Dublino e assaggi d’Irlanda

Viaggio a Dublino con escursioni in varie località irlandesi, utilizzando mezzi pubblici e tour guidati.
Scritto da: Zia Paperella
dublino e assaggi d'irlanda
Partenza il: 30/07/2010
Ritorno il: 08/08/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 500 €
DIARO DI VIAGGIO… DUBLINO E ASSAGGI D’IRLANDA

Venerdì 30 luglio 2010

Ore 14:00, o giù di lì: i nostri piedi si posano per la prima volta sul suolo d’Irlanda e… splash… Inutile dire che sta piovendo e soffia una brezza non proprio estiva. La caccia al bagaglio si risolve rapidamente e con successo, alla faccia di chi ci aveva sconsigliato di volare con Ryanair. Lanciamo uno sguardo di moderata commiserazione a due poveretti che non hanno trovato le loro valigie e si disperano al banco di un’altra compagnia aerea e…ci catapultiamo al bar, affamatissime. I tramezzini che compriamo sono freddi e decisamente stoppacciosi: spero che non siano causa di prossime “rivolte intestinali”. Dopo aver ingollato l’ultimo boccone, decidiamo che è giunta l’ora della telefonata a Mr. Alan (il gestore del B&B), che aspetta la nostra chiamata per consegnarci le chiavi. Proviamo col cellulare… Niente! Allora tentiamo con un telefono pubblico…Niente! Sorge un dubbio: forse il 353 non è da comporre…forse è il prefisso riservato a chi chiama dall’estero… Orgogliose del lampo di genio, riproviamo col cellulare e naturalmente… NIENTE! E ancora col telefono fisso. Niente di niente! Due passi più in là c’è il banco delle informazioni. Chissà se una delle graziosi e sorridenti Miss ci potrà aiutare? Mi avvicino tentando un timido “Parla italiano?” “No” “Français…?” Vi lascio immaginare la risposta. Belle e sorridenti va bene, ma studiare anche un’altra lingua che non sia l’inglese, noo? Per fortuna la Miss sa almeno scrivere. Per farla breve: un piccolo, innocuo “0” davanti al numero, ed è tutto risolto. Barbara ed il fantomatico Mr. Alan si capiscono alla grande; non ci resta che raggiungere la Lindon Guesthouse, il B&B che abbiamo prenotato, in Gardiner Place.

Appena mettiamo il naso fuori dalla sala Arrivi, la vista si annebbia, e non perchè si presenti ai nostri occhi un paesaggio di spattacolare bellezza o ci sorprenda la visione di un atletico vichingo: microscopiche e fitte gocce di pioggia ricoprono in un istante le lenti dei nostri occhiali. Che vita da schifo fanno i Dublinesi miopi ! O portano tutti le lenti a contatto? Ci vorrebbe uno di quei cappelli impermeabili “a fungo”, tanto cari alle attempate signorine inglesi, senza dubbio orribili, ma TAAANTO utili in certi frangenti. Per fortuna il bus 747 è lì, bel bello, alla fermata. Ci vogliono alcuni minuti prima che l’autista, con calma tutta british (ma non siamo in Irlanda?), si decida ad aprire le porte. In fondo, lui è all’asciutto… Saliamo, lottiamo qualche secondo con un’obliteratrice un po’ troppo tecnologica e ci accaparriamo due comodi posti. Dieci minuti più tardi si “salpa” (le pozzanghere sono grandi come laghi) verso il centro di Dublino. A parte il fatto un po’ inquietante di veder sfrecciare sulla destra i mezzi in sorpasso, il tragitto è tranquillo e in poco tempo veniamo scodellate in O’Connell Street. La fermata, in effetti, è un po’ più in là del previsto e anche la via è più in salita del previsto. E io che pensavo che Dublino fosse a 0 metri sul livello del mare… Arranchiamo su per la strada, sperando ad ogni incrociio di leggere “Gardiner Place”. La mia valigia, progettata per essere trainata da un nano, deraglia qua e là sul selciato sconnesso, rischiando di schiantarsi. Come se non fosse già abbastanza imbarazzante aggirarsi con un bagaglio avvolto in cinque metri di pellicola giallo evidenziatore! Barbara, con gran classe, la sua valigia se la porta in braccio, tipo naufrago aggrappato ad una tavola, in un mare in tempesta. Certo che formiamo proprio un bel quadretto! E finalmente vediamo la via, ma non la meta, perchè dobbiamo percorrere quasi tutta la Gardiner prima di adocchiare la gialla insegna della Lindon House. Ci accoglie una coppia di asiatici, ma nessuno dei due è Mr. Alan. Ian, così si chiama l’uomo, ci consegna la chiave della camera 7 che, ovviamente, si trova al terzo ed ultimo piano dell’edificio. Un ultimo sforzo e ci trasciniamo di pianerottolo in pianerottolo fino al sottotetto. Magica visione: dietro la porticina bianca, non troppo disponibile ad aprirsi, appare una stanza piccola, ma accogliente, luminosa e ordinata. I letti hanno un aspetto invitante; se dessimo ascolto alle nostre schiene indolenzite, ci schianteremmo sui soffici piumini e…buona notte, ma non s’ha da fare. Siamo a Dublino e sono appena le 16:00; un giro esplorativo della città, nell’attesa dell’ora di cena, è d’obbligo. E poi, forse forse, sta anche smettendo di piovere.

O’Connell Street è proprio come la descrive la guida: ampia, sullo stile dei boulevards parigini, molto trafficata e costeggiata da una fila ininterrotta di pubs, negozi e fast food. Al centro un’ampia area pedonale, sulla quale si susseguono vari monumenti, dedicati ai personaggi che hanno fatto la storia dell’Irlanda moderna. Curiosiamo in uno dei tanti negozi di souvenir della catena Carroll’s. E’ uno spettacolo, sembra di essere nella casa del Babbo Natale irlandese, la sera del 24 dicembre: dappertutto giocattoli, magliette, oggetti per la casa, pecore, trifogli, gnomi, monili celtici e tutto ciò che si possa desiderare col marchio Guinnes (mutande comprese!). La passeggiata è istruttiva: prima di attraversare una via, guardare a destra e poi a sinistra e, soprattutto, aspettare che scatti il rosso. Sì, sì, avete capito bene: qui tutti attraversano col rosso e noi siamo le uniche ad attendere il verde, tanto che ci chiediamo se a Dublino il codice della strada sia diverso. Intanto, per non apparire troppo alternative ( o sprovvedute), ci uniamo al branco e passiamo anche noi appena scatta il rosso. Un paio di soste ai Tourist Office che incontriamo per via e già siamo più ricche di opuscoli e cartine a varia scala di Dublino, ma anche un po’ più leggere nel portafoglio: abbiamo infatti acquistato i biglietti per un tour della città in autobus e quelli per un’escursione sulla costa ovest: le Cliff of Moher. Speriamo bene! L’opuscolo assicura che durante la gita ci divertiremo così tanto che al ritorno non vorremo più scendere dall’autobus. Non sarà solo un esempio di humor britannico unito ad una insana dose di giovialità irlandese? Lo scopriremo Domenica. Il cambio di fuso orario, nonché la levataccia mattutina e il volo su una “airway” dal fondo un po’ sconnesso, ci hanno scombinate: l’orologio afferma che sono appena le 18:30, ma le nostre teste urlano “E’ ora di cena!” Teniamo duro un altro po’, poi capitoliamo davanti ad un Kebab take-away, che non sarà il massimo per il primo incontro con la cucina irlandese, ma ha un’aria così appetitosa… Mentre mangiamo, sedute sulla moquette della nostra camera, con una valigia a far da tavolino (fa tanto campeggio, ma è l’unica soluzione praticabile, visto che nella stanza non ci sono né tavoli, né sedie), lo sguardo vaga sul panorama inquadrato dalla finestrella: una casa in rovina, con rigogliosi ciuffi erbosi che spuntano dai comignoli, e dei lunghi e tetri palazzi popolari dall’aspetto molto sovietico. Il tutto è però nobilitato da un cielo mutevole, dai colori incredibili, che vanno spegnendosi nel tramonto. Ore 22:00 Buona notte, Dublino!

Sabato 31 Luglio 2010

Ore 4:00 AM Volevo ben dire che i pasti un po’ troppo arditi di ieri avrebbero lasciato il segno: nel giro di un’ora mi concedo tre sedute in bagno, sperando di non svegliare tutto il caseggiato con lo scroscio dello sciacquone. Ma il problema non si pone, perché c’è chi è assai meno discreto: per un’ora abbondante vengo rallegrata dalle gioiose risate di tre allegroni per strada (o forse nella camera al piano sottostante). Certo che la Guinnes mette un sacco di buonumore addosso! Ad un’ora più umana ci alziamo e dopo le rituali abluzini mattutine, scendiamo nella Dinner Room per la prima colazione “tipicamente irlandese”, come decantato dal sito del B&B. Dopo i postumi da Kebab, proprio non ce la sentiamo di affrontare uova, bacon, salsicce e…fagioli stufati. Almeno per oggi meglio ripiegare su qualcosa di più leggero: pane, marmellata e cereali, innaffiatti da un’abbondante dose di the. Ampiamente rifocillate e dopo un’attenta disamina del guardaroba (canottiera sì o no? Meglio la felpa o la giacca impermeabile? Barbara non ha dubbi e indossa tutto!), affrontiamo Dublino. Poiché dalla finestra non entrava un filo d’aria, ci siamo illuse che la temperatura fosse mite. Invece, una lama tagliente di gelo si insinua dispettosa sotto le magliette e scompiglia le nostre già precarie acconciature. Resisto in maniche corte…almeno fino a quando il sole si nasconde definitivamente dietro ad una nuvolaglia fitta e cupa. Da qui in poi, per tutta la giornata, sarà un susseguirsi di “metti e togli”.

