Da Cuzco al Pongo de Mainique

“Molti uomini non ritornano migliori di quando sono partiti, avendo portato se stessi nel viaggio.” Ha ragione Seneca ma io non ce l’ho fatta a lasciarmi a casa e adesso siamo qui, io e il mio me stesso, seduti per terra alla stazione di Qillabamba, lui che sonnecchia, io che cerco di mangiar qualcosa. Soledad e’ a un metro da noi, e in...
Scritto da: Alighiero Adiansi
da cuzco al pongo de mainique
Partenza il: 18/08/2000
Ritorno il: 22/08/2000
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
Ascolta i podcast
 
“Molti uomini non ritornano migliori di quando sono partiti, avendo portato se stessi nel viaggio.” Ha ragione Seneca ma io non ce l’ho fatta a lasciarmi a casa e adesso siamo qui, io e il mio me stesso, seduti per terra alla stazione di Qillabamba, lui che sonnecchia, io che cerco di mangiar qualcosa. Soledad e’ a un metro da noi, e in quel metro c’e’ tutto il suo ristorante: due pentoloni fumanti col primo (minestrone di verdure) e il secondo (stufato di verdure), piatti e posate avvolte in uno strofinaccio, 3 bicchieri da allineati ad asciugare al sole. Il sole… era ora! L’ultima volta l’avevo visto nel cortile del Colonial di Cuzco, 3 giorni fa, quando decisi di farmi il Pongo de Mainique, sul fiume Urubamba, fino alla missione di Timpia. Adesso che l’ho fatto mi chiedo se ne valeva la pena, ma cosa me lo chiedo a fare? Ormai l’ho fatto, e l’ho fatto da solo, spendendo meno di 50 dollari quando tutte le agenzie di Cuzco ne chiedevano almeno 300. Cosi’ tre giorni fa, alle quattro del mattino… ecccomi fuori dalla stazione di Cuzco a gironzolare per il mercato aspettando l’apertura dei cancelli per conquistare un biglietto e un posto a sedere nel peggior vagone del treno, un vagone tutto bucherellato che sembra scampato per miracolo ad un assalto del “Mucchio Selvaggio”. C’è una capra sotto il sedile e un sacco di galline sul bagagliaio. Quasi subito inizia la processione di venditori e sulle teste galleggiano ceste di uova, di arance, di frittelle, di banane, di maglioni e di magliette. Quando si parte ho in braccio un bambino di circa sette anni e venti chili, la madre me l’ha smollato prima di essere inghiottita dalla folla; lui s’addormenta quasi subito mentre io cerco di alternare il peso da una gamba all’altra. Alle stazioni è un finimondo, forse per quello non hanno messo i vetri ai finestrini, e’ da li che transitano le merci più svariate e da lì vengono offerte frutta e verdure, altri maglioni, berrette di lana e bibite misteriose, ogni tanto transitano corpi umani. Vivi. I poliziotti cercano di mettere un po’ d’ordine e il treno riesce sempre a rimettersi lentamente in moto. Agua Caliente, la fermata di Machu Pichu e’ come uno scarico che si sblocca di colpo, una cascata di idraulico liquido che fa svuotare il treno, scendono tutti: turisti, venditori, mamma e bambini. Quando si riparte mi sento solo, cosi’ m’addormento dopo aver scambiato quattro chiacchiere con me stesso, e mi sveglio a Quillabamba alle quattro del pomeriggio, in totale dieci ore di treno. Appena sceso dal treno trovo (o mi ha trovato lui?!) un camionista diretto a Kiteni e poi a Tinti, dove c’e’ l’imbarcadero per il Pongo e per la missione. La partenza sembra imminente quindi corro al mercato per un pò di provviste, l’acqua prima di tutto, ma anche biscotti e carne in scatola. Con la borsa della spesa mi accomodo sul camion, dietro alla cabina di guida, il posto migliore per mitigare l’aria fredda e la polvere della notte. Quando partiamo facciamo un giro del villaggio e ho l’occasione per dare un occhiata, altro che occhiata! Il giro lo ripetiamo almeno venti volte, si parte al buio, a pieno carico e quando usciamo dalla citta’ sono sommerso da verdure, ruote di bicicletta, pezzi di motore, carne secca e puzzolente, taniche di benzina, donne, uomini e bambini e una dozzina di sacchi di pasta che sono la cosa più simile ad un materasso e quindi mi ci sdraio sopra. La pista è brutta ma l’autista sa il fatto suo, conosce a memoria ogni buca, non ne manca una. Dopo tre ore, improvvisamente, dal nulla emerge una costruzione sbilenca di legno, un “autogrill”. Un nugolo di insetti abbandona le lampade a petrolio e si precipita sui nostri piatti di riso e diosacosa. Dopo una tazza di matè bollente si torna in carrozza, comincia a fare freddo e col sacco a pelo copro l’inestricabile groviglio di gambe, braccia,cipolle, arance, teste, spaghetti… A Kiteni la polizia controlla i documenti, sono le 5 del mattino, riesco a scendere dal camion, svuoto le tasche piene di spaghetti frantumati, di frutta secca e biscotti sbriciolati e trovo il passaporto. Nel dormiveglia generale aspetto che il militare ricopi a mano in bella calligrafia i miei dati e poi lui torna a letto e io riparto per Tinti. Rispetto a questa, la pista di prima era un biliardo, mi reggo alla carrozzeria per non volare giù e intanto devo evitare i rami degli alberi che sfrecciano nella nebbia. Se non ci sono gli alberi vuol dire che stiamo viaggiando sul bordo slabbrato di uno strapiombo. Il camion avanza con difficolta’ nel fango, scende e risale da dossi limacciosi, scivola, sbanda, riparte. Il tempo peggiora, quando ci fermiamo