DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno .5
Timbrò il passaporto e la carta turistica e me li consegnò. “Ecco qua, buona permanenza” mi augurò a denti stretti.
“Grazie. Mi scusi, quanto costa il taxi fino alla stazione ferroviaria di Quijarro?” “Non pagare più di dieci bolivianos.” Ringraziai di nuovo ed uscii. Controllai attentamente il timbro, per assicurarmi che non avesse messo la data sbagliata per potermi beccare ‘illegalmente’ e spillarmi una tangente. Era tutto giusto. Fuori mi attendeva il taxista del giorno prima. Ormai vantava un’esclusiva su di me e mi accalappiò senza le smanie dell’altra volta. “¿Entonces?” “Ce l’ho fatta. Quant’è fino alla stazione di Quijarro?” “Lo stesso di ieri, venti bolivianos.” “No amico, non ci siamo. Alla migración mi hanno detto che il prezzo è di dieci bolivianos.” Accampò delle scuse, accusò i funzionari, lamentò moglie, figli e nipoti. Altre volte sarei stato volentieri a mercanteggiare, ma adesso non avevo né tempo né voglia. “Ti do dieci bolivianos, se non ti va bene chiedo ad un altro.” Aveva capito che non l’avrebbe spuntata. Ma si lagnò ugualmente, lasciandomi intendere che accettava solo per farmi un favore, anche se in realtà ci rimetteva.
Anche stavolta l’ingresso in Bolivia fu demoralizzante. Quijarro è un povero agglomerato di casupole, che deve la sua esistenza al fatto di trovarsi al capolinea della ferrovia che la collega a Santa Cruz e alla sua vicinanza col ricco Brasile. In lontananza l’immacolata Corumbá, la cidade branca, sembrava sbocciare sull’incantevole distesa verde del Pantanal. Credo che fu proprio quella visione contrastante a farmi innamorare perdutamente della Bolivia.
Il taxista mi fece scendere sul bordo della via principale di fianco a numerosi chioschetti, assicurandomi che quella era la stazione dei treni. Avevamo percorso sì e no due chilometri: dieci bolivianos erano anche troppi. Varcai uno stretto passaggio tra due file di bancarelle e giunsi alla biglietteria. Dietro c’erano i binari. Chioschetti e stamberghe impedivano di vederli dalla strada. Neanche la stazione di Copenaghen nel periodo d’oro dell’inter-rail era così affollata di turisti zainati, che qui chiamano mochileros. La stragrande maggioranza erano israeliani. C’era un solo sportello aperto e una fila mostruosa davanti. Orari e prezzi erano scarabocchiati disordinatamente e senza criterio su piccole lavagne e su decine di fogli stropicciati e illeggibili, che risalivano con ogni probabilità all’epoca dell’inaugurazione. Cercai di interpretarli da lontano, ma non ci capivo un accidente.
“¿Tiquet señor?” Un bagarino si aggirava laido e sinuoso tra la moltitudine di passeggeri. I biglietti di prima e di seconda classe costavano rispettivamente quaranta e trentadue bolivianos. Lui li vendeva a cento e a sessanta! Ammetto che ci feci un pensierino, ma alla fine rifiutai. L’Empresa Ferroviaria Oriental stava cercando di correre ai ripari per arginare il fenomeno del bagarinaggio, che negli ultimi anni aveva creato delle situazioni al limite della legalità. Adesso, in teoria, si poteva comprare solo un biglietto a testa esibendo un documento d’identità. Tutto inutile. Questo provvedimento serviva solo a far perdere tempo. La povera bigliettaia doveva compilare interamente a mano ogni singolo biglietto, scrivendo data di emissione, luogo di origine e di destinazione, numero del treno, categoria del biglietto, numero del posto, numero della vettura, data della partenza, importo, nome, documento e la propria firma! Doveva consultare uno schema del treno per assegnare i posti giusti, copiare i numeri dei passaporti e dare il resto. Ogni tanto chiudeva con un’assicella di compensato la feritoia che la metteva in contatto con l’esterno e si trincerava nella biglietteria per riprendersi. Un gesto emblematico, che da solo dava l’idea dello stato in cui si trovavano le ferrovie boliviane. Fuori nessuno capiva o voleva rendersi conto della situazione insostenibile e immediatamente si levavano mormorii e cori di protesta. Anche il poliziotto di turno aveva il suo bel daffare per tenere la situazione sotto controllo. Ma non andava oltre: bagarinaggi e sotterfugi vari sembravano esulare dalla sua competenza. Oppure era indirettamente implicato nel losco affare. Alle undici, poco prima del mio turno, i biglietti per l’unico treno della giornata andarono esauriti. L’alternativa era comprare nel pomeriggio un biglietto per il giorno dopo o salire ugualmente e farsi il viaggio in piedi. Ma questa possibilità, oltre che dannatamente scomoda, era anche un’incognita. Nessuno, infatti, poteva garantirmi che avrebbero accettato a bordo passeggeri privi di biglietto. Rimasi lì, smarrito in mezzo ad altre persone deluse ed imprecanti, a cercare delle soluzioni inesistenti. Alla fine decisi di mollare tutta quella confusione.
Puntai verso la zona del mercato. Avevo fame e da due settimane non mangiavo un almuerzo. Superai le baracche e i chioschi fatiscenti finché non arrivai in fondo, nella parte opposta rispetto alla stazione, la meno frequentata. Per esperienza sapevo che qui avrei fatto ottimi affari. Avevo un sistema quasi infallibile per scegliere un comedor piuttosto che un altro: l’impressione del momento. Non c’era una regola precisa. Dal momento che si assomigliavano un po’ tutti mi affidavo a particolari come il colore dei tavoli o la faccia del cuoco. E’ ovvio che ogni tanto questo sistema faceva cilecca. Ma anche quella volta rimasi piacevolmente soddisfatto. La salsina piccante fu davvero un ottimo benvenuto in Bolivia e la Ducal ghiacciata un’amica ritrovata. In paese non c’era assolutamente nulla d’interessante da vedere, così tornai in stazione. La biglietteria era chiusa. Tutta la ressa del mattino si era volatilizzata. Era rimasto solo qualche turista svaccato per terra e i soliti nullafacenti. Lasciai lo zaino alle amabili attenzioni di una signora peruviana che attendeva con pazienza l’apertura della biglietteria e gironzolai tra i binari. Un gruppo di operai stava sonnecchiando sotto un vagone. Il tempo a Quijarro era scandito dall’arrivo e dalla partenza dei convogli. La biglietteria, invece, segnava un orario più sballato. Approfittai di quel momento di quiete per tentare di capire la situazione dei treni. Dopo un’attenta esegesi ed un approfondito esame filologico dei manifesti e delle lavagne, appurai con discreta sicurezza che c’era un tren rápido che partiva tutti i giorni alle quindici, con vagoni di classe pullman, di prima e di seconda. C’era poi la carrozza Expreso Especial Bracha, con aria condizionata, proiezione di film e servizio ristorante, che viaggiava con l’Expreso del Oriente e partiva il martedì, il giovedì e il sabato alle quindici. Ma non credo proprio che facessero partire due treni contemporaneamente. E’ più probabile che aggiungessero semplicemente la carrozza Bracha al tren rápido. Pare infine che esistesse il Ferrobus, detto anche Automotor, che partiva il lunedì e il venerdì alle diciannove e venti. Su questo treno aleggiava un alone di mistero. Si diceva addirittura che potesse compiere l’intero tragitto fino a Santa Cruz in sole otto ore! Nessuno c’era mai salito sopra, ma c’era chi giurava di averlo visto una volta, tanto tempo fa. Dal cielo, che per tutto il giorno era stato minaccioso, cominciarono a cadere delle autentiche secchiate d’acqua. I venditori si precipitavano a coprire con dei teli di plastica le loro bancarelle di alimentari, che vendevano a prezzi scandalosamente maggiorati. Dal nulla si materializzavano orde di persone che correvano sotto la tettoia della stazione in cerca di riparo. Ritornai al mio zaino. Ringraziai la signora peruviana per avermelo custodito e mi sedetti su alcuni gradini di fianco a lei. Ma senza valutarne le conseguenze. In un attimo mi attaccò un bottone colossale. Mi raccontò che era andata in aereo da Lima a Rio de Janeiro, da sola, e che ora stava ritornando in Perú passando per tutti i luoghi di interesse religioso che incontrava sul suo cammino, in una sorta di pellegrinaggio sudamericano. Subito non l’avevo notato, ma in effetti, ora che ci badavo, era piena di rosari, di croci, di spille e di santini. E puntuale arrivò la fatidica domanda: “Lei è cattolico?” Ci pensai su, poi decisi di dirle la verità: “No, signora. Grazie a Dio sono ateo.” Sgranò gli occhi e il rosario, e mi guardò con un misto d’incredulità e di orrore. Nemmeno Lot quando vide sua moglie trasformarsi in una statua di sale avrebbe potuto inorridire a tal punto. “Ma, ma come” cominciò a balbettare, “la Bibbia di qua, la Bibbia di là, bla bla bla.” Si era ripresa egregiamente e non la finiva più. Io non vado in giro a convertire nessuno, ci sono tali e tante verità nel mondo che è impossibile sapere quali siano quelle giuste, ammesso che ce ne siano, poi. Non ho ancora trovato risposte per me stesso, figuriamoci se posso insegnarle a qualcun altro. Per me uno può pensare quello che vuole, ma non sopporto la protervia di coloro che pretendono di avere la verità in tasca e si sentono in dovere di importela.
“Ma lei come fa a sapere di essere nel giusto?” la punzecchiai.
“Oh bella, c’è scritto nella Bibbia!” rispose con magniloquenza.
“E lei prende tutto per oro colato, solo perché è scritto in un libro? Potrei convincerla che esistono gli Dei dell’Olimpo perché l’ho letto nell’Iliade o nell’Eneide.” “Ma che c’entra! Quelli sono libri di letteratura, scritti da pagani. La Bibbia, invece, è stata scritta su ispirazione divina.” “Ma davvero? E allora come li spiega gli errori, le discordanze e le ripetizioni attribuibili a ben quattro correnti di tradizione? La Bibbia racconta semplicemente l’epopea di un popolo che adorava il suo Dio, come tutti i popoli del mondo adorano i propri. Un Dio che compiva massacri e distruzioni e che pretendeva incessanti sacrifici di animali. E poi perché Dio si sarebbe rivelato solo agli ebrei e li avrebbe scelti come suo popolo prediletto?” “Per la promessa che aveva fatto ad Abramo, naturalmente.” “Si ricordi che se non arrivavano gli spagnoli qui continuavate ad adorare il Sole, come i popoli cananei che adoravano Baal e Astarte. E che colpa avevano commesso i suoi avi precolombiani – che per inciso non sarebbero dovuti neanche esistere, perché la Bibbia, guarda caso, non parla di una terra al di là dell’oceano – per essere stati lasciati privi della parola divina? La religione è una questione politica. Se ne rese conto l’impero romano, che la sfruttò per i propri interessi, e il Papa, sovrano assoluto di uno Stato. Dico, ma scherziamo? La religione cattolica ha uno Stato: potere spirituale e potere temporale. E che potere! Mi spiega che senso ha avere un regno in terra, quando la salvezza che loro stessi predicano è su nei cieli? E’ lo stesso approccio che hanno i credenti: “Signore, fammi la grazia!”, ma perché non seguono l’esempio di Giobbe? No, al paradiso ci penseranno dopo, adesso l’importante è stare bene, da vivi. Il paradiso è un’invenzione dell’uomo, che non riusciva a capacitarsi della morte: che senso aveva vivere, se poi doveva morire? Ecco allora che salta fuori il paradiso, dove per i meritevoli è riservata la vita eterna. Per me non c’è stata genesi, non c’è Dio – almeno non quello dei cristiani, un vecchio, bianco ovviamente, con la barba! – non c’è paradiso, non c’è niente. Ma non lo sapremo mai, né io né lei. Però io almeno non vado in cerca di proseliti.” “Proprio lei che viene dall’Italia, dove c’è il Papa.” “Fosse per me ve lo regalerei, il Papa.” ‘Perdonalo perché non sa quello che fa’ era più o meno ciò che esprimeva il suo sguardo. “Mi dispiace, pregherò per lei” concluse.
Nel frattempo si era riformata la fila davanti alla biglietteria. La ringraziai per la preghiera e andai a mettermi in coda. In breve arrivò tutta la gente del mattino, più altri rinforzi pomeridiani.
“Pensavo che gli israeliani non si facessero tatuaggi” dissi al mio vicino, supertatuato con piercings all’ombelico e alla lingua.
“Infatti non sono israeliano, sono neozelandese.” “Ah, scusami tanto. Con tutti gli israeliani che ci sono…” Si chiamava Andy. Mi presentò due amici: François, svizzero di lingua francese con una chioma bionda da cherubino, e Tom, israeliano di Tel Aviv con lunghi capelli inanellati.
“Beh, almeno uno l’ho beccato.” Viaggiavano insieme da Rio de Janeiro, dove si erano conosciuti durante il Carnevale. Avevano visitato il Pantanal ed ora erano diretti in Perú. Andy faceva il cuoco in un ristorante di Wellington e non sapeva una sola parola di spagnolo, a parte cerveza e poche altre. Quando gli parlavano sorrideva e rispondeva “siiìììiii” con la tipica cadenza boliviana che lo faceva morire dal ridere. François si era preso due mesi di vacanza dalla facoltà di architettura di Ginevra. Tom invece era in viaggio già da sei mesi. Era partito da Bogotá e si era fatto tutta la litoranea fino ad Ushuaia, nella Terra del Fuoco argentina, poi era risalito fino a Rio. Adesso gli restavano due mesi per tornare a Bogotá. Gli domandai il motivo di quell’invasione da parte dei suoi connazionali.
“In Israele il servizio militare è obbligatorio” mi disse. “Dura tre anni per gli uomini e uno e mezzo per le donne. E non c’è possibilità di rinvio. Quando finiamo ci prendiamo una vacanza prima di cominciare il lavoro o l’università. Nessuno torna prima di sei mesi. Ultimamente le mete più gettonate sono il Sudamerica e la Thailandia. Tutta questa gente che vedi viene da Rio dove ha festeggiato il Carnevale. Poi sono praticamente costretti a passare di qua prima di disperdersi per il resto del continente.” La fila procedeva a rilento, anzi non si muoveva affatto. Molti israeliani tenevano il posto per gli amici, che andavano e venivano per darsi il cambio. Arrivati allo sportello uno faceva il biglietto per dieci, presentando un mazzetto di passaporti. La gente cominciava ad incazzarsi. Il commento a voce alta del più esasperato fu subito raccolto dalla fila inferocita. Il poliziotto si svegliò dal suo letargo e dispose che da lì in avanti ognuno poteva comprare solo il proprio biglietto. Invece di placare gli animi, quell’annuncio scatenò una confusione pazzesca. La gente in coda richiamò indietro gli amici, che si inserirono a forza col risultato che la fila, invece di accorciarsi, si allungò a dismisura.
Verso le due, annunciato da un rumore di ferraglia, arrivò il treno immerso in una nuvola di fumo e di vapore. Fu un piccolo passatempo assistere alle operazioni preliminari alla partenza, accompagnate dalla solita, allegra confusione. Osservavamo quel trambusto con invidia. Su quel treno avremmo voluto esserci noi e invece ci toccava aspettare un’intera giornata. Come in tutte le file che si rispettino filtravano indiscrezioni e voci incontrollate. L’argomento principale era la classe pullman. Come diavolo era fatta? Perché costava il doppio rispetto alla prima? Nessuno lo sapeva con esattezza, ma tutti davano la propria versione. Comunque la questione si risolse da sola, perché Tom e François furono gli ultimi ad aggiudicarsi un biglietto di classe pullman. A me, a Andy e a tutti gli altri dopo di noi non restò che comprare un biglietto di prima classe.
“Adesso che cosa fai?” mi chiese Andy.
“Penso proprio che andrò a cercare un albergo per stanotte.” “Noi stiamo al Copacabana, è giù di lì… Sulla destra. Non costa molto. Se ti sbrighi forse riesci a trovare ancora una camera. Noi andiamo a comprare delle birre. Beh insomma, se sei lì ci vediamo dopo. Ciao.” Seguendo le indicazioni di Andy trovai facilmente l’hotel. Le stanze si aprivano sotto un porticato che circondava un cortile interno. Era rimasta una stanza doppia che costava trenta bolivianos. Il gestore brasiliano me la diede per venti. Sul soffitto era appeso un ventilatore. Bastò per farmi accettare. Il terzetto tornò carico di bottiglie. Trascorremmo l’ultima parte di quel pomeriggio piovoso sotto il porticato a bere birra e a parlare di noi e dei nostri viaggi. Tutti parlavano l’inglese magnificamente. Io scontavo l’arretratezza dell’Italia nell’insegnamento di questa lingua fondamentale. Non andavo malaccio, però… Me la cavavo. Il problema era Andy. Parlava a raffica con quel suo accento neozelandese senza curarsi che gli altri capissero. “Ma tu parli bene, perché mi chiedi sempre di ripetere?” mi diceva stupito.
Mi vendicavo parlando in spagnolo con la gente del posto. Lui non capiva nulla, per cui dovevo tradurgli. Ma non sembrava che gli facesse particolarmente effetto. Di imparare un’altra lingua non gli importava per niente.
Per cena andammo dall’altra parte del paese, più moderna ed affollata. Il problema, come sempre, era riuscire a conciliare i gusti e le esigenze di persone diverse. Alla fine ci fermammo in una rosticceria di pollo uguale a mille altre che avremmo potuto trovare di fronte alla stazione. Dopo mangiato bazzicammo per i locali del centro. Ce n’erano per tutti i gusti. Night con insegne luminose, películas calientes, bordelli più o meno dichiarati e discoteche malfamate con buttafuori armadiformi che facevano rispettare le regole affisse all’ingresso: niente ciabatte, alcol, droghe, armi e gang.
“Ragazzi, ma in quattro formiamo una gang?” La domanda di François ci fece riflettere un attimo, poi scoppiammo a ridere. Quijarro era la tipica città di confine, crocevia di traffici illeciti e di gente losca, tra estrema povertà ed immense ricchezze. Non c’era l’atmosfera rilassata che si respirava nel resto della Bolivia. Tornammo in albergo e trascorremmo la serata in camera loro. La porta aperta per il caldo era un invito per gli altri ospiti dell’hotel. Quattro israeliani, che avevano lavorato insieme a Tom in un kibbutz, fecero girare delle sigarette d’erba brasiliana. Non c’era nulla che ci accomunasse, ma quella notte il destino aveva fatto incrociare le nostre strade, casualmente, in quell’afosa stanza d’albergo.
La mattina seguente mi svegliai allucinato e raffreddato, dopo una notte in preda a sogni assurdi e stranamente fredda. A furia di dormire col ventilatore acceso mi buscavo dei fastidiosi mal di gola. Il cielo era velato. Nell’altra stanza Tom fu il primo ad alzarsi. Gli altri continuavano a dormire, nonostante un bellissimo pappagallo ara si esibisse nei suoi gorgheggi spaccatimpani, e spaccapalle data l’ora. Ci divertivamo ad osservare la gente uscire dalle stanze carica d’odio, trattenuto a stento dal sonno. Per sua fortuna nessuno si fermava più di una notte, perché un risveglio brusco era tollerabile, due no. Il pappagallo rischiava tantissimo, ma non sembrava rendersene conto e insisteva allegramente a far casino. O forse era il suo modo di vendicarsi dagli esseri umani, che l’avevano condannato a vivere su un trespolo sotto il porticato di uno stupido hotel.
Uscii con Tom a comprare qualcosa per la colazione. Poi la tirammo per le lunghe fino alle undici e mezza. A quell’ora dovevamo liberare le stanze. Prendemmo su le nostre cose e andammo in stazione. Lo zaino di Tom era spaventoso.
“Ma quanto pesa?” gli chiesi.