Prima tappa dell’odierno “walking tour” è il Trinity College. A dire il vero, non siamo proprio sicure di essere entrate nel portone giusto: l’ingresso è infatti piuttosto anonimo. Dopo, però, è tutta un’altra musica: prati immensi, coperti di un’erba smeraldina perfettamente rasata e ombreggiati dalle chiome di alberi secolari, si aprono come parentesi luminose tra i severi edifici in pietra grigia del College. L’atmosfera che si respira è quella del film “L’attimo fuggente” o, se preferite il fantasy, quella di “Herry Potter”. Da un momento all’altro mi aspetto di vedere un gruppo di studenti in uniforme uscire da un dormitorio per avviarsi alle lezioni. In realtà è tutto più prosaico: studenti e turisti si mescolano lungo i viali, i primi diversi dai secondi solo per l’inseparabile bicchierone di caffè in mano. Davanti all’ingresso della Old Library si snoda una lunga fila di turisti, in coda per ammirare il celebre Book of Kells, l’antico manoscritto miniato, risalente al IX secolo, realizzato dai monaci di San Colombano. Un po’ per la coda e un po’ per il prezzo (10 € per sfilare rapidamente davanti a due pagine del libro), decidiamo di sorvolare su questa visita e lasciamo il Trinity dopo un’ultima foto all’orologio sul portale d’ingresso. Barbara è intenzionata a fotografarne molti, non potendo, per ovvie ragioni morali e…di spazio, staccarne un paio dagli edifici e portarseli a casa. Seguendo la guida, imbocchiamo Grafton Street «…cuore pulsante del commercio cittadino». Non ci facciamo mancare uno scatto alla statua di Molly Malone, una venditrice ambulante del XVIII secolo; evidentemente una donna “aperta e disponibile”, dal momento che i Dublinesi l’hanno soprannominata “la sgualdrinetta con la carretta” e l’hanno celebrata in nostralgiche melodie. A far coreografia, ai piedi del monumento, un arzillo vecchietto in abiti tradizionali si sforza di suonare un tamburello, più o meno a tempo, sulla base registrata di musiche popolari irlandesi. Riguardo al risulato dico solo questo: in quanto a raffinatezza l’ometto e la sua musica sono perfettamente in tono con la prosperosa statua bronzea che lo sovrasta! Niente da eccepire invece sul talento musicale di due ragazzi che si esibiscono poco oltre, lungo la via. Il pianista, un certo Luke Slott, oltre che bravo è pure bello! Suona dei brani tratti dal proprio CD. Va a vedere che è pure famoso! Prive del controllo dei rispettivi mariti, ci lasciamo interenire dalle dolci note e dalla bionda chioma scarmigliata al giusto, e deponiamo un piccolo obolo nel cappello del valente musicista, Al fondo della Grafton si apre l’ingresso principale del St. Stephen’s Green, un grande parco nel cuore della città. Bello! Riposante per gli occhi e per la mente. Un tripudio di verdi, di alberi maestosi e aiuole fiorite, che fanno da cornice a due romantici laghetti separati da un ponticello. Tutto il parco è punteggiato da statue di varia epoca. Una in particolare mi colpisce; è intitolata Famine. E’ un’opera scarna che emana un intenso senso di disperazione e di miseria. Più tardi scoprirò che è stata creata da Edward Delaney per commemorare la grande carestia che si abbattè sulla città nel 1845. Un fungo distrusse la quasi totalità delle coltivazioni di patate, il sostentamento principale della popolazione, e quasi un milione di persone morirono di fame. Le statue rappresentano una famiglia che si dirige verso un imbarco per lasciare Dublino. Con un ampio giro torniamo all’ Arco dei Fucilieri, che costituisce l’ingresso principale del parco. E bravo Lord Ardilaun (alias Sir Arthur Guinnes) per aver finanziato la realizzazione del parco, per il quale i Dublinesi …e la sottoscritta la ringraziamo di cuore! E complimenti anche per il suo grazioso cottage, che sorge ai margini del parco, ben difeso da alte siepi.

Dopo la visita al parco, che ha sicuramente rinfrancato lo spirito, anche la carne reclama la sua parte. Una sosta allo St. Stephen’s Shopping Centre per una breve visita alle toilette, si trasforma in una divertente scorribanda in un negozietto di prodotti artigianali irlandesi (o quasi), dove convinco Barbara a regalarsi un originale cappello di lana, perfetto ad incorniciare i ricci ribelli, facendo risaltare l’azzurro dei suoi occhi. Dall’alto delle balconate in ferro battuto bianco che delimitano i diversi piani del centro commerciale, adocchiamo una Croissanterie. Detto fatto, ci fiondiamo su una succulenta baguette farcita di prosciutto crudo, feta e pomodorini secchi. Che delizia! E naturalmente…the a fiumi. Un ultimo clic alla facciata del palazzo, che con le sue “sobrie” decorazioni assomiglia ad una gigantesca torta nuziale, e poi di nuovo in marcia. In realtà ci fermiamo dopo tre passi, attratte dallo show di un simpatico ragazzone scozzese, che ingoia palloncini lunghi un metro e si sdraia su cocci di vetro. Lui non patirebbe di certo il materasso semi sfondato che mi aspetta al B&B. Decidiamo quindi di percorrere la Kildare Street, dominata dall’imponente mole del National Museum. Bella sorpresa: l’ingresso è gratuito; brutta sorpresa: le fotografie sono vietate. Peccato, perché la cupola che sovrasta l’ingresso è davvero spettacolare e il pavimento a mosaico con i segni zodiacali meriterebbe più di un “clic”. Ci addentriamo nel museo, scoprendo di sala in sala, scampoli di storia irlandese, dall’epoca preistorica al tardo Medioevo. Un po’ leggendo, e soprattutto con una buona dose di intuito, ci lanciamo in fantasiose traduzioni dei cartelli che illustrano i reperti esposti. Cammina cammina, abbiamo macinato un bel po’ di Km e la fatica comincia a farsi sentire, perciò decidiamo di rientrare a casa, concedendoci una breve digressione nel Temple Bar. Il piccolo quartiere è pittoresco e caleidoscopico, al pari dei personaggi che lo popolano, per lo più Dublinesi al di sotto dei vent’anni. Le strette viuzze lastricate su cui si affacciano pub e locali “di colore”, sono già piuttosto animate. Immagino che durante la notte diventeranno pressoché impraticabili. Forza e coraggio: un paio di Km ancora e saremo…a letto, a riposare le stanche ossa. Un’ultima sortita per acquisti alimentari e per prendere la quotidiana dose di pioggia e poi “pappa” e relax, mentre le ombre della sera si allungano sempre più sulla città e l’orizzonte, tornato quasi sereno, si tinge di giallo e rosso.

Domenica 1° Agosto 2010

Ore 7:00. E’ Domenica e finalmente si parte per le Cliffs of Moher. Sopra di noi incombe un cielo arruffato, che pare non voglia scrollarsi di dosso la spessa coltre di nubi in cui si è avvolto nella notte. Subito fuori città, a destra e a sinistra, comincia a scorrere tranquilla la campagna di Kildare, ornata di un manto intessuto con fili di decine di tonalità di verde. Il verde tenero e soffice dei prati è abbracciato dalle linee scure e sinuose delle siepi che si snodano a suddividere gli appezzamenti. Qua e là rettangoli gialli di campi di grano interrompono la sinfonia verde con squilli di luce. Le morbide linee delle colline disegnano l’orizzonte, che si incontra col cielo imbronciato, in un muto accordo. Il verde è punteggiato dalla candida presenza di pacifiche pecore al pascolo, immote come le statuine di un presepe fuori stagione. Le case, isolate o in piccoli gruppi, appaiono e scompaiono, giocando a rimpiattino tra le rigogliose siepi e gli arbusti fioriti.

Dopo un paio d’ore di viaggio, facciamo una sosta a Limerich. Il bus accosta poco dopo il ponte sullo Shannon. A sinistra una modesta chiesa nella classica pietra grigia, alle nostre spalle il profilo massiccio del King John’s Castle, che getta un’ombra cupa sulle acque del fiume, testimone di antiche battaglie e feroci lotte religiose. Attraversiamo il Thomond Bridge, ingentilito da vivaci vasi fioriti, per vedere più da vicino il castello. Il lato opposto allo Shannon, quello in cui dovrebbe trovarsi l’ingresso, è una vera delusione. Una brutta struttura in vetro e acciaio copre interamente le mura. Non perdiamo altro tempo e torniamo al bus, che riparte in direzione dell’ Oceano. A poco a poco, dapprima in modo impercettibile, poi in maniera sempre più netta, il paesaggio cambia aspetto. La presenza umana si dirada sempre più e viene meno la perfetta armonia di forme che l’uomo ha saputo dare alla natura. Le aree incolte si fanno più numerose e, almeno per una volta, sembra che la Natura sia stata meno brava dell’uomo a curare il proprio “look”, quasi fosse stata sorpresa in un momento di pigrizia o di stanchezza. Alberi e grandi arbusti cedono il passo a una bassa e intricata macchia di rovi, rododendri e altre piantine carnose, del tutto simili a quelle che troviamo sulle nostre Alpi. Il bruno e il ruggine delle eriche secche si alterna al biancore delle zone sassose e aride, spesso battute dal vento. Per delimitare le proprietà compaiono bassi muretti a secco, che segnano come cicatrici i pendii sempre più impervi, sui quali pascolano sparuti gruppi di indifferenti bovini. Se la cartina non ci confermasse che la meta è vicinissima, sarebbe impossibile intuire la presenza dell’ Oceano e, quando finalmente esso appare in uno scorcio della valle, torna subito a celarsi per ricomparire qualche curva più avanti, ma nella direzione in cui meno te lo aspetti. Il cielo vuole forse premiarci per la fede dimostrata nell’affrontare una gita in una regione dove piove 250 giorni all’anno e…si spalanca in un sorriso azzurro, lasciando che i raggi di un sole domenicale e rilassato ci accarezzino, giocando con la leggera brezza che spira dall’Oceano. L’Atlantico scintilla e ride, calmo e composto, compiaciuto della sua maestosa grandezza. Dopo un tragitto che ci appare interminabile, lungo stradine sempre più anguste e sconnesse, finalmente raggiungiamo il grande parcheggio alle spalle della scogliera. Un serpentone di turisti si snoda lungo i due percorsi che si inerpicano lungo le Cliffs of Moher. Esse ci colpiscono con la loro solida imponenza: 120 metri di rocce che scendono a picco, in un mare insolitamente calmo. Grotte e anfratti disegnano ombre più scure sulle pareti erose dalle onde, in milioni di anni di incessante lavorio. La vista si inebria del contrasto tra il verde tenero del tappeto erboso che riveste la sommità della scogliera e il grigio-bruno delle pareti rocciose, sullo sfondo baluginante di cielo e mare. Le note delicate di un’arpa celtica si fondono col lontano sciabordio delle onde e l’unico suono stonato è il vocio dei troppi turisti, che sciamano per accaparrarsi il miglior posto per fotografare ed essere fotografati. Raggiungiamo, sulla destra, la O’Brien’s Tower a cui si contrappone sul lato opposto, ma molto più lontana, la Hag’s Head. Dalla cima della torre l’occhio può correre a 360° sul paesaggio circostante, ma lo spazio è limitato e i visitatori tanti, per cui non se ne può approfittare al meglio. Riusciamo comunque a gettare uno sguardo sulle isole Aran, piatte zattere di terra e roccia,avvolte da una lieve bruma che rende ancora più indifiniti i confini tra cielo, terra e mare. Tornati all’autobus, si riprende il viaggio lungo la costa, in direzione nord, verso Doolin. Ci fermiamo qualche Km prima dell’abitato, all’attracco dei battelli per le Aran Islands. Una fiumana colorata si riversa sul piccolo molo e subito viene rimpiazzata da un’analoga ondata che si muove in senso opposto, ansiosa di mettere piede sul battello. Il parcheggio antistante il molo, con i chioschi per la vendita dei biglietti, ha un’aria provvisoria e raffazzonata, che stona con la luminosa perfezione del paesaggio marino, echeggiante delle grida dei gabbiani e intensamente profumato di salmastro. Procedendo sulla piatta distesa di massi che formano la riva, ci spingiamo fin quasi a sfiorare le onde, assaporandone la forza vitale. La magia però dura poco e presto si riparte, alla volta di Doolin, dov’è prevista la sosta per il pranzo. Definire Doolin un villaggio è persino eccessivo, trattandosi di poche case, strette le une alle altre, lungo la sconnessa via che costeggia l’Oceano, nella contea di Clare. Tuttavia Doolin offre tutto ciò che serve al turista di passaggio: dall’hotel al ristorante, al negozio di souvenir. Tutto intorno, sparsi nei pressi di un vasto campo da golf, una miriade di cottage e case di vacanza per i fortunati che se le possono permettere. Poiché non abbiamo alcuna voglia di metterci in coda al bar per un panino, io e Barbara ci accontentiamo di uno spuntino frugale, consumato a cavalcioni di un muretto in pietra. Ci godiamo il sole, oggi piuttosto caldo, mitigato dalla piacevole brezza marina. Con lo stomaco pieno è più facile affrontare il successivo tragitto che ci porta alla baia di Galway. Dopo un po’, comunque, gli scossoni dovuti al pessimo fondo stradale, cominciano a risultare fastidiosi e il desiderio di fare una sosta si fa via via più intenso. Il paesaggio è per certi versi monotono, ma nel contempo affascinante: a sinistra l’Oceano, che si insinua tra le rive frastagliate e va a lambire strette lingua di spiaggie sabbiose; a destra un paesaggio…alpino: pendii scoscesi, terrazze rocciose coperte di erbe pungenti, massi erratici, protagonisti di antichissimi sconvolgimenti geologici. Come possono coesistere scenari tanto diversi? Magie d’Irlanda; non c’è altra spiegazione. Allontanandosi un po’ dalla costa e seguendo una stradina strettissima, priva di qualunque indicazione, l’autista ci porta a scoprire un autentico gioiello dal fascino mistico e misterioso. Si tratta della Corcomroe Abbey. Dell’ antico e vasto edificio cistercense restano le mura che svettano verso il cielo, prive ormai di tetto e di pavimentazione. Tutto il suolo è costellato di lapidi, alcune delle quali molto antiche. Anche se siamo in tanti, per tacita intesa, ci muoviamo silenziosi tra le tombe, rispettando la pace intensa di questo luogo sacro. L’ora del rientro si avvicina, ma resta tempo per un’ultima sosta a Kinvara (che in gaelico significa “Capo del mare”), un piccolo borgo di pescatori, che ci colpisce per la varietà di colori e la cura nella decorazione delle piccole e poche case che si affacciano sulla baia. Il rientro, quasi tutto in autostrada, è abbastanza rapido: l’autobus ci riporta a Dublino, umida di pioggia e particolarmente affollata.

Lunedì 2 Agosto 2010

Ore 21:00 Ma quanto mangiano gli Irlandesi? Siamo reduci da una “cenetta” al Pub (Il Murray in O’Connell Street) e siamo esauste per la fatica di arrivare in fondo al piatto. Io non ce l’ho fatta, mentre Barbara ha tenuto duro, ma ora è in stato comatoso. Ci vorrebbe dell’ Idraulico liquido !! A parte l’intorpidimento generale dovuto a cibo e birra (una sola pinta, lo giuro), la giornata è stata buona e soprattutto asciutta, nonostante il cielo si sia mantenuto costantemente grigio e la temperatura sia scesa sotto i limiti consentiti dalla legge! Un bel pezzo della mattinata lo abbiamo trascorso su un bus, facendo il tour di Dublino. Grazie all’audioguida in italiano, finalmente abbiamo capito un po’ di cose e ci siamo illuse di poter girare per la città senza più problemi. In realtà, appena due ore dopo, siamo quasi riuscite a perderci nei dintorni di Merrion Square e poi di Grafton Street, dove siamo passate già almeno tre o quattro volte… Quando si dice che uno ha il senso dell’ orientamento! Comunque la via per il pranzo e le toilettes la troviamo sempre, e non è poco, ve l’assicuro. La birra sta facendo effetto e stavo dimenticando la visita alla Narional Gallery. Dopo aver stentato a trovare la via, faticato ad individuare il palazzo e pure a trovare l’ingesso, il resto è stato facile. Non abbiamo avuto il fegato per vedere i quadri delle 54 gallerie che compongono la pinacoteca, ma qualcosa ce lo siamo goduto: dei Vermeer, un Picasso, un Rembrandt e dei pittori olandesi dai nomi improponibili, che ci hanno deliziato con le loro rappresentazioni di scene famigliari e di interni. Davanti a più di un quadro, molti dei quali realistici più di una fotografia, ci siamo divertite ad immaginare le storie raccontate dalle immagini e i dialoghi tra i personaggi. Atteggiamento, il nostro, che farebbe probabilmente arricciare il naso ai veri “intenditori”, ma che a noi permette di godere del bello senza tanti problemi. Con lo stesso spirito leggero, nel pomeriggio ci siamo dedicate alla visita della Guinness Storehouse, che occupa un grande edificio di ben sette piani, in una zona a ovest della città vecchia. Anche qui audioguida in italiano, ovvero la classica “signorina nella scatola”, solo che adesso la scatola ha l’aspetto di un telefonino. Non so se mi hanno rifilato un apparecchietto scassato o se ho pigiato qualche pulsante di troppo, ma mi sono persa un bel pezzo di spiegazione, con la signorina in sciopero, che se ne stava muta come un pesce. Inconvenienti tecnici a parte, il tour è stato istruttivo e piacevole, con tante piccole e grandi curiosità da scoprire riguardo alla Guinness e al suo inventore. Bello anche, seppur affollatissimo, il Gravity Bar, nella cupola in cima alla Storehouse, dove si può ammirare tutta la skyline di Dublino, mentre si gusta una pinta della famosa birra scura. Quanto alla pinta di Guinness, Barbara se l’è bevuta tutta, come dimostrerà il servizio fotografico realizzato in loco; io che già non avevo apprezzato molto la degustazione durante la visita, ho declinato l’offerta e mi sono limitata a sgomitare per potermi affacciare alle vetrate e vedere un po’ di Dublino dall’alto. A proposito della degustazione, ogni visitatore è invitato (leggi “quasi obbligato”) ad assaporare la Guinness con tutti i sensi. E’ stato comico vedere quelli che, non avendo l’audioguida e seguendo semplicemente i cartelli posti sulle pareti, si portavano i bicchieri alle orecchie per sentire…un bel niente. In realtà, il rumore da ascoltare era quello della spillatrice, nel momento in cui elargisce il prezioso nettare, ma non era scritto da nessuna parte e… Per concludere la visita ci siamo concesse un giretto nell’area dello shop. Visti i prezzi non proprio competitivi, abbiamo ripiegato su una consolante tavoletta di cioccolato (ma che c’entra con la Guinness) e delle caramelle mou. Un piccolo souvenir, tuttavia, lo abbiamo avuto: i sottobicchieri arraffati al Gravity Bar. Dopo la visita della Guinness, l’idea era quella di esplorare una zona a est di O’Connell Street, ma un appuntamento urgente e irrinunciabile di Barbara con la toilette, ci ha indotte a tornare al B&B. A me è andata bene lo stesso, perchè ho le gambe a pezzi e l’idea di un po’ di riposo mi gratifica quanto la tavoletta di cioccolato. Dopo tre giorni di cibo take-away abbiamo quindi concordato di concedereci una vera cena in un pub, ma di questo sapete già tutto.

