Dodecaneso e Samos in motorino: che bel caldino
Per niente grazioso, a differenza di quanto sostiene la guida, è il paesino di Vourliòtes, all’interno. Meglio Kokkari, paese di pescatori con una bella passeggiata che costeggia il mare. Da Pithagorio prendendo la strada per Samos (Vathy) si trova l’indicazione per Psili Ammos e ci si sporge sul mare in un ampio golfo semi chiuso da ondulati orizzonti. Sorprendente è la presenza di un numero di persone vicino allo zero.
Molto quieta è pure una caletta senza strutture che si trova imboccando una stradina sterrata sulla sinistra prima di giungere alla più rinomata ed organizzata spiaggia di Glicoriza. Anonima è la zona nei pressi di Ireon: la spiaggia è banale, il pesino triste e il sito archeologico deprimente.
A cena optiamo per un’atmosfera più poetica rispetto alle alternative commerciali del porto orientandoci verso il Riva, un ristorantino delizioso con una terrazza aperta sul mare. A fine pasto ci viene offerto un bicchierino dell’ottimo moscato di produzione locale.
Dedichiamo una mattinata all’esplorazione dell’isola. Percorrendo la strada che porta all’estremo ovest giungiamo, con patimenti di correnti fredde (a saperlo ci si poteva organizzare con giubbotti da moto) a Balos, da cui, dopo un po’ di riposo ristoratore, contiamo di raggiungere le spiagge sabbiose di Kampos e Psili Ammos II (che fantasia, ci sono 4 località e non si riescono a trovare nomi non doppiati). La scoperta dell’interruzione della strada semi costiera che abbiamo deciso di utilizzare e lo stress ventoso contribuiscono a farci cambiare direzione. Tagliamo l’interno, abbracciando paesaggi montani interessanti, sino a spuntare sulla costa opposta a Karlovasi, una cittadina costiera dalle squallide atmosfere di una Marsiglia periferica. Da qui, ridiscendendo il versante nord, prendiamo contatto con l’esotica Tsamadou e con un buon assaggio di mediterraneità in piatto dalla terrazza di una taverna da cui si gode un’incredibile vista sugli smeraldati incanti di questo luogo.
Con sommo rammarico constatiamo l’impossibilità di raggiungere l’isola di Patmos, la seconda tappa del nostro tour, con un ferry boat, a causa di un guasto meccanico: per avere questa informazione dobbiamo chiedere a 3 diversi addetti alla biglietteria navale; se fosse dipeso dal primo interpellato avremmo atteso il traghetto per ore sulla banchina (o forse no perché non siamo completamente rimbambiti!). L’unica alternativa possibile per attraversare l’acquosa separazione fra le due isole è l’”amatissimo” aliscafo Flying dolphin delle 7.30 a.M., che oltretutto prevede il giro largo passando da Ikaria e Fourni. Ci aspettano 2 ore e 30 di tiritera de la muerte! Patmos ci accoglie come una forte madre di roccia. Una volta poggiato il piede a terra, al porto Skala, siamo avvicinati da Irina, una simpatica signora che non spiaccica una parola di inglese e ci offre una stanza a 25 euro. Ci mettiamo subito in moto e dopo aver noleggiato lo scooter più economico e più scarso di tutta la vacanza, ci dirigiamo verso la spiaggia di Petras. Qui l’unico rumore è un suono sottilissimo, rilassante e tiepido delle onde, come quello di un rainmaker, mentre un’anatra sorveglia un bambino che s’addormenta all’ombra e sembra, con il suo becco leggermente incatramato, una fiera sentinella ad impedire ai brutti sogni di disturbare il placido sonnecchio. Cerchiamo subito il modo di dare il colpo di grazia allo scooter nel tentativo di raggiungere Psili Ammos (e vai con l’originalità!). Forse non è la strada giusta? Meglio desistere ed orientarsi verso Lampi, spiaggia non bellissima, ma con un’ottima taverna, che ci si adagia come una coperta di peperoni e calamari.
Le spiagge non sono il punto di forza di Patmos. Come fili multicolore di cotone le sue atmosfere, le case, le facce della gente, il monastero, che sembra dominare l’isola, il paesino di Hora con i suoi vicoli misteriosi e aperti come la verità, dove il vento riesce comunque ad insinuarsi a stimolare una intenerita benevolenza, si attorcigliano intorno ad un ferro e, a lavoro finito, hai un maglione leggero da indossare in queste sere rinfrescate e da stringere sul cuore nelle giornate in cui la passione del momento avrà lasciato spazio a quel sedimentare forte che è l’amore di ricordi per i posti ormai lontani.
Con un pizzico di malinconia, a bordo dell’insetto scoppiettante, salutiamo Patmos, ma nell’immediato sbarco a Lipsi (la traversata dura circa 25 minuti e questa volta il mare è gentile nel concedersi liscio come una tavolozza) abbiamo rinvigorito di bellezza il nostro animo: Lipsi è la miscelazione ideale di incanto e poetica pacificazione, la vita scorre al ritmo lento degli umani valori e di una natura prodigiosa che semplifica ogni cosa, anche la respirazione.
Al piccolo porto i proprietari di domatia attendono i pochi turisti in arrivo ed offrono stanze in affitto a buoni prezzi. Noi ci affidiamo agli studios Paradise, rappresentati da un simpatico nonnino, e troviamo un monolocale comodo e pulitissimo in una struttura bianchissima di recente costruzione, posizionata su una collinetta a pochi minuti a piedi dal porto. Il costo è di 20 euro, il più basso di tutta la vacanza.