“Circa venticinque chili.” Strabuzzai gli occhi inorridito.
“Come nell’esercito” si affrettò ad aggiungere.
“Ma tu sei fuori, che cosa c’è dentro, un armadio quattro stagioni?” Il mio zaino pesava dieci chili di meno, con la tenda e altri accessori. Non capirò mai la necessità di portarsi sulle spalle tutta quella roba. E non era l’unico. Sul binario c’eravamo solo noi quattro e gli israeliani della sera prima. Ci raccontarono di aver passato la mattinata in un centro commerciale, molto frequentato perché esente dalle tasse. Ci veniva una marea di gente dai dintorni, specialmente dal Brasile. Una vera e propria attrattiva turistica di Quijarro, l’unica a dire il vero. All’interno c’era anche un ristorante che ci raccomandarono vivamente di provare. Lasciammo gli zaini a Tom e ci incamminammo.
Il centro commerciale si trovava a circa un chilometro dalla stazione. Era stato costruito di recente in stile futuristico. In Bolivia non avevo mai visto nulla del genere, nemmeno a Santa Cruz. I negozi erano veramente una sciccheria e vendevano costosi articoli d’importazione. Le pellicce erano un tantino improbabili, anche se per un attimo l’aria condizionata faceva dimenticare di essere circondati dalla foresta tropicale. I clienti erano facoltosi commercianti in giacca, cravatta e telefonino e ricconi che abitavano nei dintorni. Mangiammo nel ristorante al chilo, un self-service dove i piatti venivano pesati e si pagava in base alla quantità presa. I sapori, però, non erano assolutamente adeguati ai prezzi esorbitanti. Per fortuna non mi feci tentare dalla pasta. Andy e François rimasero piuttosto delusi dagli spaghetti alla bolognese, di quelli che puoi trovare in tutto il mondo tranne che a Bologna.
“Ve l’avevo detto di non prenderla. La pasta è una cosa seria e fuori dall’Italia è sempre un’incognita” li canzonai con una punta di nazionalismo. Però ebbi la sensazione che a Andy non fosse dispiaciuta così tanto, ma preferì non ribattere. “Poveri clienti” pensai, cercando di immaginare quello che cucinava.
“Prendi il caffè?” mi chiese Andy.
In Bolivia si beveva caffè liofilizzato, chiamato scherzosamente Noescafé. “Per carità, ne ho avuto abbastanza.” Avrei preferito mille volte un almuerzo senza troppe pretese in un misero comedor privo di aria condizionata.
Tornando verso la stazione, le stesse catapecchie davanti alle quali eravamo passati all’andata adesso ci sembravano ancor più misere.
IL TRENO DELLA MORTE Mentre il treno entrava in stazione io e Andy individuammo la nostra carrozza, la 102. Salutammo gli altri e ci scambiammo gli ‘indirizzi’ per poterci ritrovare più tardi a bordo. Nel vagone di prima classe c’erano due file di sedili per tre persone, posti uno di fronte all’altro. Legai con un lucchetto il mio zaino a quello di Andy e li assicurai alle sbarre del portapacchi. Il treno cominciava a riempirsi persone e di cose. Io, Andy e un boliviano ci incastrammo sull’esiguo sedile, morbido come la pietra. Di fronte a noi si sistemarono una coppia di boliviani col loro bambino in braccio e una donna che passò la prima mezz’ora a dislocare bagagli ovunque ci fosse uno spazio disponibile: sotto il suo sedile, sotto il nostro, tra il suo sedile e quello che aveva di schiena e sotto i suoi piedi. Dal finestrino un tizio continuava a passarle altra roba. Con una faccia tosta che aveva dell’incredibile ci chiese se potevamo spostare i nostri zaini. Le domandai dove avremmo dovuto metterli, secondo lei. Bofonchiò qualcosa e seguitò ad andare avanti e indietro per il vagone a disseminare bagagli.
“Ma come farà a ricordarseli tutti?” mi chiese Andy allibito.
Alcune donne avanzavano nella calca con catini pieni di polli, patate, riso e pannocchie che vendevano dentro buste di plastica trasparente. Il treno diede uno scossone. Le venditrici guadagnarono precipitosamente l’uscita e saltarono giù dagli sportelli. Alcune di loro preferirono continuare a vendere. A Puerto Suárez, quindici chilometri più avanti, il treno si fermò e scesero giù, per nulla preoccupate della camminata che le attendeva.
Passavo il tempo a guardare il panorama e a sorseggiare tereré tiepidi. Ogni tanto, a causa dei sobbalzi, un bagaglio precipitava in testa al malcapitato che si trovava sotto. Il treno viaggiava con una lentezza rivoltante attraversando zone selvagge e paludose. Dopo qualche ora eravamo di nuovo fermi. Mi affacciai al finestrino. Schiere di venditrici correvano lungo i binari con piatti di pollo, riso e patate, buste di manghi e di arance, secchi e bottiglie di refrescos. I bambini vendevano sigarette sfuse e chicles. Molti viaggiatori scendevano e si allontanavano di qualche metro verso la boscaglia. Lì assolvevano tranquillamente le loro funzioni fisiologiche, poi andavano soddisfatti verso le bancarelle. Ogni tecnica era buona per accalappiare i clienti: gesti, urla, rapimenti. Dovevano vendere tutto e in fretta prima che il treno se ne andasse lasciandoli disoccupati per un’intera giornata. Quando il treno cominciò a muoversi, ci corsero dietro per vendere gli ultimi piatti. Nel vagone aleggiava una persistente mistura di olezzi e di aromi. Tutto ciò che non veniva gettato dai finestrini si accumulava nel corridoio. Vennero a trovarci Tom e François.
“Allora, com’è la classe pullman?” chiese Andy.
“Non c’è male, abbiamo un sedile individuale reclinabile e aria condizionata” rispose François.
Rosicavamo d’invidia, ma ci mostrammo del tutto indifferenti. Ci scambiammo un’occhiata complice e sprofondammo per quanto era possibile nel sedile. “Non si sta poi così male neanche qui” considerai.
“Ma siii, non si sta male” mi sostenne Andy. Mentivamo spudoratamente, ma non volevamo dargliela vinta dopo che eravamo andati avanti tutto il giorno a canzonarli perché avevano speso il doppio di noi.
“Vedo, vedo” rispose Tom. “Beh, ci vediamo dopo eh? Ciao.” Se ne andarono inorriditi, saltando bagagli e persone e schivando montagne di rifiuti. Non li rivedemmo più fino a Santa Cruz.
Due ispettori della dogana entrarono nel nostro vagone per controllare i bagagli. Per impedire il contrabbando, infatti, era consentito trasportarne solo una determinata quantità. La signora seduta di fronte a noi raggiunse in un attimo la sua quota. I due ispettori scoprirono sacchi di riso, di mais, di pasta, scatoloni e pacchi infilati ovunque. I bagagli non dichiarati venivano automaticamente confiscati. Ma a questo punto, come seguendo le regole di un gioco, tutti cominciarono a rimpallarseli tra di loro, sostenendo che appartenevano a parenti ed amici momentaneamente assenti, a bambini di due mesi e anche a noi stranieri. Gli ispettori si consultarono tra di loro e decisero che tutto era regolare. Proseguirono quindi lungo il treno a recitare la commedia.
Con le tenebre arrivarono le zanzare. Non potevamo farci niente. C’era troppo caldo per tenere i finestrini chiusi. Ormai avevano imparato ad aspettare tutte le notti quel coso luminoso pieno di gente da salassare. Ogni tanto il treno faceva delle misteriose fermate in mezzo al nulla. Solamente in quei casi chiudevamo i finestrini. In quel silenzio inquietante, impossibilitato a muovermi e con la temperatura prossima al collasso capivo perché era stato soprannominato il Treno della morte. Ero smanioso e non riuscivo a stare fermo. Attorno a me, invece, tutti ronfavano beatamente, a parte un gruppetto di boliviani in fondo al vagone che si stavano scolando delle strane alchimie alcoliche sghignazzando rumorosamente. Ma alla fine anche loro persero i sensi. Attorno alle undici il treno si fermò in una stazione. Ci fu un discreto ricambio di passeggeri, doveva trattarsi di un centro importante. Una coppia di giovani si sistemò nel sedile di fianco al nostro. Avevo perso l’uso delle articolazioni inferiori. Non ne potevo più. Decisi di alzarmi. Aiutandomi con le mani valicai una selva di gambe distese e di bagagli e arrivai al corridoio. Andy mostrò di apprezzare il gesto, perché nel dormiveglia si impossessò immediatamente del mio posto e si distese con aria soddisfatta. Ero condannato a stare in piedi.
“Scusate, in che città siamo?” domandai sottovoce ai nuovi arrivati.
“Roboré” rispose il ragazzo.
Bastò quella domanda per iniziare una lunga conversazione. Erano Eduardo e Nancy, peruviani di Lima. Stavano visitando le missioni gesuite dell’oriente boliviano. Avevano iniziato da quella più lontana, la missione di Santiago de Chiquitos, a venti chilometri da Roboré, e adesso erano diretti a San José de Chiquitos dove si trova un’altra famosa missione. Poi avrebbero seguito il Circuito delle missioni, una strada sterrata di seicento chilometri che si inoltra verso nord attraverso gli Llanos de Guarayos, collegando le principali missioni a Santa Cruz. Il treno era l’unico mezzo che collegava Roboré a San José, ma passava in un orario scomodo, che non permetteva inoltre di ammirare il bellissimo territorio della Serranía de San José, composto da alture selvagge e da guglie monolitiche. Su questi monti nel 1561 venne fondata Santa Cruz de la Sierra. Ma alla fine del XVI secolo, a causa dei ripetuti attacchi delle tribù di chiquitanos, venne spostata nell’attuale posizione, duecentoventi chilometri più a ovest. E adesso, sebbene si trovi in pianura, mantiene ancora il nome originario. Seguii il loro percorso sulla mia guida. Eduardo ne rimase impressionato. “Una guida così grossa solo per la Bolivia? Me la vendi?” “Non posso, mi serve. Aspetta, ti mostro qualcos’altro.” Mi arrampicai a fatica e tirai fuori dallo zaino la guida del Perú. Quando la vide impazzì. La sfogliò avidamente, ripetendo “che bella, che bella.” Poi aggiunse: “Ti sembrerà strano, ma da noi non esiste una guida in spagnolo del Perú. L’italiano è simile. Me la vendi?” “Anche questa mi serve.” “Hai detto che l’aereo per tornare in Italia parte da Lima, no? Prima di partire me la puoi vendere?” Restammo d’accordo così. Era contentissimo. Parlammo di tutto, facendo continui confronti tra il Perú e l’Italia. Alla fine, inevitabilmente, arrivammo alla politica. Eduardo fu l’unico sostenitore di Fujimori che mi capitò di incontrare. “Il problema sono i terroristi. Fanno di tutto per ostacolare il governo. Guarda che casino che ha combinato il MRTA nell’ambasciata giapponese a Lima. E che cosa hanno guadagnato? Nulla. Il Giappone è un nostro importante partner commerciale e loro volevano rovinare i nostri rapporti diplomatici. E Sendero Luminoso? Fanno tanto i comunisti poi costringono i campesinos a coltivare la coca per autofinanziarsi, e se non accettano li ammazzano. Se invece l’esercito scopre le coltivazioni le brucia, così i contadini, che non hanno potuto coltivare altro, muoiono di fame. Sono degli assassini.” Mi sembrava quantomeno inusuale a notte fonda stare seduto sul bracciolo di un sedile di un treno boliviano a parlare di politica con un peruviano, circondati da una platea scomposta di umanità che magari imprecava perché non li lasciavamo dormire e in silenzio ci lanciavano terribili maledizioni. Il treno si fermò diverse volte in paesini costituiti soltanto da una manciata di case disposte lungo i binari. Alle tre di notte arrivammo a San José. Mi salutarono e tentarono goffamente di raggiungere l’uscita. Si voltavano continuamente per salutarmi, ridendo come matti ogni volta che si trovavano davanti un ostacolo di una certa entità. Proprio verso la fine Eduardo rischiò di inciampare su un sacco e di franare addosso ad una vecchia india, che placidamente addormentata non si accorse nemmeno del pericolo appena corso. Avevo a disposizione un intero sedile. Mi sdraiai a pelle di leone. Dopo qualche minuto sentii bussare al vetro. Eduardo era tornato apposta per regalarmi una lattina di guaraná. Ci salutammo nuovamente dal finestrino. Poi il treno partì. Mi sbracciarmi finché intorno a me non fu nuovamente tutto buio. Tornai alla mia comoda posizione. E dire che mi ero preoccupato di svegliare tutto il vagone con un’innocua chiacchierata… Se uno riusciva a dormire con tutti gli sconquassamenti del treno, non avrebbe sentito nemmeno le cannonate! Giungemmo a Santa Cruz verso le nove del mattino. Prima dell’arrivo in stazione, e dell’ispezione doganale, la signora cominciò a lanciare fuori dai finestrini i suoi innumerevoli bagagli. Mi affacciai incuriosito. Un uomo e un ragazzo correvano di fianco al treno, raccoglievano tutto ciò che cadeva a getto continuo e lo caricavano immediatamente su un furgone che li seguiva dappresso. La medesima scena si ripeteva identica più avanti. Una marea umana invase il piazzale della stazione e filtrò tra le impenetrabili maglie di un cordone di polizia, che si limitò a controllare qualche passaporto a caso. Nella ressa riuscimmo a ritrovare Tom e François.
ASPETTANDO L’AUTOBUS Avendo già trascorso una settimana a Santa Cruz venni nominato esperto della città.
“Allora, che si fa?” mi chiese Tom.
“Dipende. Voi che intenzioni avete, volete fermarvi?” “Sì, almeno un paio di giorni per riprenderci” rispose Andy.
“Avete già un’idea dell’albergo?” “Ci hanno consigliato il Ballivián.” “Sì, non è male, ci sono stato anch’io. Ci conviene prendere il taxi allora, siamo lontanissimi.” “Ti fermi anche tu con noi?” “No. Non ne posso più di questo caldo. Vado a Sucre.” Dopo una notte quasi insonne le strade trafficate investite dalla forte luce del mattino mi davano le vertigini. Il mondo mi girava attorno troppo velocemente.
“Siamo arrivati” ci disse il taxista, piantando l’auto in mezzo alla strada. Dietro si formò una fila di macchine che attaccarono a suonare come ad un matrimonio. Il taxista non si scompose minimamente. In effetti suonavano più per abitudine che per fretta. Comunque, a scanso di equivoci, li salutai alla svelta e ripartimmo verso il terminal. Salutare la gente al volo era diventata un’abitudine, e dire addio una mia seconda natura.
Il terminal brulicava della solita umanità chiassosa e indaffarata. Oltrepassai un ragazzo che ne stava tatuando un altro con l’attrezzatura collegata alla batteria di un’automobile e scesi le scalette che portavano alle oficinas. Immediatamente fui circondato da un nugolo di procacciatori di clienti. Mi divincolai abilmente da quella torma vorace.
“¿A Asunción?” No! Non ci potevo credere. Era proprio la tipa che mi aveva venduto il biglietto per Asunción. Ormai l’avevo praticamente rimossa. La fulminai con lo sguardo, trafiggendola con saette di odio puro. Non so se mi riconobbe. Ma con la coda di paglia che si ritrovava capì che dovevo esser stato un suo cliente. Mi fece un sorriso stiracchiato e cercò di allontanarsi. I ruoli si invertirono. Era il cliente adesso ad inseguire il procacciatore. Gliene dissi di tutti i colori, cercando di usare le offese più pesanti che conoscessi. Terminai con un bel “vaffanculo” in italiano, che mi sorse spontaneo e che non ci sta mai male. Confrontai i prezzi e gli orari di tutte le flotas. Tutti gli autobus per Sucre partivano alle cinque del pomeriggio e arrivavano a destinazione dopo dodici ore. “Alé, un’altra notte insonne” pensai. Comprai il biglietto più economico, lasciai lo zaino nell’oficina e mi avviai a piedi verso il centro. Entrai nell’internet café di Calle Junín per aggiornare la mia posta elettronica. Poi, intanto che mi trovavo nei paraggi, andai a trovare il terzetto. Alla recepción del residencial c’era l’inossidabile signora.
“Buon giorno, sto cercando tre amici che sono arrivati oggi: uno svizzero, un israeliano e un… – come diavolo si dice neozelandese in spagnolo? -” “Sì, ho capito. Stanza tre.” “Posso andare?” “Sì. Ma niente rumori!” Bussai alla porta in maniera quasi impercettibile. Mi voltai verso la signora temendo le sue ire. Mi fece il gesto di riprovare. “Qualcuno c’è, ne sono sicura.” Mi aprì Andy. Gli altri erano usciti a fare un giro.
“Che ci fai qui, non parti più?” “L’autobus parte alla cinque.” “Dai, usciamo che ho fame.” Girammo per le vie del centro alla ricerca di un buon posto per mangiare. Alla fine entrammo in una specie di circolo privato situato in un angolo della piazza. Era un locale raffinato, con i camerieri che giravano per i tavoli in livrea. Ma a dispetto delle apparenze mangiammo un ottimo almuerzo spendendo veramente poco. All’uscita incrociammo François che ciondolava solitario per la piazza. C’era troppo caldo per fare qualunque cosa. Cercammo refrigerio in un pub irlandese. Dal balcone del primo piano contemplavamo la piazza alberata inverosimilmente deserta. Le pinte di Kilkenny andavano giù proprio bene, ma ci diedero il colpo di grazia. Andy e François tornarono in albergo. Stavolta ci congedammo con più calma. “Salutatemi Tom.” “Sicuramente. Ciao, buona fortuna.” “Addio.” Li attendeva un letto accogliente in una stanza fresca. Ero troppo invidioso. Mi restavano altre due ore. Gironzolai a caso in cerca di una bomboletta di gas per il fornellino. In Calle Bolívar vidi un negozio di caccia e pesca e di articoli da campeggio. Entrai. Mentre il commesso rovistava in un armadietto mi domandò di dove fossi. Glielo dissi.
“Ah, Italia. Cicciolina!” Ero confuso. Ero rimasto ancora ai classici luoghi comuni sugli spaghetti e sulla mafia. Durante l’inter-rail dopo i mondiali del 1990 si usava dire, al limite, “Italia Schillaci.” Ma Italia Cicciolina non l’avevo ancora sentita. E quella non fu nemmeno l’unica volta. Non si trattava di una presa in giro, anzi. In Bolivia ci apprezzavano tantissimo per questo, quasi ci invidiavano. D’altronde, mandare una pornostar in Parlamento non è cosa di tutti i giorni. Anch’io, se all’epoca fossi stato maggiorenne, l’avrei votata. Sicuramente era più seria lei di molti politici.
Tornai in piazza e andai a sedermi su una panchina all’ombra degli alberi. Il tempo trascorreva lento. A pochi passi da me c’era un’allegra famigliola con due bambini che si sforzavano di fare più casino possibile. E fin qui tutto normale. Però c’era qualcosa che non quadrava. I bambini erano innegabilmente meticci, mentre i genitori sembravano piuttosto europei. All’ennesimo richiamo, tra le parole in spagnolo fui quasi sicuro di riconoscerne qualcuna in italiano. Mi alzai e molto lentamente gli passai davanti, con indifferenza.
Non c’erano dubbi. “Scusate, siete italiani?” “Sì. Ci eravamo accorti che lo sei anche tu, perché stavi leggendo la stessa guida che abbiamo noi.” La loro era una storia davvero particolare. “Siamo sposati da cinque anni. Purtroppo non possiamo avere figli. Abbiamo atteso per anni che la burocrazia italiana ci permettesse di adottare un bambino. Ma è veloce solo quando si tratta di tasse. Così abbiamo deciso di tentare un’adozione internazionale. Anche questa però non si è rivelata tanto semplice: prima il tribunale per i minori ha dovuto accertare la sussistenza dei nostri requisiti di idoneità; poi abbiamo dovuto attendere che arrivasse il provvedimento favorevole dell’autorità boliviana; poi ancora il tempo per essere a sua volta riconosciuto dall’Italia. I bambini li abbiamo visti per la prima volta solo quando siamo venuti a prenderli. E adesso dobbiamo stare qui per quaranta giorni prima di poter tornare in Italia. E’ il momento più duro. Mancano ancora dieci giorni, non ne possiamo più.” “Su coraggio, che ormai è quasi fatta. I bambini sembrano contenti. E hanno questi begli occhioni neri.” “Sì, sono bellissimi. Sono due fratellini orfani. Il piccolo probabilmente non se ne accorge neanche, ma il più grandicello secondo me ne risente. Rimane a lungo in silenzio, con gli occhi tristi. La gente all’inizio ci guardava male. Non so come spiegarlo, sembrava quasi che volessimo rubarglieli. Ma poi hanno capito che noi potevamo garantirgli un futuro.” Mentre parlavamo si era formato un capannello di persone sotto un albero. Tutti guardavano in alto indicando qualcosa. Ci avvicinammo anche noi incuriositi. Subito non riuscivamo a capire che cosa stessero osservando. Poi riuscimmo ad individuarli anche noi: due bradipi che si dondolavano pigramente tra i rami. Presero in braccio i loro bambini, indicarono col dito e sorridendo dissero: “Mira, mira los monos.” “Scusi, da dove parte l’autobus?” domandai alla bigliettaia.
“Non lo so.” Secondo lei mi aveva già risposto. Tenni duro: “Ah.” Sbuffò: “Lo comunicheranno prima della partenza.” “Ma sono le cinque passate. Doveva partire alle cinque!” “Ahorita sale, no te preocupes.” Dopo un po’ ci comunicarono che il nostro autobus sarebbe partito dalla porta numero sette. Pagai il derecho de terminal ed entrai nel piazzale. Dell’autobus, però, nessuna traccia. I passeggeri attendevano con consumata sopportazione. C’erano intere famiglie boliviane con smisurate quantità di bagagli e di bambini e alcuni turisti israeliani che avevo conosciuto sul treno. Seduti tra gli zaini ci raccontammo le nostre esperienze di viaggio. Finalmente, quando avevamo già esaurito gli argomenti e la pazienza, arrivò l’autobus. Era un vecchio scuolabus bianco col bagagliaio sul tetto. Il contachilometri doveva avere ricominciato i giri innumerevoli volte. Ma non potevo pretendere di meglio, era il più economico. Gli autisti si arrampicarono sul tetto e cominciarono ad issare i bagagli che i passeggeri passavano man mano. Cercavano di sistemarli in ordine di fermata e in modo da bilanciarne il peso. Ma dovettero rifare tutto, perché all’improvviso saltarono fuori dei bagagli ingombranti che andavano sistemati in determinati punti strategici, già occupati invece da strati di sacchi e scatoloni. Ne seguì una lite tragicomica, che scatenò una risata collettiva. I poveri autisti lanciarono alcune maledizioni dall’alto, poi ripresero il lavoro finendo per riderne anche loro. Al termine coprirono l’esagerato carico con un telone impermeabile. Dal mio posto sul finestrino osservavo le divertenti scene che si svolgevano fuori. Qualcuno si sedette di fianco a me. Mi sentii toccare la spalla. Mi voltai.
“Mayerlin! Che cosa ci fai qui?” “Vieni fuori.” “Ma sta partendo.” “Solo un attimo, dai.” Mi prese la mano e mi trascinò fuori, vincendo la corrente opposta di gente che entrava. “Dove vai?” mi chiese.
“A Sucre.” “Ma non partono alle cinque?” “E’ in ritardo.” “Pensa che coincidenza.” “Ehi, tutto bene?” Mi voltai. Era un ragazzo israeliano con cui avevo parlato fino ad un attimo prima.
“Sì, sì, tutto bene, arrivo subito. Ehi, non lasciatemi qui, eh?” “E tu?” domandai a Mayerlin.
“Io cosa?” “Dove vai?” “Nel Beni, dai miei vecchi.” Non mi ero accorto che ci stavamo tenendo ancora per mano. Fissavo i suoi occhi neri, che mi fissavano a loro volta. Esistevamo solo noi due in quel momento. Una girandola di frasi mi frullava per la mente. Ma all’improvviso mi sembravano tutte prive di senso. Avrei voluto dirle qualcosa. Invece rimanemmo lì, una frazione di vita infinitamente dilatata, a scambiarci con gli occhi parole che non riuscivamo a trovare. Due settimane. Erano passate solo due settimane, ma sembrava un’eternità. Adesso che il tempo stava cominciando a sfumare i ricordi, ecco quell’addio che ero stato contento di aver schivato l’altra volta. Avrei voluto baciarla. Ma non la baciai, non so perché.
“Ti chiamo tra qualche mese. Addio.” “Addio Mayerlin.” E’ strano il destino, beffardo. Ritornai sull’autobus.
“Ma chi era quella?” mi domandò il ragazzo israeliano.
“Niente, un’amica.” “Pensavo che ti avesse rubato qualcosa.” “Forse” pensai dentro di me.
Alle sette finalmente partimmo. Il conducente diede due colpi d’acceleratore e ingranò la marcia, che entrò con una sonora grattata. L’autobus si avviò traballando lasciandosi dietro il terminal e il mio passato. Si fermò quasi subito per far salire un venditore. Si scusò per il disturbo arrecato, motivando quell’insolito lavoro col bisogno di mantenere la sua famiglia, e iniziò ad illustrare le proprietà balsamiche delle sue caramelle. Dall’altra fila di sedili si levarono risate e schiamazzi. Un gruppetto di israeliani urlava al malcapitato – in inglese – che non capivano un cazzo di quello che stava dicendo, chiedendo come mai non parlasse in inglese. E giù altre risate. Mi ero già alzato in piedi. Ma il ragazzo chiese se per favore poteva continuare a fare il suo lavoro e riprese a parlare. Dopo la spiegazione passò tra i sedili lasciando ad ognuno un pacchetto di caramelle. Arrivato in fondo ripassò per prendere i soldi o le caramelle invendute, ringraziò tutti, lasciò una mancia all’autista e scese. Mi ingozzai di caramelle per placare l’ira. Se non avesse sistemato le cose da solo non so davvero come avrei reagito.
SUCRE Sucre dista circa trecento chilometri da Santa Cruz. Ma un conto era percorrerli facendo scorrere il dito su una carta geografica, un conto era viaggiare sulla disagevole strada sterrata, che durante la stagione delle piogge rendeva quasi impossibile i collegamenti via terra. Infatti, alla faccia delle dodici ore preventivate, arrivammo all’una del giorno dopo, conciati malissimo. I sedili dell’autobus si rivelarono tanto scomodi quanto lo permetteva l’esiguo biglietto, e forse anche di più.
Dal terminal raggiunsi il centro a bordo di un buffissimo micro multicolore. Non avevo la minima idea del percorso che seguiva, così cercavo di orientarmi consultando una mappa della città. Quando arrivammo in piazza urlai: “Baja” e il conducente mi fece scendere. Niente a che vedere con l’efficienza asettica ed impersonale dei nostri campanelli. Mi guardai intorno, poi puntai dritto verso il mercato. Di fronte, su Calle Ravelo, si trovavano numerosi alberghi. Mi resi subito conto che Sucre era una città piuttosto cara. Dopo alcuni tentativi trovai un alojamiento simpatico, disposto a ferro di cavallo attorno ad un cortile interno. Il quarto lato era chiuso da un alto muro di pietra, da cui spuntava una fontanella che rallegrava l’ambiente con zampilli di acqua fresca. La signora mi mostrò una minuscola stanzetta a piano terra: un letto, un tavolino e una finestra aperta sul cortile.
“Quant’è?” “Venticinque bolivianos.” Insistetti per un piccolo sconto.
“Facciamo ventidue, allora.” Lo sconto ammontava a ben mille lire. Sembra poco, ma con quella somma si poteva mangiare un almuerzo in un comedor del mercato. “Va bene, la prendo.” In lontananza, su un’altura, avevo notato una chiesa. Decisi di iniziare proprio da lì la visita della città. Superato l’arco costruito in corrispondenza della Iglesia de San Francisco, Calle San Alberto sale dolcemente arrivando fin sopra la collina su cui sorge La Recoleta, una chiesa francescana del XVII secolo. Sull’altro lato della piazzetta si trovava un porticato di recente costruzione. Le numerose scritte a carattere sentimentale e i graffiti incisi al suo interno testimoniavano che i giovani erano soliti darsi appuntamento qui per un incontro romantico. Quella terrazza, infatti, offriva una splendida vista panoramica sulla città. Sucre è adagiata su sette colli, alla piacevole altitudine di 2800 metri. Respirai profondamente, inebriandomi dell’aria frizzante delle Ande. Il caldo umido dei bassipiani ormai era solo un ricordo. I campanili e le cupole delle numerose chiese si innalzavano maestosi sopra piccoli edifici bianchi coi tetti di tegole brune, racchiusi da una scacchiera di vicoli perpendicolari. Come Arequipa e Corumbá, Sucre è conosciuta come la ciudad blanca ed è famosa per gli splendidi balconi di legno di cedro intagliato che ornano le facciate dei palazzi coloniali. Sorge in corrispondenza dell’antica città di Charcas, la capitale indigena della valle di Choque-Chaca. Questa valle mite, fertile e ben irrigata è circondata da bassi rilievi montuosi. Bassi perché non superano i quattromila metri di altezza. Ad ovest si poteva riconoscere il crinale frastagliato della Cordillera de Los Frailes. Più in là si ergevano le Serranías de Maragua, che circondano un cratere surreale conosciuto come Ombelico di Chuquisaca.
Gli sperduti villaggi della zona sono popolati da comunità di indigeni dediti all’agricoltura e all’artigianato, soprattutto nel settore tessile. I vistosi capi d’abbigliamento e di maglieria dei loro abitanti, che uniscono bellezza e praticità, sono tra i più rinomati della Bolivia. Un occhio allenato riesce ad identificare a quale comunità appartiene un individuo semplicemente sulla base del colore e dei motivi decorativi dei suoi abiti, inalterati da secoli. Nei pressi della Recoleta si trovava il Museo Textil Etnográfico, che esponeva questi bellissimi indumenti lavorati al telaio o a maglia. Nello stesso edificio c’era anche un negozio gestito da una cooperativa, che portava avanti il progetto di vendere gli articoli prodotti nei villaggi, garantendo a chi li confeziona una buona percentuale sui profitti. Sulle etichette compariva la foto, il nome e il villaggio di provenienza dell’artigiano. La maggior parte dei lavori sono opera delle donne. Gli uomini si dedicano quasi esclusivamente alla tessitura dei chullos, i tipici copricapi andini a punta con paraorecchie. Molte associazioni sono impegnate da tempo in questa attività. Forniscono telai e strumenti e organizzano corsi per impedire che queste tradizioni scompaiano per sempre.
Dopo cena comprai due birre Taquiña e andai a bermele su una panchina di Plaza 25 de Mayo. In quel giorno del 1809 venne suonata per la prima volta la Campana de la Libertad, che durante la rivoluzione contro la Spagna chiamava a raccolta i patrioti. Ora si trova custodita nel campanile della Iglesia de San Francisco. Mi divertii a pensare che in realtà la piazza celebrasse il mio compleanno. Cercavo di immaginare come potesse figurare la mia statua equestre tra le aiuole fiorite, quando un venditore carico di artesanía e di sorrisi marciò di gran carriera verso di me.
“Cómprame amigo. Mira, tutta roba di Potolo, autentica. Questa e quest’altra l’ha fatta mia moglie, questo l’ho fatto io. Barato.” Ero bloccato dalla spalliera della panchina. Mi si parò davanti impedendomi ogni tentativo di fuga e iniziò a srotolarmi davanti ponchos e axus, i bellissimi teli ricamati a mano che le donne si avvolgono sulle spalle fermandoli con uno spillone, il tupu, sul davanti.
“Sì, sì, bellissimo, però… Sì, sì, anche questo, ma vedi, non… Sì, ho capito che è di alpaca, il fatto è…” Non mi prestava la minima attenzione. Quando ebbe finito di mostrarmi l’intero campionario, mi guardò con un’espressione fiduciosa. Lo guardai anch’io, scossi la testa e gli dissi: “Amigo, non ho un soldo. Oggi è sabato e le banche erano chiuse.” “Barato, amigo, barato” insisteva lui, “quanto hai?” “Non molto, mi dispiace. Tieni.” Gli regalai due bolivianos e se ne andò contento puntando verso un’altra panchina. E dire che a pochi passi da noi, nella Capilla de la Virgen de Guadalupe, si trovava una statua della Madonna ricoperta d’oro e d’argento e tempestata di pietre preziose. Solamente con quei gioielli si potrebbe sanare il debito estero della Bolivia. In piazza notai un particolare curioso, in controtendenza rispetto ad Oruro. Qui molte ragazze indossavano la gonna. Però, nonostante il caldo, portavano tutte i collant. Anche in questo caso probabilmente per differenziarsi dalle campesinas, rigorosamente a gambe nude o con spessi calzettoni di lana.
Il giorno dopo era domenica. In Bolivia la domenica è tutto chiuso e non c’è un emerito niente da fare. E’ la giornata da dedicare al viaggio o alla scampagnata. Decisi di andare a visitare un villaggio dei dintorni.
Attraversai la strada e mi infilai tra i banchi del mercato. L’aria era già satura di fragranze e di aromi forti e penetranti. Tranci di carne e frattaglie pendevano da grossi ganci per la gioia delle mosche e l’anelito dei cani randagi che si aggiravano sornioni. Superato il settore delle verdure arrivai, in fondo, ai chioschetti che preparavano frullati. Ero confuso dall’incredibile varietà di frutta esotica dalle forme e dai colori strani. Una signora pacioccona col grembiule bianco, che spuntava da un bancone traboccante di frutta ordinata con cura a formare piramidi multicolori, cominciò ad elencarmi una serie infinita di combinazioni. Lasciai a lei la scelta. Sbucciò e affettò con perizia platanos, chirimoyas e maracuyas e riempì il frullatore.
“¿Con leche?” Il mio motto è sempre esagerare. “Sì.” Aggiunse un goccio di latte, frullò il tutto e riempì uno spesso boccale di vetro. Semplicemente delizioso.
Ritemprato nel corpo e nello spirito mi recai a piedi al ponte sul Río Quirpinchaca da dove, secondo la guida, passavano i camiones per Potolo. Si trovava in una zona periferica molto squallida, in cui il colore predominante non era più il bianco immacolato del centro, ma il marrone degli adobes. Misere casupole col tetto di lamiera ondulata fiancheggiavano le stradine sventrate, dove scorrevano rivoli di acqua torbida che andavano a finire nel fiume inquinato. Erano abitate da campesinos venuti giù dalle montagne inospitali alla ricerca di una vita migliore per sé e per i propri figli. Ma i loro sforzi quasi sempre risultavano vani. Sguardi rassegnati mi osservavano con diffidenza. Passò un autobus di seconda classe, ma il conducente mi avvertì che i camion per Potolo partivano dal Mercado Campesino, da tutt’altra parte della città. Con un taxi arrivai sulla sommità di una collina, dove alcuni camion aspettavano di partire col loro carico di bestiame umano. Domandai un po’ in giro e finalmente trovai quello per Potolo. Purtroppo per il ritorno l’ultimo camion partiva a mezzogiorno. Nemmeno il tempo di arrivare. In effetti i camion sono mezzi di trasporto essenziali, usati dai campesinos per andare e venire dai mercati. E non osservano sicuramente un orario adatto ad un turista. Bisognava per forza passare la notte in un villaggio e non era detto che ci fossero delle sistemazioni. Rinunciai senza troppi rammarichi. Scesi verso il Mercado Campesino, ripercorrendo a ritroso le stradine affollate in cui poco prima il taxi si era mosso a fatica. A piedi era sicuramente più agevole, ma altrettanto caotico. Mi persi deliberatamente per le strade intasate di gente e di mercanzie. Sui marciapiedi le donne indie con le due inseparabili trecce sedevano pazientemente in mezzo a fagiolini, pannocchie e patate di tutte le forme e colori. Adagiata su uno stuoino una vecchia vendeva una manciata di arachidi. Mi chiedevo quale potesse essere il suo guadagno. Dai piccoli bracieri a carbone si levavano in aria invitanti profumi di anticuchos, gli spiedini di manzo, e di pannocchie abbrustolite. Decine di sarti e di ciabattini, oscillando ritmicamente il piede, facevano andare antiquate macchine per cucire, che avrebbero fatto la gioia di qualunque collezionista. Più in là alcuni barbieri davano una cortada de pelo ai clienti fiduciosi, sforbiciandoli tranquillamente nel loro affollatissimo salone stradale. I clacson delle automobili risuonavano, i venditori reclamizzavano le loro merci urlando, gli arrotini facevano stridere le lame sulle mole azionate dalla catena delle biciclette. Su un muro rabberciato era scritto Fuera yanquis de Bolivia e poco più in là Viva el libre cultivo de la hoja de coca. Arrivai per puro caso al mercato coperto, una struttura di notevoli dimensioni che non riusciva però a contenere tutti quelli che avevano qualcosa da vendere. All’interno si vendeva in particolar modo frutta e verdura. Al primo piano si trovavano i comedores. Lungo la strada c’era il settore riservato ai venditori di coca. Decine di chioschetti sufficienti a contenere due o tre sacchi di foglie e qualche barretta di legía nera si susseguivano uno di fianco all’altro. Nel sacchetto che avevo comprato sull’Isla Taquile quasi due mesi prima erano rimaste solo poche briciole. Mi attendevano alte montagne e camminate faticose. Comprai da un vecchio sdentato la solita quantità minima di foglie: mezza libbra per sei bolivianos. Orientandomi col sole presi la direzione del centro. Il mercato sembrava non finire mai. Le bancarelle si estendevano fino alla linea ferroviaria per Tarabuco, che correva in mezzo ad un lungo vialone trafficato. Il treno era stato soppresso da qualche anno e adesso i binari erano invasi dai venditori. Accelerai il passo, perché il chilo di yogurt al cocco che mi ero scolato per pranzo aveva cominciato a fare effetto.
Dopo cena andai all’Alliance Française, un centro culturale che disponeva di quotidiani e di altre pubblicazioni in lingua francese. All’interno c’era un ristorante-bar dov’era anche possibile assistere alla proiezione di film in lingua originale. Quella sera trasmettevano uno speciale sui Beatles. Dopo di me arrivarono tre israeliani e una coppia di tedeschi. Il televisore era sintonizzato sul telegiornale. Lo seguivo senza troppo interesse assaporando una birra. Ad un certo momento delle voci in pessimo spagnolo superarono di gran lunga il tono pacato delle conversazioni. Era entrato un lustrascarpe. Un bambino di circa dieci anni con la sua cassettina di lucidi e di spazzole. Gli israeliani lo stavano cacciando via brutalmente, quasi con ribrezzo.
“Ehi, chico, vieni qua” lo chiamai, invitandolo con la mano.
Si avvicinò un po’ titubante al tavolo e mi fissò con uno sguardo che non dimenticherò tanto facilmente. In quell’istante arrivò la padrona del ristorante, richiamata dalla confusione. Appena vide il bambino gli intimò d’andarsene.
“L’ho chiamato io” intervenni, “mi sta pulendo le scarpe.” E mentre dicevo così gli feci cenno di cominciare.
La padrona fece un rapido calcolo e decise che era meglio non contraddire un potenziale acquirente di birre. “Va bene, ma poi se ne deve andare” mi rispose, e uscì.
Era di grande conforto sapere che da me dipendeva il rispetto di quel bambino. Gli israeliani mi guardavano in cagnesco. Ero dovuto uscire da sotto il tavolo e adesso ce li avevo proprio di fronte. “Non sta facendo nulla di male, è il suo lavoro. Non vi ha mica obbligati” replicai. Alzai la bottiglia in un cincin virtuale e bevvi alla faccia loro. Il bambino se ne andò via contento. Da noi piangono se non hanno la Play-station II. Per quella sera non ordinai altre birre.
Sembrava la scena di un film: per poco, girando un angolo, non andai a sbattere contro François che sopraggiungeva dalla parte opposta.
“Ciao François! Ma che combinazione. Quando siete arrivati?” “Stamattina. Solo io e Andy, però. Tom è andato a Potosí. Domani lo raggiungiamo.” “Anch’io vorrei andarci domani. Possiamo fare il viaggio insieme. In quale albergo state?” “Al La Plata, di fronte al mercato.” “Ma dai! Proprio di fianco a dove sto io. Dove stavi andando di bello?” “Dal dottore. Ho una febbre strana, non vorrei che fosse malaria. Spero che non mi faccia pagare troppo. Dai, vieni a trovarci in albergo, facciamo… Alle sette. Andiamo a mangiare insieme, ti va?” “Alle sette, allora. Ciao.” Il medico lo rassicurò che si trattava di semplice influenza. Quella sera lui e Andy avevano coinvolto altri ragazzi ospiti del loro albergo: Cesare, uno svizzero di lingua tedesca con genitori bresciani, Ingrid e Lara, danesi e Kate, americana di Seattle. Decidere in che locale andare non fu per niente facile. Io mi tirai subito fuori dalla discussione, perché tanto avevo capito che la scelta era ristretta ai ristoranti per turisti, e uno valeva l’altro. Alla fine fummo tutti più o meno d’accordo per il Repizza, a pochi passi dalla piazza. Nel tavolo di fianco al nostro c’erano altre due ragazze danesi. Se ne stavano lì tutte sole solette. Le invitammo a sedere insieme a noi. E il fatto che fossero delle veneri bionde non influenzò minimamente la nostra decisione. Sul menù erano elencati dei piatti altamente improbabili. Per andare sul sicuro io e Cesare ordinammo due cenas, che si rivelarono dignitosissime. Le ragazze presero le tipiche insalatine, da ragazza appunto, mentre Andy e François, dimentichi dell’esperienza di Quijarro, si videro servire una pizza che lasciò tutti esterrefatti, per forma, dimensioni, ma soprattutto per ingredienti. E riuscire a stupire perfino delle danesi, dopo tutto quello che ho visto mangiare in Danimarca, non è facile. Erano pizze solo di nome. Io e Cesare ci sbellicammo dalle risate e fomentammo tutta la tavolata a prenderli in giro. Ci trovammo invece tutti d’accordo sulla birra, che cominciò a scorrere a fiumi. Per me costava poco, per gli altri era praticamente regalata. Il programma della serata prevedeva l’acquisto di alcolici da consumare in quantità smodata in qualche camera. Dopo aver girato mezza città riuscimmo a trovare l’unico negozio ancora aperto. Si trovava esattamente tra i nostri alojamientos. Gli ospiti degli hotel erano dei clienti preziosi e quel negozio faceva sicuramente più affari a quell’ora che nel resto della giornata. Esaminammo le bottiglie, indecisi su quale prendere. Cesare saltò su: “Ragazzi, siamo in nove. Una bottiglia non basta.” “No, siamo in otto, Kate non viene” lo corresse Lara.
“Va beh, è uguale.” “Che cosa prendiamo, allora?” gli domandammo.
Si rivolse al negoziante e gli chiese se per caso non avesse qualcosa di speciale.
“Claaaro” gli rispose lui, che la sapeva lunga. Si chinò sotto il bancone e tirò fuori una tanica di plastica bianca da cinque litri, di quelle che si usano per la benzina. “Ecco qua.” La guardammo meravigliati. “Che roba è?” “Rum al cocco.” “E quanto costa?” “Cinquanta bolivianos e vi tenete anche la tanica.” Lo assaggiammo. Aveva un sapore… Strano. In effetti non riuscivamo a capire quale mente eccelsa avesse potuto creare una miscela del genere. Ma l’alcol si sentiva e tanto bastava. Comprammo anche una bottiglia di Coca-Cola, una di Sprite e dei bicchieri di plastica. Uscimmo dal negozio trionfanti e ci ritirammo nella camera di Andy e di François.
Aprii gli occhi di colpo, come se fossi stato spaventato nel sonno. Che cosa era successo? Cercavo di pensarci, ma il movimento delle rotelle mi provocava delle fitte lancinanti. Ero sdraiato sopra un letto, vestito e con gli anfibi ai piedi. Considerato il ronzio che avevo in testa, in quella stanza buia c’era un silenzio di tomba. Una lama di luce pulviscolare filtrava dalla finestra. Era giorno, dunque. Ma dove diavolo ero? Nell’altro letto riconobbi a fatica Andy, annodato tra le lenzuola. Per terra giaceva un corpo riccioluto: François. Mi alzai, ma dovetti tenermi. Avevano sostituito il pavimento con un tappeto elastico, come mai? Uscii ondeggiando come un marinaio durante una tempesta. Una pozza di vomito decorava l’atrio. “Non sono stato io” supplicavo dentro di me. Uscii stomacato, correndo per non essere scoperto. Il cielo era grigio e faceva freddo. Per un attimo pensai che tutti i passanti si fossero messi d’accordo di venirmi contro. Li schivavo guardando in basso per non incrociare i loro sguardi, che mi sentivo addosso come una colpa. Evitai di guardare anche la signora dell’alojamiento. Entrai nella camera e mi buttai sul letto. “Basta! Non bevo più.” Ci credevo sul serio.
Mi alzai alle dieci, brasato. Pagai la stanza e chiesi alla signora dove passassero i micro per il terminal. Lo zaino pesava una tonnellata e la fermata non arrivava mai. Chissà se gli altri si sarebbero svegliati in tempo per partire. Quando ero arrivato a Sucre, tre giorni prima, avevo ricopiato gli orari degli autobus per Potosí. Ma stranamente quello delle undici e mezza non c’era. Pioveva a dirotto. Speravo proprio che non fosse stato soppresso per impraticabilità della strada. Comprai un biglietto per l’autobus successivo, quello delle dodici e trenta. Ogni tanto qualche venditore mi proponeva l’acquisto di oggetti incredibili. Uno mi offrì “a poco prezzo” un bersaglio per le freccette, un altro insistette perché comprassi un gigantesco peluche a forma di cane. Mi sentivo sottosopra. Prima di partire mangiai qualcosa. Pensavo che sarei stato meglio, invece mi colse un abbiocco irresistibile. Dormii per un’oretta, col viso schiacciato tra il sedile e il vetro. Quando mi svegliai ero più rovinato di prima. L’alone di condensa in corrispondenza del naso si restrinse fino a scomparire. Fuori faceva freddo. Il vetro era punteggiato di piccole gocce d’acqua. Il tempo era indubbiamente cambiato da quando ero salito di quota. Nei giorni precedenti il cielo si era riempito di nuvolette bianche, che man mano avevano lasciato il posto a nubi sempre più scure e minacciose. Ma per fortuna la strada era perfettamente asfaltata e l’autobus procedeva tranquillo su per gli spettacolari tornanti. I binari della ferrovia per un certo tratto seguivano il tragitto della strada. Ma nessun treno li percorreva più da tempo. Il processo di privatizzazione delle ferrovie aveva avuto finora, come unico risultato, la chiusura dell’intera linea da Tarabuco a Río Mulatos, che si innestava sulla linea principale La Paz-Uyuni. Quando ero andato alla stazione di Sucre per informarmi sugli orari, avevo scoperto che in una parte dell’edificio semiabbandonato era stata ricavata una biblioteca realizzata con fondi olandesi. Sui binari deserti era rimasta solo una vecchia locomotiva a vapore per la gioia dei bambini. Alcuni ragazzi giocavano a calcio tra i rottami e le attrezzature arrugginite. Più in là, sulle vecchie panche di legno, alcune coppiette si scambiavano tenerezze. Era un quadretto tutto sommato idilliaco, nella sua tragicità. Rimaneva però il fatto che Sucre, nonostante sia la capitale – i sureños sono molto suscettibili su questo argomento e se la prendono a morte se uno pensa che sia La Paz la capitale – non aveva collegamenti ferroviari con il resto del Paese. E la strada per Santa Cruz era una pista disastrata. L’autobus seguitava a salire, rivelando ad ogni curva dei panorami stupendi. Di pari passo aumentavano il freddo e il senso di stordimento provocato dall’altitudine. Tirai fuori il sacchetto di coca dallo zainetto e iniziai a masticare le foglie, con calma, una ad una. Il vecchietto seduto di fianco a me mi osservava incuriosito, quasi contento.
“Vuole?” Non si fece pregare. Sorrise con riverenza e affondò la mano. I giovani boliviani, sempre alla ricerca di modernità, consideravano quest’abitudine come una disgustosa usanza degli indios e ne evitavano l’uso. Spesso mi sentivo riprendere con frasi del tipo: “Foglie di coca? Ma le mastica mio nonno!” Per questo il vecchietto era piacevolmente sorpreso. Chiacchieravamo serenamente, pescando di tanto in tanto nel sacchetto che tenevo a disposizione sul bracciolo. Superata la tranca, subito dopo l’aeroporto, l’autobus si arrampicò sull’ultimo tornante. Dopo la curva il vecchio mi indicò una montagna color ruggine dalla cima perfettamente conica. Con tono solenne mi disse: “El Cerro Rico de Potosí.” POTOSÍ Potosí sorge a più di quattromila metri d’altezza e il sole, coperto dalle nuvole, non riusciva a scaldare l’aria. Faceva veramente freddo. Il centro si trovava a circa un chilometro dal terminal, in fondo ad una lunga salita. Divisi il taxi con una ragazza greca e col suo amico boliviano. Rombando e cigolando ci portò in un tranquillo residencial nei pressi di Plaza Campero. La coppia di anziani gestori mi assegnò una cameretta che dava su un ballatoio al primo piano, col pavimento in legno ed un invitante lettone in ferro battuto. Da una finestrella si vedeva il cortile interno più in basso, abbellito con piante e grossi vasi di fiori. Mi infilai il piumino e uscii alla scoperta della città. C’era una massiccia presenza di turisti, molto più che a Sucre. Alcune facce, poi, non mi erano del tutto nuove. L’itinerario che stavo seguendo da Santa Cruz è uno dei più frequentati della Bolivia, era inevitabile rincontrarsi. Nelle vicinanze del Río Huana Mayu è stato eretto un arco in ricordo del porto di Cobija, sul Pacifico, sottratto dal Cile. Da lì la città si abbassa gradatamente per poi risalire fin sulle pendici del Cerro Rico, alto 4824 metri. La sua sagoma scura si stagliava nettamente contro il cielo pallido.
Nel 1545 gli spagnoli scoprirono che era interamente composto d’argento. Il Cerro passò dal mito alla leggenda. A metà del XVII secolo era già arrivato al porto di Siviglia qualcosa come sedicimila tonnellate d’argento, senza considerare che ingenti quantitativi erano stati predati dai pirati o avevano preso la rotta delle Filippine. Si favoleggia che in tre secoli d’attività la Spagna abbia ricevuto da Potosí metallo sufficiente a costruire un ponte d’argento dalla cima del Cerro Rico fino al portone del Palazzo Reale dall’altra parte dell’oceano. Nel 1572, per incrementare la produttività delle miniere, il viceré de Toledo approvò la Ley de Mita. Presso gli incas la mit’a era una tassa di lavoro, per cui ogni uomo sano ed abile era obbligato a fornire una certa quantità di prestazioni all’impero. Agli incas sorrideva l’idea di guadagnarsi il favore dell’Inca figlio del Sole. I benefici delle loro fatiche, inoltre, tornavano a loro diretto vantaggio. Gli spagnoli invece imposero a tutti gli schiavi sopra i diciotto anni di lavorare per periodi di quattro mesi nelle profondità delle miniere a turni di dodici ore, senza mai uscire, e solo per arricchire se stessi. Chi da secoli aveva sempre considerato il Sole una divinità suprema venne costretto a privarsi della sua luce. In quell’altopiano brullo e inospitale, sferzato da venti gelidi, crebbe dal nulla una città che nel XVIII secolo arrivò a contare centosessantamila abitanti. Potosí divenne la città più ricca d’America, nonché una delle più grandi del mondo. Si dice che perfino i ferri dei cavalli fossero d’argento. In quella frenesia di cupidigia, di ostentazione e di sperpero procurata da tanta ricchezza vennero innalzate più di trenta chiese splendidamente adorne per la gloria del Signore. Non importa se costarono la vita di otto milioni di suoi figli, sempre che indios e negri fossero considerati tali. Potosí è il simbolo di una tragedia immane, che pochi conoscono e che molti preferiscono ignorare. E’ il simbolo dell’America Latina violata e depredata dei suoi tesori e mantenuta, tuttora, in schiavitù da quell’oligarchia che oggi regge le sorti del mondo. La Bolivia, che ha alimentato per secoli Paesi ricchi, oggi, dopo Haiti, è la nazione più povera del continente.
Uno dei maggiori problemi che affliggono Potosí oggi è la mancanza di acqua. Mi avevano avvertito che l’erogazione era discontinua e che di solito veniva interrotta nel pomeriggio. Quindi niente bucato e per la doccia orario unico la mattina. Non capivo questa usanza della doccia mattutina, quando sei imbambolato e infreddolito. Per me non c’è niente di meglio di una bella doccia e poi a letto. Eppure in tutti i posti dove andavo vigeva questa consuetudine. In barba al divieto lavai un paio di calze. “Quanta acqua vuoi che consumi?” pensai con tracotanza. Aprii il rubinetto per sciacquarle e, giusta punizione, non ne uscì più nulla. Mi toccò usare l’acqua del water. Dopo cena, quando tornò l’acqua, le risciacquai nuovamente.
La mattina seguente andai al mercato a comprare un po’ di zucchero per il mate. Il cielo livido non prometteva nulla di buono. In Calle Bolívar incontrai Cesare, Andy e François.
“Ehilà, quando siete arrivati?” “Ieri sera alle nove. Ci siamo ripresi in tempo per prendere l’ultimo autobus. L’altra notte è stato un massacro.” “Non parlarmene. E adesso che fate?” “Andiamo a visitare le miniere, ci hanno detto che meritano.” “Ah sì? Ci andrò domani, allora. Oggi non ne ho voglia, con questo tempo.” “In che albergo sei?” “Al Felcar, è lì vicino…” “Sì, sì, lo sappiamo. Ci siamo stati ieri, ma era pieno. Allora siamo andati al Copacabana. E’ più giù, verso la piazzetta. Oh, scappiamo che piove. Se non dovessimo incontrarci qui in centro, vieni a cercarci in albergo, ok? Ciao.” Ritornai in camera e mi preparai un mate de coca. Caldo e tonificante. Quella mattina incontrai anche Tom, in un salone della Casa Real de la Moneda, l’antica zecca reale che coniava le monete d’argento per la Spagna, ora trasformata in museo. Mi disse che sarebbe partito nel pomeriggio per Uyuni.
“Sai che prima ho incontrato gli altri?” “Accidenti, mi sarebbe piaciuto rivederli. Beh, salutameli e dì a François che gli scriverò un’e-mail.” A metà giornata il sole fece capolino tra le nubi e cominciò a scaldare terribilmente. Tanto che dovetti tornare al residencial a lasciare giù il piumino. Ma la schiarita durò poco. Quando salii sul tetto del Convento de San Francisco, una spesso strato di foschia gravava pesantemente sulla città. Il panorama sulla città era incredibile. I campanili delle chiese riccamente decorate, i monumenti e i palazzi coloniali dipinti con tinte pastello apparivano fuori luogo in quella scenografia di montagne altissime. Potosí conta adesso circa centomila abitanti ed è la città più alta del mondo di queste dimensioni. Faceva un freddo cane e presto ricominciò a piovere. Ritornai di corsa al residencial, rimpiangendo il caldo piumino che avevo lasciato in camera. Arrivai bagnato e intirizzito e misi a bollire un pentolino d’acqua per il mate.
Verso sera smise di piovere. Andai a mangiare al comedor popular sopra il mercato coperto. Per arrivarci bisognava percorrere tetri corridoi e salire su anguste scalinate. Forse anche per questo era poco frequentato. Le cuoche erano intente a friggere e a spignattare, mentre sui fornelli bollivano enormi pentoloni anneriti. Ai tavoli era seduta solo qualche famiglia e alcuni lavoratori del mercato sottostante. Ero l’unico straniero, e non solo nel senso politico del termine. Gli altri erano tutti indigeni. L’apparizione di un cliente ridestò l’ambiente. Le signore mi invitarono a prendere posto, sciorinando con la consueta cantilena l’elenco dei piatti disponibili. Per me uno valeva l’altro, tanto si assomigliavano tutti. Andai nell’ultimo comedor, quello solitamente più penalizzato dalla lontananza dall’entrata. Mangiai come una ruspa.
In centro incrociai Cesare. “Ciao. Vieni che sto andando al ristorante. Gli altri sono già lì che mi aspettano.” C’erano anche le quattro danesi e… La tanica! Era rimasto ancora un litro abbondante di rum. La guardai inorridito e mi immaginai la scena di loro sull’autobus con quella roba lì.
“Ma non è ancora finita?” domandai.
“No, ma stasera l’ammazziamo” rispose Andy con un sogghigno malefico. Ordinai una birra.
In fila indiana, con la tanica ad indicarci la via, correvamo a ridosso dei muri per ripararci un minimo dalla pioggia che aveva ripreso a cadere leggera e fastidiosa. I tetri palazzi di pietra che esibivano insegne nobiliari sui portoni barocchi sembravano i fantasmi di una ricchezza perduta. Stavolta giocavano in casa le ragazze. Arrivammo al loro hostal urlando e ridendo. François era stanco e febbricitante. Ci disse che non avrebbe retto un’altra serata come l’altra. Ci salutò e corse via. Non facemmo nulla per trattenerlo. Dopotutto era un concorrente in meno. Ma il rapporto numerico che ci vedeva favoriti venne ribaltato dall’arrivo di due giovanissimi norvegesi, loro vicini di stanza. La serata scivolò via piacevolmente tra solenni brindisi e lunghissime chiacchierate. Raccontai del mio viaggio in Danimarca e delle mie disavventure in Paraguay. Anche Valerie c’era stata, ma a lei era piaciuto tantissimo. Mi dilungai ad elencare una serie interminabile di epiteti contro il Paraguay, aiutato in questo anche dal rum. Il livello alcolico mi aveva già portato alla fase logorroica. Solo che ci fu un equivoco, perché io dicevo: “Odio il Paraguay” invece loro capivano: “Ho mangiato il Paraguay.” “Oh, you’re so funny” continuavano a ripetermi.
Ingrid invece ci raccontò del suo viaggio in Italia.
“Ti è piaciuta?” le domandai.
“Oh yeah, fuck, fuck, fuck!” mi rispose, mimando con la mano e ridendo fragorosamente.
“Avrà fatto l’Erasmus a Oxford” pensai, imbarazzato da tanta spregiudicatezza scandinava. Andy e Cesare ci stavano provando brutalmente. Dopo aver svuotato la tanica ero ormai in fase calante e mi stavo vieppiù infossando nel materasso. Mi feci forza e mi tirai su. Mi infilai il piumino, salutai tutti ed uscii fuori. L’aria algida mi svegliò per un attimo, ma il mio senso dell’orientamento si era già bello che assopito. La pioggia fine, come neve, attutiva il rumore dei miei passi. Dopo qualche tentativo andato a vuoto riuscii finalmente a trovare la strada giusta. La porta del residencial era chiusa. Dovetti suonare per farmi aprire. Siccome un minimo d’educazione depone sempre a favore, cercai di prepararmi una bella frase di circostanza. Ma non mi ricordavo più in che lingua pronunciarla. Sentii il rumore della serratura e apparve il vecchio, con una faccia che parlava da sola.