Ora non resta che mettersi comode a letto, lasciandosi cullare dalle grida dei gabbiani e dal ritmico brontolare dello stomaco, che si appresta a una lunga digestione. Mi sa che domattina a colazione tornerò ai “dietetici” cornflakes.

P.S. Prima di rientrare in camera, dopo il Pub, abbiamo risolto un piccolo mistero che ci assillava fin dall’arrivo: dove si passa per entrare e uscire dal grande cortile su cui si affaccia la nostra camera, non essendo visibibile una strada d’accesso e… come si esce dal cortiletto in cui termina la scala d’emergenza? Sembrano domande futili, ma metti che scoppi un incendio… Comunque ora abbiamo tutto sotto controllo e nulla ci potrà fermare.

Martedì 3 Agosto 2010 ore 8:00 Sveglia tranquilla, tanto oggi ci dedichiamo a Dublino e non abbiamo l’assillo di orari e bus. In compenso sarà una giornata con molti, moltissimi passi, su e giù tra chiese e monumenti. Abbiamo pensato di dedicarci all’area vichinga e medioevale della città, a sud del fiume, appena oltre il Temple Bar. Con il bus ci rechiamo subito al Dublin Castle, per scoprire che fino al pomeriggio non è possibile effettuare la visita con guida in italiano. Per precauzione acquistiamo comunque subito i biglietti e cambiamo piano di battaglia: una rapida – si fa per dire – consultazione della mappa della città, che già comincia ad apparire piuttosto vissuta (no problem: ne abbiamo altre cinque), e ci dirigiamo alla Christ Church, la cattedrale anglicana. Anche questo sito è dotato di audioguida in italiano, così non ci perdiamo neanche un angoletto della grande chiesa. Tra navate, transetti, coro, statue, vetrate, tombe di personaggi più o meno famosi, abbiamo modo di conoscere un po’ di più la storia e le tradizioni irlandesi. Bella anche la cripta, seppure un po’ claustrofobica, soprattutto se pensi che quei pilastri (neanche tanti e neanche tanto grossi) reggono l’immenso peso dell’edificio sovrastante. Collegata alla Christ Church tramite un ponte coperto in stile veneziano (o almeno così pare), c’è la curiosa “Dublinia”. L’edificio, composto da sezioni antiche e moderne, ospita un museo davvero bello sulla Dublino vichinga e medievale. La ricostruzione di scene di vita quotidiana e di scorci cittadini, rende molto piacevole e vivace la visita. E non mancano diversi punti interattivi, pensati soprattutto per i bambini, ma che appassionano anche i grandi: vedi il maturo padre di famiglia che si fa fotografare con un ridicolo elmo cornuto in testa o si auto-imprigiona nella gogna, mentre i suoi adorati frugoletti lo bombardano con frutti di gomma. Sullo stesso stile, al 2° piano del museo, le sale dedicate all’epoca medioevale, che si sviluppano attorno ad un grande plastico centrale che ricostruisce nei minimi dettagli l’antica Dublino. Uscite da Dublinia, vorremmo vedere i resti delle mura vichinghe che, sulla cartina, sembrano trovarsi lì, proprio dietro l’angolo. Siccome però non c’è verso di trovarle…ripieghiamo sul pranzo che decidiamo di consumare in un piccolo e affollatissimo bar di Nicholas Street. La mia insalata di pasta e verdura è buona, anche se poi continuerò a “ruminare” per tutto il pomeriggio i cetrioli, usati senza parsimonia dal cuoco. Dopo il pasto, visto che ci resta parecchio tempo prima della visita al Castello, ci dirigiamo alla St. Patrick’s Cathedral. Come dice la nostra dotta guida, la Cattedrale di San Patrizio è la più grande chiesa irlandese. La sua costruzione iniziò intorno al 1190 sopra a un tempio che sorgeva vicino al pozzo dove San Patrizio battezzava i nuovi cristiani. Il pozzo è ora ricordato all’inizio della navata sinistra con una lapide istoriata. Il decano più famoso della cattedrale fu sicuramente Jonathan Swift, autore de “I viaggi di Gulliver”. Sia l’impianto dell’edificio che la struttura e le decorazioni esterne ed interne sono simili alla Christ Church: pianta a croce latina, grandi arcate e volte a sesto acuto, pavimenti coloratissimi e l’immancabile…angolo dei souvenir. Van bene le cartoline, i libri, le targhette in ceramica, ma è il caso di vendere, in chiesa, bicchierini da whiskey, calzini, carte da gioco,… Alle 15:30, ora della visita al Castle, mancano più di 60 minuti, ma decidiamo di avviarci comunque, pian pianino. Tuttalpiù ce ne staremo un po’ sedute nell’atrio, per la gioia dei nostri piedi. Pare che la stessa idea l’abbiano avuta in molti, perchè l’atrio è pieno; senza formalizzarci troppo ci accomodiamo sul pavimento e aspettiamo l’inizio del tour. Puntualissima, alle 15:30, si presenta una guida in carne ed ossa (più ossa che carne, vista la magrezza impressionante della ragazza!), che con un buffo accento, ma con una sintassi più che passabile, ci illustra meraviglie e curiosità dello storico edificio. Di “castello” in senso stretto non resta molto: ciò che non sono riusciti a dsitruggere secoli di invasioni, lo ha fatto il fuoco, verso la fine del ‘600. Il Castle attuale, dunque, ha più l’aspetto di un palazzo, con sale, salotti e saloni adatti a tutte le necessità della vita di corte. Per settecento anni è stato la sede del governo inglese e quando l’Irlanda ha ottenuto l’indipendenza è diventato il luogo di rappresentanza del Presidente, che qui viene anche nominato. Il pomeriggio è ancora lungo, ma le nostre teste stanno raggiungendo il limite di saturazione, perciò riprendiamo la via di casa, fermandoci all’ Ente del Turismo per prenotare altri due tour che arricchiranno il nostro soggiorno irlandese, prima di tornare in Italia: il sud (Kilkenny, Glendalough e le Wicklow mountains) e il nord (Derry e la Giant’s Causeway). Già mi immagino la sfacchinata, ma d’altro canto, quando avremo la possibilità di tornare in Irlanda?