Forse ci sono più cappelle e campane che case e la nostra preferita sta sopra un promontorio, piccola come un miracolo, con il tetto azzurro a cupola che tocca il suo gemello in cielo.
Nelle nostre frizzanti scorribande a bordo della scoreggiante Yamaha 3 marce, noleggiata da George (7 euro di noleggio giornaliero più l’esorbitante cifra di 5 euro per il pieno di benzina), abbiamo la fortuna di imbatterci in spiagge meravigliosamente attraenti.
Kambos, dove l’acqua cambia colore un centinaio di volte prima di arrivare al profondo blu, la delicata brezza spinge i profumi delle colline circostanti e si può stare all’ombra di pini marittimi.
Platys Giàlos, dove è una vera libidine starsene stravaccati, per non parlare di quando si entra in acqua a sguazzare col turchese e lo smeraldo, mentre le capre scampanano abbarbicate sulle rocce ed i grilli intonano le loro melodie agli ulivi. Un vecchio pescatore dalla sua ondeggiante barca lancia un saluto nell’aria al pastore, che gli risponde con un ampio gesto del braccio, senza voce, per non confondere il suo gregge transumante. Così, come due vecchi amici, s’incontrano antiche tradizioni, usanze assai diverse e in fondo convergenti.
La piccola baia di Hohlakoura, un gioiello così prezioso che non può subire l’ossidante aggressione dell’abitudine. Tourkomina, dalle cui ombreggiate osservazioni nelle prime ore del pomeriggio e dalle tiepide nuotate in assoluta solitudine, non si può rimanere estranei allo scossone emotivo che le verdi striature assestano al candore della scogliera di quell’isola ed ai nostri poveri occhi già pregnanti di commozione.
Lipsi ha aperto una voragine dentro di noi: abbiamo cercato di riempirla, come si fa con lo zaino prima di partire, di belle immagini, raccogliendone quante più possibile, accatastandole agli altri ricordi, ma c’è ancora un po’ di spazio che abbiamo colmato con cene gustose e birre gelate, alla taverna di Yannis con una magnifica veduta del porto, al ristorante Calypso, dove è d’obbligo assaggiare l’eccezionale calamaro ripieno o al The Rock, dove, in un’atmosfera rilassata, si può gustare il piatto misto di dolmades (antipasti) o il polipo alla griglia.
Un’altra mezz’ora di aliscafo ed eccoci pronti a saltellare sulle colline di Leros, alla ricerca di nuove immagini da incorniciare (c’è una piccola chiesa nei pressi di Gourna, una specie di Mont Saint Michel dei poveri; vicino ad Alinda ci sono delle belle calette isolate). Si percepisce però, nel nostro intimo, un sentimento strano, una piccola disillusione: Leros è bella, anche se lievemente incasinata e con qualche deficienza nell’arte conoscitiva della pulizia, ma sostarvi dopo aver corteggiato quella splendida creatura che è Lipsi è un po’ come mangiare un wurstel dopo un piatto di culatello di Zibello! Più tempo si passa a Leros e più vengono marcate le sue contraddizioni: la bellezza delle spiagge (ne è un esempio Blefoutis Bay) si infrange sugli scogli di alcune evidenti negatività, legate soprattutto ai comportamenti delle persone, la potente visione del castello di Panteli, addolcita dalla morbida presenza dei mulini a vento, si scontra con la bruttezza e la mal conservazione dei paesi circostanti; ah quanto ci piacerebbe tornare a Lipsi dove ogni cosa si amalgama perfettamente! Un saluto alla poco linda Leros e in un’ora di aliscafo si approda al porto di Kos ed anche qui veniamo avvicinati dai locatori di appartamenti, che sparano alto con i prezzi. Ci accordiamo per 30 euro a notte.
Il castello dei cavalieri è una bella roccaforte dominante il porto che, in un certo senso, ricorda l’Havana: l’impatto visivo è molto suggestivo. Kos di sera somiglia invece a Rimini: dopo il quotidiano black out delle ore 20.50, luci sfavillanti ovunque, gente ansiosa che cerca in lungo e in largo il modo migliore (e più rumoroso) per divertirsi. Non vi è distinzione tra i selvaggi rumori della notte ed i forzati rumori del risveglio, un continuo susseguirsi di accelerate strozzature di pistoni in cilindri esausti, di marmitte mitragliatrici, di musica pompante e bombardante cervelli in pappa, clacson di alternata tonalità che fungono da punteggiatura a quel bel racconto di frenetiche esperienze, che per un po’ può andar bene, ma a un certo punto vien da dire: ”E se dormissimo qualche minuto adesso!?”.
Ci sono belle spiagge anche a Kos, quella di Tigaki su tutte, ma sono un po’ troppo turistiche, tranne la Exotic Beach, nella quale sarebbe interessante fermarsi un po’ di più, ma il sole del pomeriggio picchia come un martello arroventato e non c‘è nemmeno una pianta sotto cui rifugiarsi. C’è anche qualche resto archeologico e la Hirodion Taverna, dove si mangia molto bene con gestori gentili e una vastissima scelta di piatti. Ma se non si è dei ventenni inglesi o tedeschi con la voglia di devastarsi è meglio non andarci!