Diario di viaggio in Grecia

Golfo di Salonicco, Delfi, Meteore, Dodona
Scritto da: cappellaccio
diario di viaggio in grecia
Partenza il: 14/07/2005
Ritorno il: 22/07/2005
Viaggiatori: 3
Spesa: 1000 €
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GRECIA (Nei Pori e Platamonas –golfo di Salonicco. Delfi. Meteore. Dodona)

Mi trovo sulla spiaggia, in un lido greco delle coste egee che si chiama Nei Pori, affacciato sul golfo di Salonicco. Durante l’intera giornata gli altoparlanti emettono un frastuono assordante e riversano sulla spiaggia canzoni anglosassoni, sebbene a volte si sentano anche melodie greche, italiane o spagnole. Adesso, però, sono solo le nove del mattino e la riva è illuminata da una luce pigra, quasi distesa sull’acqua e la spiaggia è semideserta, sicché ci si può lasciar cullare dall’andirivieni delle onde. Dalla sedia a sdraio sulla quale mi sono appena piazzata vedo mio figlio che raccoglie il primo sassolino del giorno (anziché collezionare conchiglie sceglie ad una ad una le pietre che richiamano la sua attenzione e corre a depositarle al mio fianco). La lunga spiaggia sabbiosa è disseminata di ciottoli e andando verso Platamonas si trasforma, poco a poco, in una striscia sassosa che si restringe fino a misurare pochi metri nei pressi del porticciolo. In lontananza, in cima a una collina, si erge il castello di Platamonas, e ancora oltre il Monte Olimpo si staglia all’orizzonte. Il cielo è sereno, ma proprio il Monte Olimpo è avvolto dalla foschia. Sarà perché gli dèi vogliono mantenere la loro privacy? In realtà gli dèi si vedono solo nelle riproduzioni pacchiane dei vasi decorati che si vendono a buon mercato nei negozi di souvenir. La tregua non poteva durare, lo dicevo io che da un momento all’altro sarebbe iniziata “la discoteca”. Sono le nove e mezza e lo stabilimento balneare d’un tratto prende vita. Qualcuno si tuffa, alcuni piccini dotati di secchiello e paletta si mettono all’opera per costruire castelli di sabbia (a proposito, la parola castello in greco coincide con il cognome di Fidel, quello di Cuba…) o semplicemente scavano buche che si trasformano in pericolose trappole per gli incauti passanti. Soffia un vento caldo che lascia sulla pelle un nonsoché di appiccicoso. Sono un po’ stanca di leggere il romanzo autobiografico di Antonio Muñoz Molina “Ardor guerrero”, quindi mi faccio coraggio e attacco bottone. Il mio target non è, come si potrebbe sospettare, un omaccione dal fisico irresistibile, bensì due giovani madri a cui mi rivolgo con un semplice: -“Where are you from?” Sono greche, ovvio, però mi spiegano che sono sorelle e che sono nate in Svezia. Una volta rotto il ghiaccio fra le altre cose commento che sono rimasta stupita nel vedere che invece di vendere del cocco o della frutta i « Coccobello », o meglio i venditori ambulanti di frittelle, qui ti vogliono rifilare ciambelline o frittelle di carnevale: col caldo che fa!!! Mi spiegano che si tratta del cibo preferito dai bambini. Sì, nutriente e sano -commento io ironicamente fra me e me-. Faccio loro osservare che i venditori di cianfrusaglie sono scarsi in confronto alla quantità di “Vò cumprà” che pullulano da noi sulle spiagge italiane. In capo a una mezz’ora le due famiglie greche con i loro figli se ne vanno in hotel, mentre io e Fede rimaniamo ancora un po’. Dopo cena di solito andiamo a fare la passeggiata sul lungomare di Nei Pori, dove si può acquistare di tutto: (false) borse di marca, foulard, imitazioni di orologi svizzeri, costumi da bagno, collane, orecchini e ninnoli di vario genere, giocattoli o bambole che si muovono. Intorno alle bancarelle girella senza meta una quantità impressionante di persone. Una sera sono comparsi i vigili urbani in auto provocando un fuggi-fuggi tra i venditori che hanno nascosto le loro mercanzie con coperte e teli, ma non sembravano avere l’intenzione di smammare. Infatti non appena la macchina ha svoltato l’angolo gli operatori del mercato nero hanno ripreso tranquillamente la loro attività illegale. Si vendeva anche mais dolce arrostito e naturalmente, oltre alle attività appartenenti all’economia sommersa, c’era un’esagerata quantità di bar e ristoranti, uno attaccato all’altro, per più di un chilometro. Tre sere di seguito ci siamo gustati un gelato enorme, con gli ombrellini di carta come decorazione sulla stessa terrazza in riva al mare. Un’altra sera lo struscio si sposta a “Platamonas” (diciamo che Nei Pori potrebbe essere il corrispondente di Lido di Spina e Platamonas del Lido degli Estensi). Qualche giorno fa il mare era in tempesta e mio figlio si lasciava letteralmente investire dalle onde, lanciando gridolini emozionati ogni volta che un’onda s’infrangeva in spruzzi di schiuma contro il suo corpo e sulla battigia. Sabato invece non siamo rimasti a tostarci al sole, ma abbiamo fatto una capatina a “Meteora”, un insieme di monasteri piazzati in cima a rocce enormi. Per via dell’erosione queste hanno assunto forme bizzarre, tanto da apparire come obelischi naturali o ampi massi tondeggianti. Domenica si è scatenato un temporale, verso le otto di sera: giusto quando eravamo di ritorno dall’escursione a Delfi. Per andarci abbiamo dovuto sorbettarci tre ore di auto, dato che il monte Parnaso, dove si trova il famoso sito archeologico, si trova a parecchi chilometri di distanza da Nei Pori. E curiosamente, quando eravamo nello stadio, il punto più alto dell’area archeologica, un ragazzo americano è stato colto da un attacco epilettico e noi abbiamo assistito alla vicenda a distanza, mentre alcuni dei suoi compagni cercavano di prestargli soccorso. Alla fine il tipo ha ripreso conoscenza, molto prima che arrivasse qualcuno, forse un medico greco, con un sacchetto pieno di cubetti di ghiaccio. Ma porca di una miseria, non so come non ci ho pensato mentre ci inerpicavamo su per la via Sacra del santuario di Delfi, sotto un sole che “zot!” ti faceva immediatamente arrosto la capra nera senza difetti che offrivi in sacrificio sull’altare di Apollo. Era un’occasione unica –un po’ come quella mancata a Blarney Castle, dove c’era la kissing stone, quella che a baciarla ti contagiava il dono dell’eloquenza! Con la quale io, per pure ragioni igieniche, mi sono negata a pomiciare!-. Sì, avrei dovuto bere l’acqua della fonte Kassotì, masticare foglie di alloro –in giro, però, si vedevano prevalentemente ulivi- e inalare i vapori che uscivano dalla fenditura nel terreno nel punto in cui si trova l’ombelico del mondo, quello dove cadde la Pietra Sacra di Zeus. La sniffata di vapori mi avrebbe procurato il famoso stato di trance che mi avrebbe messo in grado di conoscere il mio futuro. Mi avrebbe rivelato che il postino aveva da poco abbandonato nella mia buchetta delle lettere due telegrammi che mi convocavano a Bologna per il mercoledì successivo, e che avrei dovuto presentarmi al provveditorato di Ravenna in un determinato giorno di luglio, a un’ora precisa e che lì mi sarebbe stato assegnato un posto di ruolo di spagnolo in un istituto della stessa città degli Esarchi. Non mi do pace: tutto il mio avvenire mi si sarebbe srotolato dinnanzi come un tappeto, costellato di momenti luminosi ed altri bui… Be’ non proprio. La profezia sarebbe uscita dalla mia gola come un gorgoglio incomprensibile che qualcuno avrebbe dovuto interpretare. Già me lo immagino: una specie di alfabeto morse senza libretto di istruzioni, o di codice segreto senza “decriptatore” del tipo: CSABO2007H10CSARA270715.30ITCRA1092005. Risposta un po’ ambigua. E poi dove la trovavo io una capra nera senza difetti? Al negozio di souvenir di Delfi c’erano solo pesci palla plastificati e squali impagliati. E poi, ormai, dell’altare di Apollo non c’era più nemmeno l’ombra –l’ombra, comunque, non c’era quasi da nessuna parte- anche se restavano esempi di bidoni dell’immondizia in marmo pario, conservati in ottime condizioni, dove i sacerdoti di Apollo gettavano gli ex-voto che facevano pietà, per non rovinare l’arredo ambientale. Adesso che ci penso, ecco cos’era successo al tizio americano che si dimenava per terra in preda a un attacco epilettico nello stadio in cima all’area archeologica di Delfi! La fenditura, nel corso dei secoli, si è spostata e l’erede anglosassone della Pizia deve essere caduto in trance non appena i vapori si sono sprigionati dalla crepa in questione. Non era l’unico del gruppo “a stelle e strisce” ad avere il capogiro di fronte a un tale spettacolo sulle pendici del monte Parnaso. Infatti altri segni di follia si manifestavano nel fatto che alcuni si facessero riprendere –con zoomata e primo piano sull’ascella con alone di sudore- mentre -emuli degli atleti che gareggiavano in onore delle divinità-, correvano avanti e indietro sulla pista lunga 177,55 m, sempre in presenza delle anzidette condizioni climatiche proibitive anche per un cactus. In questo stadio, un tempo, si svolgevano, ogni quattro anni, i giochi Pitici, i secondi giochi panellenici in ordine di importanza dopo quelli Olimpici. A proposito di corse, mentre sfrecciavamo da Nei Pori (il lido del mare Egeo dove alloggiavamo presso l’hotel Afrodite), verso il Golfo di Corinto, Leo al volante e il mio figliolo ed io dietro, come in taxi, due poliziotti hanno visto brillare i fari del nostro Doblò (anche detto Cobra 2, per distinguerlo da un altro Doblò della ditta soprannominato Cobra 1). – “Chissà perché ‘sti italiani girano con le luci accese, aspetta che li puntiamo con l’autovelox…” Paletta. Saluto in greco, poi “Can you speak English?” Poi corrispondente inglese di “favorisca la patente”. “Lei stava facendo i 142 all’ora quando il limite sull’autostrada in Grecia è di soli 120 Km/h.” Leo ha farfugliato una scusa imbarazzato, ma senza negare l’evidenza. Infine siamo stati graziati dai due in divisa -non senza prima aver ricevuto le debite raccomandazioni- e abbiamo potuto riprendere la strada verso la Focide. Ma torniamo alle rovine del santuario. Un mistero che mi avvinceva era quello dei nomi dei vari monumenti scolpiti su tabella marmorea prima in greco, quindi in francese e infine in inglese. Strano. Poi ho scoperto che ho rischiato –anche gli statunitensi- di non poter visitare l’area archeologica di Delfi. Alla fine dell’Ottocento, proprio sopra ai ruderi, c’era il villaggio di Kastrì, ma grazie all’impegno della Scuola Archeologica Francese il paesello venne completamente demolito e ricostruito più a Ovest, dove oggi si erge “New Delfi” e gli scavi riportarono alla luce i recinti sacri di Apollo e di Atena, la fonte Castalia, il Ginnasio e lo Stadio che oggi noi possiamo ammirare. Sì, dai, valeva la pena che buttassero giù quattro catapecchie per tirar su una decina di colonne e massi, rispolverare una caterva di basamenti e rovine che ricordano i meravigliosi monumenti che un tempo si ergevano qui. E meritava rischiare di rimanere tatuati sull’asfalto per spingersi fino all’ombelico del mondo (anche se Leo, come al solito, sosteneva che si trattasse di un altro orifizio del corpo umano…). Dunque, per raggiungere Delfi abbiamo dovuto macinare chilometri su chilometri, solo in parte filando in autostrada: la maggior parte del tempo