e’ solo per caricare e scaricare merce e persone sbucate tra la nebbia e il verde. Alle 10 la strada finisce. Quattro baracche di legno offrono lo stesso menu’ fisso: riso, uova e banane. Saldo il conto col camionista a cui devo anche rimborsare la pasta polverizzata nei sacchi-materasso. Sulla riva dell’Urubamba 4 lance colorate sono attraccate al piccolo molo. Donne e bambini vanno avanti e indietro trasportando caschi di banane verdi mentre un paio di ragazzotti sonnecchia sulla spiaggia. Manuel si presenta bene, la sua barca sembra nuova e il motore e’ lucido d’olio. Contratto a lungo e alla fine l’accordo è fatto: oggi mi porta a Timpia e domani mi riporterà a Tinti. Un pallido sole rischiara il fiume quando lasciamo la riva. Facciamo piu’ fermate di un locale, ogni quarto d’ora qualcuno agita le braccia su una o l’altra riva, ogni volta qualcuno o qualcosa scende, qualcuno o qualcosa sale, e si riparte. La corrente aumenta e la barca taglia veloce le rapide rovesciando ondate d’acqua gelida sui passeggeri, specialmente quelli in fondo. In fondo ci siamo io e il mio me stesso, ma l’unico a bagnarsi sono io. Comincia a piovere, acqua dal basso e acqua dall’alto; “tuto belo, molto belo…” urla il timoniere, sembra allegro, anche troppo. Gli tiro un’occhiata da sotto il k-way “tuto belo, molto belo…” e la barca tampona una roccia in mezzo al fiume rischiando di capovolgersi. Manuel s’incazza e si precipita al timone mentre “tuto belo”, ubriaco marcio, si raggomitola sul fondo barca e dopo dieci minuti di “tuto belo, molto belo” comincia a russare. Ora la corrente è fortissima, le rapide piu’ frequenti, Manuel indica un punto nella nebbia davanti a noi: “il Pongo… il Pongo!” Ecco la davanti il canyon,ci siamo: le rive sono ripide pareti di roccia, il rumore dell’acqua rimbomba cupo da una riva all’altra, cascate e grotte si ai lati del fiume, il canyon è strettissimo, sembra di poter toccare le rocce aprendo le braccia, l’Urubamba precipita in turbinose schiume. Manuel mi getta un secchio per buttare fuori l’acqua ormai sopra le caviglie. Ancora un salto, un’ondata e d’improvviso torna la calma, le nuvole sono a un passo dal fiume ma il paesaggio si rischiara, non ci sono piu’le pareti di roccia, siamo fuori! Il Pongo de Mainique è alle spalle, si vede la sagoma grigia svanire nella nebbia. “Tuto belo” si sveglia quando approdiamo a Timpia, un paio d’ore dopo il Pongo, e cinque ore da Tinti, Sulla riva un gruppo di bambini smette di giocare e scappa via, a sinistra troneggia una grande chiesa di legno e davanti alla chiesa troneggia un prete che mi accoglie come se fossi in udienza dal Papa. “Italiano?… bene, bene. Puoi dormire in quella capanna in costruzione, non ci sono pareti, ma il pavimentodi madeira (legno) tiene caldo. Da mangiare non c’e’ niente, no … niente di caldo da bere mi spiace. Buona notte” “Amen” rispondo io, e mi avvio verso il mio pavimento sul quale stendo ad asciugare i vestiti sostituendoli con quelli nello zaino che sono bagnati uguali e al mattino saranno tutti piu’ bagnati. Mi “rimpinzo” con una scatola di carne e briciole di biscotti. L’ultimo pensiero a domani, quando dovro’ rifare tutto all’inverso: sette ore di barca (controcorrente) per tornare a Tinti, 4 ore di camion per Kitenei e 10 per Quillabamba, e poi il treno per Cuzco. Le 10 per Quillabamba diventano dodici grazie a due forature notturne per ognuna delle quali ci vuol mezz’ora a trovare il buco, mezz’ora per la riparazione e tre quarti d’ora per gonfiare la gomma con una pompa di bicicletta azionata a turno dai passeggeri. Il camion questa volta porta solo arance, molto piu’ scomode della pasta ma piu’ facili da digerire, senza contare che quelle schiacciate mandano un buon profumo, utilissimo per coprire gli altri odori del fondocarro. Siamo una dozzina di persone e questa volta mi trovo addosso una signora che non vede un sapone dallo sbarco di Cortez; certo neanch’io profumo di mela verde. Non incontriamo anima per tutto il viaggio, solo all’alba, ormai in vista di Quillabamba, un vecchio camioncino giallo ci viene incontro sulla pista dissestata. Il nostro autista deve esserne rimasto sorpreso in maniera esagerata visto che fatta la curva lo centra in pieno provocando una spremuta gigante e altre due ore di ritardo… Ora mentre mi godo il tepore del sole e cerco di capire la differenza tra il primo e il secondo nel ristorante di Soledad, il fischio del treno lacera inatteso i timpani dei pochi passeggeri in attesa mettendo in subbuglio la piccola stazione. Dopo quattro ore di ritardo la grossa motrice nera sembra un miraggio mentre avanza sbuffando verso di noi. Raccolgo con un po’ di raccapriccio il mio zaino sconcio e salto sul treno con l’illusione che la mia fretta sia anche la sua. Illusione vana, ho tempo un paio d’ore buone per trovare un posto al finestrino sul treno vuoto. A Quillabamba arriva e riparte un treno solo al giorno, ad orari incerti. Soledad raccoglie pentole e piatti in un grande panno multicolore. Se lo carica in spalla e aspetta che il treno riparta. Una timida occhiata di saluto e via verso casa. Chissà se domani cambierà menù.


    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche