Far West caldo: esplorando la regione dei Four Corners di e non solo
Quest’anno è andata così. Mille motivi e mille contingenze ci hanno portato a condividere a tre un viaggione stupendo nella quindicina “calda” del mese di agosto, tra il 5 e il 20. Obiettivo: esplorare la poco conosciuta (già, forse troppo poco…) regione dei 4 corners: Great Plains and Rocky Mountains – con un passaggio nel South West per visitare la Monument Valley e il Bryce Canyon. Il viaggio ci porterà a toccare Colorado, Arizona, Utah, Idaho, Montana, New Mexico e Wyoming, percorrendo un percorso pressoché circolare che partirà e si concluderà a Denver.
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5.08
Siamo in partenza. Dopo un lungo week end di litigi (della sottoscritta) con la valigia (dimensioni e relativo peso. Ndr: il tutto non doveva necessariamente superare i 20 kg… che non sono mica pochi, d’accordo, ma avete mai provato a farci stare dentro di tutto, dal piumino al costume da bagno, per una vacanza che preveda che voi siate TALMENTE versatili…?) … sono pronta. Cioè: pronti, via.
All’alba a Milano Linate, primo scalo a Francoforte. Volo intercontinentale su Detroit e da lì, con un paio d’ore di ritardo, raggiungiamo la nostra meta finale: Denver. Il tutto un po’ lunghetto e parecchio stancante, ma effettivamente al momento della prenotazione dei voli ci eravamo accorti che veniva (economicamente!) bene così, con una distribuzione su due scali.
Denver, quindi: bus dall’aereoporto, direzione centro città. E da lì trovata per caso (e aggiungerei fortunatamente, considerati dimensioni e peso della mia valigia!) una navetta gratuita che ci porta al simpatico e centralissimo Curtis Hotel, già prenotato dall’Italia per due notti.
Niente, teniamo botta e preferiamo non contare le ore da cui siamo svegli. Appoggiamo quindi zaini e valigie ed usciamo per mangiare un boccone veloce nel quartiere, nella zona di Larimer Square, giusto per non andare a letto digiuni, anche se sono le 21.30 e tra viaggio e jet lag siamo effettivamente abbastanza a pezzi.
La città, per quel che vediamo lì per lì, ci gusta parecchio: molti giovani, tutti molti cool… posticini da mangiare e da bere uno in fila all’altro – e, pare, uno più invitante dell’altro.
Optiamo per un pub molto american-style, tavoli in legno e mattoni a vista; un po’ offuscata da fame e stanchezza scelgo (a caso) dal menù i white cheddar spatzle with fresh vegetables, qualunque cosa siano. E si rivelano ottimi!
6.08
Iniziamo la giornata sotto i migliori auspici: l’ascensore dell’hotel, fischiettando, ci augura una nice morning!
Tour to Denver Downtown, 16th street. Il solito free bus ci scarrozza in giro.
Sole caldo e cielo blu: beh… in effetti ho letto che in Colorado, nonostante l’altitudine (Ndr: Denver si torva a circa 1.600 m), c’è una media di 300 giorni di sole l’anno… il meteo odierno quindi non dovrebbe avere alcunché di particolarmente eccezionale!
Entro da sola per una bibita rinfrescante al 7Eleven. Qui i turisti europei sono davvero rari: catturo immediatamente l’attenzione dei presenti alla cassa. Conosco Jim: fan del nostro cibo (…ma va?!) e del lago di Garda (“Oooh lovely Desenzano!”).
Riflettiamo che in definitiva ci piace parecchio l’idea di non avere intorno (per una volta!) troppo turismo (italiano…!) chiassoso.
… A proposito di italiani, ehm. Nell’esplorazione cittadina troviamo per caso questo “Brava Pizza”, proprio in piena downtown. Forno a legna e foglie fresche di basilico, da non credere. Il tutto servito all’aperto, all’ombra di un grattacielo. Ci catapultiamo a sedere– ma che neanche un pellegrino alla vista di Santiago de Compostela sarebbe stato più giubilante.
Per il pomeriggio è (incredibilmente!) previsto un giro di shopping therapy – e visto il tour che abbiamo in mente probabilmente sarà il primo e l’ultimo che avrò l’opportunità di giocarmi da qui ad una quindicina di giorni.
Bus 8F e quindi via verso il Cherry Creek Mall, dove vengo lasciata libera a briglia sciolta per BEN due ore e mezzo.
Corro come una pazza su e giù per scale mobili e ottimizzo tempo e acquisiti. Ne esco chiaramente vittoriosa.
Doccia e cambio veloce in camera e in serata raggiungiamo il River Front Park: giretto e foto scattate all’orario del tramonto – quando la luce sembra essere migliore.
C’è persino un drone che vola sopra alle nostre teste, vuoi vedere che Amazon qui si è già attivata…?!
Ristorantino con i tavoli fuori giusto di fronte al parco: beer ale e risotto funghi e piselli, ma che buono! Sono decisamente in fase accumulo-carboidrati, in prospettiva delle steak che si materializzeranno pressoché quotidianamente di qui a breve.
Lunga passeggiata per tornare in hotel passando per la vivacissima Lodo – Lower Downtown.
