemi, fatto sta che non ho più ripetuto l’esperimento, tenendomi i disagi del mal d’altura che è stato un compagno assiduo e poco gradevole per tutto il viaggio sull’altipiano.

Il giorno seguente partiamo per la quebrada di Humahuaca, più o meno il paesaggio è simile alla valle di San Antonio fino a Santa Rosa de Tactil un minuscolo pueblo all’imbocco della valle dove si trova un piccolo museo ricco di reperti preincaici e di alcune mummie. Dopo questo paesino il panorama si fa grandioso: montagne e montagne dai colori inimmaginabili, strati di minerali pressati e portati in superficie dai sollevamenti geologici, dilavati dalle piogge e dal vento mostrano la loro struttura nuda modellata nelle forme più fantastiche.

Nel pomeriggio saliamo alla Pulcara di Tilcara: sono i resti di una vasta cittadella preincaica che domina tutta la quebrada. E’ un posto battuto dal vento, alto, solitario, sospeso nel cielo.Per la prima volta provo la sensazione, che si ripeterà spesso durante il viaggio sull’altipiano, di essere immersa nel cielo come svincolata dal peso della terra. Scendiamo nuovamente verso Salta inseguiti dalle tenebre della notte. Per due sere saremo alloggiati alla Finca San Antonio proprietà della famiglia de Cornejo discendenti di un ‘adelantero’ che acquistò la tenuta, un tempo missione dei Gesuiti, dopo la cacciata di questo ordine religioso dalla regione. I Gesuiti avevano insegnato agli indios le tecniche agrarie per la coltivazione della terra ed avevano costituito delle specie di cooperative; tutti partecipavano ai lavori dei campi d alla vendita dei prodotti avendone in cambio di che vivere, mentre i restanti utili venivano reinvestiti: questa idea di comunità non era affatto gradita ai proprietari terrieri che si servivano del lavoro degli indigeni in regime di servitù.

Poiché praticavano un culto complesso, dopo lunghissime indagini e dotte disquisizioni, la Chiesa stabilì che gli indigeni, al contrario dei negri africani, avevano l’anima ed erano da considerarsi uomini, anche se di categoria inferiore, non li si poteva pertanto ridurre in schiavitù, ma solo in servitù. Il clero ed i nobili insieme riuscirono ad ottenere dal re di Spagna l’allontanamento dei Gesuiti ed ebbero mano libera nello sfruttamento della terra e degli uomini.

Nella finca San Antonio si vive ancora l’atmosfera coloniale, la casa è molto bella, arredata con lusso, sprofondata in un grande parco ben curato; numerosa servitù si aggira rapida e silenziosa. Noi, che non siamo molto avvezzi ad essere serviti dal maggiordomo in giacca bianca né al mezzo inchino della cameriera che ci viene a portare gli asciugamani in camera, ci sentiamo alquanto in imbarazzo.

Dalla finca partiamo per una puntata verso sud che ci porterà a Cafayate ed alle rovine Quilmes.

Per alcune decine di chilometri il percorso attraversa una zona pianeggiante coltivata a tabacco e cereali, si passa in paesi che conservano l’impronta spagnola sia nelle vie con gli alti marciapiedi rialzati sia nelle costruzioni con portici e miradores in legno o ferro.

La pianura si restringe e la strada s’incunea in una gola dalle pareti scoscese: inizia la lunghissima discesa che percorre la ‘Valle de los Calchiques’. Si tratta di un immenso deposito di microrganismi e sabbia sedimentata e compressa, a seguito della sollevazione della crosta terreste dal fondo marino sono emersi strati e strati curvati, piegati e ripiegati su se stessi o accavallati gli uni agli altri. Lo spettacolo è grandioso, sia per le forme fantastiche del terreno rese ancora più stravaganti dall’ erosione del vento e dell’acqua, che per la varietà di colori delle rocce.

Sul fondo della valle scorre un fiume nelle cui anse crescono cespugli verdissimi e fioriti in questa stagione, la zona è praticamente spopolata, solo qualche rara casa di pastori che traggono di che vivere dai piccoli terreni coltivabili.

Ci fermiamo nei punti più spettacolari, che sono molti, ma è impossibile fissare in immagini fotografiche la vastità del panorama che si apre davanti a noi.

Uno di questi è ‘l’anfiteatro di roccia’ le pareti ondulate di color rosa intenso strapiombano per un centinaio di metri, la particolare suggestione del luogo è enfatizzata dalla presenza di un ragazzo che canta suonando la chitarra: le pareti rimandano i suoni ampliando e moltiplicando le vibrazioni.

Arriviamo per l’ora di pranzo a Cafayate la terra dei vigneti e delle cantine che con Mendoza costituisce uno dei poli di maggiore produzione dei vini argentini.

Nel pomeriggio abbiamo modo di visitare alcune aziende vinicole assaggiando vini bianchi e rossi di buona qualità, ma che secondo il nostro gusto appaiono non del tutto stabilizzati. E’ comunque una sosta interessante e piacevole cui segue un altro tratto di strada tra vigneti e campi coltivati per giungere alla zona archeologica delle rovine dei Quilmes.

Al fondo di una valle sassosa punteggiata di alti cactus si trovano le rovine di una città-stato preincaica: Quilmes appunto.

Il luogo nascosto, la perfetta mimetizzazione delle costruzioni hanno fatto sì che la popolazione dei Quilmes potesse rimanere libera dal dominio spagnolo per centotrent’anni, quando furono scoperti opposero una fierissima resistenza agli invasori. Gli Spagnoli ebbero la meglio solo con l’aiuto di altre popolazioni vicine che rivelarono loro i segreti di accesso alla città fortificata. I Quilmes subirono pesantissime perdite ed i sopravvissuti furono deportati a Buenos Aires dove finirono per estinguersi, di loro restano queste grandi rovine ed il nome di una cittadina che attualmente esiste nel luogo in cui essi finirono la loro epopea.

Il percorso fra ciò che resta delle abitazioni, dei templi e dei luoghi in cui si svolgeva la vita sociale degli antichi Quilmes è affascinante sia per l’ambiente sia per i ricordi che queste pietre rievocano.