Mercoledì 4 Agosto 2010 Che dormita! In realtà ho cominciato veramente a riposare verso le 3:00, dopo aver ricevuto un SMS da Teo che confermava di essere arrivato in Calabria. E da lì una lunga ronfata fino alle 8:00, poi sveglia, doccia, shampoo e un “filo” di colazione, prima di rituffarci in Dublino. Oggi… tutti al mare, avvero la Dublin Bay, e più precisamente Howth, che intendiamo raggiungere con un treno della DART. Come sempre mi capita in una nuova città, dopo che la giro per qualche giorno, le distanze tra i vari posti sembrano farsi più brevi e in effetti raggiungiamo in poco tempo la stazione che (Miracolo!) troviamo a colpo sicuro! Con i biglietti in mano e dopo un’attesa di neanche 15 minuti, ci troviamo sul treno. Nei comodi sedili di un vagone quasi deserto, ci rilassiamo guardando scorrere fuori dal finestrino i quartieri residenziali di Dublino, con case a schiera in stile georgiano seguiti da piccoli cottage con giardino. Le più belle sono le ville di Sutton che, da un lato sono adorne di prati fioriti, e dall’altro si affacciano direttamente su una lunga spiaggia sabbiosa, oggi lambita da placide onde spumose. La stazione di Howth è piccola e, dall’esterno, sul lato strada, si confonde con le abitazioni private e i piccoli bar tra cui si stringe. La giornata si fa via via più bella: abbiamo lasciato Dublino col solito tempo incerto e, ad appena mezz’ora di treno, ci ritroviamo sotto un cielo terso, solcato da poche, soffici nuvole bianche, che tinge il mare di un azzurro intensissimo. Seguendo la dettagliatissima guida di Barbara intraprendiamo il percorso che dovrebbe portarci ad un tour completo della piccola penisola rocciosa. All’inizio è tutto OK: troviamo la Abbey Tavern, risaliamo la ripida scalinata e sbuchiamo a lato dell’antica abbazia. Ci fermiamo un po’, respirando l’antica suggestione del luogo, mista all’odore di fiori putrescenti … il sito dell’abbazia è ora un cimitero con l’immancabile albero secco e scheletrico sul quale ti aspetti di veder appollaiato almeno un corvo… Qui invece si tratta di gabbiani. A fianco dei grigi ruderi dell’antico edificio religioso spicca una piccola casa dipinta d’aranzione, con gli infissi azzurri. Quale incredibile cocktail di luci e colori! Visto che da giorni stiamo collezionando foto di porte e orologi, convinco Barbara a scattare un’istantanea del coloratissimo esemplare che ci sta di fronte ed è qui, anche se ancora non lo sappiamo, che succede un disastro. Qualcosa nella fotocamera si inceppa ed in un sol colpo vengono cancellate dalla memory card le oltre 150 fotografie scattate negli ultimi tre giorni!! Nel frattempo, ancora ignare della “tragedia”, con un po’ di dubbi sul percorso da seguire, dal momento che le indicazioni sulla guida non trovano grande riscontro nel paesaggio reale, ci incamminiamo per Mollly…(o qualcosa del genere) Street, confidando di trovare la cabina telefonica presso la quale dovrebbe iniziare il sentiero per il giro della penisola. La cabina sembra proprio non esserci, ma adocchiamo un sentiero e decidiamo su due piedi che è quello buono. Cammina, cammina (sembra di essere nella fiaba di Pollicino)…cominciamo a dubitare di aver imboccato la strada giusta, anche perchè il sentiero che dovrebbe proseguire attraverso i campi si è invece trasformato in una strada asfaltata costeggiata da villette. Come al solito non c’è neppure un cane a cui chiedere uno straccio d’informazione. Visto che la guida cartacea ci sta dando ben poche soddisfazioni pensiamo all’unisono: “Guardiamo la foto della carta della penisola che abbiamo scattato al porto e così ci orientiamo!” E lì il dramma esplode in tutta la sua cruda realtà: sulla fotocamera ci sono…3 (??!!) foto e nient’altro. Per un momento dimentichiamo il problema itinerario e ci abbandoniamo ad un metaforico pianto per tutto ciò che è andato perduto. Passato lo shock, però, resta da risolvere il primo problema: dove siamo? Dove stiamo andando? Che fare? Tornare indietro sarebbe disonorevole, quindi…si va avanti per la via intrapresa, tanto a un certo punto dovrà pur finire da qualche parte. In effetti, continuando il tour delle ville di Howth, raggiungiamo un incrocio al quale è collocata una mappa della zona. EUREKA! Il sentiero che cerchiamo è poco avanti a noi e, in fondo, non abbiamo deviato tanto da quello che doveva essere il percorso ufficiale. La scogliera è spettacolare, anche se molto diversa dalle Cliffs of Moher; qui il ripidissimo pendio che scende a strapiombo sul mare è coperto quasi fino alla base da felci e bassi cuscini di piante spinose. Anche se la “morte” della macchina fotografica è stata un colpo basso, ed è un vero peccato non poter immortalare questi scorci mozzafiato, ci consoliamo con la bellezza che ci circonda: cielo azzurro, brezza gradevole che mitiga il calore del sole, mare color cobalto, profumo di timo e volteggi di gabbiani. Ormai senza più problemi di orientamento, dopo una camminata complessiva di 3 ore, rientriamo al paese. Su una delle prime abitazioni che incontriamo dopo aver lasciato la scogliera, spicca una targa che ci informa che lì, tra il 1880 e il 1883 è vissuto Yeats. La citazione, probabilmente dello stesso poeta, recita: “Io ho sparso i miei sogni tra i tuoi piedi; cammina dolcemente perchè stai camminando sui miei sogli” Bella, vero? Un’occhiata all’orologio ci dice che sono le 14:00 e per recuperare le energie bruciate con la camminata ci concediamo un rilassante break in un tranquillo caffè che abbiamo adocchiato in precedenza. Ci vuole un po’ per essere servite e non sappiamo neanche che cosa abbiamo ordinato, ma quello che ci portano è buono. Il the è forte ed abbondante e il dolce al cioccolato…molto consolatorio. Purtroppo il tempo si sta un po’ guastando, ma non rinunciamo ad un’altra dose di passeggiata, questa volta lungo il molo ovest (the west pier) che termina con un piccolo faro. Il cammino è costeggiato da un lato da una ininterrotta fila di bar e pescherie e, proprio in fondo, dall’ufficio turistico dove troviamo (gratis!) una bella mappa della zona. Tornando indietro notiamo un assembramento lungo il molo. Io ipotizzo che si tratti di turisti in attesa di un imbarco per l’ Ireland’s Eye, l’isolotto antistante il paese, ma Barbara osserva un particolare curioso: una ragazza sta gettando in mare dei grossi pesci. Ci avviciniamo ed assistiamo ad uno spettacolo incredibile: le acque del porto pullulano di leoni marini, che se ne stanno lì con i loro sguardi lucidi e bonari, in attesa di essere sfamati dai turisti. Non avevo mai visto dal vivo questi animali e li trovo davvero impressionanti: grossi e tozzi, ma decisamente agili. Ce ne stiamo un bel pezzo sedute sul molo ad ammirarli, mentre attorno a noi continua il lancio di sogliole, tranci di salmone e altre leccornie. Ricordando che dobbiamo trovare un rimedio al problema della macchina fotografica, anche se a malincuore, decidiamo di rientrare a Dublino. La visita al negozio di foto-ottica del St. Stephen Shopping Centre, purtroppo uccide le nostre ultime speranze: nessuna immagine è recuperabile! Proviamo a sostituire la memory card, ma il risultato non cambia. Ancora con tre giorni di gite e visite non è possibile rinunciare alla fotocamera, perciò col beneplacito del marito in Italia, acquisto una nuova macchina. Non ci resta che tornare al B&B per metterla in carica. Domani ci toccherà ripercorrere gli itinerari dei giorni precedenti per recuperare, almeno in parte, le foto perdute. Sarà come fare un ripasso e non è detto che non si vada a scoprire qualcosa di nuovo!

Giovedì 5 Agosto 2010 Se oggi avessimo avuto un contapassi, sarebbe andato in tilt, tanto abbiamo scarpinato su e giù per Dublino. A dire il vero un pezzo di strada (ma è stato tante ore fa) lo abbiamo percorso in bus, con uno dei celebri autobus a due piani, gialli e blu, che circolano ininterrottamente per le vie della città. Grazie ad un distinto e gentilissimo Mister non abbiamo sbagliato fermata e abbiamo raggiunto la prima meta di questa giornata: la Kilmainham Gaol, cioè la prigione che, in epoche diverse, ospitò più o meno tutti coloro che lottarono per l’indipendenza dell’Irlanda. L’edificio è molto vasto, tetro (non per niente è una progione) e l’architettura dell’ala est ricorda moltissimo il modello delle prigioni americane viste nei film: un vasto cortile centrale coperto, sul quale si affacciano diversi piani di balconate con le celle tutto intorno. A dire il vero questa parte della prigione è piuttosto luminosa e non incute particolare timore. Più drammatica e toccante la piccola croce di legno scuro posta in un angolo del cortile ad indicare il luogo dove venivano eseguite le fucilazioni. Impressionante l’alto muro grigio che si staglia contro il cielo azzurrissimo e dietro al quale spunta la sommità di una chioma verde brillante, mossa dal vento. Questo è ciò che probabilmente videro molti condannati prima di morire. La visita è durata un’eternità, non tanto per la quantità di luoghi da visitare, ma per la guida: un giovanotto entusiasta e decisamente logorroico. “Bello” pagare per una visita guidata, quando la guida parla solo in inglese irlandizzato e per di più a una velocità supersonica! Dopo Kilmainhan ritorniamo sui passi dei giorni scorsi, per scattare le foto andate perse nella tragica dipartita della macchina fotografica. Comunque quella nuova è proprio bella e un sacco intelligente: fa praticamente tutto da sola! Se riuscisse anche a rendermi più fotogenica, sarebbe praticamente miracolosa. Clic dopo clic immortaliamo la Christ Church, St. Audoen, le mura medioevali, Dublinia,… il tutto velocemente e senza perdere la bussola. I piedi stanno letteralmente fumando, ma resta da rifare il giro a San Patrizio. Visto che abbiamo deciso di fotografare la chiesa solo dall’esterno, cerchiamo l’inquadratura migliore dal fondo del vicino giardino e questo ci permette di scoprire un particolare che l’altro giorno ci è sfuggito: una serie di targhe e ritratti che commemorano i più importanti scrittori e poeti di Dublino, da Joice a Yeats, da Swift a Wilde,… A furia di scarpinare si son fatte le 14:00; è ora di mangiare, possibilmente da sedute, in un posticino tranquillo, ma il destino, sotto forma del “Leo Burdock’s” , ha deciso diversamente. Qui ci vuole una spiegazione. Il “Leo B.” in questione è una friggitoria da asporto specializzata in fish and chips. Noi, povere provincialotte, non lo sappiamo ancora, ma si tratta del più famoso locale di Dublino nel settore “Pesce & Patate”. Al di là del nome e della discreta coda che ci tocca fare per raggiungere il bancone, il prodotto è davvero all’altezza della sua fama e della nostra…fame. Per fortuna abbiamo optato per un’unica porzione, altrimenti saremmo ancora nel giardinetto di Christ Church Palace a tentare di finire il chilo di patate al forno e l’enorme filetto di pesce contenute nel profumatissimo cartoccio. L’aroma della frittura è così paradisiaco che attira anche due ospiti indesiderati: un gabbiano piuttosto sfacciato e una fastidiosissima ape. Rialzarsi dal prato dove ci siamo lasciate cadere come sacchi di patate è un’impresa: sarà l’erba umida, sarà il vento non proprio piacevole,…le nostre gambe protestano e non ne vogliono ancora sapere di rimettersi in moto, perciò dopo l’attenta valutazione di una decina di bar , ci concediamo una lunga sosta in un locale molto “IN” proprio di fronte alla City Hall. Le poltroncine imbottite rivestite di velluto, gli specchi dalle cornici dorate hanno un loro prezzo e difatti sborsiamo 12 € per un cappuccino, una cioccolata calda e un bicchier d’acqua. Quest’ultimo, tra l’altro, alla modica cifra di 2,70 €…roba da matti! Rientrando al B&B, cosa che avverrà in realtà solo 3 ore più tardi, ci dedichiamo allo shopping. Fermate d’obbligo il Guinnes Store (per acquistare “l’elegantissimo” cilindro griffato richiesto espressamente da Paolino) e Carroll’s, dove facciamo un uso moderatamente smodato della carta di credito. Il negozio è affollato, ma riusciamo a trovare un pensierino per tutti: il the per il nonno e la presina per la nonna, portachiavi ed apribottiglie per i cognati, magneti per le sorelle, le magliette per i figli e i mariti. E per noi? Un altro libricino, per poter continuare a narrare queste splenide giornate irlandesi. Cariche di borse, oltre che delle inseparabili felpe e giacche impermeabili che indossiamo e togliamo in continuazione (qui il tempo e le temperature cambiano drasticamente ogni 5 minuti), risaliamo verso Gardiner Place seguendo nuove vie. Bella la Marlboroug Square col suo giardino dominato da un inconsueto bronzo a forma di mano. Inutile dire che non rinunciamo a fotografarci a vicenda nello strano sedile. Altra nota curiosa del giardino è una giovane donna con bagagli che se ne sta su una panca con aria assai dimessa. Come sempre “giochiamo” ad immaginare la sua storia: sedotta (o meglio seduta) e abbandonata? Pronta ad una fuga d’amore, ma l’amante ha avuto un ripensamento? Chissà che ne direbbe James Joice? La North Great George’s Street è proprio “great”, con le sue belle case georgiane nel cuore del Northside, occasione unica per una scorpacciata fotografica di porte, in tutti i toni dell’arcobaleno. L’ultimo uscio ad essere immortalato è quello del B&B: quasi quasi rischiavamo di dimenticarlo!

Venerdì 6 Agosto 2010 Si parte, sotto un cielo gravido di pioggia, che sembra sia stato dipinto da un pittore nervoso o maldestro, in tante macchie grigie, schiaffate a casaccio sulla tela. Usciti da Dublino ( ci vuole un’ora prima che il bus raccolga tutti i partecipanti nei diversi punti della città), riattravresiamo la contea di Kildare, che abbiamo già ammirato qualche giorno fa, andando ad ovest, ma questa volta ci dirigiamo a sud lungo la M9, un’autostrada piuttosto recente e praticamente deserta che ci consente di “scivolare” dolcemente verso Kilkenny, la nostra prima meta. Gli accompagnatori ci offrono una mappa della città ( buona idea, così non perderemo tempo prezioso per trovare un ufficio turistico) e una card per ottenere riduzioni nei prezzi dei biglietti d’ingresso alle diverse attrazioni turistiche. Naturalmente ce lo dimentichereno e al momento opportuno pagheremo diligentemente le quote intere… Benedetta memoria! Ai margini della strada l’erba appare rada e secca, come se non piovesse da parecchio e anche le coltivazioni della zona (mais, orzo e grano) sembrano confermare l’ipotesi. Molto strano, comunque… Verso le 10:00, senza una ragione apparente, il bus lascia l’autostrada per imboccare una statale che ci porta nella contea di Carlow. Sostanzialmente il paesaggio non cambia, ma ritorna il verde, accompagnato dalle ampie pozzanghere fangose ai margini della strada. Adesso ti riconosco, cara Irlanda…E anche oggi l’atmosfera “country” è completata dalla presenza di mucche e pecore al pascolo. Arriviamo a Kilkenny sotto una pioggerella che a tratti, gonfiata dal vento, si fa un po’ fastidiosa. Armate di cartina e dell’innato senso dell’orientamento che ci contraddistingue e di cui abbiamo già dato ampia prova nei giorni scorsi, io e Barbara ci incamminiamo per la via principale. Decidiamo di partire dalla Saint Canices Cathedral, che è il sito più lontano, per ritornare verso il castello. L’idea di per sé è buona, ma una sosta in un bar per la colazione che non abbiamo ancora consumato, ci fa deviare dalla rotta. Apriamo una parentesi: mai gustata una cioccolata calda cosparsa di marshmallows, ma è buona oltre che assai decorativa! A seguito del già citato cambio di rotta, ci ritroviamo di fronte ad un’altra chiesa, la St. Mary’s Cathedral, ornata da un bel giardino. Girando attorno all’imponente edificio raggiungiamo la Black Abbey, che ci colpisce per la bellissima vetrata istoriata che copre un’intera parete dell’edificio. Finalmente, alle spalle dell’ Abbazia Nera, in una zona un po’ rilevata, troviamo la cattedrale, affiancata da una curiosa torre circolare che, vista l’altezza, ci rifiutiamo a priori di visitare. L’interno della Chiesa è bello, quasi in puro stile gotico, ma è tutto sottosopra perchè si sta allestendo un palco per un concerto. Il grande e bell’organo a canne viene malmenato da un organista non proprio eccellente, ma nell’insieme il Ripieno e il Grand Organo risuonano possenti tra le slanciate colonne. Uscite dalla chiesa ci rendiamo conto di non avere più molto tempo per visitare il resto della città e, al trotto, torniamo verso il castello. Un’occhiata alla Rothe House, dietro la quale si nascondono dei bei giardini; uno sguardo ai ruderi della St. Francis Abbey (che si trova nel cortile di una fabbrica!) e poi su, fino al Kilkenny Castle. Il maniero è davvero imponente e perfettamente restaurato. Due maestosi torrioni circolari vigilano sul corpo centrale e le due ali laterali abbracciano un bel prato curatissimo. Impressionante è anche il prato che si estende a perdita d’occhio oltre il castello, punteggiato di alberi e cespugli. Purtroppo non c’è tempo per visitare l’interno, ma me lo immagino ricco di stucchi, di ori, di lampadari di cristallo, di grandi specchi e preziosi tappeti, attorno ai quali fanno bella mostra di sé mobili settecenteschi. Nei pochi minuti che ci restano prima di risalire sul pullman, gettiamo un’occhiata oltre i cancelli del basso ed ampio edificio che oggi ospita il Kilkenny Design Centre. Oltrepassiamo le numerose botteghe che espongono ceramiche e altri oggetti d’arte e…magia: ai nostri occhi appare, in perfetto stile Old England, una villa di campagna, come quelle che si vedono nei film in costume, di età Vittoriana. Mica male la vita dei vari signori Butler che dal XIV al XX secolo diedero lustro a Kilkenny! Si riparte. Sono le 13:00. Sotto una pioggia che si fa via via più fitta, affrontiamo la quasi due ore di viaggio che ci porteranno a Glendalough. In sottofondo, tanto per arricchire la nostra cultura musicale, le arie ora malinconiche ora spavalde e spensierate dei Dubliner. L’itinerario della gita odierna ci porterà tra poco ad attraversare le Wicklow Mountains. Considerata la loro modesta altitudine, che non arriva ai 1000 metri, probabilmmente a noi abituate alle cime alpine, questi rilievi appariranno poca cosa…ma non è detto che non ci riservino qualche sorpresa. In fondo la magia dell’Irlanda può far capolino dietro ad ogni angolo! Intanto continua il paesaggio della campagna, fatta di interminabili pascoli, intervallati da piccole chiese in stile normanno, affiancate dall’immancabile cimitero gremito di croci celtiche. Per un attimo, sulla sinistra, appare un canale navigabile interrotto da chiuse che mi fa ripensare alla Bretagna. Altra terra piena di fascino e mistero che abbiamo esplorato un po’ di tempo fa a bordo di una Houseboat. Cullate dalle placide melodie irlandesi, dal ronfare rassicurante del motore del bus e dal discreto mormorio in varie lingue dei nostri compagni di viaggio, lasciamo che i pensieri vaghino liberi e gli occhi si riposino. In altre parole, ci appisoliamo come due vecchie signore (ma senza russare). Quando riapro gli occhi, siamo ormai nel cuore della Wicklow County: i monti sono decisamente più vicini e la strada un po’ più stretta e tortuosa. Chissà se i cumuli di paglia lasciati nei campi dopo la mietitura riusciranno a seccare: qui l’autunno è praticamente alle porte. Lunghe strade sterrate si staccano dalla via principale che, come un nastro argenteo, ancora lucido di pioggia, si snoda tra campi, pascoli, rive boscose e piccoli giardini ben curati. Attraversiamo Baltinglass, un villaggio adagiato nella valle. Le piccole case tradizionali sono disposte ordinatamente all’ombra dell’unico grande edificio che domina la vallata: la chiesa, con la sua classica torre quadrata. L’orizzonte è sempre più vicino; il profilo delle montagne è delineato dalle aguzze chiome dei pini. Per certi versi il paesaggio ricorda il fondovalle dolomitico, solo che qui, dietro alle morbide ondulazioni dei pascoli non si innalza nessuna parete rocciosa. Vistosi cartelli gialli di pericolo ammoniscono ripetutamente gli automobilisti a procedere con estrema prudenza. Sorrido tra me e me perchè la strada, almeno per ora, è del tutto simile alle provinciali che attraversano le nostre campagne. Altro che montagne! Dopo un po’ l’autobus lascia la strada principale per imboccarne una decisamente più angusta. Secondo un cartello che leggo di sfuggita (e non di sicuro per le spiegazioni della guida che per me sono incomprensibili al 90%), ci stiamo dirigendo ad… Hollywood !!?? Stiamo a vedere. Se salta fuori che siamo sul set de “Il Signore degli Anelli” arraffo Legolas (Orlando Bloom) e me lo porto a casa come souvenir. Sai l’invidia delle mie amiche! Finalmente siamo in montagna, o quasi. Il bus procede per lunghi tratti in zone boscose che formano una fitta galleria verde sopra la strada. L’aria pare più fresca e sembra che le pecore nei prati abbiano il vello più folto. I torrentelli che oltrepassiamo su stretti ponti in pietra continuano invece ad avere un aspetto placido, ben diverso dal chiassoso spumeggiare dei corsi d’acqua che si tuffano a capofitto dai pendii alpini. Nel frattempo una grande mano di nebbia ha afferrato la cima delle Wicklow e tenta di allungare le sue dita fumose verso la valle. Siamo praticamente in vetta. Di colpo, anche se ci troviamo a soli 500 sul livello del mare, siamo in montagna, Sui pendii spazzati dal vento resistono le conifere e, ai loro piedi, vasti tappeti di felci ed eriche, mentre licheni gialli e bruni incrostano le rocce che affiorano lungo i crinali. E’ un bel colpo d’occhio, potente e scarno, il contrasto tra il nero della terra torbosa, il giallo delle chiazze di ginestrone e il rosa del brugo. Pochi minuti di sosta per cercare ci catturare in un clic la forza rude di queste sorprendenti “mini-montagne” e poi si torna a scendere, mentre in basso, incassata tra le pendici boscose, si palesa una valle stretta e profonda. Due pecorelle smarrite (proprio in senso letterale) brucano ai margini della strada, ignare del pericolo di essere sbranate dai moderni lupi d’acciaio. Improvvisamente, dopo l’ennesima curva, tra le cime dei pini sbuca un’ affusolata torre circolare sormontata da un tetto conico, con un’unica finestrella in cima. Ha un’aria minacciosa: potrebbe benissimo ospitare una strega o tenere prigioniera una principessa rapita da un mago cattivo. Ma come ingannano le apparenze! In realtà siamo arrivati a Glendalough e la torre è uno dei pochi edifici rimasti del grandioso complesso monastico iniziato nel VI secolo da San Kevin. Bello il filmato proposto al centro visitatori; del commento capisco poco, ma le immagini sono eloquenti e permettono di entrare nello spirito del luogo. Per chi come me ha dimestichezza con l’Inglese come con l’Aramaico, la presenza di una guida solerte ma “vagamente” logorroica che si ferma ogni tre passi ad illustrare nei minimi dettagli il perchè ed il percome delle venature sulle pietre…diventa un supplizio. Cerco di fare la brava e di restare nei paraggi del caro “signore con l’ombrellino”, ma a tutto c’è un limite. Dopo la “quarta stazione in cui si contempla… la particolare inclinazione del tetto di un rudere”, me la batto alla chetichella, seguita a ruota da Barbara. E ci fiondiamo al chiosco del FOOD. In fondo, dalla colazione consumata in mattinata al Bar di Kilkenny, non abbiamo più toccato cibo e sono ormai le 16:00 A poco a poco, liberati dalle grinfie della pignolissima guida, arrivano anche gli altri compagni di viaggio e tutti veniamo premiati con the e biscotti. Slurp! Il resto è un quieto e sonnacchioso rientro a Dublino, che si conclude in meno di un’ora. Per finire in bellezza la serata, ci concediamo una seconda cena al Murray’s Pub. Questa sera il locale è molto più animato, perchè si ballano danze irlandesi e si esibiscono (e qui un AHIME’ è doveroso) due “Fantasmi di Elvis” in versione dublinese. Per fortuna c’è la birra che aiuta a digerire tutto.