“Buona notte.” Credo proprio che lo dissi in italiano. Corsi di sopra temendo le sue ire e mi chiusi in camera.
“Vuole un mate de coca?” Era abitudine delle agenzie offrire una tazza di mate agli escursionisti. Me l’ero già fatto in camera, ma bissai volentieri. Gli altri partecipanti erano due ragazze della Guyana Francese, un’australiana e due spagnoli di Barcellona. Quando fummo tutti pronti prendemmo posto su un micro. Ci inoltrammo nei quartieri poveri che si abbarbicano sulla montagna e ci fermammo per una breve sosta al Mercado Minero, un paio di comedores e una serie di misere stamberghe che si reggevano a malapena in piedi ai lati della strada fangosa. Vendevano gli arnesi necessari nei lavori di scavo, oltre alle immancabili bibite colorate. Nei primi tempi era invalso l’uso di regalare ai minatori foglie di coca o sigarette. Adesso l’usanza dei regali era diventata una consuetudine e la nostra guida ci fece intendere che non erano obbligatori, ma vivamente richiesti. Le venditrici lo sapevano e tenevano pronte delle buste preconfezionate. Ne comprai una che conteneva due candelotti di dinamite con rispettivi detonatori e un rotolo di miccia. Risalimmo sul micro e proseguimmo la salita. Ero euforico. In quale altro Paese una persona poteva girare tranquillamente per strada con un tascapane pieno di foglie di coca e di dinamite? Mano a mano che andavamo avanti le misere casupole di adobes si diradavano. Erano costruzioni relativamente recenti, perché le pareti delle vecchie case erano state vendute nei periodi di crisi per l’alta percentuale di stagno che contenevano Il panorama era avvilente, completamente sconvolto dalle attività minerarie. Il Cerro ha cambiato colore man mano che la dinamite lo ha svuotato e ne ha abbassato l’altezza. Detriti e rottami erano accumulati ovunque. Una patina grigio rossastra ricopriva tutto. Deviammo per una delle tante stradine che segnano il fianco della montagna. Minatori con carriole, pale e picconi salivano e scendevano senza sosta. Non c’era un filo d’erba. Si è stimato che ci siano circa cinquemila chilometri di gallerie nelle sue viscere, distribuite su venti livelli. E si è perso il conto delle entrate. E’ un gigantesco formicaio. Ci fermammo vicino ad una casetta cubica col tetto di lamiera. Dentro ci diedero una giacca impermeabile, stivali di gomma, un elmetto e una lampada a carburo di acetilene, indispensabile per rilevare la presenza del letale monossido di carbonio.
L’ingresso della miniera si trovava oltre i 4200 metri di altitudine. Alcune macchie rosse ricoprivano lo stipite dell’entrata. Era il sangue di un llama, sacrificato in onore della Pacha Mama per ottenere perdono, protezione e fortuna. Nell’immaginario collettivo la miniera è come quella dei sette nani, una bella galleria puntellata con travi di legno, liscia e dritta, magari con i binari per i carrelli. Provate a dirglielo voi! Un cunicolo stretto e scivoloso ci portò immediatamente in profondità. Ben presto ci trovammo avvolti dal buio più assoluto. Ci muovevamo a fatica sul fondo sconnesso ed irregolare, facendoci luce con le lampade che creavano cerchi di luce svolazzante. Respirando quell’aria pesante d’umidità, di gas e di polvere di silicio capivo perché i minatori perdono quasi subito il senso dell’olfatto e del gusto. La guida si divertiva un mondo a farci calare dentro pozzi verticali, arrampicare e strisciare. “E’ come Indiana Jones, no?” ci diceva tutto contento. Ogni tanto sentivamo un’esplosione propagarsi per i cunicoli. Le anguste gallerie si biforcavano, si incrociavano, si sovrapponevano. Uno dei tratti più difficili fu un budello lungo circa cento metri, perfettamente liscio ma alto al massimo un metro. Sembrava che non finisse più. Incontrammo un gruppo di minatori con le guance gonfie di foglie di coca. Sono chiamati pallacos, parola quechua che indica i raccoglitori di minerali delle miniere abbandonate. Erano tutti giovanissimi, per questo era ancor più allucinante pensare che erano destinati a morire entro dieci anni di silicosi polmonare. Apprezzarono molto i regali, anche se non lo diedero a vedere. Fecero una smorfia indecifrabile e si infilarono in un cunicolo. Spero che con la mia dinamite abbiano individuato una vena ricca di metallo prezioso. Alla fine arrivammo in una galleria cieca. In una nicchia posta sul fondo era sistemata una statua di ceramica alta circa un metro: el Tío. Era ricoperta di cera colata dalle candele che gli erano state collocate sulla sommità del capo. Per terra c’era una bottiglia di birra vuota e una di alcol puro, qualche mozzicone di sigaretta e numerose foglie di coca. Ci disponemmo ai lati, sui sedili scavati nella roccia. “I minatori” ci spiegò la guida “sono convinti che il cielo e la terra appartengano a Dio. Ma il sottosuolo e tutto ciò che contiene è sotto la giurisdizione del Diavolo. Ogni venerdì sera organizzano un cha’lla per placare le sue ire. Non avete una sigaretta?” Ne presi una dal pacchetto che avevo comprato al Mercado Minero e l’accesi. Tossii violentemente. Erano forse peggio di quelle russe, quelle col filtro lungo per poter essere fumate coi guanti spessi. La inserii nella bocca della statua e lasciai lì tutto il pacchetto. Festa grande per el Tío. La guida proseguì: “I giacimenti d’argento furono interamente saccheggiati dagli spagnoli. Oggi si estrae lo stagno che per secoli gettarono via come spazzatura. I minatori sono organizzati in cooperative, ma poco è cambiato dal tempo dei conquistadores. Tutto il lavoro viene ancora svolto a mano, seguendo le vene del minerale attraverso cunicoli infidi, scavando con punteruolo e pesanti mazze da dodici libbre e facendosi largo con la dinamite. In questo modo crolli e incidenti sono all’ordine del giorno.” Il ritorno fu traumatico. Non avevamo la minima idea di dove fossimo né a quale profondità ci trovassimo. Mi stava salendo la claustrofobia. Poi finalmente, in alto, la luce del sole. Arrancammo su per la difficile salita, e quindi uscimmo a riveder le stelle. Eravamo sbucati a qualche metro da dove eravamo entrati. Sporchi, stanchi e impressionati. Quella visita ci lasciò in uno stato di profondo turbamento. Noi, però, adesso ce ne tornavamo giù nel nostro mondo dorato. Per i minatori, invece, esisteva solo quella vita d’inferno.
“Ma quello l’ho già visto” pensai, “ne sono sicuro… Ma dove?” Amnesia. Continuavo a fissare dalla finestra della camera quel tipo appoggiato al parapetto del ballatoio. “Ma sì!! Che scemo.” Era Hans. Uscii fuori e vidi di fianco a lui Carola e Jürgen. Feci il giro della balconata e corsi verso di loro, impietriti dalla sorpresa. Baci, abbracci e gran casino, che fece uscire qualcuno dalle camere per vedere che cosa stesse succedendo. Non c’erano più stanze singole e Jürgen stava valutando se gli conveniva prendere una doppia da solo.
“Non c’è problema” gli dissi. “Io adesso sto in una singola. Potrei mollarla e trasferirmi in doppia con te.” “Se per te va bene, per me va benissimo. Ti ringrazio.” “Bisogna chiedere giù, ma non dovrebbero esserci problemi.” Entrammo nell’appartamento dei gestori, pieno zeppo di lenzuola ripiegate, di montagne di piatti impilati, di scatoloni e di cianfrusaglie varie, che lo facevano sembrare piuttosto il negozio di un rigattiere. Furono d’accordo. Dopotutto, meglio una singola vuota che una doppia. Gli raccontai gli avvenimenti degli ultimi dieci giorni e gli spiegai brevemente che cosa ci fosse d’interessante da vedere in città.
“Ah, le miniere. Come sono?” domandò incuriosito. “Voglio andarci domani.” “Beh, è un’esperienza memorabile, ma è allucinante. I cunicoli sono talmente bassi che ho fatto fatica io, figurati. Tu non so come possa farcela lì dentro.” “Non importa, voglio assolutamente visitarle.” “Ma non ti rendi conto. Pensa che dove sono stato io c’era un corridoio alto così. L’ho dovuto percorrere piegato in due e quando sono uscito dall’altra parte pensavo di non farcela più a rialzarmi. Non ce la faresti neanche in ginocchio.” “Mio nonno ha lavorato nelle miniere del Ruhr ed era alto come me.” “Come vuoi, ma io ti ho avvertito.” Finito il trasloco presi la salvietta e mi avviai verso il terminal. La vecchia ferrovia arrugginita incrociava Avenida Antofagasta. Davanti alla stazione abbandonata era stato allestito un mercatino d’antiquariato. Sui binari, invece, erano allineate numerose bancarelle frequentate da campesinos. Proseguii lungo il viale affiancato da un lunghissimo muro ricoperto di murales. In Plaza Chuquimia molti camion aspettavano di stipare quanti più posti possibili prima di partire per le loro destinazioni.
“A Tarapaya?” domandai al conducente di un micro. Annuì e mi invitò a salire. I passeggeri si prepararono finalmente a partire, mancava giusto un posto. Chiusi lo sportello scorrevole, ma si riaprì. Allora presi lo slancio e lo sbattei violentemente.
“Está bien” disse l’autista. La strada costeggiava un fiumiciattolo, che ben presto divenne più grosso grazie all’apporto di numerosi affluenti. La valle si stringeva sempre di più, finché ci ritrovammo a percorrere un canyon circondato da curiose formazioni di argilla rossa, sulle quali risaltava il verde brillante della scarsa vegetazione.
“Vai alla laguna?” mi domandò l’autista.
“Sì.” “¿A bañarte? Ah, ¡qué lindo!” Eh già, io a divertirmi e lui a lavorare. Mi sentivo una merda. Dopo il villaggio di Tarapaya passammo per l’ennesima volta sull’altra sponda del fiume. Al di là del ponte la strada divenne una pista fangosa ed accidentata.
“Ma, non era indicata di là?” “Sì, ma ti indico una scorciatoia, così arrivi prima.” Più avanti si fermò. Da una parte c’era il fiume, dall’altra la parete quasi verticale di una collinetta profondamente incisa dall’erosione. Mi disse di seguire un sentiero che saliva ripido fin sulla sommità. Mi salutò e ripartì, asfissiandomi coi gas di scarico. In cielo si stavano addensando delle nubi minacciose. Arrivai in cima nei pressi di una casetta di adobes abbandonata. Un piccolo ruscello alimentava una vasca di cemento, troppo grossa per essere un abbeveratoio per le bestie e troppo stretta per essere una piscina. Cosa che sarebbe apparsa comunque altamente improbabile, considerata l’ubicazione. Lasciai irrisolto l’enigma della vasca e seguii il ruscello, che mi portò dritto alla laguna.
In realtà si tratta di un laghetto vulcanico che occupa un cratere perfettamente circolare di cinquanta metri di diametro. L’acqua sgorga alla piacevole temperatura di trenta gradi. Non è stata ancora stabilita la sua profondità, ma gli indigeni sostengono che non abbia fondo. La laguna è chiamata anche Ojo del Inca. L’Inca Huayna Cápac, infatti, veniva fin qui dal lontano Cusco per curarsi con le sue acque prodigiose. Narra una leggenda che il sovrano fosse stato ammonito da una voce cavernosa simile ad un tuono, potojsi, di non scavare le pendici del monte Sumaj Orqo e di non estrarre il sacro metallo, perché era riservato a coloro che sarebbero giunti dall’aldilà. Gli spagnoli, ovviamente, ringraziarono. Quando arrivai c’era già un minibus di un’agenzia pieno di americani e una coppia di turisti francesi. Una mente criminale aveva concepito la costruzione di due orribili strutture, che dovevano sicuramente far parte di un progetto per lo sfruttamento turistico della laguna, miseramente fallito a giudicare dallo stato di degrado e di abbandono in cui si trovavano. Adesso giacevano lì, distrutte e vandalizzate. Per lo meno servirono a ripararci dalla pioggia. Dall’altra parte c’erano i resti di un vecchio balneario in muratura, forse di minor impatto ma non meno sgradevole. Come succede troppo spesso in Italia, anche qui molti tesori, invece di essere valorizzati e tutelati, sono abbandonati a loro stessi o, peggio, irrimediabilmente danneggiati. Quando smise di piovere andai su una delle alture circostanti per ammirare il paesaggio. Era incantevole. La laguna sembrava in bilico sull’orlo di un precipizio, attorniata da montagne dalle mille sfumature di colore incoronate di nuvoloni scuri. In breve la circonferenza della laguna si riempì di minibus, taxi e automobili che riversarono decine di turisti chiassosi. Tra i tanti riconobbi i due norvegesi della sera prima e l’australiana della miniera. Mi passò la voglia di farmi una nuotata.
Seguii la strada che scendeva a tornanti tra friabili calanchi. Dopo un giro effettivamente più lungo, giunsi infine al ponte. Mi sedetti sul parapetto di cemento in attesa del micro. Si fermò invece una jeep. Un tipo corpulento mi chiese se volevo un passaggio. Lo ringraziai e saltai su. Capii subito che mi aveva caricato perché aveva una gran voglia di parlare con uno straniero. Era un avvocato e si mostrò curioso di conoscere la situazione politica e giuridico legislativa dell’Italia. Cercai di rispondere alla raffica di domande, se non altro per ringraziarlo del passaggio, a scapito però del bellissimo panorama che ci scorreva davanti.
Di sera, gironzolando per il centro, vidi i tre tedeschi dietro le vetrate del Danish Coffee, una sorta di pub danese ante litteram. Mi sedetti al tavolo con loro e ordinai una birra. L’interno era tappezzato di bandiere, di gadgets e di fotografie della Danimarca. Un autentico santuario per nostalgici. E infatti dopo poco entrarono Lara e Ingrid.
“Toh, chi si vede. Voglia di Scandinavia?” “No, di scandinave” pensai con concupiscenza. “No, è che ho incontrato loro e allora… Però ero sicuro che vi avrei trovato qui.” “Tutto bene?” mi chiesero.
“Benissimo e voi? Avete visto gli altri?” “No, ci avevano detto che volevano andare a Uyuni. Credo che siano già partiti.” “Peccato, non li ho neanche salutati. Stamattina alle miniere ho incontrato Valerie ed Elke.” “Ah sì? Le abbiamo lasciate in camera. Non avevano voglia di uscire. Secondo noi a Elke piace Cesare. Dai, non ridere.” “Uaaaah e gol! Lo sapevo. E Cesare?” “E’ partito con gli altri.” “Eh già, deve tornare in Colombia… Ma voi, non vi fermate?” “Volevamo mangiare, ma stasera la cucina è chiusa.” “L’altro giorno ho scoperto per caso un altro Danish Coffee. Si trova nella parte bassa della città, vicino alla Iglesia de Copacabana, quella arancione. Non è lontana dal vostro hostal.” “Davvero? Proviamo a cercarlo allora. Ciao.” Alle sette salutai Jürgen e presi un autobus per tornare a Sucre. In quei giorni di pioggia erano cadute alcune frane, ma si riusciva a transitare ugualmente. Numerose squadre di operai erano impegnate a rimuovere i detriti e a consolidare i fianchi delle montagne. In Bolivia la manutenzione delle strade costa forse più che costruirle, ma non c’è alternativa. Il territorio è veramente ostile.
Arrivai proprio all’orario di chiusura delle scuole e mi ritrovai in fondo ad un micro, bloccato da una marea di studenti. Quando scesi non potei evitare di menare pesanti colpi di zaino ad altezza faccia. L’interesse e la curiosità che avevo suscitato all’inizio si trasformarono in fastidio, se non peggio. Tornai allo stesso residencial dell’altra volta e la signora mi assegnò la medesima stanza.
PUJLLAY Il cielo era spento e l’aria lattiginosa pungeva maledettamente a quell’ora del mattino. Pochi veicoli percorrevano rapidi le vie deserte, come una proiezione dei miei sogni. I lampioni accesi sembravano fioche fiammelle nella nebbiolina grigia. Feci segno ad un micro.
“Alla fermata degli autobus per Tarabuco?” chiesi al conducente attraverso la portiera aperta.
Mi fece cenno di montar su con la mano, più imbambolato di me. Ero l’unico passeggero. Attraversammo una periferia anonima, poveri edifici tutti uguali che a quell’ora mostravano tutta la loro miseria. Eravamo lontanissimi dal centro, coi suoi palazzi, le strade lastricate, le ricche chiese e le piazze alberate. Il turista conosce solo questa parte di città. Ai margini però ne esiste un’altra, ma sembra non esistere, come chi ci abita.
Lungo i binari della ferrovia erano incolonnati alcuni minibus. A dispetto dell’orario tutta la zona era già in fermento. Arrivai giusto in tempo per perdere il primo mezzo, che partì proprio in quell’istante. Per il secondo bisognava attendere che i posti fossero tutti occupati. Sui bracieri ardenti alcune donne facevano bollire dei pentoloni di jugo de quinua. Ne presi un bicchiere. Era talmente denso che non riusciva a raffreddarsi. Ma a parte una mezza ustione mi scaldò davvero. Pian piano il minibus si riempiva. Arrivò anche una coppia di tedeschi. Lei aveva orecchini ovunque, lui una folta chioma rasta. La gente li osservava incredula, ma con un certo distacco. I bambini invece si avvicinavano incuriositi e li fissavano spudoratamente. Erano attratti soprattutto da quelle strane trecce bionde. Allungavano la mano per toccarle e poi correvano ridendo dalle madri. Il tedesco si divertiva un mondo a spaventarli. I ventisette posti a sedere erano già tutti occupati, ma continuava tranquillamente a salire gente. L’autista si decise a partire solo quando a bordo c’erano non meno di quaranta passeggeri. A circa metà del percorso la strada divenne una pista sterrata in pessime condizioni. Molti scendevano durante il tragitto e si incamminavano coi numerosi bagagli lungo tortuosi sentieri che si perdevano tra le colline.
Appena arrivato mi rivolsi all’unico alojamiento del villaggio. Era un bel palazzo coloniale, un tantino malridotto forse, con un patio circondato da un porticato pieno di fiori e di cianfrusaglie. Il vecchio gestore mi mostrò una camerata con sei letti.
“Non c’è una singola?” gli domandai.
Scosse la testa. “Niente singole” rispose.
C’era poco da fare, non è che avessi molte alternative. Lasciai lo zaino su un letto e uscii. Mi soffermai ad esaminare il cortile erboso. Avrei potuto sistemarci la tenda. Ma chissà se me l’avesse permesso… E comunque minacciava di piovere da un momento all’altro. Tarabuco è un tranquillo paesino a 3200 metri di quota, che si sveglia una volta alla settimana per il mercato della domenica. Il 12 marzo 1816 i suoi abitanti si ribellarono contro la guarnigione spagnola che aveva occupato la zona. Per commemorare tale evento nella seconda domenica di marzo viene organizzata la Pujllay, conosciuta anche come Carnaval de Tarabuco. In giro c’era pochissima gente e la vita scorreva coi consueti ritmi rurali. Nessuno avrebbe sospettato che il giorno dopo tra quelle vie silenziose si sarebbe svolta una delle più grandi feste della Bolivia. Su una panchina a pochi passi da me era seduto un ragazzo vestito come un rapper newyorkese. Insieme a lui c’era una giovane che indossava invece gli abiti tradizionali. Ad un certo momento una vecchia campesina marciò spedita verso la coppia eterogenea. Non riuscivo a capire se parlasse quechua o uno spagnolo dialettale, so solo che gliene disse un totale e gli prese il berretto della Nike. Poi restò lì sempre più inviperita a terminare la predica. La ragazza che stava con lui si alzò e andò via, lasciandolo solo a sorbirsi il resto. Alla fine anche la vecchia se ne andò, portandosi via il berretto e lasciandolo lì visibilmente affranto. Nella mia ricostruzione dei fatti mi convinsi che la campesina fosse una parente del ragazzo che mal tollerava che vestisse quei barbari indumenti. Faceva un freddo cane e gli abitanti del villaggio calzavano semplici sandali fatti con copertoni. In giro cominciavano a vedersi i primi turisti convergere spaesati verso la piazza. Tre boliviani palesemente ubriachi insistevano perché bevessi con loro un tremendo intruglio che doveva essere Pepsi e rum. Uno di loro era il sosia sputato di Giuliano Gemma. Quando glielo dissi sembrò molto contento di assomigliare ad un attore italiano. Era il più sano dei tre, sorriso viscido ed eleganza da narcotrafficante. Mi passò nuovamente la bottiglia di plastica. “Com’è?” mi domandò.
Feci una mezza smorfia. “Insomma.” Si lamentò con l’altro, un energumeno tutto vestito di nero, che provvide subito a versarci dentro un goccio di alcol puro a novantacinque gradi. Il terzo ormai era andato e farfugliava frasi sconnesse. Tirò fuori una busta di foglie di coca e ne masticò qualcuna con del comunissimo bicarbonato di sodio. “Ti piace la coca?” “Sì, ce l’ho anch’io.” “Ah, qué bien. E la cocaina?” “Non saprei.” “Sei un agente della D.E.A.?” mi chiese quasi per scherzo.
Il tipo rovinato si convinse che lo fossi davvero e iniziò ad insultarmi e a minacciarmi. Per fortuna che gli altri due, accortisi del casino che avevano combinato, intervennero per sedarlo. Si disinteressò di me, ma cominciò a molestare tutti quelli che gli capitavano a tiro. Alla fine dovettero portarlo via a forza. Di fianco a me due belgi che avevo conosciuto a Potosí erano sconvolti. Ma il mio potere catalizzante andava ben oltre e fu subito la volta di Mario, un boliviano di Cochabamba che aveva vissuto a lungo in Italia. Capelli lunghi leggermente mossi, barba rada, occhio fessurato, labbra verdi e pezzettini di coca tra i denti. Non credo che fosse particolarmente fuori. Era uno di quelli che ce l’avevano addosso perenne, ma tranquilla. Mi raccontò della sua permanenza a Pisa e del suo ritorno in Bolivia insieme ad un amico italiano, che restò per tre anni a Cochabamba prima di fare ritorno in Italia più marcio di prima. Suonava la chitarra e vendeva gioielli artigianali. Mi regalò una collana fatta con perline di terracotta smaltata, che porto al collo tuttora. Camion e autobus scaricavano gente in continuazione. Molti erano turisti che avevo già intravisto in giro. Mario incontrò degli amici e scattò immediatamente l’invito a bere. Li seguimmo fino ad una casetta ai margini meridionali del villaggio, al di là di un piccolo ruscello. Era intonacata esternamente, mentre all’interno erano ben visibili i mattoni di fango con cui era costruita. Un vecchio taciturno ci accolse in una stanza piena di anticaglie e ci fece passare in un salone più ampio, dove c’erano solo alcuni tavoli e due botti di chicha. Aprì un’altra porta per illuminare l’ambiente, poi alzò il coperchio di una botte e immerse una caraffa nella brodaglia schiumosa. L’asciugò con uno straccio e ce la portò al tavolo con una mezza zucca come bicchiere, una unica per tutti. Gli amici di Mario riempivano la zucca e se la passavano. Prima di bere il primo sorso versavano un goccio di chicha sul pavimento di terra battuta. Questo rito di origine incaica prende il nome di t’inqa e rappresenta un momento di comunione con la Terra. Quando toccò a me ripetei l’offerta alla Pacha Mama e bevvi tutto d’un fiato. Non era filtrata ed aveva un sapore leggermente acidulo. Ma dopo l’ennesima zucca non ci feci più caso. Ognuno tirò fuori il proprio sacchetto di coca. Era un passaggio continuo di foglie, di chicha e di pipe di stagnola cariche di marijuana. Qualcuno tirò fuori un charango e attaccò a suonare. E’ una piccola chitarra con dieci corde accoppiate montate su una cassa armonica ricavata dal quirquincho, il carapace di armadillo. Gli altri lo seguivano con quenas, semplici flauti di legno, e con siqu, strumenti a fiato costituiti da due file di canne di bambù, una di sette e l’altra di sei, legate insieme in ordine di lunghezza, conosciuti anche come zampoñas. Suonavano canzoni d’amore e di protesta politica, canzoni boliviane contro lo strapotere della musica inglese e americana. Canzoni che non soltanto provocavano emozioni, ma che li riscattavano dalla loro miseria. Li salutai sulle note de viento e uscii.
Fuori era già calata la notte. Nel corso del pomeriggio il villaggio si era riempito di gente e di bancarelle che avevano alterato i miei punti di riferimento. Non sapevo più da che parte andare. Provai a seguire la musica allegra che si propagava per i vicoli e in breve arrivai in piazza. Una gran folla danzava al suono di una banda. Ben presto diversi gruppi musicali riempirono l’aria con le note trascinanti dei loro strumenti. L’atmosfera cominciava a riscaldarsi. In cielo erano apparse tutte le stelle del firmamento, che facevano ben sperare per il giorno dopo. Ma nessuno aveva voglia di aspettare. I festeggiamenti attesi per un lungo anno esplosero incontenibili e contagiarono tutti. L’alcol scorreva a fiumi. La piazza era un tripudio.
Quando tornai in albergo c’erano sei tende piantate nel prato. Una di queste era di Roberto, un rasta di Saronno che viaggiava insieme ad un olandese coi capelli verdi. Il gestore mi disse che mi aveva trasferito in una stanza doppia. C’era uno zaino appoggiato ad un letto. Cacciai il mio sull’altro.
“Vuoi qualcosa per sognare?” mi chiese sotto il patio un cileno vestito come un santone indiano, con tanto di turbante in testa.
“In che senso?” gli risposi.
“Vedi, questo” e mi mostrò una struttura di filo di ferro “lo metti sul letto e ti fa fare dei bellissimi sogni.” “No grazie, non ne ho bisogno. Ho già provveduto coi metodi tradizionali.” Non sopporto questo mito dell’India sempre e comunque. Se ne avrò voglia ci andrò. Ma per il momento mi trovavo in Bolivia.
Quando mi svegliai scoprii che in camera c’era il basco che avevo conosciuto il giorno prima. Ci teneva a sottolineare che era basco e non spagnolo. Come quell’altra, sempre di ieri, orgogliosa di essere catalana. “Ma chissenefrega” pensavo, mentre aspettavo che bollisse l’acqua per il mate. C’era una giornata stupenda ed ero di ottimo umore. Tutti i negozi di artesanía esponevano all’aperto i loro tessuti colorati. La piazza e le strade secondarie erano gremite di bancarelle coperte con teli di plastica per ripararsi dal sole. Uomini e donne dei villaggi vicini con i loro magnifici abiti tradizionali si aggiravano in cerca di un buon affare. Attorno alla piazza erano stati esposti degli striscioni che pubblicizzavano marche di birra. Fotografi e giornalisti si muovevano come forsennati con le loro costose attrezzature. A mezzogiorno cominciò la sfilata dei rappresentanti delle sessanta comunità della zona. In mezzo ai cortei i musicisti suonavano lunghi flauti di legno. Indossavano i caratteristici ponchos a fasce orizzontali nere ed amaranto separate da sottili strisce gialle, pantaloni bianchi al ginocchio e sandali. In testa portavano singolari monteras di cuoio che ricordano la forma degli elmi dei conquistadores. I danzatori che stavano all’esterno calzavano zoccoli di legno molto alti a cui erano applicate sonagliere simili a speroni ottenute con due dischi metallici, spesse calze di lana che lasciavano fuori il piede, ampi pantaloni bianchi al ginocchio, un abito nero stretto in vita da un’alta cintura di pelle munita di campanellini, una chuspa a tracolla, un unchuca, una sorta di poncho molto ridotto ricamato a mano, un mantello rosa e una montera ornata con tre fiocchi bianchi. Improvvisamente il cielo si oscurò e con un tempismo che aveva dell’incredibile si scatenò un temporale violentissimo. Non riuscivo a capacitarmene. Quella mattina, col sole che c’era, nessuno se lo sarebbe mai immaginato. Tutti cercavano un riparo di fortuna sperando che la pioggia cessasse al più presto. E invece no. Non solo non diminuiva, ma ben presto assunse le proporzioni di un autentico diluvio. Schivai una marea di persone incredule e approdai ad un bar. I turisti erano imbufaliti, il barista era raggiante. La gente della vallata, che aveva aspettato per un anno questa festa, reagiva come chi è abituato da sempre ad ogni genere di avversità. E la pioggia era sicuramente il minore dei mali. Anzi, i campi ne avrebbero tratto giovamento e per un’economia basata quasi esclusivamente sull’agricoltura era un’autentica manna. La festa, tanto, ci sarebbe stata anche l’anno venturo, la fame invece era sempre alle porte. Dopo qualche birra in compagnia dei belgi maturai la decisione di fermarmi lì anche per quella notte. Era inutile tornare a Sucre. Tanto valeva aspettare il giorno dopo, sperando che nel frattempo smettesse di piovere. Per tutto il pomeriggio una teoria continua di autobus e di camion stipati all’inverosimile portò via visitatori e campesinos. Di sera smise di piovere e il villaggio tornò alla consueta tranquillità. Per terra era rimasta solo qualche traccia dell’evento appena trascorso. Un alone di tristezza circondava la piazza. Ma forse ero io a vederla così. Nel comedor allestito all’aperto, vicino all’alojamiento, regnava la solita schietta allegria. Presi posto nella lunga tavolata illuminata dalle lampade a petrolio e festeggiai con amici improvvisati la fine di un’altra giornata. Nel patio erano rimaste solo due tende, bagnate fradice e mezze imbarcate.
Alle sei del mattino il villaggio era già operativo. Agli angoli della strade enormi pentoloni riscaldavano gli animi infreddoliti con jugos de quinua e riso con carne. Non c’era alcuna differenza tra colazione, pranzo e cena. Molti campesinos indossavano ancora gli abiti della festa. Minuscole donne camminavano scalze sotto il peso di giganteschi fagotti di merce, legati alla schiena e alla fronte con corde grezze. I camion si preparavano a partire per il villaggio dove si teneva il mercato del lunedì. Dai cassoni spuntavano numerosi sombreros di feltro rivestiti con buste di plastica.
Alle nove arrivai a Sucre. Comprai un biglietto per Tarija e depositai lo zaino. Passeggiai un paio d’ore per il centro e tornai al terminal con una discreta fame. La placai in un ristorantino caratteristico che si trovava giusto di fronte, dall’altro lato della strada. Una vecchia india grembiulata mi servì un ottimo almuerzo. Ormai ero talmente assuefatto allo stile di vita boliviano che non mi faceva più effetto la pasta stracotta servita come contorno. Non so da quanto tempo non bevessi più acqua, andavo avanti a cerveza e a soda.
Sull’autobus conobbi Karl, un tedesco di Colonia, e un australiano di chiare origini italiane: si chiamava Dino Scungio. I suoi genitori erano emigrati tanto tempo fa da Napoli e dopo un lungo viaggio in nave erano arrivati a Melbourne. Viaggiava per sei mesi con un biglietto Round the World. Il Sudamerica era la tappa iniziale. Avrebbe proseguito poi per il Sudafrica e quindi per la Thailandia prima di ritornare in Australia. A Potosí scese. Salì invece una funzionaria che pretese che pagassimo l’odioso balzello. “Mi scusi” obiettai, “ma questo è un autobus diretto. Io l’ho già pagato a Sucre il derecho de terminal, perché devo pagarlo anche qui, quando non metto neanche giù il piede e il terminal lo vedo soltanto dal finestrino?” Fu irremovibile. Lo fui anch’io, e non per il boliviano e mezzo. Ma siccome insisteva, alla fine le diedi una banconota rossa da cento bolivianos, di quelle che solo a vederle la gente inorridiva e chiedeva: “¿No hay sencillo?” Certo che ce l’avevo, ma puntavo proprio sul fatto che il resto in Bolivia è una delle cose più difficili da trovare. Infatti, dopo un po’ tornò sconfitta e mi restituì la banconota. L’autobus aggirò il Cerro Rico valicando un passo a più di 4300 metri di quota. Il paesaggio montano era di una bellezza esemplare. La strada si addentrò quindi in un falsopiano punteggiato di lanosi alpacas al pascolo. Duemilaquattrocento metri più in basso, vicino alla frontiera con l’Argentina, c’era Tarija. Ci arrivammo che ormai albeggiava.
SUD-OVEST Alle sette del mattino l’aria era piuttosto fresca, anche se quella temperatura a Potosí non si raggiungeva neanche a mezzogiorno. Il cielo era sereno come non lo vedevo da tempo. Il terminal si trovava su una viale a due carreggiate separate da curatissime aiuole. Era così nuovo e ampio che stonava non poco con le tranquille viuzze laterali. Su un edificio dall’altra parte del viale svettava l’insegna del sindacato dei raccoglitori della coca. Lo superammo e ci inoltrammo all’interno della città. Ma era ancora troppo presto per svegliare un potenziale albergatore. Ci fermammo nel Parque Bolívar per riprenderci dalla notte sull’autobus. Karl tirò fuori un ingegnoso fornellino a nafta, andò alla fontanella a riempire un pentolino d’acqua e lo mise a bollire.
“Coca o yerba mate?” gli proposi.
Ci pensò su, poi optò per il mate.
Viveva da sei mesi a La Paz. Ne era innamorato e l’aveva girata in lungo e in largo. Si era preso una breve ‘vacanza’ ed era venuto direttamente a Tarija per la vendemmia di marzo. Questa regione infatti è famosa per i suoi vini, simili per qualità a quelli argentini e cileni.
Dopo vari tentativi trovammo una camera doppia ad un prezzo decente in un alojamiento di fronte al tribunale, “con agua caliente” ci assicurò il gestore. Ma soltanto un eschimese l’avrebbe potuta considerare calda. Col caldo che uscì fuori più tardi sarebbe stata l’ideale, ma in quel momento non l’apprezzai per niente e gli tirai tante di quelle maledizioni, che se solo ne attaccava la metà era rovinato. Karl si addormentò. Lavai i vestiti sul terrazzo, li stesi sui fili ed uscii.
Tornai in serata e lo trovai sul letto concentrato nei suoi esercizi di yoga. Eravamo rimasti d’accordo che saremmo andati ad assaggiare questo famoso vino. Si preparò in un attimo e uscimmo. Comprammo due bottiglie di rosso e ce le scolammo in una piazzetta alberata sotto alla Iglesia de San Roque, posta sulla cima di un’altura che domina la città.
“Prosit.” “Cincin.” Davvero buono. Un ragazzo venne da noi ad elemosinare. Gli regalammo le bottiglie vuote e gli indicammo il negozio dove le avevamo comprate, così gli avrebbero dato i soldi della cauzione.
Il giorno dopo ripercorsi a piedi il tragitto fino al terminal. Comprai un biglietto serale per Tupiza e lasciai lo zaino in oficina. C’era una bella giornata soleggiata. Decisi di andare a fare un bagno ai Chorros de Jurina, due cascate che si trovano vicino al villaggio di San Lorenzo. Ovviamente i micro partivano da tutt’altra parte della città. Ripassai davanti all’alojamiento e continuai fino alla Iglesia de San Juan, dove si trovava il paradero. Non ero ancora partito che ero già distrutto. Il paesaggio che circonda Tarija durante i secoli è stato brutalmente eroso dal vento e dall’acqua. Gli aridi altipiani erano segnati da profonde quebradas e barrancas, ricche di resti fossili di animali preistorici che si rinvenivano ovunque in grande quantità. Il micro mi lasciò nella suggestiva piazzetta di San Lorenzo, piena di palme e di fiori. Di fianco alla chiesa notai una salteñería. Affamato, entrai e ordinai tre salteñas. Sono piccoli calzoni ripieni di carne e verdura, originari di Salta in Argentina. Sgocciolano dappertutto e mangiarli per strada poteva diventare un problema. Mi aspettava una lunga camminata. Mi sedetti ad un tavolo e le gustai con calma.
Svoltai in una stradina acciottolata. Ben presto mi lasciai alle spalle le casette con magnifici balconi di legno e mi inoltrai nella campagna. Se le altre volte in cui avevo confidato in un passaggio non era passato nessuno, questa volta qualcuno doveva per forza passare. Ma il calcolo delle probabilità dice che se tu, camminando in aperta campagna sotto un sole cocente, hai l’uno per cento delle probabilità di essere caricato da un’anima caritatevole, anche se per novantanove volte quest’anima caritatevole non ha potuto compiere la sua buona azione quotidiana, la centesima volta avrai ugualmente l’uno per cento delle probabilità. E infatti, dopo sei chilometri mi arresi a questa spietata logica. Arrivato all’abitato di Jurina superai la scuola e svoltai a sinistra. Più avanti un fiume mi sbarrava il passo. L’acqua era alta e la corrente piuttosto forte. Non c’erano né ponti né guadi. Le provai tutte, cercai un punto di acqua bassa, costruii un viottolo di pietre. Alla fine passai bagnandomi fino alla cintola, rischiando di scivolare e di inciampare almeno un paio di volte sui sassi del greto. Seguii una stradina affiancata da muretti a secco ricoperti di cespugli spinosi. Mi trovai davanti un paio di bivi. Andai a naso: il primo lo azzeccai, il secondo no. Si trovava in corrispondenza di un fiumiciattolo. Dopo averlo guadato seguii le orme lasciate da un veicolo, ma presto si persero tra i sassi. E mi persi anch’io. In lontananza vedevo le cascate gemelle. Quel corso d’acqua non poteva provenire che da loro, ma le sue rive scoscese non mi permettevano di oltrepassarlo. Dopo varie peripezie riuscii a passare dall’altra parte e a ritrovare il sentiero giusto. Il paesaggio aveva un fascino selvaggio e meraviglioso. Una piccola valle verde circondata da dolci colline boscose, che la isolavano dall’ambiente arido dell’altipiano. Da una montagna tondeggiante coperta d’erba precipitavano due cascate alte circa quaranta metri, distanti un’ottantina di metri una dall’altra. In quella stagione erano al massimo della loro portata. Andai subito in quella di sinistra, che si abbatteva con fragore su una roccia nera e alimentava tre piscine naturali. Mi spogliai al volo e mi tuffai nudo nella pozza più alta. La montagna creava una specie di anfiteatro altamente suggestivo. Mi lasciai cullare dalle fresche acque e dallo scrosciare gioioso dell’acqua. Sonnecchiai poi sulle rocce lisce, seguendo il volo silenzioso dei gallinazos attraverso gli schizzi iridati che turbinavano tra le rocce. Mi rivestii e raggiunsi l’altra cascata, che stranamente precipitava su una roccia bianca. L’acqua formava solo due piccole pozze, ma sulla riva c’erano degli ottimi posti per piantare la tenda o per accendere fuochi. Al ritorno capii dove avevo sbagliato. Invece di guadare il fiumiciattolo e seguire le impronte dei pneumatici avrei dovuto oltrepassare il recinto della casetta, risalirlo e attraversarlo più a monte. Anche al ritorno non passò nessuno. A metà strada tra Jurina e San Lorenzo incontrai un tale intento a lavare un minibus con l’acqua di un fosso. Mi spiegò che quello era il capolinea. Micro e minibus non andavano oltre. Questa situazione paradossale era il risultato di una diatriba con i conducenti dei taxi, che avevano visto ridursi di molto la loro attività. Ero troppo stanco per proseguire ancora a piedi.
“Ah, Italia! Quanto costa l’aereo per venire qua?” Milionesima risposta: “Circa novecento dollari.” Strabuzzò gli occhi. “E come fai ad avere tanti soldi?” “Beh, calcola che in Italia un operaio guadagna quella somma in un mese.” “E un poliziotto?” “Mah, più o meno lo stesso.” Era sempre più sorpreso.
“Sì, però la vita là costa tantissimo” gli dissi come per giustificarmi. “Per esempio, un almuerzo costa dieci dollari e l’hotel più economico almeno venti.” “¡Carísimo! Io non ce la farò mai a guadagnare così tanto da permettermi un viaggio in aereo. Il minibus non è mio. Lavoro dieci ore al giorno per centocinquanta dollari al mese, quando va bene. E se lo danneggio sono guai.” Restai lì a chiacchierare finché il mezzo non fu pulito. Dopo una breve sosta a San Lorenzo per raccogliere altri passeggeri, mi riportò a Tarija. Passai il resto del pomeriggio in piazza ad ammirare le bellezze locali. Sulla strada per il terminal entrai in una cantina e comprai una bottiglia di vino per festeggiare un momento particolare. Bevvi qualche birra come aperitivo, poi mangiai una succulenta bistecca argentina. Alle undici l’autobus partì.
Arrivammo a Tupiza alle sette del mattino dopo. Alcuni passeggeri salutavano parenti ed amici che erano venuti a prenderli, salivano in auto e sparivano nel traffico. Gli altri raccoglievano i loro numerosi bagagli e si avviavano con passo deciso verso una ben precisa direzione. Io rimasi solo e un po’ frastornato di fianco all’autobus, guardandomi in giro per cercare di orientarmi. Sulla strada che costeggia la ferrovia i commercianti stavano allestendo le bancarelle del Mercado de Ferías. In Calle Junín, piacevolmente silenziosa, trovai un alojamiento ad un buon prezzo. La coppia di anziani che lo gestiva mi diede una camera per dodici bolivianos, con supplemento di cinque per una doccia calda. Su un portone di fianco all’entrata un cartello avvertiva che in quella casa erano tutti cattolici: i testimoni di Geova erano invitati a non suonare. In un giorno contavo di dare una rapida occhiata ai dintorni. Il mio vero obiettivo, da quando avevo lasciato Potosí, era Uyuni. Tarija e Tupiza erano due semplici deviazioni, brevi tappe d’avvicinamento alla regione dei laghi salati. Andai in stazione a vedere gli orari del treno per il giorno dopo. Il tren exprés per Uyuni partiva il martedì alle sette del mattino e il sabato alle diciotto e venti; il tren rápido il lunedì e il giovedì alle diciannove. L’unico autobus per Uyuni, quello della flota Boquerón, partiva il lunedì e il giovedì alle undici del mattino. Era giovedì. Non avevo voglia di aspettare fino a sabato. Decisi di prendere il treno quella sera stessa. Ma in biglietteria mi dissero che avrebbero cominciato a vendere i biglietti solo due ore prima della partenza. Tornai all’alojamiento e spiegai la situazione ai due simpatici vecchietti. Non ebbero il minimo problema e acconsentirono a tenermi lo zaino nella cucina del loro appartamento. Quando entrai c’era la figlia che stava dando da mangiare al suo bambino pestifero. Misi la bottiglia di vino al sicuro dentro lo zaino, avvolto nel sacco a pelo e in diversi strati di vestiti.
Contemplando i ruvidi contorni della Cordillera de Chicas profilarsi all’orizzonte, mi rendevo conto che a piedi avrei visto molto poco. Mi rivolsi pertanto ad un’agenzia, che mi propose un’escursione di tre ore a cavallo nella Quebrada de Palmira. Non avevo mai cavalcato in vita mia. Fu soprattutto per questo che accettai. Il ricordo della prima volta mi avrebbe sempre fatto tornare in mente la Bolivia. E anche tutte le volte che avrei mangiato un bel piatto di cavallo pesto con olio, sale, limone e prezzemolo… Mmm, che fame! Naturalmente avevano bisogno di qualche ora per contattare la guida e per procurare i cavalli. Ci accordammo per le due del pomeriggio. Così avrei avuto tutto il tempo per prendere il treno. Andai soddisfatto verso Plaza de Independencia, piena di palme slanciate e di fiori tropicali. La oltrepassai e proseguii per la strada in salita che conduce al Cerro Corazón de Jesús. Sulla cima si innalza, tanto per essere originali, una statua del Cristo. Una lunga catena di colline frastagliate simili ad enormi castelli di sabbia chiudeva la valle del Río Tupiza ad est. Sotto il Cerro un’accozzaglia di misere catapecchie coi tetti di lamiera si aggrappavano ai fianchi dei brulli canaloni che chiudevano la valle dall’altra parte. Ad ovest si estendeva un territorio lunare solcato da un labirinto di crinali e di calanchi. Durante la stagione delle piogge questi valloni si trasformano in torrenti impetuosi, nei mesi estivi invece vengono utilizzati come strade. Le nuvole ricoprivano il cielo con un velo biancastro. Il sole simile ad un tuorlo d’uovo in un mare d’albume non ci deliziava col suo caldo abbraccio e la temperatura, a 3000 metri di quota, era piuttosto freddina. Scesi giù per un sentiero che si immetteva in una strada sterrata fiancheggiata da baracche militari e dal cimitero. Sbirciai tra le sbarre arrugginite del cancello chiuso. Le lapidi a forma di casetta erano addobbate con fiori di carta bianchi e azzurri. Anche nella morte i popoli latinoamericani riescono ad essere, se non più contenti, almeno più allegri di noi. La strada finiva nel letto di un fiume praticamente asciutto, sul fondo di un ampio canyon. Risalii il fiumiciattolo ridotto ad un rivolo d’acqua. Sulla sabbia erano impresse le impronte di alcuni camion, che più a monte alcuni operai stavano riempiendo di ghiaia. Mano a mano che mi inoltravo nella quebrada le pareti si avvicinavano, si alzavano e diventavano più scoscese. Apparvero le prime formazioni geologiche conosciute come pinne. Si formarono grazie alla presenza di materiale impermeabile, presente adesso sulla loro sommità, che impedì all’acqua di scioglierle completamente. Alcune erano alte anche dieci metri. Un tempo tutte quelle collinette erano ‘piene’. Adesso erano simili alle alette di raffreddamento del cilindro di un motorino. Il verde dei cactus e delle macchie di arbusti che crescevano tra le pinne risaltava sul colore rosso e grigio della terra. Quel paesaggio così suggestivo sembrava essere stato creato apposta per un pittore. Si narra che Butch Cassidy e Sundance Kid, i due famosi fuorilegge, morirono nel corso di una sparatoria presso il villaggio di San Vicente, a cinquanta chilometri da qui. C’è chi sostiene, invece, che morirono in Patagonia. Altri sono convinti che riuscirono a tornare in patria e a far perdere le loro tracce. Ma si sa, eroi e avventurieri non muoiono mai. Seguii l’andamento serpeggiante del canalone finché si ridusse ad una strettissima gola chiamata El Cañón. Purtroppo non era possibile andare oltre, perché una diga di sassi ne ostruiva il passaggio. Ritornai sui miei passi e seguii il letto del fiume fino alla confluenza col Río Tupiza, a nord della città. Una vecchia con una sgargiante pollera rossa se ne andava da sola per la quebrada desolata.
Per circa un chilometro la strada che costeggia la ferrovia era tutto un susseguirsi di bancarelle. Comprai un altro sacco dello zucchero, perché avevo perso quello che avevo comprato a Copacabana. Lo tenevo dentro il materassino e probabilmente si era sfilato sull’autobus. Notai un certo movimento di persone che entravano e uscivano da un portone fatiscente nei pressi del Mercado Negro. Entrai anch’io. In fondo ad un lungo corridoio occupato da sabbia, sacchi di cemento, mattoni ed attrezzi si trovava un oscuro comedor. Era molto frequentato e infatti, a dispetto dell’ambiente tetro e disastrato, si mangiava ottimamente.
Arrivai in agenzia leggermente in anticipo, eccitato come un bambino al primo giorno di scuola. Francisco, la guida, giunse in perfetto orario in sella ad un cavallo bianco. Dietro, legato per la briglia, lo seguiva un cavallo nero. Sperando di non fare figuracce davanti ai passanti, montai sulla sella con la spavalderia ammirata in mille film. In realtà non sapevo neanche come si tenessero le redini. Mi diede un rametto verde da usare come frusta. Avrei preferito un paracadute. Uscimmo dalla città al passo, percorrendo la strada del cimitero e deviando poi a sud su un sentiero in salita. Il fondo sterrato adesso attutiva il rumore degli zoccoli ferrati.
“Ma non gli faccio male?” “Eh?” “Non gli peso?” “Ma noo, non ti sente nemmeno.” “Come si chiama?” “Non lo so, non è mio.” Delusione! Non potevo salire per la prima volta su un cavallo anonimo. Ci pensai sopra, poi, tutto contento, gli proposi: “Allora il mio lo chiamo Café e il tuo Leche.” “Ah, per me va bene” rispose Francisco sorridendo.
Ci inoltrammo per un lungo tratto su un’altura pianeggiante, mentre davanti a noi si estendevano i crinali frastagliati delle quebradas. Procedevamo affiancati parlando del più e del meno. “Avrei voluto studiare” mi confessò, “ma non ho potuto. Adesso lavoro per quell’agenzia e faccio altri lavoretti. Il mio sogno sarebbe possedere dei cavalli tutti miei e viaggiare. Mi piacerebbe andare in Argentina, ma è troppo cara la vita lì. Sono nato in un paesino qui vicino e non sono mai andato oltre Tupiza.” Risposi col sorriso di chi non sa cosa dire. Ma dentro di me, di considerazioni, ne facevo fin troppe.
Dopo aver superato la piccola Quebrada Colorada si aprì dinanzi un cañón arido delimitato da alte formazioni a pinna, la Quebrada de Palmira. Ci inoltrammo per un paio di chilometri in mezzo ad un paesaggio soprannaturale. All’improvviso i cavalli accelerarono l’andatura. “Stanno sentendo l’acqua” mi rassicurò Francisco.
“Ma come-accidenti-si fa as-stare at-taccati al-la sella!” balbettavo dentro di me. Francisco cavalcava con eleganza e naturalezza, come se fosse stato seduto sulla poltrona di casa. Io invece sobbalzavo come se avessi avuto sotto il culo un cavallo al trotto. Non riuscivo ad attutire le scosse telluriche che mi martoriavano il fondo schiena e si propagavano poi per tutta la colonna vertebrale. Anche le gambe, sacrificate in una posizione innaturale, mi provocavano delle fitte alla zona lombare. La quebrada terminava in un’arena naturale. Smontammo e lasciammo che i cavalli si abbeverassero.
“Vieni, ti mostro una cosa” mi disse Francisco.
“Che cos’è, un’ospedale?” pensai, camminando a gambe larghe.
Risalimmo il ruscello che scendeva da uno stretto pertugio tra le pareti verticali, scalando massi rocciosi che creavano piccole cascatelle. Questa fenditura nella collina argillosa custodiva un mondo nascosto e affascinante fatto di nicchie, di cavità e di grotte coperte dalla vegetazione.
Francisco fece un po’ di fatica a recuperare Café, che non aveva alcuna voglia di farsi strapazzare di nuovo. Per riacciuffarlo dovette tirarlo fuori da un fitto canneto. A metà del canalone prendemmo una deviazione sulla sinistra, vivacizzata da numerose guglie rigonfie sulla cima. “Questa è chiamata Valle de los Machos” mi spiegò, contagiandomi con una delle sue prorompenti risate.
Al ritorno mi mostrò alcuni graffiti rupestri incisi alla base di un massiccio monolito che si innalzava solitario in mezzo all’altipiano stepposo. Rappresentavano uomini armati e animali, quasi sicuramente llamas. Nei dintorni si potevano ancora ammirare i ruderi di antiche chullpas funerarie, erette con ogni probabilità dai chicas, un popolo preincaico dalle origini misteriose. Francisco si fermò di fianco ad un grosso cactus contorto e staccò una manciata di bacche verdi. Ne mangiò una e mi porse le altre. “Sono i frutti del cactus. Assaggiali, sono buoni.” Sul bordo del canyon la raffineria della YPFB rovinò l’incantesimo di quei luoghi senza tempo. Le quebradas circostanti venivano impropriamente utilizzate come discarica di rottami e spazzatura. Tornammo a Tupiza al trotto.
“Di questo passo arriveremo mezz’ora prima” mi urlò Francisco.
“Non importa, non vedo l’ora di scendere da questo quadrupede” gli urlai di rimando.
“Così perderai dieci bolivianos.” “Pazienza.” “Un israeliano non l’avrebbe mai fatto.” Tornai in albergo claudicando. Pagai cinque bolivianos per la doccia, raccolsi lo zaino e andai in stazione preparato al peggio. Già mi vedevo in fondo ad una coda chilometrica. E invece davanti alla biglietteria non c’era nessuno. Comprai un biglietto di prima classe e tornai nella piazzetta antistante. Centellinai un paio di birre seduto su un muretto. I commercianti stavano smontando le loro bancarelle. Cenai alle sei del pomeriggio in un chioschetto con le ruote che serviva arroz, pollo y papas. Cominciavo a non poterne più.
Finalmente arrivò il treno dell’Empresa Ferroviaria Andina. Trovai il vagone e mi feci largo tra la folla. I portapacchi erano strapieni, il pavimento un unico tappeto di bagagli, borse, fagotti e scatole che arrivavano all’altezza dei sedili. Non si trovava il posto nemmeno per le gambe, era come stare seduti per terra. Appoggiai lo zaino davanti a me, sopra un mucchio di borse, tenendolo in equilibrio tra le ginocchia. La chola seduta di fronte a me ebbe anche da ridire. Ma poi intuii che ce l’aveva con me perché ero un gringo. Suggellai l’armistizio con il sacchetto di coca. Nel vagone c’era un caldo insopportabile ed un angosciante senso di oppressione. Non riuscivo ad immaginarmi come potesse essere la seconda classe. Il treno partì singhiozzando e iniziò ad inerpicarsi sulle montagne. Tren rápido un corno. Quasi quasi andavo più forte a piedi. Si fermò in tutte le stazioni. Dormire fu un’impresa disperata.
SALAR DE UYUNI Impiegammo sei ore per coprire i duecento chilometri che separano Tupiza da Uyuni. Il viaggio sul Treno della morte, in confronto, era stato una gita dell’oratorio. In stazione molti mochileros aspettavano il treno per andare a La Paz. Feci lo slalom tra la folla addormentata e infreddolita e seguii l’insegna azzurra di un hotel sulla destra. Intanto che mi avvicinavo cercavo di inventare una scusa per non farmi urlare dietro, considera l’ora. D’altra parte ero convinto che dovevano pur esserci abituati, visto che il treno passava sempre a quell’orario infame. Quando arrivai davanti al portone uscirono due ritardatari che corsero disperatamente verso la stazione appesantiti dagli zaini. Mi infilai dentro e chiesi una camera al portiere dagli occhi tumefatti.
Mi alzai dopo qualche ora per iniziare il giro delle agenzie. Uyuni venne fondata un secolo fa all’incrocio delle vie di comunicazione tra La Paz e l’Argentina e tra Potosí e il Cile, a 3700 metri d’altezza. Non c’è assolutamente nulla da vedere. Ma da qui partono le escursioni lungo l’itinerario Los Lipez, nella parte dell’altipiano più remota della Bolivia. Le prime due agenzie a cui mi rivolsi offrivano solo escursioni di andata e ritorno. Io invece ero intenzionato a proseguire per il Cile. Mi indicarono quella che faceva al caso mio. Provvedeva al passaggio del confine organizzando gruppi che venivano prelevati da un’agenzia cilena. La trovai aperta, ma dentro non c’era nessuno. Sbirciai il registro delle prenotazioni aperto su una disordinatissima scrivania. C’erano segnati cinque nomi: l’ultimo era quello di Dino! Proprio in quel momento rientrò la segretaria.
“Buon giorno, ha bisogno?” mi domandò con squisita cortesia, intanto che si sedeva alla scrivania.
“Sì, vorrei andare in Cile.” “Mmm, se non sbaglio… Sì, benissimo. E’ rimasto giusto l’ultimo posto per oggi.” Mi illustrò tutto l’itinerario mostrandomelo su una mappa dettagliata. “Sono ottantacinque dollari, che includono trasporto, vitto e alloggio. Le bevande sono escluse. Devi andare alla migración a farti mettere il timbro di uscita per dopodomani. La partenza è qua davanti alle dieci.” Non era poco, ma ne valeva sicuramente la pena. Pagai coi bolivianos rimasti e il resto in dollari, tenendo qualcosa per comprare delle bottiglie d’acqua. Nei pressi dell’hotel incontrai Dino, piacevolmente sorpreso di vedermi nuovamente.
“Io invece ti stavo cercando” gli dissi. “Ho visto il tuo nome sulla lista dell’agenzia, facciamo il viaggio insieme.” “Fenomenale! Sto andando a mangiare qualcosa, vuoi venire?” “Ti accompagno, però non ho un soldo.” “Non ti preoccupare, paisà, offro io. Si dice così?” “Perfetto.” Nella caffetteria vidi un tale dirigersi verso l’uscita con l’inconfondibile zaino Invicta sulle spalle. Lo invitai a sedersi con noi al tavolo. Si chiamava Alberto. Dopo aver lavorato per vent’anni ad Orvieto come grafico, anche ad alti livelli, era arrivato alla saturazione. Aveva appena divorziato dalla moglie, ma senza drammi né polemiche, rimanendo in buoni rapporti. Niente più lo tratteneva. Cinque mesi prima aveva mollato tutto e si era imbarcato su una nave a Bilbao. In Messico aveva trascorso un certo periodo tra i tarahumara della Barranca del Cobre, nello Stato di Chihuahua, poi era sceso per il Centramerica. Aveva attraversato Colombia, Ecuador, Perú e Bolivia con la ferrea determinazione di arrivare in Terra del Fuoco. Da lì voleva risalire di nuovo fino in Alaska e tornare in Italia attraverso Russia, Cina, Kazakistan e Turchia, tutto via terra. Ero letteralmente rapito dal suo racconto. Ogni tanto mi ricordavo di Dino, che lì in disparte non capiva quasi nulla, e gli traducevo qualche brano di conversazione. Ma non sembrava particolarmente meravigliato, forse perché pensava che stessi esagerando. Anche Alberto partiva quel giorno per l’escursione ai salares. “Allora ci rivedremo sicuramente” mi disse. Ci salutò e uscì. Ero colmo d’ammirazione per quel quarantenne eccezionale.
Portai lo zaino in agenzia, andai alla migración a farmi timbrare il passaporto e comprai tre bottiglie d’acqua.
“Nooo, le hai prese di quella marca?!” esclamò Dino, vedendomi rientrare.
“Perché?” “Hai provato a berle?” Ne assaggiai una. Aveva un sapore strano, salato.
“Bleah, ma vaffanculo” mormorai schifato.
Dino non riusciva a trattenere le risate e uscì fuori. Per le strade si aggiravano orde di turisti in perfetta tenuta: scarpe da trekking, pantaloni tecnici con cerniera a metà gamba e giacche da alpinismo fosforescenti. Il turismo stava diventando una voce sempre più importante nella povera economia della città ed era in rapida espansione. Una cabina di vetro tra Calle Bolívar e Avenida Potosí metteva a disposizione dei turisti un computer per collegarsi ad internet. Attorno, nelle bancarelle del mercato, gli indigeni analfabeti continuavano a vendere le loro mercanzie incuranti dei prodigi della tecnica e della globalizzazione, che a loro insaputa li stava già stritolando nella sua morsa omologante. Mi attardai tra i banchi della old economy, più per curiosità che altro, perché tanto non mi era rimasto neanche un centavo.