circolavamo su “mulattiere”, piene di tornanti, da sacchetto per il vomito spalancato. E io che per svagarmi mi illudevo di leggere un libro… Una sorte non dissimile ci era toccata -come ho già detto-, sabato quando avevamo potuto inoltrarci tra le montagne del Pindo e degli Hassia per esplodere in un “oh!!” come quello dei bambini della canzone, davanti allo spettacolo delle enormi rocce di colore della scamorza affumicata che si innalzano all’estremità della pianura tessalica. Ed è proprio lì, sui cucuzzoli di quei giganti di pietra, che qualche pirla di un anacoreta ha avuto la bella idea di appoggiare, in bilico, il suo eremitaggio e ancora oggi orde di turisti fanno a gara per scalare le celebri meteore. E pensare che quando non c’erano le scale intagliate nella roccia e gli ameni ponticelli di legno sospesi sul baratro i primi asceti si divertivano a salire per mezzo di lunghissime e vertiginose scale di corda e se qualcuno soffriva di vertigini e non ce la faceva proprio, veniva issato per mezzo di una rete. E’ facile immaginare l’odore che doveva sprigionarsi dal passeggero quando veniva sganciato dopo che la rete aveva vorticato in cerchio nel vuoto per una mezz’oretta, mentre la corda strideva sul verricello, minacciando da un momento all’altro di far fare al visitatore la fine di Willy il coyote: giù dal precipizio e per giunta con il masso sopra. Un ennesimo particolare ameno legato alle meteore è la seguente: se da noi, all’Abbazia di Pomposa, devi coprire il “ben di Dio” e in Cattedrale a Ferrara ti forniscono un foulard per nascondere le spalle nude, per entrare nel convento di S. Stefano –e non solo in quello- ti devi mettere a tutti i costi la sottana. Non sono ammessi i calzoni, nemmeno lunghi, se appartieni al sesso femminile. E poi dicono dei musulmani… All’ingresso, dopo aver pagato il biglietto, mi sono scelta un grembiulone blu a fiorellini bianchi di quelli che erano appesi a sinistra dell’entrata e sono andata in giro per chiesa, cappella e museo insalamata nel gonnellone, come le altre donne che si aggiravano per il luogo: il foulardone appiattiva le differenze fra turiste d’ogni nazionalità. I copripantaloni più originali erano stati presi d’assalto dalle prime che si erano avventurate nel convento, perciò alle ultime erano rimasti tutti quelli ricavati dallo stesso pezzo di stoffa blu scuro a fiorellini, assolutamente fuori moda. Ho già parlato della kissing stone irlandese. Ebbene, alle meteore c’era la coda per la kissing icon. Ho visto con i miei occhi un pope sollevare una bambina piccola per permetterle di stampare un bel bacio sull’icona bizantina raffigurante la Madonna. Fede ed io abbiamo subito meditato di portare a casa un’iconcina da far baciare alla nonna (un orrido pensierino? Be’, sempre meglio della foto di Padre Pio, no?). A proposito di regali, proprio mentre ci trovavamo in Grecia ricorreva il mio trentaseiesimo compleanno. Siccome sapevo che Leo se ne sarebbe scordato ho portato con me due candeline, una a forma di 3 e l’altra a forma di 6 (che potranno essere riciclate tra… Un momento che faccio il conto con la calcolatrice… Esattamente ventisette anni). La sera del 15 luglio, dicevo, una volta cenato nel solito ristorante dell’hotel Afrodite con “Suvlaki” di vitello e riso, ci siamo concessi anche un “glicò”, il dessert, sul quale ho infilzato le mie due candeline e mi sono puntualmente abbrustolita le dita nel tentativo di accenderle. Poi ho chiesto a Leo di condurmi a fare una romantica passeggiata al chiaro di luna al castello di Platamonas, che si vedeva torreggiare, illuminato, in cima alla collina. Detto fatto, con l’auto detta Cobra 2 arriviamo fino alla scalinata che porta alla rocca, smontiamo e cominciamo l’ascesa a piedi. C’è un buio pesto. Cerco di saggiare il terreno tastando con la punta del sandalo, incespico ripetutamente tenendo per mano il pargolo e dicendogli di stare attento, mentre io scivolo e sono sul punto di storcermi una caviglia. Dolorante giungo dove cominciano le mura perimetrali e resto abbacinata da uno dei fari da 1000 watt che spara un fascio luminoso sulla fortezza affinché sia visibile di notte anche dalla spiaggia: pittoresco! C’è un sentierino che si snoda tutto attorno ai bastioni, lo percorriamo e davanti a noi, a un tratto, si spalanca il panorama mozzafiato del golfo di Salonicco agghindato di luci che si riflettono sul mare la cui superficie è appena increspata da una brezza leggera.Vorrei stare a contemplare tutta questa bellezza, ma se mi distraggo ruzzolo giù per lo strapiombo, meglio guardare dove metto i piedi. Basta. Il periplo è compiuto. Non ci resta che scendere.

L’ultima tappa della nostra permanenza in Grecia Tra i luoghi che suscitano il mio interesse, in Grecia, ci sono –e come no?- i ruderi del santuario di Dodona, vicino a Ioanina, a un centinaio di chilometri da Igoumenitza (dove dobbiamo comunque tornare per far rotta verso casa a bordo del traghetto Superfast). Il posto non è facile da trovare ma quando lo vediamo spuntare da lontano capiamo che merita uno sguardo, dato che comprende le rovine di un teatro che poteva contenere fino a 17.000 spettatori. Si tratta di un anfiteatro con scalinate di marmo che in epoca romana era stato utilizzato come arena per i gladiatori e per spettacoli circensi con leoni (in effetti rimane un muro di protezione che serviva per proteggere gli spettatori dalle fiere). Sopravvivono, ben conservati, i resti di vari templi, fra i quali quello di Zeus, il cui culto era legato a quello della Grande Dea, la divinità della fecondità e della fertilità, che viveva ai piedi di una quercia, i cui frutti, una volta cucinati, erano cibo per gli uomini (mangiatori di ghiande). E quindi la quercia era la casa della coppia divina e l’albero faceva da tramite per comporre un quadro un minimo sensato riguardo alle risposte che Zeus forniva alle domande degli uomini. Era necessario interpretare vari segnali: il sussurro delle foglie, l’attività delle colombe nella chioma dell’albero e il tintinnio di pentole di rame appese ai suoi rami. Il significato recondito di tutti questi rumori messi assieme era interpretato da alcuni mediatori divini che dormivano per terra e non si lavavano i piedi per mantere il contatto con la terra e ottenere da essa il potere che permetteva loro di interpreatere la volontà divina per gli altri esseri mortali. L’oracolo di Dodona era uno dei più rispettati nell’antichità e lo consultavano greci di molte città e addirittura stranieri. Ci tratteniamo in questo posto meno di un’ora e per lo meno un quarto d’ora lo “perdiamo” ad ascoltare un vecchio americano di origine greca che ci tedia con la storia della tomba del padre di Alessandro Magno – Filippo II re di Macedonia- e della carriera cinematografica di sua figlia, che è la star di una serie televisiva statunitense. Alla fine arrivano la moglie e un altro parente e ce lo portano via. Ci rimane un altro quarto d’ora per vedere i muri perimetrali della basilica cristiana e altre pietre non identificate. Epilogo: il congedo dalla Grecia A Igoumenitza stiamo per imbarcarci di nuovo sul traghetto Superfast -che a dispetto del nome impiega ben quindici ore per arrivare ad Ancona-. Il mare si estende davanti a me a perdita d’occhio e il mio avvenire mi attende proprio dall’altra parte di quest’immensa superficie lucida come uno specchio.



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