Vi è anche un bel museo in cui sono conservati molti utensili, urne funerarie, terracotte e mummie ritrovate in questo sito. Per la notte torniamo nella lussuosa facenda vicino a Salta da dove partiremo all’alba per il lungo viaggio che ci porterà in Cile.

Risaliamo la strada fino a San Salvator de Jujuy poi, dirigendoci verso ovest, cominciamo a salire fino ai 3300 metri di Pumamarca; gli strati rocciosi che formano la sua ‘montagna dei sette colori’ sono un arcobaleno ondulato dai colori vivissimi ed inusuali, il panorama ci appare bellissimo, ma nel prosieguo del viaggio il regno minerale con l’infinita varietà di forme e colori ci regalerà ben altri spettacoli.

Dopo una sosta per l’acclimatamento all’altura e l’acquisto di alcuni panini per il viaggio in una bottega-stamberga-antro del lupo riprendiamo ad inerpicarci verso il passo di Jama. Il paesaggio è sempre più ampio, la vista spazia su catene senza fine di montagne dai bellissimi colori; la strada sterrata a strapiombo sul dirupo disegna un nastro sinuoso lungo i fianchi della montagna. Finalmente arriviamo in cima: oltre 4000 metri e davanti a noi si apre la distesa di Salina Grandes che biancheggia al sole contrastando con il giallo dorato dell’erba della puna. E’ grandioso. Ancora un lungo tratto di strada pianeggiante ed ecco il posto di frontiera argentina: uno spiazzo battuto dal vento che maltratta la bandiera bianco azzurra, un camion carico di auto, una piccola costruzione in pietra; dobbiamo andare a farci vistare i passaporti.

Da dietro il suo banco un poliziotto tarchiato che, con la pelle scura ed i capelli e baffi untuosi e lo sguardo bieco, pare uscito da un film sulle dittature sudamericane ci squadra, sfoglia e risfoglia i nostri documenti prima di abbattere pesantemente su di essi il timbro di uscita. Forse è un buon diavolo, la faccia truce è per far capire ai pazzi viaggiatori che si inerpicano fin lassù che esistono vie più comode per raggiungere il Cile: se essi fossero più ragionevoli lui potrebbe starsene comodo in Pumamarca a godersi il via vai dei turisti che arrivano con gli autobus nel paesino e poi, giudiziosamente, se ne tornano a Salta da dove prendono l’aereo. Ha anche ragione è più comodo, però se avessimo fatto così avremmo perso un tratto di strada meraviglioso: forme, colori, contrasti di luce, cieli, acque, animali i paesaggi sono un crescendo di spettacolarità e pura bellezza.

Con grande ritardo sull’orario stabilito arriviamo al punto in cui ci attende la guida per il Cile: salutiamo velocemente Walter che ci ha ottimamente accompagnato per cinque giorni e passiamo con i nostri molti bagagli sul pulmino cileno.

E’ quasi impossibile a credere quanto il paesaggio sia mutato entrando in Cile: le montagne sono più arrotondate, i colori più morbidi e sfumati, la luce più calda. Dopo un breve tratto pianeggiante incomincia la lunga discesa verso San Pedro di Atacama: la strada è dritta con pochi tornanti, piuttosto ripida e mette a dura prova la capacità frenante dei mezzi.

Fra le montagne tondeggianti che si perdono a vista d’occhio appare, come una visione da un altro pianeta il cono perfetto con un po’ di neve sui canaloni sommitali, il bellissimo vulcano Licancabur ‘il Guardiano’: la sua inconfondibile mole bluastra ci accompagnerà per giorni.

Arriviamo a San Pedro dove per passare il controllo doganale ci fanno scaricare i bagagli, passare su un tappeto impregnato di disinfettante per evitare che portiamo infezioni dall’Argentina, riconosciamo le valigie una ad una e finalmente abbiamo accesso nelle Repubblica del Cile. Ripartiamo per Calama dove saremo alloggiati.

Calama è in fase di travolgente sviluppo pur essendo in un’area al centro del deserto di Atacama dove non si registrano piogge significative dal oltre 700 anni; ha strade di grande comunicazione che la collegano al resto del Cile ed ai porti sulla costa, aeroporto con frequenti voli, linea ferroviaria molto trafficata da treni merci, lo sviluppo edilizio è a dir poco incalzante ed il centro pieno di negozi ed attività. Non bisogna dimenticare che siamo in un’importantissima zona mineraria, nel raggio di poche decine di chilometri ci sono cinque grandi miniere di rame fra le quali la famosa ‘Chuquicamata’ domina il paesaggio del deserto appena fuori Calama con i suoi immensi cumuli di detriti e gli stabilimenti di lavorazione del materiale estratto: è la più grande del mondo.

Attualmente è in fase avanzata lo spostamento della città dei minatori, circa ventimila persone, dalle falde della montagna alla periferia pianeggiante di Calama, sono già state costruite circa tremila casette monofamiliari, è stato altresì trasferito in città il centro direzionale della miniera. Credo che fra qualche anno Calama sarà molto simile alle città dei deserti americani come Tucson o Phoenix, sarebbe bello poterlo andare a constatare di persone, chissà sperare non costa nulla! L’unico difetto della nostra sistemazione a Calama è la distanza di circa novanta chilometri che dobbiamo percorrere per tornare a San Pedro che è al centro di tutte le escursioni nel deserto; a dire il vero il percorso è di tale spettacolarità che non è un grande sacrificio percorrerlo alcune volte, anche perché lo scenario è sempre nuovo ed affascinante a seconda delle diverse ore del giorno.

Una vera delusione per me è stato il paese di San Pedro, pieno di turisti in gruppo e di giovani frikkettoni in caccia di avventure, è volutamente tenuto ‘selvaggio’ con strade polverose e muri in adobe scrostrato che racchiudono al loro interno hotel di lusso e super –lusso, noi ci fermiamo il minimo indispensabile e procediamo verso il Salar de Atacama.

Una spessa crosta di sale ricopre l’acqua che affiora formando pozze in cui pescano fenicotteri neri e bianchi.

Lo spazio è immenso, il silenzio è rotto solo dallo scricchiolio del sale sotto i nostri passi, lontanissima all’orizzonte la catena dei vulcani sfuma nell’aria azzurrina.