In agenzia due svedesi stavano protestando con la segretaria. Erano arrivate il giorno prima ed erano state aggregate ad un gruppo che aveva prenotato da La Paz. Sarebbero dovuti arrivare quel giorno, ma avevano avuto un contrattempo. Così era slittato tutto al giorno dopo. Erano piuttosto contrariate, per usare un eufemismo. Mi accorsi di essere stato fortunato a trovare un posto subito. Un altro vantaggio dei viaggiatori solitari. Il nostro equipaggio invece era al completo. Oltre a me e a Dino c’erano: Eli, israeliano con una chioma leonina di un colore naturale che andava dal biondo al nero chiaro, barba, tre orecchini ai lobi e uno nel naso. Aveva lavorato per due mesi in Arizona, poi aveva raggiunto a Lima la sua ragazza, Regula, un’infermiera svizzera che aveva conosciuto due anni prima in India. Aveva due orecchini nella stessa narice, capelli corti ossigenati, un tatuaggio attorno all’ombelico e due occhi da favola. Gli altri due erano Adrian, inglese smilzo e occhialuto, e Annika, danese bionda e ben piazzata. Si erano conosciuti a Londra, dove Annika faceva la baby sitter. Parlava talmente bene l’inglese che Dino si complimentò con lei. Aspettavamo solo di partire, ma alle dieci non si muoveva ancora nulla. In compenso arrivarono le scorte di viveri. Più tardi entrò una coppia di tedeschi. In quattro poteva partire un’altra jeep. Le ragazze svedesi accolsero la notizia con gioia. A mezzogiorno due fuoristrada Toyota straordinariamente ben messi all’apparenza parcheggiarono davanti all’agenzia. Gli autisti caricarono gli zaini sul tetto tra le ruote di scorta e le taniche di gasolio e li coprirono con un telo cerato. Dopo qualche minuto dalla partenza vidi le svedesi nell’altra jeep sbracciarsi e attirare l’attenzione di due tipi zainati che camminavano sul marciapiede. La loro jeep si fermò e scesero giù. Anche noi ci fermammo. Si salutarono entusiasti e iniziarono a discutere animatamente tra di loro. Non riuscivamo ad afferrare la situazione. Finalmente vennero a spiegarci che erano due loro amici tedeschi che, per ironia della sorte, erano alla disperata ricerca di una jeep. Adesso dovevano tornare in agenzia per registrarsi e fare un salto alla migración per il timbro. Il nostro autista preferì andare avanti. Si accordò col collega che li avremmo aspettati alla prima sosta.
Appena fuori dal paese ci ritrovammo in mezzo ad uno sconfinato acrocoro circondato in lontananza da basse collinette cerule. In realtà superavano i quattromila metri. La strada era una pista di terra luccicante che correva parallela alla ferrovia. Dopo cinque minuti eravamo già fermi per noie al motore. Sebastián, l’autista, trafficò nel cofano, si sdraiò sotto la jeep e finalmente la fece ripartire. Ma nel giro di mezz’ora fummo costretti a fermarci altre due volte, tanto che l’altra jeep ci superò, sventolando i suoi saluti dai finestrini.
“Il problema è il sale” ci spiegava flemmatico. “Corrode tutto. E quei cabrones dell’agenzia risparmiano sui pezzi di ricambio.” Per fortuna il viaggio proseguì senz’altri incidenti di rilievo. Arrivati alla stazioncina di Colchani deviammo verso ovest e ci fermammo al limitare di una distesa d’acqua che si estendeva all’infinito: il Salar de Uyuni. Con una superficie pari a quella della Campania, questa enorme salina sorge in una conca che un tempo era coperta dalle acque di un lago vasto quanto la Francia ormai prosciugato. Per millenni il sale è stato dilavato dalle montagne e si è accumulato nella depressione sottostante. Si stima che vi siano almeno dieci miliardi di tonnellate di sale nel salar. I campesinos della zona lo estraevano in blocchi rettangolari servendosi di pala e piccone. Ma ormai il leggendario camino de la sal, che conduce a Tarija passando per le quebradas di Tupiza, era percorso sempre meno dalle carovane di llamas carichi di sale. Solo gli indios chipaya del remoto Salar de Coipasa continuavano a trasportare nei bassipiani il prezioso minerale come facevano i loro avi, barattandolo con mais, riso, legno, coca e altri prodotti introvabili in queste lande improduttive.
Sebastián stese un telo impermeabile sul radiatore e lo fece passare sotto la jeep per impedire il più possibile all’acqua salata di entrare nel motore. Salimmo a bordo ed entrammo nel lago. L’acqua era alta circa dieci centimetri. Sotto c’era una crosta di sale spessa in alcuni punti fino a centoventi metri. Il cielo coperto di nuvoloni bianchi si rifletteva sullo sterminato specchio d’acqua immobile creando l’illusione di volare, senza le complicazioni dovute agli sbalzi di quota. L’orizzonte fuso tra acqua e cielo aveva perso di significato. D’estate, invece, l’acqua evapora e il salar si trasforma in una rutilante distesa bianca. Per un occhio non esperto orientarsi è pressoché impossibile. Dopo un ‘volo’ di trentacinque chilometri arrivammo all’Hotel Playa Blanca, un edificio con le pareti di sale. Sui blocchi squadrati si notavano chiaramente le scure stratificazioni secolari. Era sì una singolare invenzione per turisti, ma neanche tanto inusuale. Gli indios da sempre costruiscono rifugi di questo tipo. Mangiammo qualcosa e ripartimmo verso ovest insieme alla jeep gemella. Un puntino azzurro cominciò a separarsi dalle montagne che lo circondavano. Mano a mano che ci avvicinavamo assumeva contorni più definiti e tinte più scure. Eppure non riuscivamo a raggiungerlo, pareva sfuggirci come un miraggio senza confini, profondo, infinito. Il riflesso del sole e la mancanza di riferimenti ci impedivano di valutarne la distanza. Era l’Isla de Pescadores, una collinetta che si eleva solitaria nel cuore della salina, ottanta chilometri ad ovest di Colchani. Quando sbarcammo sull’isola fu come atterrare in un mondo alieno. Esplorammo i suoi declivi rocciosi ricoperti da una selva di cactus, tra cui vagavano alcuni alpacas con le tipiche nappe colorate alle orecchie. A nord la sagoma azzurra del Volcán Tunupa, che si eleva maestoso a 5400 metri di altezza, si rifletteva nel salar rendendo ancor più suggestiva quella scenografia. I miei occhi avidi ebbero di che appagarsi. Sull’isola abitava una coppia di anziani aymara, in una piccola casetta di pietra, mattoni crudi e legno. L’unico legno disponibile era quello bucherellato del cactus e veniva utilizzato per farci di tutto. Alle cinque e mezza ripartimmo per evitare che il buio ci sorprendesse in mezzo al salar. Nella parte meridionale l’acqua è più profonda, per questo motivo è stata costruita una strada rialzata che lo taglia da est a ovest. Già da molto lontano ci rendemmo conto di quello che era successo. A soli venti metri dalla strada una jeep si era piantata in una buca e non riusciva ad uscirne. Quella che la seguiva era riuscita a mettersi in salvo. Quando giunse la nostra jeep gli autisti ci indicarono dove passare. Per un attimo ce la vedemmo brutta, ma Sebastián riuscì a portarla sull’asciutto. Con l’aiuto dei verricelli tentarono di disincagliare il pesante mezzo, ma senza risultato. Ormai era buio. Presero la decisione di scaricare i bagagli e di distribuire i passeggeri sulle altre tre jeep. Pantaloni al ginocchio i sei turisti uscirono con lo zaino sulla testa. A noi capitarono due ragazze israeliane che si lamentarono dall’inizio alla fine. Per fortuna se le sorbì Eli. L’uscita del salar si trovava a non meno di dieci chilometri da lì. Il povero autista rimase da solo a custodire il mezzo.
Dopo due ore di buio assoluto i fanali illuminarono un gruppo di case. Percorremmo le stradine spettrali e ci fermammo davanti ad un edificio fatto a forma di elle. Era l’ostello del villaggio di San Juan, dove avremmo passato la notte. Scaricammo gli zaini e li portammo nelle camerate. Nel frattempo Sebastián sciacquava la jeep con abbondanti secchiate d’acqua per togliere il sale che si era già cristallizzato ovunque. Nell’ostello c’era un’altra comitiva giunta nel pomeriggio dalla direzione opposta. Impiegai più di mezz’ora per capire che fra di loro c’era una coppia di Rimini. Avrei dovuto capirlo subito, erano quelli con la bottiglia di vino cileno. Tirai fuori la mia bottiglia di vino boliviano e passammo la serata allegramente giocando a carte a lume di candela, perché l’elettricità venne staccata alle dieci.
La mattina mi svegliai presto e non ci fu verso di riaddormentarmi. Mi infilai il piumino e uscii a fare una passeggiata. San Juan sembrava un villaggio fantasma. Le viuzze perpendicolari, affiancate da muri di adobes sormontati da cocci di vetro, si perdevano nell’altipiano dove pascolavano sparuti gruppi di llamas e di alpacas. Nei piccoli campicelli veniva coltivata la quinua, il cereale simile al caviale caratteristico della zona, che riesce a tollerare la forte salinità del suolo, la scarsa umidità e il vento glaciale che qui spira costantemente. Nella parte alta del villaggio c’è una chiesetta col tetto di paglia, affiancata da un tozzo campanile. E’ recintata da un muretto quadrato che racchiude il cimitero, povere croci di legno senza lapide. Sembrava di essere in un film di John Wayne.
Il viaggio proseguì in mezzo al Salar de Chiguana. Sebastián ci indicò una montagna innevata che si innalzava proprio di fronte a noi: “Quello è il Volcán Ollagüe. E’ alto più di seimila metri. Dall’altra parte c’è il Cile.” Una ragnatela di piste impercettibili si intersecavano tra i radi cespugli. Se non era per i sobbalzi sembrava di essere fermi in mezzo a quell’altipiano senza confini, senza nulla. O, per meglio dire, con tutta la magnificenza suscitata da quello che a prima vista sembrava il nulla. Il vuoto riempiva quegli spazi infiniti. Superata la ferrovia che collega Uyuni a Calama, in Cile, fummo costretti a fermarci alla postazione militare di Chiguana per il controllo dei documenti. Siccome non succedeva mai nulla, un graduato pensò bene di rilevare un errore nella nostra lista. La segretaria evidentemente si era sbagliata a trascrivere i numeri dei passaporti e di fianco al mio nome e a quello di Eli compariva un numero non corrispondente. Una quisquilia. Ma l’ufficiale si impuntò e non volle sentire ragione. Per una logica tutta militare non poteva ammettere una simile discrepanza. Altre volte mi sarei messo a ridere, ma allora non fu per niente divertente, col rischio di dover tornare indietro per uno stupido errore di una segretaria deficiente che era riuscita a sbagliare due numeri su sei! Nel frattempo erano arrivate altre jeep e tutti erano accorsi per capire che cosa stesse succedendo.
“Ci avrei giurato che c’eri in mezzo tu” mi disse Alberto. Gli spiegai la situazione e venne anche lui a darci una mano. Ci volle molta pazienza e diplomazia, le rassicurazioni di Sebastián e il buon nome dell’agenzia per far desistere l’ufficiale.
La strada puntava verso sud attraverso un territorio impervio, costellato da bellissime lagunas che presentavano diverse tonalità di colore per effetto di fenomeni chimici. Erano orlate da candidi depositi salini, in un contrasto eccezionale con il rosso grigiastro degli spogli rilievi, con il rosa dei fenicotteri di James e con l’azzurro intenso del cielo. Facemmo una sosta alla Laguna Hedionda. La mia macchina fotografica, che la sera prima aveva cominciato ad avere dei problemi, morì definitamente, proprio nella parte più spettacolare dell’intero viaggio. La tendina dell’otturatore non scattava più. Chissà se a quell’altitudine le maledizioni saranno arrivate prima a destinazione. Gli altri andarono a fotografare i fenicotteri. Io restai ad aiutare Sebastián, che si era messo a preparare panini ed insalate nel baule della jeep.
“Ma tu devi fare l’autista, il meccanico e il cuoco, tutto da solo?” Mi rispose pacifico, senza alzare lo sguardo dal cetriolo che stava affettando: “Anni fa veniva anche mia moglie. Si occupava lei del mangiare. Ma poi all’agenzia hanno pensato bene che potevo bastare solo io… Voi quanto pagate a testa, ottanta dollari?” “Ottantacinque.” “Ecco. Fa un po’ i conti. Io sto via di casa cinque, sei giorni alla settimana, sai quanto mi danno? Duecento dollari al mese. E la jeep, hai visto, no? Spendono il meno possibile in manutenzione. Ho tre figli e non li vedo mai, ma che ci posso fare?” E io che me l’ero presa per una stupida macchina fotografica. Il turismo portava ricchezza, ma come sempre erano in pochi a beneficiarne, sulla pelle dei poveracci.
In mezzo a una distesa desertica spuntava solitaria una bizzarra formazione rocciosa conosciuta come Árbol de piedra, un macigno grinzoso appoggiato su una esigua base erosa dal vento, che sembrava veramente un albero pietrificato. Più avanti ci fermammo di fianco ad un’enorme roccia che emergeva dall’altipiano come una Ayers Rock in miniatura. Le sue numerose fenditure ospitavano una colonia di vizcachas, roditori imparentati coi cincillà, simili a conigli ma dotati di una lunga coda. Non erano abituati alla presenza dell’uomo e quindi non lo temevano più di tanto. Riuscimmo comunque a vincere la loro istintiva diffidenza attirandoli con pezzetti di pomodoro e di cetriolo. A metà pomeriggio arrivammo alla Laguna Colorada, così chiamata per via del suo colore amaranto acceso dovuto a certi tipi di alghe e di plancton che prosperano nelle sue acque. Avremmo passato la notte nel rifugio costruito vicino alla centrale elettrica dell’ENDE. Portammo dentro bagagli e provviste e uscimmo per una passeggiata. A 4300 metri il vento soffiava furiosamente facendoci rabbrividire. La laguna copre una superficie di circa cinquanta chilometri quadrati. Le sue rive erano ricoperte da uno spesso strato biancastro. Sembrava un mare di chinotto in uno smisurato catino di panna. Dall’altra parte, sul lato orientale, i fenicotteri filtravano l’acqua col loro becco ricurvo. Ben presto il soroche, il mal d’altura, e il freddo ci costrinsero a rientrare. Di fianco alla porta d’ingresso era appoggiata una bicicletta con borse attaccate dappertutto. Ero sicuro che prima non c’era. Aiutai gli autisti a portare tavoli e sedie pieghevoli in uno stanzone vuoto e ad apparecchiare per la cena. Sebastián sparì, ma ricomparve quasi subito con una cassa di birra. Ci fu il boato. Mentre sorseggiavo una lattina con le carte in mano entrò un tipo alto e magro con lunghi capelli neri. Non disse una parola. Si mise in un angolo a consultare delle carte geografiche molto dettagliate. Ad occhio e croce dovevano essere mappe militari. Di sicuro era lui il ciclista. Lo salutai alzando la lattina e lui ricambiò con un cenno del capo. Ero talmente esterrefatto da quell’impresa in solitaria che non ebbi il coraggio di intortarlo. La mattina dopo dovevamo alzarci alle cinque per poter arrivare in orario all’appuntamento al confine. Alle nove spensero le luci, ma restammo a giocare a carte a lume di candela insieme a due tedeschi di un gruppo che viaggiava in senso inverso. A mezzanotte, con l’aiuto delle torce, io, Dino e uno svizzero uscimmo fuori. Il cielo senza luna si era completamente pulito. C’erano talmente tante stelle che sembrava finto. La temperatura, molto probabilmente, era calata sotto zero.
Mi svegliai per primo e tirai tutti giù dal letto. Eli non voleva saperne, così io da un lato e Regula dall’altra gli sollevammo il letto dalla parte dei piedi, mentre gli altri gli tiravano i loro cuscini. A momenti ci dimenticavamo di Dino. La notte prima aveva preso il materasso e se n’era andato in uno stanzone da solo e al freddo, perché soffriva di una particolare forma di claustrofobia. Non che da noi fosse riscaldato, ma in tanti avevamo creato un effetto stalla. A tentoni, nel buio, lo andai a recuperare.
Immersi nell’oscurità più completa procedevamo su una pista sconnessa con la sola luce dei fanali. Non si vedeva nulla, ma si capiva che stavamo salendo ancora. Capita poche volte nella vita di vivere un’alba del genere. Ci trovavamo a 4850 metri di quota, circondati da geyser, fumarole e soffioni mefitici. Quando il sole iniziò ad illuminare quel paesaggio fantastico uscimmo dalle macchine e ci avventurammo tra le pozze di fango ribollente ricoperte da patine giallastre, da cui si sprigionava un denso aroma di zolfo. Solamente in quella zona la Bolivia possiede un potenziale di energia solare, eolica e geotermica pressoché illimitato. Ma a molti faceva comodo non sfruttarlo appieno. Più tardi arrivarono altre jeep e tutta quella gente rovinò la magia di quel luogo. “Considera di trovarti sulla cima del Monte Bianco” mi disse Alberto entusiasta.
Continuammo ad andare su e giù per tortuosi tornanti. Al nostro passaggio una volpe grigia si allontanò furtiva, arrampicandosi con circospezione su un pendio sassoso. Dopo dieci chilometri giungemmo in vista del Salar de Chalviri. Ci fermammo nei pressi di una sorgente di acqua calda che alimentava la laguna invernale. L’acqua, profonda dai venti ai trenta centimetri, sgorgava dal terreno ad una temperatura prossima ai trenta gradi. Dino ed Eli si spogliarono e si misero rapidamente in ammollo. Io rimasi seduto sul bordo e immersi solamente i piedi, battendo i denti con tanto di piumino indosso. Anche lì, purtroppo, si affollò di gente.
Ripartimmo dopo un paio d’ore, non prima di aver dato fondo alle scorte di viveri. Continuammo l’ascesa fino ad un passo a 5300 metri d’altezza. Sull’altro versante costeggiammo uno spoglio pendio sabbioso dove erano sparse le Rocas de Dalí. Il panorama era davvero surreale, degno del geniale pittore catalano che, dicono, posizionò personalmente quelle rocce.
“Chi è che canta?” domandai a Sebastián, riferendomi alla musica spumeggiante che usciva dall’autoradio e che avevo già sentito in giro.
“Si chiama Rossy War, è una peruviana di Puerto Maldonado. La chiamano la ronquita de la technocumbia per via della sua voce roca. Ha avuto un figlio da un tale che è scappato lasciandola sola e adesso nelle sue canzoni parla sempre di questo suo amor prohibido.” In Sudamerica la cumbia si suona, si ascolta e si balla dalla Colombia, dove è nata, fino all’Argentina, con connotazioni diverse per ogni Paese. In Perú e in Bolivia è forse più ingenua, meno sofisticata. E’ una musica solare, semplice, ripetitiva e forse anche banale, ma allegra e travolgente. Rappresenta bene il carattere di questa gente, sempre festosa nonostante tutto.
La Laguna Verde segnò la fine del nostro viaggio. Ci fermammo su un pianoro che la sovrasta e da sopra l’ammirammo in tutto il suo splendore, col Volcán Licancábur che le faceva da cornice. Il minibus che doveva portarci oltre il confine ci stava già aspettando, ma dovevamo attendere che arrivassero anche le altre jeep. L’autista ci consegnò dei moduli per la migración cilena. Quando Alberto terminò di compilare il suo, mi prestò la sua biro rossa.
“Ma no. Così non va bene” obiettò l’autista quando glieli riconsegnammo.
“Perché?” gli domandammo sorpresi.
“Scrivere in rosso non è segno di rispetto.” I dintorni erano disseminati di apachetas. Formai una cavità con delle lastre di pietra e lasciai agli Apus una manciata di foglie di coca. In riva alla laguna, sotto di noi, passarono due turisti in bicicletta. A 5000 metri io facevo fatica anche a stare in piedi. In Cile è vietato introdurre cibo e la coca è illegale. Tutti regalarono la frutta avanzata a quelli che tornavano indietro, altrimenti sarebbe stata sequestrata in frontiera. Regalai il sacchetto di coca a Sebastián, lo salutai e presi posto sul minibus.