Concludiamo che Denver è davvero un gioiellino: giovane, veloce, curata, attiva, servizi più che efficienti. Voto senz’altro positivo e un’ottima impressione che ci resta addosso!
7.08
Moving from Denver appena dopo colazione (beh, sempre a proposito di italians-in-the-world: non si può evitare il baretto-gourmand con la caratteristica insegna rossa dell’Illy caffè adocchiato in centro il giorno prima, quindi ci smazziamo il solito giro con navetta gratis A/R).
A pancia piena si va a noleggiare la macchina e si torna (gongolanti) al volante di una Subaru Outback nera che ci riempie gli animi di grande entusiasmo (… consumo carburante a parte!).
Si parte verso ovest.
Sopra alle nostre teste passa all’improvviso un gran temporale, tuoni e fulmini e poi, di colpo, la famosa quiete dopo la tempesta: scopriremo che qui capita così piuttosto facilmente, ci abitueremo.
Siamo in (buona) compagnia della vecchia America del rock, che ci farà da colonna sonora un po’ per tutta la vacanza. Sosta pranzo: scopriamo Vail un po’ per caso, un po’caldeggiato dalle guide.
Ci fermiamo dunque a mangiare un burrito in questo paesello tanto pittoresco quanto un po’ artificiale e ricostruito ad hoc, dove una cartellonistica imponente ci comunica che proprio qui si svolgeranno i campionati del mondo di sci alpino nel febbraio 2015.
Sembra di essere finiti in una rivista di viaggi: stradine lastricate e negozi fashionissimi pieni di souvenir sportivi, sci e abbigliamento tecnico per la montagna – soprattutto attrezzature invernali, anche con buoni saldi d’occasione.
Intuiamo che il jet set sporty-chic americano si divide tra qui ed Aspen. Ma che bravi!
Si riparte: il paesaggio che scorre dai finestrini della macchina è variabile quasi quanto il tempo fuori. Talora lunare, rocce lisce, grigie e levigate dal vento che sembrano la pellaccia di un elefante addormentato oppure rocce rosse e aspre – da cui il nome evocativo di “Colorado” – distese verdeggianti che ospitano golf-club esclusivi, cime montuose, talora appuntite, talora più morbide e fitte di vegetazione, perlopiù conifere. Insomma, a guardare fuori non ci si annoia.
I prati immensi sono punteggiati qua e là da ranch che sembrano usciti dritti dritti dalla serie della Signora del West, numeri imprecisati di cavalli e mucche al pascolo e, tra una distanza sconfinata e l’altra, piccoli centri abitati dai nomi improbabili – almeno quasi quanto la loro esistenza!
Il sinuoso Colorado River scorre pacifico e maestoso alla nostra sinistra.
Arriviamo a Grand Junction per l’ora di cena. Meta decisa estemporaneamente sulla nostra mappa, fatti due conti sul tempo di guida rimanente, il livello di stanchezza, la prospettiva di mettere qualcosa sotto i denti nel breve-medio periodo.
Troviamo un motel tutto sommato dignitoso (fragranza di cantina a parte) lungo la strada, ci si accampa lì per la notte.
Il nostro paesello di approdo è una community mica male: wine capital del Colorado, troviamo (per l’appunto!) un peaches & wine festival (… peaches, ma abbiamo capito davvero? E come sono possibili queste coltivazioni in territorio cotanto desertico? Ci resta il dubbio in effetti…). Della serie: Market Farmers Every Thursday Evening from June to September… maddai! Lovely!
Musica country e band locali che fanno molto old America rockettara.
Tra le bancarelle di frutta e verdura bio (su tutto le pesche!), enormi sacchettoni di pop corn e spillette per cow boy in erba, respiriamo un’atmosfera generale molto country-polleggiata… ci piace. E ci piace pure parecchio! Il corso del paese è animato da ridenti famigliole con papà muscolosi e mamme tatuate che spingono passeggini con simpatici pargoletti dalle guance rosse.
La serata parte con steaks & french fries e decolla nel pub più animato di “downtown” (dove ci chiedono la carta d’identità, grazie se mettono in dubbio la nostra età over 21…) che sembra ospitare i personaggi più gorgeus del paese: dal messicano ubriaco con gilet di pelle nera (portato a pelle, v’ho detto tutto), allo sceriffo con tanto di cinturone, camperos e cappellone bianco (ma non sarà che invece è un farmer locale?), ai biondoni rasta vitaminizzati (o semplicemente molto ben nutriti) che sfoggiano con nonchalance la maglia inconfondibilmente gialla dei Denver Nuggets. Apperò!
8.08
Oggi c’è un sole bellissimo. Obiettivo: Durango. In macchina e si parte.
Attraversiamo la Grand Mesa Scenic Byway, cavoli! Paesaggi mozzafiato, laghetti blu da cartone animato, distese di fiori e le solite montagne a tratti verdeggianti, a tratti rocciose e aride. Ci lasciamo “affascinare” dallo scenario e ci fermiamo in qualsiasi punto la strada lo consenta, scattando foto e facendoci accarezzare dal sole, dal profumo dell’erba e da quei colori così pieni, così nitidi.
Sosta a Montrose per la pausa pranzo, un paesello più o meno sperduto. Mangiamo il nostro bravo hamburger con patate in un pub altrettanto sperduto e caratteristico, dove siamo accolti letteralmente a braccia parte da frequentanti (perlopiù avventori locali) e camerieri.
Proseguiamo quindi sulla Million Dollar Highway (così chiamata perché era quella che percorrevano i vecchi cercatori d’oro) da Ouray (denominata “the Switzerland of the Colorado”) a Silverton. E non sbagliamo: come segnalato dalle guide e da qualunque sito consultato, si rivela effettivamente una meravigliosa strada panoramica.
Arrivati a Silverton scendiamo verso Durango, stiamo percorrendo sostanzialmente la stessa strada che domani faremo con il treno a vapore, ma al contrario.
Siamo a Durango per l’ora di cena: tra i negozi per turisti (su tutti: stivali, cappelli e cinturoni…), le costruzioni della via principale, i pub con musica country rock dove suonano anche dal vivo… Durango ci rimanda subito un’atmosfera moooolto Far West.
Ci affidiamo alla Lonely Planet per orientarci sull’offerta delle strutture recettive per dormire, il che si è effettivamente rivelata una buona scelta. Motel dignitoso e vicino al centro.
Passiamo immediatamente alla stazione per prenotarci i biglietti per il treno a vapore che vogliamo prendere il giorno dopo. Non risulta più possibile fare il rientro by bus (tutti pieni, la durata del viaggio con quelli si riduce ad un’ora e mezzo, e te credo…) per cui ripieghiamo, per forza, per una A/R in treno. Non c’è effettivamente altra soluzione, anche se a questo punto dobbiamo mettere in conto di “impegnare” ben 3 ore e mezzo a tratta.
Spendiamo complessivamente una cifra non troppo bassa, ma siamo pressochè certi che ne valga la pena.
Al calar del sole la temperatura si abbassa drasticamente, rimpiangiamo tutti e tre di non aver messo i pantaloni lunghi. Una controllata alla app scaricata sul cellulare, una conversione al volo tra piedi e metri… et voilà, scopriamo che siamo a più di 2000 m di altezza. Eccheccavoli, ci sta eccome l’escursione termica serale!
Ceniamo in un pub frequentato perlopiù dai locali: non chiedevamo di meglio!
Troviamo i colleghi di una cena aziendale e un simpaticissimo (!) addio al nubilato. Insomma, c’è di che divertirsi!
E in più non ci facciamo mancare un cantante country chitarrato – ettepareva – accompagnato da un attempato suonatore di violino.
Manco a dirlo, entriamo subito nel mood giusto!
9.08
Partenza ore 8.45 per Silverton by train: siamo sulla celeberrima linea ferroviaria Durango & Silverton Narrow Gauge Railroad. Trattasi di “steam train” (che altro non vuol dire se non“treno a vapore”, fantastico). Durata stimata del viaggio: 3 ore e mezzo circa.
Al momento della prenotazione puoi scegliere dove posizionarti: sedere nei vagoni all’aperto oppure optare per un posto al chiuso.
Dal momento che su diverse guide avevo letto che le particelle di fuliggine volano mica male e potevano essere parecchio fastidiose, io scelgo di stare al chiuso. Gli altri due invece si posizionano evidentemente all’aperto, non fosse altro che per scattare a manetta foto su foto…! (scopriremo comunque che chiunque può alzarsi e spostarsi: io a mia volta mi faccio vari passaggi all’aperto per vista panorami e foto senza il vetro in mezzo…!).
Il viaggio in treno è tutto sommato molto piacevole, quasi quasi che non ci dispiace aver scelto (forzatamente, ehm…) entrambe le tratte così.
Vero che più di tre ore sono lunghe… ma il panorama dai finestrini è uno spettacolo tale che vale da solo la pena. E poi la carrozza è speciale per fare conoscenza con i tuoi compagni di viaggio: nella fattispecie tutti americani – perché qui il turismo è sostanzialmente “locale”, salvo pochissime eccezioni.
L’andata mi vede impegnata a chiacchierare con un papà texano di Houston, sufficientemente panzone e sufficientemente american-type. Scopro che lavora per la General Electric (che ha anche una sede nella lovely Firenze, dove lui, ahimè, però, non è mai stato).
Si parla di tutto – beh, io, soprattutto parto con la mia migliore indagine psico-sociologica: vacanze, viaggi, sistema scolastico, pena di morte…
Intanto i miei guys si godono un simpatico papà minchia del Missouri che li sollazza con vari annedoti sullo stile di vita americano e pone questioni di FONDAMENTALE ed INEQUIVOCABILE importanza per comprendere appieno il nostro Paese (… But: Is Italy still a country…?! Che minerali esportate? E che erbe ci sono in Italia? A quanti metri dal livello del mare si trova la vostra città?). Cose così. Non male, davvero.
Silverton è veramente un paese del vecchio West: praticamente si sviluppa per il lungo intorno a due strade, una asfaltata, l’altra no. Forse un pelino kitsch, va detto… piuttosto turistico e disseminato di pub dall’aria country un po’ polverosa e vari negozi di gadgets pioneristici– che richiamano inequivocabilmente cow-boy e miniere d’oro.
Ma un giretto ci sta, almeno nelle due ore di tempo che abbiamo prima di riprendere lo steam train di rientro.
Ma la vera perla del viaggio di rientro sono tre orsi bruni comparsi all’improvviso in una radura: mamma orsa e due cuccioli. Uno dei due si alza su due zampe, quasi volesse salutarci. Una visione paradisiaca, veramente un tuffo al cuore. Resto temporaneamente paralizzata e non faccio in tempo a scattare con il mio Iphone. Strano davvero come un animale fondamentalmente anche parecchio pericoloso possa suscitare cotanta tenerezza. Ma forse sono i nostri retaggi dell’infanzia, quando ci portavamo a letto un teddy bear spelacchiato come compagno per la notte…
Per le 18 siamo tornati a Durango. I miei due compagni abbisognano di infilarsi in una lavatrice per togliersi da capelli, pelle e orifizi tutta le micro particelle di fuliggine accumulate nei due viaggi. Io sono chiaramente un po’ più fresca e pulita.
Alla sera ci rifocilliamo con un hamburger in paese, nella bella atmosfera country-vacanziera che si respira (e stavolta il clima non ci frega: jeans lunghi per tutti…!)
10.08
Direzione Mesa Verde National Park, dove si possono visitare le dimore rupestri ben conservate dei vecchi pueblos ancestrali.
Paghiamo un prezzo onestissimo (intorno ai 24 dollari) per fare due tour di circa un’ora ciascuno: Balcony House e Cliff Palace, da fare necessariamente con la guida di un ranger.
The most adventurous è il primo, quello della Balcony House. In effetti il ranger all’ingresso ci aveva chiesto una cosa del tipo: “Ohi ragazzi, ma ci state dentro…?”. E noi, brillantissimi: “Of course!”.
La ranger Melissa, quella con i pantaloni più a vita alta che si siano mai visti, ci tiene un pippozzo preventivo sulla necessità di partire in condizioni di buona salute. E soprattutto con bottiglietta d’acqua al seguito. L’acqua ce l’ho solo io (mi tocca promettere che al bisogno l’avrei shared con i miei due compagni disgraziati), la buona salute tutti e tre.
Water above all, ma nessun commento alle shampate scosciate in mini shorts e immancabili infradito di gomma (che manco in spiaggia a Gatteo mare a Ferragosto), ai bambini-Pierino e al gruppetto di panzoni evidentemente sovrappeso con camicie hawaiane sbottonate sull’ombelico e al collo macchine fotografiche dagli obiettivi di dimensioni… bah, diciamo importanti. Confidiamo comunque tutti (caldamente) nel loro (innato) buon senso.
E vabbè, si parte per il trail dunque.
Gita molto bella e panoramica, per carità. Tanta roba, davvero.
Mi permetto: forse, più che altro sconsigliata solo a chi ha considerevoli problemi di vertigini.
La sottoscritta, che più che di vertigini soffre di un po’di fifa da-spazi-aperti (burroni, sentieri molto scoscesi, scale verticali da scalare senza alcun altro appiglio se non le tue manine sudate… e, più in generale, sensazione di cadere nel vuoto) non è che in certi punti se la sia goduta molto in effetti. Nessun effetto collaterale comunque, se non abbondante sudorazione alle mani (appunto) e qualche foto scattata venuta un po’… mossa! Sdrammatizziamo con parecchie risate. I miei accompagnatori (che luckily hanno un po’ capito la mia difficoltà…) l’han buttata decisamente sul ridere!
Il Cliff Palace prevede un tour meno impegnativo, ma altrettanto “involving”.
Ma porca miseria! Fa strano pensare che questi ancient pueblos erano qui tra il 500 e i 1.200 d.c., con le loro coltivazioni di beans and corn, a caccia di cervi e scoiattoli… e intanto a Parigi si stava costruendo Notre Dame e Marco Polo scopriva nientepopodimeno che la Cina.
Il nostro nuovo ranger ci tiene il secondo pippozzo della giornata. Questo focalizzato sull’environment. Che suona più o meno così:“Serve ABSOLUTELY preservare l’ambiente in cui viviamo per le nuove generazioni che verranno…” – ndr. disse il ranger montando sulla sua 4×4 con 8.000 cavalli, accendendo l’air conditioned a palla e dirigendosi al Mall più vicino, dove avrebbe sfondato un carrello di roba, imballata almeno un paio di volte in simpatiche confezioni di plastica. That’s America, ragazzi.
Dopo qualche foto scattata dagli innumerevoli point sparsi un po’ ovunque nel parco, ripartiamo in direzione Arizona.
Inciampiamo (giuro, sono lì, a 10 metri da noi!) nei 4 Corners e – nonostante sia very cheap e turistico q. b. – ci fermiamo. Me ne assumo (quasi) tutta la responsabilità, lo ammetto. Turista banale e convenzionale che non sono altro. 5 dollari buttati via così.
Foto d’ordinanza saltellando tra uno stato e l’altro (Colorado, Arizona, Utah, New Mexico), scattata peraltro da un gruppetto di affabili italiani, i primi che incontriamo da che siamo arrivati – che, manco a dirlo, si palesano chiaramente in un posto così!
Via di nuovo sulla nostra Subaru, con solo qualche sosta panoramica per un paio d’autoscatti alla luce del tramonto.
Attraversiamo il paesaggio desertico della riserva indiana fino a Mexican Hat, ultima speranza di centro abitato dove trovare da dormire per la notte. Trattasi di paesello perso nel nulla del deserto dello Utah, che deve la sua fortuna (… mah, sarà poi davvero tale?!) ad una roccia a forma di sombrero (azz… solo gli Americani possono davvero pensare di valorizzare un posto del genere, con tanto di gitarelle domenicali organizzate ad hoc per scattare caratteristiche foto da incorniciare in salotto!) che troviamo proprio all’ingresso del minuscolo villaggio – composto perlopiù da motel e strutture recettive, anche piuttosto care… in effetti siamo in prossimità dell’appetibilissima Monument Valley e questo è un punto d’appoggio particolarmente comodo.
Trovata in extremis una camera per tre, ci nutriamo di steack and beans, tavoloni di legno all’aperto e cow boy ben pasciuto che griglia la carne!
Io mi butto quindi sotto alla doccia, impolverata e ancora un po’ inumidita da un acquazzone sceso improvvisamente nel pomeriggio a Mesa Verde, i ragazzi si prendono un’oretta per una seduta fotografica notturna al messicano dormiente sotto al sombrero. Cielo stupendo, una coperta di stelle. Peccato solo che la luce di questa luna piena gigante impedisca di vedere qualche stellina cadente!
11.08
Iniziamo la giornata con un’american breakfast coi fiocchi. Finalmente. Pancakes and honey and maple syrup and toast and butter and confiture and hot chocolate.
In meno di un’ora siamo all’ingresso della Monument Valley. 20 dollari per entrare e si inizia il giro.
Scegliamo di non fare nessun tour organizzato, ma di seguire con la nostra Outback i percorsi ben segnalati sulla cartina ritirata al visitor center.
Il posto è veramente incredibile, sembra di essere in un film di Sergio Leone. Da un momento all’altro mi aspetto di veder arrivare Clint Eastwood a cavallo!
Sole molto caldo, ma il vento leggero costante ci consente di muoverci bene, soprattutto in queste prime ore del mattino. E poco importa se la polvere rossa che si solleva a tratti ti si infila nei capelli, in bocca, sotto ai vestiti!
La giornata passa tra i panorami mozzafiato e gli scatti fotografici che sperano di catturarne i colori – su tutti il blu profondo del cielo e il rosso di questa terra argillosa – e l’atmosfera western. Faccio fatica a raccontare le sensazioni che avevo in pancia, veramente un posto unico da vedere e da vivere. Trovo che le parole rischierebbero di banalizzarlo un po’.
Ripartiamo nel pomeriggio: dopo gli spostamenti un po’ sobbalzanti sulla Subaru – che il nostro “autista” ha particolarmente goduto tirare su e giù per i saliscendi della riserva, manco ci fosse stato lui, in un film di Sergio Leone, e al posto del cavallo avesse le 4 ruote… – tornare sulla strada asfaltata è un toccasana per la mia povera schiena!
Arriviamo a Page, una cittadina al centro della regione: pioviggina, ma più che altro è fastidiosa l’umidità appicicosa che c’è nell’aria.
Il posto si rivela piuttosto caro e parecchio bruttino. Peraltro molto turistico, fatto soprattutto ad uso di un giro di turismo nazionale.
Siamo in Arizona: qui non c’è l’ora solare. Curioso, tocca mettere gli orologi di un’ora indietro.
Ci fermiamo in un information center per organizzare la giornata dell’indomani e troviamo un fast food, almeno questo mica male davvero, per mangiare un hamburger per cena.
12.08
Cielo grigio, ma sembra aprirsi a tratti. Partiamo alla volta del mitico Glen Canyon, direzione Horseshoe Bend, un punto panoramico segnalato su tutte le guide perché dalla caratteristica forma a ferro di cavallo. Nonostante il via vai importante di turisti il tour vale veramente la pena.
Panorama a picco sul Colorado river: il contrasto di colori che si crea tra la roccia rossastra, la natura verdeggiante e la luce che si riflette sull’acqua è veramente incantevole.
Dopo una rapida tappa alla diga del Lake Powell – il secondo bacino artificiale del paese in ordine di grandezza – che si estende tra Utah e Arizona, entriamo nella Lake Powell Recreation Area. Un ranger gentilissimo all’ingresso ci propone il biglietto cumulativo per i National Park americani, con cui finiremo per risparmiare almeno una trentina di dollari a testa. Ip ip urrà.
Ci siamo: via pantaloni e scarpe da trekking, su bikini e infradito! Relax and fresbee on the beach. E bagno, immancabile!
Quando i due polli che ho di fianco stanno rosolando peggio che se fossero sul girarrosto (in effetti siamo sotto il sole a picco del mezzogiorno – e fortuna c’è qualche nuvola che a tratti lo copre) decidiamo di spostarci di nuovo, passando alla seconda spiaggia segnata sulla cartina, la Lone Rock Beach. Ci ritroviamo in un posto incredibile: selvaggio e isolato. Ad un certo punto, vuoi per le nuvole cariche di pioggia che sembrano avanzare, vuoi per il vento forte che si è alzato all’improvviso – ma forse è la spiaggia stessa che è particolarmente esposta alla correnti – restiamo praticamente soli. Si sta benone – a parte quei benedetti granelli di sabbia che scricchiolano sotto ai denti…!
Scappiamo a gambe levate verso la macchina ai primi fulmini che vediamo all’orizzonte: appena in tempo, scoppia un temporale improvviso che non sarebbe stato bello beccare col naso all’aria!
Arriviamo a Kanab –cittadina famosa per i numerosissimi film western girati tra gi anni ’20 e gli anni ’70 – e ci facciamo un giretto a piedi prima di cena. Turismo quasi esclusivamente italiano, ma che ridere, ad un certo punto al ristorante – non fosse per l’ottima NY steak con il contorno di riso al vapore – sembra veramente di essere al Testaccio!
13.08
Pancakes, honey, omelette, blueberry gelly and toasts. E con una colazione così siamo pronti per andare sulla luna!
Niente luna però oggi… si va invece al Bryce Canyon (2.529 m). Anche se piove. E non piove come è capitato talora in questi giorni, un temporale e poi via, di nuovo sereno. No, oggi piove e basta. Nuvole basse e ferme lì. Argh.
E comunque: Bryce Canyon…mio-dio-che-posto. Mai visto nulla del genere, neppure immaginato. Questi pinnacoli rossi, rosa, arancioni, questi hoodoo (che trovo tradotti, letteralmente, con: “i camini delle fate”, ma che bello) si stagliano a perdita d’occhio sul cielo plumbeo.
Partiamo per un trail che prevede 6 km circa di saliscendi. E la pioggia non desiste. E fango, tanto (e molto rosso!).
Ci sono parecchi turisti, ovvio, ma il parco è talmente ampio che non ci si pesta di certo i piedi. Qua e là vediamo uno scoiattolo o un chipmunk che saltella tra le rocce.
Alla fine del trail pensiamo che ne sia davvero valsa la pena. Le viste pazzesche, con questi colori chiaroscuri, hanno ripagato la fatica e il senso di umidità e di infreddolimento che mi sento fin nelle ossa. E lo zaino praticamente da strizzare (…con relativo contenuto. E qui salta fuori – mio malgrado! – il mio lato materno: caramelle, bustine di zucchero, salviettine profumate…!).
Alla fine della giornata, dopo un meraviglioso pisolino rigenerante in macchina, apro gli occhi e mi trovo dove ci fermeremo per la notte: siamo a Escalante. Vi dico solo che la guida la cita come l’ultima metropoli in zona per miglia e miglia.
Super doccia e stendiamo tutto il stendibile ad asciugare sulla balconata del motel.
E spazzoliamo gli scarponi pieni di fango colloso e rossastro!
Il cielo al tramonto che volge al rosa ci fa comunque ben sperare per il meteo del giorno successivo.
I miei due esploratori in avanscoperta trovano un posto adorabile per la cena. Trattasi di negozio sportivo che nella sala adiacente è organizzato come bar/pizzeria. Pizzeria… ci viene l’acquolina in bocca alla sola parola. Carboidrati… e tregua dalla dieta iperproteica che stiamo facendo oramai da giorni. Margherita large per tre con acciughe, ce la servono fumante e già tagliata a fette. Delicious!
14.08
Ci svegliamo sotto un bellissimo sole.
Stamattina di buonora la Million Dollar Route-Highway ci porta verso Salt Lake City (1509 m), la capitale dello Utah mormone, devota alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (si chiama proprio così, giuro!).
La cosa bella sono questi spostamenti in auto che perlopiù prevedono attraversamenti che non ci si annoia mai a guardare anche solo dal finestrino. Vediamo qualche mule-deer nella boscaglia e rapaci con notevoli aperture alari che volano sopra alle nostre teste.
Ieri, prima di dormire, il fascino psico-antro-sociologico della cultura mormone (da Joseph Smith, il primo profeta fondatore, a Brigham Young, il suo successore, diciamo l’A.D. che ha gestito il culto con una buona dose di imprenditorialità!) mi ha tenuta impegnata fino a tardi a documentarmi.
Allora: il mormone non è poligamico, anche se è la prima cosa che a nominarlo ti senti dire – o ti viene in mente.
Poligamia abolita fin dal 1890. E, tuttavia, una setta di fondamentalisti – non riconosciuti – si sono staccati dalla Chiesa centrale per continuare a praticare la poligamia – nonché usanze varie… (che, queste sì, fanno davvero un po’ rabbrividire) di matrimoni combinati e, pare, relativo, legittimo, eventuale ripudio della consorte non più… ehm… giovanissima, sigh).
La piazza della città con la famosa cattedrale Salt Lake Temple è in un’area circoscritta cintata, ingresso libero – beh, per fortuna – ma rimane come settorializzata. Ci fa un po’strano, nel complesso.
Epperò, attenzione. I turisti non possono mica entrare nel Temple, ritrovo solo dei mormoni più meritevoli. (Qualunque cosa significhi meritevole per loro!).
Ci saranno una decima di matrimoni in contemporanea: mi diverto moltissimo a vedere l’abbigliamento di sposi e invitati. Ma che belle le damigelle in chiffon e camperos!
Ne deduciamo che probabilmente molte coppie vengono qui per sposarsi nel monumento simbolo della religione del Paese – in effetti il simbolo della religione mormone del mondo! – che è un po’come se fosse per il cristianesimo il nostro Vaticano. Troppo bravi.
Il tutto, ovunque si posi l’occhio, risulta molto smart, molto ben tenuto, molto righellato, molto elegante. Non c’è una pagliuzza fuori posto: trovo le aiuole più curate che abbia mai visto.
Obbligo l’allegra compagnia ad un giretto esplorativo nel visitor center. La primissima impressione è quella di opulenza. Finti marmi per terra, statue a grandezza naturale dei padri fondatori, documentari interattivi alle pareti, postazioni di pc per risalire ai tuoi (eventuali) antenati (mormoni) – e se si pensa che in effetti hanno emigrato qui a metà Ottocento… beh, non è che si debba risalire troppissimo indietro negli anni.
Fastosità e benessere (economico e morale), ecco. Sembra che il loro credo sia garantista proprio di questo.
Giro a piedi fino allo Utah State Capitol e poi verso il centro per un iced green tea al Creek City Mall, un centro commerciale nuovissimo e sfavillante.
Alla sera andiamo nella zona groovedel centro, localini e ristoranti che si affacciano sulla strada, molto carino. In giro un sacco di young people – alcuni in effetti un po’ spostati, ma tant’è. Finalmente respiriamo un po’ d’aria di città!
Unica mia grandissima delusione: non colgo segni mormoni intorno a me. Cappelli, barbe, crocifissi, vesti lunghe, che so. Nada de nada.
Finiamo la serata con una birretta in un pub per risparmiarci un acquazzone improvviso che altrimenti ci avrebbe inzuppato!
15.08
… E buon ferragosto!
Oggi abbiamo in programma il trasferimento verso il parco di Yellowstone, dormiremo lì per le successive due notti, è l’unico altro hotel (ma con piscina questa volta!), oltre a quello all’arrivo a Denver, che abbiamo prenotato dall’Italia. Il tutto ci richiederà almeno 5 ore e mezzo di viaggio: decidiamo quindi di prenderci ancora la mattina per una visita alla città e poi di metterci in macchina.
Facciamo tappa al Pioneer Memorial Museum che avevamo trovato chiuso ieri nel tardo pomeriggio. La visita, gratuita, merita davvero: due rosee sorelle mormoni – che sembrano uscite da uno di quei libri di Agatha Christie sul genere arsenico e vecchi merletti – ci accolgono sorridenti all’ingresso e ci fanno una rapida descrizione di quanto troveremo all’interno. Ci lasciano persino un foglio con breve sintesi in italiano (vabbè, ammettiamolo, un italiano di dubbia traduzione, ma pur sempre italiano…!).
Nelle brave teche e appesi un po’ovunque si trova di tutto: foto, abiti, pianoforti, parrucche, dentiere, guanti, utensili da lavoro, orologi a cipolla.
Ci divertiamo un sacco, figuriamoci: visitiamo il primo e il secondo piano.
Esaurita la visita, ormai in tarda mattinata, ci mettiamo quindi in macchina verso la meta clou della nostra vacanza, non ci si scappa: Yellowstone, finalmente! (ndr. il Salt Lake, ahimè, non pervenuto).
Arriviamo a West Yellowstone alla fine del pomeriggio.
Relax in hotel e in piscina (ehm, veramente ci avremmo anche anche provato, ma l’arietta fresca, l’acqua gelida e un paio di bimbi minchietti sputacchianti, accompagnati da papà panzone e peloso sono un po’ poco invoglianti…).
Usciamo per cena nell’agglomerato iper turistico pieno di negozi di cartoline, calamite, gadgets e quant’altro (dove non si può non far tappa, da bravi turisti medi quali siamo – e poi in effetti non è che ci sia molta alternativa…), nonché vari pub e ristoranti –che chiaramente almeno un orso da qualche parte han ben pensato di esporlo, fosse anche solo in vetrina.
Rischio la pasta.
Sììììì, lo so, lo so, sono tra il Montana e Wyoming e ordino un piatto di pasta.
Cosa ci devo fare?
Crisi di carboidrati.
Pesa.
E in qualche modo va gestita!
16 e 17.08
La sveglia suona alle 6.00: Yellowstone Nat’l Park.
Scatto in piedi già pimpante: sono veramente un po’ agitata al pensiero di trascorrerci dentro due giornate!
Ci rifocilliamo con una colazione iper sostanziosa: si prevedono 12 ore intense.
Allora: non credo di riuscire ad essere esauriente nella descrizione di uno spettacolo naturale di questa portata. E poi mi sa che non voglio farlo. Non voglio ridurre a qualche riga quel che ho visto – e soprattutto quel che ho vissuto.
Sarò quindi estremamente sintetica, giusto perché non posso non dire qualcosa di quello che a mio parere è stato il pezzo forte dell’intera vacanza, la mia personale medaglia d’oro.
Gorgoglii, piscine naturali (sfido chiunque a non aver detto almeno una volta “Ma che voglia di farmi un tuffo– o almeno di pocciare i piedi!”), terra che bolle e sobbolle, spruzzi d’acqua improvvisi.