Rapido pranzo al sacco sotto una tettoia di frasche in un’oasi alberata e poi via verso la Valle della Luna. E’ una valle che parte a pochi chilometri da San Pedro e va verso nord. Difficile descrivere la grandiosa bellezza di quelle rocce dai colori e forme che non paiono di questa terra: costoni rosati sorgono improvvisi da dune di sabbie nere, picchi rosso amaranto fanno da quinta a vallette dal fondo calcinato, terre riarse e screpolate dal sole s’incuneano fra morbida sabbia dorata e su tutto il cielo blu profondo e trasparente che fa risaltare il nero bluastro del Licancabur che si staglia nitido sullo sfondo. Torniamo attraverso questa magnifica valle verso la strada asfaltata per Calama e per alcuni minuti godiamo di un tramonto splendido nella sua essenzialità: pare che tutti i colori si condensino nel nero assoluto della Terra mentre il cielo s’infuoca di rosso ed oro. Giornata splendida! Sveglia alle tre per raggiungere la zona geotermica del Tatio: un insieme di fumarole i cui vapori sono visibili solo al sorgere del sole. Andando verso San Pedro nel nero della volta del cielo possiamo ammirare splendide costellazioni solo qui così risplendenti, fra le altre vediamo le Magellaniche.

Viaggiamo nell’oscurità per circa tre ore su una strada che si inerpica sul fianco della montagna ancora buia; altri veicoli portano turisti verso il Tatio; eccoci in una vasta conca circondata da alte montagne tondeggianti. Appena la luce del sole comincia a farsi strada colonne di vapore escono dalla terra sempre più alte e visibili. In breve dappertutto è un ribollire di acqua gorgogliante, di spruzzi e di vapori, fra di essi le ombre dei turisti e degli autisti che vanno ai diversi punti di osservazione dei geyser.

Pare proprio di ascoltare il respiro della terra; questi fenomeni eruttivi minori, ma molto estesi ed intensi, ci ricordano che la dorsale occidentale delle Americhe comprende la cosiddetta linea di fuoco formata da grandi vulcani in parte attivi.

L’atmosfera è surreale, la temperatura è rigidissima, nonostante ciò chi ha il coraggio di spogliarsi può godersi un bagno caldo nelle pozze ribollenti Colazione al sacco con uova sode e caffè preparati direttamente nell’acqua dei geyser.

Verso le sette il sole ha completamente annullato le colonne di vapori, resta l’acqua che sprizza e gorgoglia salendo da chissà quali profondità.

La luce solare ha cancellato i vapori sulfurei, ma acceso di mille colori i fianchi delle montagne e le valli che ci circondano; attraversiamo un vasto splendido altipiano prima di scendere nella valle del rio Loa, il maggiore fiume del Cile, che attraverso montagne rosse si è scavato la strada verso la pianura desertica di Atacama. Dall’alto del passo di Vizcaya possiamo godere della splendida vista di una buona parte del deserto attorno a San Pedro e dei salares che biancheggiano all’orizzonte.

Scendiamo verso una falesia che protegge l’insediamento di Caspana, un paesino con case scavate nella roccia e piccoli campi terrazzati.

Risaliamo ed arriviamo nella zona ritenuta la più arida del mondo, infatti nei pressi del paese di Chiu-Chiu non si rilevano piogge da più di 700 anni. Il paese conserva una chiesa coloniale in adobe bianco di buona fattura. Queste terre furono conquistate da Aguirre ‘il terrore di Dio’ che le acquisì al potere spagnolo con il terrore e lo sterminio della popolazione e con la cancellazione di usi e tradizioni; fra l’atro fu proibito il quechua pena il taglio della lingua per chi usava l’idioma nativo.

Torniamo a Calama passando sotto la grande miniera Chuquicamata, una vera cittadella che domina il deserto. Questa miniera è stata importante per la storia cilena dai primi del novecento quando la statunitense Anaconda Copper Mining Company ha iniziato il suo sfruttamento, dagli anni 50 ci sono stati movimenti popolari per la nazionalizzazione avvenuta nel 1971; i minatori sono sempre stati fortemente impegnati politicamente, però nulla poterono per salvare il governo di Salvator Allende ed hanno pagato un prezzo molto alto durante la dittatura militare di Pinochet. Si va in Bolivia! Da San Pedro torniamo sulla strada che porta al passo di Jama e quindi in Argentina, dopo circa venti chilometri lasciamo la statale ed imbocchiamo una sterrata che punta verso la mole immane del Licancabur, il paesaggio che ci circonda è maestoso nella sua cruda essenzialità, sotto il sole splendente nell’aria tersa i fianchi delle montagne paiono coperti di fiori minerali dai colori fantastici ed extraterreni.

Uno spiazzo battuto dal vento teso degli oltre tremila metri: da una parte un cartello dà il benvenuto nella Repubblica del Cile, una fila di pietre è la linea di confine, al di là una specie di ovile di montagna, una bandiera rossa, gialla, blu vibra nell’aria ed un cartello dà il benvenuto in Bolivia. Chi arriva dalla Bolivia e va in Cile o viceversa deve passare dogana e trasferirsi con i suoi bagagli su un altro mezzo perciò attorno all’ovile, che è la postazione dei doganieri boliviani, si svolge il rito del cambio di automezzi.Queste operazioni mobilitano una certa quantità di persone che caricano, scaricano, preparano i fuoristrada di tutto ciò che necessità per il viaggio che, dalla parte boliviana, si presume piuttosto impegnativo. I visi, le capigliature, l’abbigliamento ci fanno capire che stiamo per entrare in un’altra realtà, si sente ora veramente l’atmosfera dell’altipiano. Il nostro autista cileno ci saluta con un ‘el pueblo unido’ rispondiamo con ‘hamas sera vencido’. La ragione, la realtà ci dicono il contrario, ma qui davanti alla gola in cui finiva ‘el camino del Inca’, in procinto di entrare in Bolivia dove solo la settimana avanti el pueblo aveva costretto el Presidente a fuggire di notte su un aereo militare verso la Florida, non possiamo non cedere alla speranza che forse l’unione dei più deboli potrà un giorno vincere il potere più bieco.

Veniamo presi in carico da un terzetto di uomini che per nove giorni ci porterà su e giù per le tortuose ed impervie strade boliviane alla scoperta di paesaggi splendidi: la guida Weimar magro e scattante come una molla alterna lunghi silenzi a momenti di loquacità impetuosa, interessato a farci conoscere ed apprezzare al meglio ‘la naturaleza y la montagna en toda la su majestad’; il nostro autista Juan panciuto e baffuto paziente ed abile autista che fruga costantemente l’orizzonte per cercare il posto più favorevole per una bella inquadratura; ‘Pocho’ l’autista dell’altra auto che ci dicono molto attento e cortese.

Questa è stata una delle più straordinarie giornate della mia vita.

Innanzitutto ero felicissima di essere in Bolivia poiché gli avvenimenti delle settimane precedenti potevano costringerci ad annullare o ridimensionare drasticamente un viaggio così tanto a lungo sognato e preparato e ciò mi aveva creato uno stato di particolare tensione ed ansia. L’altipiano andino era uno dei punti cardine della mia strada di viaggiatrice per la curiosità di vedere quei paesaggi, di vivere in quelle atmosfere che avevo imparato a conoscere ed amare sui libri. Quanto poi abbiamo visto passato il confine di pietre è stato superiore ad ogni immaginazione, tanta la bellezza, la maestosità, la meravigliosa solitudine che per tutto il giorno abbiamo attraversato.

Sì, abbiamo viaggiato nella bellezza, nella maestosità, nella solitudine.

Pochissimi chilometri dopo il confine ci fermiamo: avanti a noi la visione immateriale e paradisiaca di montagne coniche coi fianchi lisci che si raddoppiano nello specchio delle acque trasparenti ed impalpabili della Laguna Blanca. Quasi non riusciamo a renderci conto della bellezza del luogo che risaliamo in auto e nel giro di pochi minuti siamo davanti ad un’altra meraviglia: la Laguna Verde. Specchio d’acqua più grande del precedente, quando arriviamo ai suoi bordi presenta una liscia superficie azzurra, e già lo spettacolo è bellissimo, poi, sotto la carezza di una leggera brezza le acque diventano verdi come un campo a primavera. Weimar ci spiega che la presenza di minerali come rame e ferro sul fondo della laguna fa sì che il colore cambi a seconda della rifrazione dei raggi solari attraverso le acque; qualunque sia la spiegazione scientifica del fenomeno è meraviglioso assistere alla mutazione che avviene dolcemente, come una pezza di seta di due colori che viene lentamente srotolata.

Andiamo ora a vedere i geyser Sol de Manana che, a differenza del Tatio, sono visibili tutto il giorno, ma sono meno spettacolari.

Sosta pranzo: i nostri autisti scelgono una caletta riparata ai bordi di una piccola laguna e ci preparano il pic-nic a base di carne al forno, cipolle, pomodori, pane, uova sode, formaggio, frutta, sarà questo il primo di una serie di pranzi in corso di viaggio con alimenti molto rustici e semplici, ma saporiti e che non ci hanno dato problemi di digestione, che invece si sono presentati in ristoranti sia del Cile che dell’Argentina.

Ripartiamo e, sempre viaggiando fra montagne meravigliose che si susseguono all’infinito contendendo il cielo alle nuvole, arriviamo alla terza laguna. Non so fare una graduatoria di bellezza ma, ogni laguna ha la sua specificità e bellezza diversa: la laguna Blanca mi ha esaltato per la delicatezza dei colori e la trasparenza dell’acqua, la laguna Verde ha aggiunto alla bellezza l‘imprevedibile dinamicità che fa di essa un qualcosa di vivo, la laguna Colorada supera l’immaginazione.

Non si può descrivere la meraviglia che si presenta ai nostri occhi quando la vediamo dall’alto: le sue acque sono rosso sangue, lingue di sabbia bianca formano lunghi nastri sinuosi che contrastano con il nero delle sponde, il terreno è ricoperto di ciuffi di erba ispida piegata dal vento ed indorata dal sole; centinaia, forse migliaia, di fenicotteri rosa vagano leggeri sull’acqua cui contendono il colore. Sopra tutto il blu profondo e trasparente del cielo immenso. Soffici cumuli di nubi candide s’insinuano fra i monti, molto sotto di noi che siamo ad un’altitudine vertiginosa.

Non si può chiedere di più alla natura, che però fa pagare il prezzo con i fastidi che l’altura ci procura rendendoci ardua la respirazione e faticoso ogni minimo movimento.

Passiamo la notte al rifugio Hidalgo scavato nella roccia ed arredato in puro stile andino, senza luce, ma abbastanza confortevole e con personale molto gentile.

Viaggiando, soprattutto in viaggi come questo, non bisogna mai dimenticare dove si è. Il progresso ci ha dato delle immense opportunità di spostamento che consentono a tutti di trovarsi in luoghi che fino a qualche decina di anni orsono richiedevano delle vere spedizioni per essere raggiunti, ma anche se tutto è più facile, bisogna sempre avere ben presente le condizioni ambientali e la necessità di adeguarsi ad esse.

Dopo una notte un poco movimentata ripartiamo dal rifugio e, viaggiando tutto il giorno in un fondovalle che costeggia un torrente, aggiriamo il passo di Coipasa ed arriviamo al villaggio di San Juan. Il tragitto non ha la spettacolarità di quello del giorno precedente, tuttavia si continua a viaggiare attraverso un ambiente molto particolare ed interessante. Dormiamo alla ‘Magia de San Juan’ un ostello tenuto da inglesi, che però non si vedono, la cena viene preparata dai nostri autisti. Il mattino andiamo a vedere il piccolo, ma ben tenuto museo del paese in cui sono raccolti la mummia ed i reperti ritrovati nella vicina necropoli che in seguito visitiamo. Ci sono dei cumuli di pietre di forma tondeggiante con all’interno le mummie rannicchiate in posizione fetale; i corredi mortuari sono poveri, non c’è traccia di oggetti d’oro a testimonianza della dura esistenza di queste popolazioni anche nei secoli passati. L’asprezza del territorio e del clima non consentono altra coltivazione che quella della ‘quinoa’ il cereale caratteristico dell’altipiano boliviano con il quale si fa di tutto: dal pane, alle zuppe, alla grappa. Sui ripidi versanti delle montagne dove vi è una strato sottile di terra si estendono i campi di quinoa alla cui semina provvedono le donne. Con una corta zappetta fanno un buco nel terreno fino a sentire un po’ di umidità, pongono alcuni semi nella conca, li ricoprono di terra e poi pregano la Paciamama che faccia cadere la pioggia sufficiente alla germinazione. Questa è la stagione della semina per cui parecchie donne si dedicavano a questo duro lavoro. In San Juan abbiamo invece visto una donna che, ripetendo un gesto vecchio di millenni, girando un setaccio separava i chicchi dalla puia soffiandola nel vento. Fatte poche decine di chilometri ci avviciniamo ad un’altra meraviglia della natura: il Salar di Uyuni una distesa di sale del diametro di oltre centotrenta chilometri. Ovunque si volga lo sguardo c’è il bianco assoluto del sale che brilla sotto il sole, lontano l’orizzonte è chiuso da montagne azzurrine. Ci divertiamo correndo con i fuoristrada su quella superficie liscia che pare neve ghiacciata; stiamo andando dritti verso un punto nero lontanissimo, man mano s’ingrandisce e diventa l’Isola del Pescado, uno scoglio montagnoso di discrete dimensioni completamente ricoperto di cactus altissimi i cui lunghi aculei proteggono spettacolari fiori bianco-rosati. Sostiamo sull’isola per il nostro solito pranzo al sacco e poi in auto attraversiamo tutto il salar fermandoci presso buche per estrarre cristalli di sale dall’acqua gelida che scorre sotto la crosta salina spessa qualche decina di centimetri. Presso l’uscita dell’immane distesa bianca c’è un’area dove il sale viene grattato ed ammucchiato, trasportato poi in laboratori, previo riscaldamento, è raffinato ed impacchettato. Le condizioni di lavoro sono al limite dell’umano, pure è spaventoso il compito di un operaio che per tutto il giorno taglia blocchi di sale e fabbrica mattoni che serviranno alla costruzione di un hotel interamente di sale. Questo poveretto ha il capo ed il volto coperti da uno spesso passamontagna di lana che lo protegge dal terribile riverbero del sole sulla superficie candida del salar e trattiene un poco del sale contenuto nell’aria che respira: bisogna tenere conto che la sua paga giornaliera è di ben due dollari.

Usciamo dal bacino salato verso il tramonto e nel pulviscolo dorato ci dirigiamo verso il deposito di treni in disuso che arrugginiscono nella solitudine del deserto.

Nottata tranquilla in un hotel caratteristico di Uyuni: una cittadina modesta che questa sera è molto animata perchè c’è una fiera che richiama la popolazione dei dintorni.

Finora abbiamo viaggiato in zone quasi completamente spopolate ora cominciamo a vedere un po’ di gente e finalmente appaiono i costumi ed i colori tipici delle Ande: le donne camminano facendo ondeggiare strati di colorate gonne pieghettate, le lunghe trecce nere escono da cappelli a forma di alti cilindri oppure bombette sono tenute in bilico sulla fronte, sulle spalle portano di traverso fagotti di tessuto a righe vivaci in cui tengono di tutto dai bambini alla spesa al legname. E’ il preludio della folla colorata che troveremo nel pomeriggio al mercato dei morti di Potosì. Siamo alla vigilia della commemorazione dei defunti e nella antica città imperiale di Potosì abbiamo l’opportunità di aggirarci tra le bancarelle che vendono fiori, ceri, corone di carta, dolciumi tradizionali da offrire alle anime dei morti, figurine di pane dipinte che rappresentano il defunto ed un’infinità di cibi tradizionalmente legati a questa celebrazione.

Attraversiamo il mercato di ritorno dalla visita molto interessante all’antica Casa della Moneda. E’ un grande e possente edificio coloniale in cui sono custoditi gran parte degli immensi ingranaggi di legno che servivano al taglio ed alla coniazione delle monete di cui si conservano anche gli antichi cliché. La Zecca di Potosì lavorava sia per l’Impero spagnolo sia per altri stati. E’ una città importante ancora oggi, ma alcuni secoli orsono è stata uno dei centri nevralgici dell’economia mondiale, dalle sue miniere usciva un fiume ininterrotto d’argento e una carovana continua di muli trasportava le monete verso i porti cileni per riempire le stive dei galeoni che partivano per il lungo viaggio verso l’Europa. Il flusso fu talmente abbondante da provocare un’inflazione terribile che travolse l’economia spagnola ed ebbe ripercussioni forti in tutto il mondo. Potosì è la più alta città del mondo e si sente: le sue vie s’inerpicano dritte come lame sui fianchi della montagna mettendo a dura prova la capacità respiratoria dei nostri poveri polmoni abituati ai cento metri della natìa pianura! Tutto nasce dal Cerro Rico la montagna che sovrasta la città, avvicinandoci si entra in un’altra realtà: il mondo dei minatori. In basso c’è il loro mercato più povero e rozzo di quello della città, si svolge nelle vie che si dipartono dal monumento al minatore ed alla donna potosina sua compagna di fatica e di lotta. Le vie salgono ripide lungo i pendii del Cerro, ai lati molte botteghe dove si trovano gli strumenti di lavoro dei mineros: piccozze, lampade, corde, micce, dinamite per bucare e far saltare le rocce argentifere; alcool, sigarette nere, foglie di coca per vincere la fame, la paura e la fatica di un lavoro disumano svolto a quattromila metri d’altitudine.

Tutte le diverse fasi di estrazione e selezione del materiale vengono svolte a mano dai minatori aiutati da mogli e figli, molti vivono in casupole nelle vicinanze dei pozzi: servi-padroni dell’universo di cunicoli stretti e bassi aerati con pochi piccoli tubi. La vita dei minatori è indissolubilmente legata alla miniera dalla quale con bestiale fatica traggono il sostentamento, l’esplosione della dinamite che apre nuovi filoni argentiferi è potente e gioiosa, ma terribile è la sua furia distruttrice se il minatore non riesce a ripararsi in tempo; il dualismo della loro realtà è sintetizzato all’ingresso dei cunicoli da un crocefisso e da un diavolo parimenti onorati con offerte di sigarette, alcool e foglie di coca.