Sabato 7 Agosto 2010 Ore 6:30. Ci rechiamo puntualissime al luogo di ritrovo per il tour dell’ Irlanda del Nord. Il pullman è un po’ meno puntuale e dopo i consueti “giri e rigiri” per le vie del centro e dintorni, si esce da Dublino, in direzione nord, verso Belfast. Il paesaggio è il solito, il tempo pure, ma chissà che non abbiamo anche oggi la fortuna di vederlo migliorare, trasformandosi in una luminosa giornata di sole… Entrando nell’ Ulster, anche se non vediamo un vero e proprio confine, notiamo impercettibili cambiamenti che riguardano soprattutto l’architettura delle case: appaiono più alte, più grandi, tutte in mattoni o intonacate di bianco e sui tetti sfoggiano ampi abbaini. Il paesaggio naturale è invece sempre lo stesso, solo più ondulato e pertanto ancora più interessante. Di Belfast non vediamo praticamente nulla: una breve sosta in uno Starbuck per una indimenticabile cioccolata calda con panna e poi via, verso la costa. Rubiamo qualche scorcio con rapidi scatti attraverso i finestrini del bus, ma sapere cosa abbiamo immortalato è tutt’altra cosa, dal momento che delle spiegazioni della guida capisco ben poco, come al solito. Parentesi: prometto solennemente che mi metterò a studiare l’inglese, perchè sono stufa di sentirmi tanto inadeguata! Viaggia, viaggia, per strade ora dritte ora tortuose, ora ampie ora paurosamente anguste, arriviamo alla Costeway, che si snoda sui margini della scogliera. Ci fermiamo in un sito davvero bello: Carrik-a-Rede. Dalla cliff, a un certo punto, si allunga un bel promontorio che forma una penisola. Alla sua estremità, poco distante, emerge un’isolotto che, fin dai secoli passati, i pescatori collegavano alla terra ferma mediante un ardito ponte di corde. Spendere 7 € per percorrere 20m su delle assi traballanti non rientra tra le mie massime aspirazioni e perciò mi fermo poco prima del ponte a godermi la vista del mare e il profumo salmastro portato dal vento. Per la fortuna del turismo locale c’è tanta gente che non la pensa come me e lo dimostra la lunga fila di persone in attesa di attraversare il Rope Bridge. Tra gli estimatori dell’attrazione, ovviamente, Barbara, che fotografo dall’alto, mentre affronta l’eroica traversata. Anche se al ritorno dobbiamo procedere al galoppo per non far tardi al pullman, la passaggiata lungo la scogliera è stata veramente appagante per gli occhi e per lo spirito. Inoltre il sole fa capolino tra le nuvole e mitiga le sferzate taglienti del vento che ricopre di “ochette” la superficie dell’acqua. Poco dopo le 12:30 salutiamo Carrick-a-Rede per dirigerci alla Giant’s Causeway. Confesso di essere un po’ emozionata: per tanto tempo ho ammirato sui libri e nei documentari questa meraviglia naturale, e mai avrei pensato di poterla un giorno toccare con mano. La strada che corre lungo la sommità della scogliera è stretta, ma l’autista l’affronta spedito… Confidiamo caldamente nella sua esperienza! A perdita d’occhio, davanti e dietro di noi, il profilo delle cliffs delinea il confine tra mare, cielo e terra, in un continuo succedersi di sporgenze e insenature, battute da onde spumeggianti. Anche se il paesaggio è piuttosto selvaggio, le case non mancano; piccole e basse, bianche di calce, coi neri tetti di ardesia. Come le pecore, che costituiscono il leit-motiv della fauna locale, esse disegnano piccole chiazze di luce nella vasta distesa smeraldina. Di fronte alla scogliera, a poca distanza, si allunga un’ isola. Mi riprometto di cercarne il nome su una mappa, ma poi me ne scorderò. Ad una estremità un faro ammicca col suo occhio lucente e ci saluta amichevolmente. La strada, che si è spostata per un po’ verso l’interno, svolta improvvisamente a destra e torna a dirigersi verso il mare, mentre un coraggioso raggio di sole osa sfidare le nubi fitte e sparge una manciata di luce dorata sull’erba arruffata dal vento. Le folate di vento sgombrano una parte di cielo dalle nubi, permettendo all’azzurro di sciogliersi nel mare. Arriviamo alla Giant’s Causeway, ma quello che vediamo per ora è un vasto parcheggio affollato e una fila di bassi edifici adibiti a ristorante, negozio di souvenir,… Per fortuna l’ambaradan turistico-commerciale dista parecchio dalla scogliera e il tragitto si può percorrere soltanto a piedi o con una navetta assai costosa (48,5 £). Camminando ognuno col proprio passo, la fiumana iniziale si diluisce e, anche se non si è soli, è comunque una bella emozione quando compaiono in lontananza le mitiche formazioni rocciose: 40mila colonne basaltiche di varia altezza e per lo più di forma esagonale che creano una imponente scalinata verso il mare Al di là dei nomi fantasiosi che sono stati attribuiti alle varie parti della Causeway, l’insieme è superlativo. E’ proprio come lo immaginavo, forse solo un po’ più piccolo, ma i colori sono più vivi e il suono del mare indimenticabile. Ci sediamo per un po’ su uno di questi tiepidi gradoni, lasciando che lo sguardo vaghi lontano e si soffermi su una roccia imponente dalla forma assai curiosa. Sembra proprio il profilo di un drago accovacciato, pronto ad parire le sue ali e a spiccare il volo. A ben guardare, ricorda il FortunaDrago de “La storia infinita”. Anche il tempo stabilito per la visita alla Giant’s Causeway ha termine, così torniamo all’autobus, cariche di mappe e depliants prelevati dagli espositori. Li leggeremo con calma durante il ritorno, per saperne di più. L’autista, nel suo “masticatissimo” inglese annuncia che stiamo per dirigergi verso Derry, ma che faremo anche una breve sosta per ammirare i ruderi di un antico castello, il Danluce Castle. Dalla guida (quella cartacea, in italiano) apprendiamo la storia dello storico maniero, comprese le tragiche circostanze che ne determinarono il definitivo abbandono. Pare infatti che una sera l’estremità della scogliera crollò, trascinando con sé, tra i flutti, le cucine del castello, i cuochi, i servitori e…la cena! Poiché siamo, sempre secondo la guida, nei pressi di una delle più grandi distillerie dell’Ulster, fiutiamo l’aria per cogliere i caratteristici odori, ma non notiamo nulla. Ciò che ci colpisce è invece la vastità di un campo da golf, perfettamente curato, che si allunga per km lungo la scogliera. Le colorate tenute dei giocatori punteggiano il verde come strani, esotici fiori. Del lungo discorso tenuto dall’autista, capisco solo che questo “green” ospita i più importanti tornei internazionali di golf e che è uno dei preferiti da Tiger Woods (chissà se si scrive così?). Pian piano, mentre il pomeriggio avanza, raggiungiamo Derry. Coviamo per poco il sogno di avere una guida che parlando almeno un poco l’italiano, ci conduca alla scoperta della città. In realtà colui che ci attende parla Inglese e un po’ di Castigliano. Italiano…zero! Vabbè! Il biglietto per il walk tour l’abbiamo già pagato e d’altronde rischieremmo di perderci in questa grande città, per cui ci accodiamo all’eterogeneo gruppetto che comincia a trottare al seguito della guida. Con un passo da fare invidia a una guida alplina, il nostro biondo accompagnatore si inerpica sulle mura, da cui si gode un’ottima visuale su gran parte della città. Quasi subito seminiamo il gruppetto asiatico che si attarda a scattare foto e non riesce a recuperare terreno. Tutta la passeggiata ha l’obiettivo di farci conoscere la storia recente di Derry che negli anni ’70 è stata teatro di durissimi scontri tra cattolici e protestanti. Anche oggi, seppure in forma diversa e meno violenta, la città resta divisa e molti segni ne sono testimonianza. Da un lato del fiume, dove molti marciapiedi sono orlati da cordoli bianchi, rossi e blu e dove agli angoli delle vie sventola l’ Union Jack, vivono i sostenitori del governo inglese, per lo più di fede protestante. Dall’altro lato, quello in cui ci troviamo, vivono i sostenitori dell’ Irlanda libera ed indipendente. E’ in queste strade, decorate da grandi murales e da monumenti commemorativi che ebbe luogo il Blody Sunday, nel gennaio del 1972. La nostra guida è appassionata nel raccontare i fatti che sono ancora vivi nella memoria degli Irlandesi e ammette che la rivalità tra i due gruppi non si è ancora sopita, nonostante sia in costruzione un nuovo ponte (dal significativo nome di Peace Bridge) che dovrebbe unire le due sponde di Derry, o Londonderry, come la chiamano i filo-inglesi. Il pomeriggio è volato e prima di rientrare a Dublino restano da percorrere parecchi chilometri. Quindi tutti in autobus e “GOES!” Anche se gli occhi tendono a chiudersi per l’effetto combinato di stanchezza, rollio dell’autobus e hot chocolate, non manco di notare i bellissimi paesaggi che formano il Middle Ulster. I colori del tramonto, il cielo azzurro solcato da banchi di nubi soffici come schiuma, le colline, i boschi, le greggi al pascolo, i cottage,… si fondono in una magica, avvolgente atmosfera. Probabilmente sarà questa l’immagine dell’Irlanda che resterà più a lungo impressa nel cuore. Arriviamo a Dublino che è già buio e, purtroppo, abbiamo la brutta sorpresa di scoprire che l’autobus non ci porterà in O’Connel St. Così ci tocca scarpinare ancora… Non ne posso più! Vorrei dire … un paio di paroline “espressive” all’autista, ma il mio inglese si limita a poche frasi molto cortesi e corrette…Maledizione! Questo contrattempo mi rovina la serata, l’ultima in Irlanda, ma mi rende più risoluta nel proposito di studiare l’inglese… Quando arriviamo al B&B, finisco alla svelta di preparare e i bagagli e non ho voglia di far altro che mettermi a letto. Buona notte!

Domenica 8 Agosto 2010 Ultimo giorno in terra d’Irlanda, che ci accoglie, per la prima volta, con un discreto sole già alle 8:00 del mattino. Facciamo tutto con calma: fino alle 11:00 possiamo tenere la stanza e poi…beh…ci inventeremo qualcosa per far passare il tempo fino al momento di andare in aeroporto. Dopo la colazione super abbondante (ci dobbiamo rifare dopo gli ultimi giorni passati in giro, mangiando poco e male) decidiamo di fare un’ultima puntata da Carroll’s: magari a quest’ora c’è meno gente e riusciamo a trovare ancora qualche piccolo souvenir. Nell’attesa che il piccolo paradiso del turista apra i battenti, acquistiamo i biglietti per il bus che ci porterà all’aeroporto. Dopo un’attenta valutazione del peso dei bagagli (tanto!) e della consistenza delle nostre forze (poche!), concludiamo che la soluzione migliore, dopo aver lasciato il B&B, sia quella di andare direttamente all’aeroporto, anziché trascinarci dietro per ore le ingombranti appendici. Lì troveremo un cantuccio tranquillo dove sistemarci in attesa del check-in. Perciò, dopo aver stipato tutto nelle valigie che stentano a chiudersi, ci avviamo per l’ultima volta in O’Connell Street, con una sosta al Parco delle Rimembranze. Ci siamo passate davanti un’infinità di volte, senza mai varcarne i cancelli. Almeno oggi dobbiamo dare un’occhiata alla particolare fontana a mosaico, a forma di croce e al grande monumento con figure umane e cigni che campeggia in cima alla scalinata in fondo al giardino. Con i soliti problemi a trascinare e alternativamente a spingere la valigia lungo il marciapiede sconnesso, a cui si aggiunge il fondato timore che la “perfida” si apra di schianto vomitando sull’asfalto tutto il suo contenuto, arriviamo finalmente alla fermata del bus. L’ultimo sforzo che intendo fare è quello di aricare l’odiosa appendice sull’autobus, perciò lascio che sia Barbara a scattare le ultime foto ai monumenti della via, mentre io faccio il cane da guardia ai bagagli. Dopo una ventina di minuti salutiamo per l’ultima volta l’ormai famigliare O’Connell Street e ci dirigiamo all’aeroporto, in compagnia di altri turisti che come noi stanno terminando le loro vacanze dublinesi. Ed eccoci a ripercorrere in senso inverso le strade che ci avevano accolte dieci giorni fa. Sotto i nostri occhi, un po’ stanchi e un po’ malinconici, sfila la periferia della capitale e si profila infine la vasta mole dell’aeroporto. Non ci resta che ciondolare da un bar all’altro, aspettando che si facciano le 16:00. In realtà cerco anche un inesistente chiosco dove sigillare nel cellofane la mia precaria valigia. Alla fine, impietosite, le hostess al bancone della Ryanair mi offrono un rotolo di nastro da pacchi. Ne faccio abbondante uso, finchè la valigia risulta ben chiusa, ma con uno sconfortante look da barbone, Ma che importa! Cià che conta è che la valigia resti sigillata, e vedendo la “somma cura” con cui vengono maneggiati i bagagli dagli adetti al carico in stiva, sono ben contenta di aver rinunciato ad estetica e dignità. Con gli occhi incollati ad un monitor che sembra farsi beffe di noi, continuando a rigurgitare destinazioni per ogni dove…eccetto Bergamo, arrivano le fatidiche ore 16:00… via libera per il check-in; se riusciamo a trovare la strada, ovviamente! Dopo diversi giri, in un continuo saliscendi di scale mobili e tapis roulant, vicinissime alla meta che si trova davanti a noi, ma dietro una vetrata impenetrabile, imbocchiamo finalmente il cancello d’imbarco. Con un discreto ritardo e le solite scuse dell’equipaggio, si decolla. Mentre rileggo le pagine di questo diario di viaggio, l’Isola di smeraldo si allontana alle nostre spalle e tra poco sarà solo più un fantastico luminoso ricordo.

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Glendalough



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