Non solo la nostra retina non si è mai “appoggiata” su niente del genere (non è che capita tutti i giorni di vedere spruzzare un geyser eh…) ma poi i colori… quel blu, verde, azzurro, rosso, arancio… che variano a seconda della composizione del terreno, degli agenti batterici e dei microrganismi che sopravvivono anche alle temperature più elevate.
L’impressione è talmente avvolgente ed entusiasmante che si passa oltre anche alla puzza di zolfo che imperversa – soprattutto in alcune radure. E alle volte all’odore caratteristico di uova marce!
E poi la fauna.
Scoiattoli, chipmunk, cervi, daini e cerbiatti, libellule, anatre e oche, corvi, aquile.
Il primo bisonte che ci attraversa la strada è un ululato di giubilo.
Che bellezza vederlo camminare morbido e placido, che se ne frega allegramente dei turisti assatanati che se lo fotografano tutte le prospettive.
E la mandria pelosa di questi quadrupedi immensi e lanosi che avvistiamo al pascolo – e al fiume ad abbeverarsi – è veramente una vista emozionante.
Ci mancano, ahimè, solo loro: i due re.
Il lupo. E poi, su tutti, lui: THE BEAR.
Bubu e Yoghi non pervenuti per i tre italiani volenterosi, sigh.
Probabilmente avvistabili (forse) se e solo se negli orari e negli luoghi che ci indicano i ranger, ma che ci vincolerebbero troppo nella perlustrazione del parco.
Siamo in pieno week-end: sabato e domenica.
La gente c’è – ed è tanta – ma l’organizzazione generale è ottima, fluida, scorrevole. E i rangers vigili e sempre molto sul pezzo.
L’unico punto in cui abbiamo veramente la percezione della ressa di turisti è nello spiazzo dell’Old Faithful, il celeberrimo geyser predictable che ogni 80 minuti parte – e spruzza allegramente per almeno i 3-5 minuti successivi.
Capitiamo per caso all’orario giusto, ci aggiungiamo alla folla immobile (e piuttosto rumorosa) in allerta con macchine fotografiche e telefonini in modalità fotocamera.
A parte lo spettacolo (innegabile!) del geyser, la zona intorno è la più commerciale del parco – e come tale forse la meno meritevole – e, manco a dirlo, paradossalmente, proprio la più frequentata. Turisti-pecore che non sono altro!
Al pomeriggio del secondo giorno iniziamo a scendere verso sud. Parte il nostro viaggio – a tappe – di rientro verso Denver.
Approdiamo sul tardi al parco del Grand Teton, dove stavolta siamo riusciti a prenotare una cabin proprio all’interno della foresta.
La stanza, una casetta di legno con tre letti e un minuscolo bagno interno, è un po’ freddina (prima di addormentarci registriamo una temperatura di 10 gradi; brrr… vado a letto con felpa e cappuccio sulle orecchie), ma merita davvero: profuma di pino e la location nostalgica ci ricorda un po’ quella dei film americani degli anni ‘60.
Probabilmente meno conosciuto da noi europei, il Grand Teton resta decisamente affollato: un sacco di turisti, soprattutto americani, che danno il meglio di se’ in una delle attività che riesce loro meglio… il camping.
Qui cambia completamente lo sfondo rispetto a Yellowstone: il panorama è quantomeno più… noto, bello eh, per carità, ma sostanzialmente già visto. A tratti quello che si può ammirare da qualche altura del nostro appennino, a tratti dolomitico.
Il Jackson Lake è veramente bello al tramonto – e manco a dirlo c’è chi non resiste e si smutanda per un bagnetto estemporaneo.
E anche qui ricorre più e più volte il filone dell’orso: dalle istruzioni in camera – una sorta di to-do-list nel caso un orso ti si palesasse innanzi allo spray anti-orso in vendita al supermercato del parco. Uno spasso, davvero! (… oddio, noi la prendiamo un po’a ridere, ma forse a fronteggiarlo proprio così… su due piedi… anche no magari, eh). 18.08
Dopo una colazione (a dir la verità piuttosto deludente) al buffet del parco (dal freddo accumulato durante la notte io saggiamente mi sono vestita come se dovessi scalare l’Everest!), partiamo alla volta di Cheyenne per la nostra ultima notte statunitense, che trascorreremo proprio nella capitale del Wyoming.
Attraversiamo il nulla.
No, ecco, non so se così ho reso bene l’idea.
Dico: il NULLA. Il N-U-L-L-A.
Dai finestrini della macchina vediamo scorrere prati, campi, una casa, qualche mucca, cavalli, galline.
Passa una macchina, dico una, di quando in quando.
E Cheyenne non è da meno. All’ora di cena è desertica.
Giro d’ordinanza in un grande shop di cappelli da cow-boys e stivaloni, incrociamo qualche altro turista lì un po’per caso. E un po’ perplesso.
Ci infiliamo un risto-pub (quello sì, molto carino) e mangiamo l’ultima bistecca, mah, forse forse addirittura la più buona della vacanza. Chiudiamo col botto!
Notte nel Motel 6 più sporco che si sia mai visto e domani mattina presto go to Denver and back home.
Scalo a Chicago, poi Francoforte.
Grazie alla United che ci aspetta, riusciamo a non perdere una coincidenza, nonostante l’enorme ritardo accumulato.
Bye bye sorprendenti States, Italy we’re coming!