Una visita come questa non può lasciare indifferenti, ci si rende conto quanto grande sia l’abitudine che abbiamo di usare le cose senza nemmeno lontanamente ricordarci i sacrifici, le fatiche e le disperazioni che richiede la loro produzione; quando metterò i fiori nel mio vaso d’argento sarebbe opportuno che mi tornassero alla mente le immagini del cerro Rico! Ma è proprio del viaggio che la nuova strada attragga nostro interesse facendoci momentaneamente dimenticare le emozioni, le immagini che abbiamo appena visto, qualche tempo dopo il ritorno a casa la mente richiamerà i ricordi li depurerà e ne farà una galleria permanente. Salutiamo la famosa Potosì patria dell’argento per andare a Sucre la capitale amministrativa ed universitaria della Bolivia. E’ una città molto bella tutta bianca quanto Potosì, costruita in pietra, è nera e grigia.

Ha la classica impostazione spagnola, con chiese barocche, strade dritte fiancheggiate da belle case bianche ricche di ventane e miradores protetti da grate di ferro battuto. E’ situata ad una minore altitudine di Potosì, circa tremila metri, il suo clima è piacevole, anche se quando arriviamo noi sta piovviginando e per i due giorni che rimarremo qui il cielo continuerà ad essere grigio.

L’hotel che ci ospita è l’ex palazzo del Governatore ha un bellissimo patio, le stanze, quasi dei saloni con alti soffitti, sono arredate con mobili d’epoca: dopo i rifugi di pietra la sistemazione è particolarmente gradita.

Andiamo a Tarabuco un paese distante qualche decina di chilometri dove alla domenica si svolge un pittoresco mercato di prodotti tessili tipici di questa zona. Questa domenica non è molto animato dato la coincidenza con le ricorrenza dei Defunti, tuttavia abbiamo modo di girare nelle vie del pueblo dove vi sono negozietti che vendono pezzi di buona fattura. I colori sono vivaci ed i disegni riprendono, in forma geometrica, le sagome del lama, del condor, della rana riprodotte sulle cinture, mentre i ponchos sono tutti a righe multicolori.

Nel tardo pomeriggio torniamo a Sucre da dove il mattino seguente partiremo per Oruro, la città mineraria famosa per la sua Diablada.

E’ la festa di carnevale che dura alcuni giorni ed a cui partecipano moltissimi gruppi di danzatori e suonatori evocando l’uscita dalle viscere della terra dei demoni per ingaggiare una lotta mortale con gli Arcangeli del Paradiso; dicono sia uno spettacolo indimenticabile per la fantasmagoria dei costumi e delle maschere indossate dai partecipanti, elemento di grande spettacolarità sono le oltre cinquanta bande musicali che vivacizzano le sfilate con le loro musiche fragorose.

La strada da Sucre ad Oruro è splendida nella sua terribile solitudine e difficoltà. Valicando catene di montagne, passando in valli strette e desertiche, attraversando altipiani ricoperti di cactus: si viaggia tutto il giorno soli sotto il cielo e le nuvole.

Attraversiamo villaggi dove è in pieno svolgimento la fiesta per i Defunti ed abbiamo così la possibilità di incrociare parecchia gente nei costumi tradizionali, troviamo anche alcuni gruppi che fanno il cammino suonando strumenti musicali tipici come il ‘charango’ ed i tamburelli.

Uomini ubriachi camminano barcollando spesso guidati e spinti dalle donne. Penso che per la povera gente di questi altipiani bellissimi, ma terribili da vivere, la fiesta con le sue bevute di cicha sia una delle poche interruzioni della dura realtà.

Arriviamo tardi e stanchissimi ad Oruro che non ha nulla di bello e ne ripartiamo il mattino seguente per dirigerci al parco del Nevado Sajama. Seguiamo la strada verso La Paz che è dritta ed asfaltata, poi deviamo verso ovest e dopo un centinaio di chilometri vediamo per la prima volta la mole del vulcano Salama: coi suoi 6542 metri è considerato la cima più alta della Bolivia.

Il ghiacciaio che ricopre la sua vetta risplende al sole e contrasta con il grigio bluastro del cono splendido nel cielo limpido e trasparente. Pranziamo in una valletta verde dove si allargano in mille rivoli le acque cristalline di un torrente a cui si abbeverano moltissimi lama, vigogne, alpaca, pecore ed uccelli. Bellissimo. Proseguiamo e continuiamo ad acquistare in altura, fino al pueblo di Sajama al centro del parco omonimo, andiamo oltre in una vecchia missione trasformata in rifugio ecocompatibile dove ci fermeremo due notti.

Il posto è meraviglioso: sotto le pendici del vulcano Sajama si apre un’ampia vallata chiusa da una cordillera di monti bluastri e da due vulcani gemelli incappucciati di ghiaccio, nella pianura ricoperta di erba tenera e verde c’è una bella laguna che riflette i due vulcani gemelli ed ospita un’infinità di uccelli acquatici ora in fervente attività per la preparare il nido, molte vigogne ed alpaca pascolano tranquille. E’ un posto fantastico dove ci si sente veramente fuori dal mondo, anche se non è così remoto poiché siamo a non più di centocinquanta chilometri da La Paz ed a poche decine dalla grande strada di collegamento fra la capitale boliviana ed Arica in Cile.

Passiamo una giornata meravigliosa nel parco e compiamo il giro completo della base del Sajama che si rivela spettacolare da qualsiasi lato lo si guardi.

Unico neo è dato dalla difficoltà nel respirare, però tenendo duro siamo riusciti ad uscirne vivi.

Addio Sajama bello e solitario che con i tuoi oltre 6500 metri parli direttamente agli dei.

Andiamo verso La Paz e si sta avvicinando il momento di lasciare la Bolivia dopo nove giorni di viaggio attraverso il suo fantastico paesaggio e la sua non meno fantastica gente.

La strada va dritta verso la capitale, dalla pianura appare in lontananza la splendida cordillera innevata degli Illimani che fa da cornice alla città.

Attraversiamo la città-non città di El Alto da dove nelle settimane passate è partita la protesta contro il Presidente Lozana; incomincia da qui la discesa lunga dieci chilometri che porta al fondo dell’imbuto al fondo del quale c’è il centro di La Paz, i quartieri residenziali sono più bassi di circa mille metri rispetto ad El Alto.

La città è molto animata sia in periferia che in centro, un fiume di gente sui marciapiedi e nelle strade il traffico è intensissimo; mercati e negozi ovunque. Andiamo a cena in un buon ristorante dove assistiamo ad uno spettacolo che, benché sia per turisti, comprende musiche e danze andine eseguite con serietà e sobrietà.

Aeroporto di El Alto, volo per Buenos Aires via Santa Cruz de la Sierra. Tante cose ancora ci può offrire la Bolivia, ma ci vorrà un altro viaggio, speriamo di riuscire a tornare in questo paese che mi ha così tanto preso.

Buenos Aires e solito cambio di aeroporto con traversata della città per prendere il volo verso Trelew nella peninsula Valdes. Arriviamo al tramonto e combattiamo una dura lotta per affittare l’auto da un lestofante che approfitta dell’unicità del suo mezzo fuoristrada per taglieggiarci. Al mattino andiamo a Punta Tombo per vedere i pinguini e poi a Puerto Madrin una città nuova in grande espansione per lo sviluppo di industrie varie e per il turismo che sta assumendo dimensioni imponenti in tutta la Patagonia; nel porto sostano molte navi che fanno crociere ad Usuaia ed alla Terra del Fuoco e scaricano qui i turisti per la visita alla peninsula Valdes. Punta Tombo dista circa duecento chilometri da Trelew e sono duecento chilometri di nulla: pianura assoluta ricoperta di cespugli bassi verde-grigio piegati dal vento, lungo la strada perfettamente rettilinea incontriamo quattro estancias mimetizzate fra la vegetazione.

Poi ecco la ‘pinguinera’: su di un’area di circa dieci chilometri quadrati ci sono le tane di quarantamila pinguini che in questo periodo stanno covando. E’ uno spettacolo attraente per la quantità di animali e per il loro comportamento buffo e compassato allo stesso tempo. La cova delle uova viene effettuata da entrambi i genitori; il pinguino che ha terminato il proprio turno lascia la tana e, dopo essersi stiracchiato e sprimacciato, con la caratteristica andatura ondeggiante si avvia verso il mare per nutrirsi.

Vi è pertanto un continuo andare e venire, i pinguini s’incrociano e pare si salutino abbassando il capo e dondolando le corte pinne. E’ molto bello e divertente anche perché si è letteralmente circondati da questi animali che svolgono le loro attività senza minimamente curarsi delle centinaia di occhi umani e meccanici che li tengono sottotiro.

Rifacciamo la strada verso Puerto Madrin e da qui proseguiamo per Punta Delgada all’estremità meridionale della Peninsula; abbiamo la prenotazione nel faro che è stato trasformato in hotel. Il paesaggio non cambia di molto, sempre pianura battuta dal vento e vegetazione bassa, unica eccezione sono due lagune salate molto colorate che costeggiamo.

Entriamo nel parco naturale della penisola Valdes pagando un salato pedaggio e, finalmente, arriviamo al faro. Qui incontriamo la responsabile ruvida ed efficiente che, dopo averci mostrato le stanze, bellissime ed arredate con raffinatezza, ci affida alle cure di Victoria una simpatica ragazza dai modi spicci che ci carica su un Land Rover d’annata per portarci verso la scogliera degli elefanti marini attraversando un terreno piatto ricoperto di erba bassa dove pascolano parecchi cavalli.

Giunti all’orlo della scogliera possiamo vedere sulla rena in basso le colonie degli elefanti e dei leoni marini: anche da quest’altezza sono impressionanti per la loro mole. Mentre gli altri scendono al livello della spiaggia da dove potranno fotografare gli animali da pochi metri, Aldo ed io restiamo ad aspettare sul bordo della falesia sospesi fra il mare ed il cielo e, ahimè, sferzati dal vento patagonico che è dimensionato alla grandezza del panorama che ci circonda.

Sulla strada del ritorno al faro godiamo di un tramonto che è la degna conclusione di una giornata veramente splendida.

Purtroppo il vento ha portato le nuvole ed oggi è tutto grigio, pazienza ieri abbiamo avuto il meglio, ora possiamo accontentarci. Andiamo ancora un poco a nord a vedere altri elefanti marini, poi ritorniamo verso Puerto Madrin e poi a consegnare l’auto a Trelew. Abbiamo trovato due macchine con autista che ci porteranno a Trenel nella Pampa. Partiamo all’alba ed incominciamo gli ottocento chilometri di strada che ci aspettano. Dopo alcune ore comincia a piovere sempre più intensamente, verso mezzogiorno siamo immersi in un vero e proprio uragano che si protrarrà fin verso le cinque del pomeriggio. Poi, all’improvviso, il cielo si apre, le nuvole corrono in cielo ad una velocità incredibile originando forme circolari ed in breve il sole torna a splendere.

In un’apoteosi di raggi dorati arriviamo al paese di Trenel provincia de la Pampa dove risiedono parecchi parenti di Bruna. Il temporale è stato intenso anche qui facendo mancare l’energia elettrica, pertanto entriamo in casa di Delia al buio. Andiamo a cena nel ristorante del paese con tutta la numerosa parentela ed il giorno seguente restiamo loro ospiti.

Ripartiamo con altre auto a noleggio alla volta di Camilo Aldao, il paese in cui risiedono i parenti di Aldo: altri circa cinquecento chilometri di strada che corre ora non più nell’arida pianura patagonica, ma fra sterminati campi di grano e mais, grandi mandrie pascolano nei terreni erbosi, mentre stuoli di uccelli si spostano da uno all’altro degli specchi d’acqua residui delle inondazioni dell’anno passato.

Arriviamo a Camilo Aldao anche qui calorosamente accolti e nutriti.

Il giorno seguente ci accompagnano all’aeroporto di Rosario da dove voliamo a Buenos Aires per il nostro ultimo giorno di permanenza in Argentina; con noi viene anche Nene, un cugino di Aldo, che conosce molto bene la capitale e ci farà da preziosa guida.

Infatti il mattino seguente prendendo un numero infinito di taxi andiamo al molo dove attraccavano i bastimenti carichi di emigranti che da ogni parte d’Europa venivano a cercar fortuna nella mitica Argentina. Attraversiamo a piedi il quartiere di Boca con le case in lamiera dipinte di colori vivacissimi, ora è parecchio artefatto ad uso dei turisti tuttavia conserva un suo vivace fascino. Al centro di un reticolo di strade strette si eleva la mole tozza dello stadio del Boca Junior il mitico terreno da gioco che ha visto risplendere molte stelle del calcio, su tutte brilla sempre quella di Maradona, qui venerato come un vero idolo.

Sosta caffè nel quartiere di San Telmo sulla cui piazza alla domenica si svolge un mercato antiquario che dicono molto interessante, ma oggi è sabato e ci sono solo bancarelle di carabattolle, mentre i negozi sui lati della piazza e nelle vie adiacenti vendono a cari prezzo oggetti vecchi, dal gusto pesante e ridondante tipico della voglia di ostentazione di una società ricca e spendacciona che pensava di poter attingere senza fine alle ricchezze di questo paese benedetto dagli dei.

Se il quartiere ha perso parte della sua atmosfera, essa è ben viva nel ‘cafesito’ un locale dove tutto è rimasto come negli anni venti del secolo scorso.

Boiseries scure e mensole di legno con bottiglie dalle etichette illeggibili, piccoli tavolini quadrati sui cui piani ci sono centinaia di sigle e scritte incise col coltello, vecchi cassetti dal frontale di vetro con incisa la scritta di cosa contenevano, luci fioche fanno balenare riflessi dorati sul vecchio bollitore in lamiera zincata che troneggia solitario, l’alto bancone di legno col ripiano di marmo lucido ingombro di barattoli di vetro per paste e caramelle, camerieri con camicia bianca, papillon, baffi e gilè neri servono caffè fumanti ed aromatici a clienti sprofondati nella lettura dei giornali o presi in lunghe ed accalorate conversazioni. Ogni volta che si apre la porta a vetri un po’ scassata ci si aspetta che entri un gaucho altezzoso con al braccio una senorita dai fruscianti abiti di seta.

Da qui andiamo alla Cattedrale immensa e ricchissima di mosaici, dorature, vetri colorati, altari barocchi e tutto quanto può contribuire all’ostentazione di opulenza.

La chiesa occupa un lato della Placa de Majo su cui affaccia anche la Casa Rosada sede dei Presidenti della Repubblica, meglio usare il plurale visto l’abbondanza di personaggi che hanno ricoperto in rapida successione questa carica. Al centro della piazza c’è l’obelisco attorno al quale hanno manifestato per anni quelle che erano chiamate ‘las locas’ cioè ‘le pazze madri dei desparecidos’: venivano qui chiedendo almeno di conoscere quale terribile fine avessero fatti i loro figli inghiottiti dall’orrore della repressione al tempo della dittatura militare. Poiché molti bambini sono stati sottratti alle madri prigioniere appena nati e dati in adozione a famiglie di militari queste madres si sono trasformate in abuelas (nonne) e continuano la loro battaglia per avere notizie dei nipoti testimoniando l’ignominia del potere assoluto e gridando al mondo il loro diritto alla giustizia.

Percorriamo l’Avenida 9 Julio, la più importante della città fiancheggiata da begli edifici che la fanno somigliare molto ad un boulevard parigino, poi entriamo in una zona pedonale molto affollata e concludiamo la serie delle ‘parrillas’ argentine in un ristorante immenso dove le carni di vitello, agnello, pollo vengono asade ‘a vista’ e servite in quantità pantagruelica.

Nene è instancabile nel servirsi di asado e nel volerci mostrare il più possibile della sua amata Buenos Aires: così dopo pranzo andiamo ai vecchi magazzini delle dogane che sono stati di recente restaurati, tutto il quartiere è stato risanato e trasformato in zona residenziale. Ci rilassiamo un po’ guardando il passeggio, sullo sfondo la veduta dei palazzi vetro cemento dall’architettura ardita; all’ancora sul fiume due velieri che hanno navigato nei mari australi vincendo ghiacci e venti sono un invito conoscere le altre meravigliose immensità di questo continente, ma noi invece partiamo a mezzanotte verso il nostro vecchio e piccolo continente da dove sono salpati uomini che hanno così pesantemente influito sulla vita delle popolazioni che durante questo viaggio abbiamo cominciato a conoscere ed amare. C’è tanto da dire circa le diverse realtà sfiorate nel mese di permanenza in Sudamerica, c’è materia di discussione e meditazione sulla situazione dei diversi paesi, le conseguenze attuali derivanti dalla conquista spagnola, il peso che il Fondo Monetario Internazionale ha sulle economie e di conseguenza sul tenore di vita delle popolazioni, la difficoltà dell’instaurarsi di regime democratici stabili, la ricorrente voglia di un ‘jefe’ che sia punto di sintesi del potere e guida cui affidarsi, il ribollire di mille tensioni sociali nelle grandi città dove si riversano masse di contadini sradicati senza un futuro, la terribile situazione delle popolazioni andine che vivono nelle stesse condizioni di secoli e secoli fa, le malattie e la durezza del lavoro che fanno sì che in Bolivia l’età media non raggiunga i cinquant’anni, scendendo di molto fra i minatori.

Però per parlare di questo penso bisogna tenere presente quanto recentemente Daniel Pennac ha detto ‘…Su questa terra infinita, misteriosa, pericolosa, fatta di montagne altissime, foreste illimitate, deserti, terremoti. In cui la natura crea e modifica continuamente l’intorno e la pioggia nasconde le tracce precendenti. E questa pioggia può durare cinquanta giorni. Oppure c’è un’aridità che pietrifica i cadaveri…Una terra che spazza via le tracce dell’uomo. Una terra che è votata all’amnesia.’



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