Cieli d’America

Autore: Roberto Viviani Diario di viaggio Cieli d’America. Viaggio negli Usa: da 3 a 25 agosto 2001. PREMESSA: Prima di iniziare mi sembra doveroso presentare i miei compagni di viaggio coi quali ho percorso quasi 8.000 chilometri in questo straordinario paese. (nella foto lo sfondo della Monument è straordinario). Eravamo in 6: da...
Scritto da: Roberto Viviani
cieli d'america
Partenza il: 03/08/2001
Ritorno il: 25/08/2001
Viaggiatori: fino a 6
Autore: Roberto Viviani Diario di viaggio Cieli d’America.

Viaggio negli Usa: da 3 a 25 agosto 2001.

PREMESSA: Prima di iniziare mi sembra doveroso presentare i miei compagni di viaggio coi quali ho percorso quasi 8.000 chilometri in questo straordinario paese. (nella foto lo sfondo della Monument è straordinario). Eravamo in 6: da sinistra a destra nella foto: Simona 1, Roberto, Diego, Federica, Alessandro e Simona 2.

Io (Roberto) Diego e Simona 2 siamo anche compagni di sofferenze quotidiane (lavoriamo nella stessa azienda), Simona 1 è mia moglie ed è estetista (ora è impegnata in una cosa non propriamente estetica: la gravidanza), Federica è una bancaria non molto convinta, e Alessandro è un tecnico teatrale e per lui viaggiare è una consuetudine.

Io e mia moglie siamo già stati negli Usa nel marzo 1999 in viaggio di nozze; da allora ho sofferto di un tremendo mal d’America e sapevo che a breve termine avrei dovuto assolutamente tornarci. Volevo inoltre dare i numeri di questo viaggio: giorni totali di viaggio: 23, di cui una settimana all’Est e due settimane a Ovest Km. Totali percorsi: quasi 8.000, di cui 2.500 a Est e oltre 5.000 a Ovest (tutti rigorosamente in auto, da far invidia a Jack Kerouac).

Stati attraversati (o comunque toccati): 10 : Virginia, Maryland, Pennsylvania, New York, Massachusetts, Colorado, Utah, Arizona, Nevada, California.

Grandi città attraversate: 9 : Washington, Baltimora, Philadelphia, Boston, Denver, Las Vegas, S.Francisco, Los Angeles, S.Diego.

Parchi nazionali visitati: 7 : Niagara falls, Arches nat.Park, Monument valley, Grand Canyon, Bryce canyon, Sequoia e Yosemite.

Come si può notare si è trattato di 23 giorni piuttosto intensi, ma la fatica delle sveglie all’alba e delle migliaia di chilometri percorsi è stata ripagata dalle cose straordinarie che abbiamo visto e dai tramonti che ci hanno commosso. Spesso i ricordi piacevoli di un viaggio derivano dalle emozioni intime vissute, e non esistono foto o scritti che possano renderli pienamente.

Questo viaggio era stato programmato già da due anni ed era previsto per l’agosto 2000 ma per motivi vari l’abbiamo dovuto spostare al 2001. Voglio dare un consiglio a chiunque voglia intraprendere un viaggio con un gruppo di amici come nel nostro caso e soprattutto così lungo e faticoso: è assolutamente necessario pianificare con precisione e calcolo tutte le tappe e le cose che si vogliono vedere, cercando nel limite del possibile di calcolare i tempi di spostamento e quanto dedicare a ogni cosa. Fondamentale si rileva anche stendere un budget di spesa giornaliero il più possibile dettagliato. In questo modo in ogni momento del viaggio si riesce a tenere sotto controllo quanto si sta spendendo.

E’ molto importante che il modo di viaggiare e le tappe fondamentali siano condivise a priori da tutto il gruppo; questo perché se la condivisione non è totale nel corso del viaggio idee e desideri troppo diversi uniti ad un’inevitabile stanchezza potrebbero portare a degli attriti e causare malesseri con riflessi negativi su tutto il viaggio. E’ innegabile comunque che un viaggio di questo genere è bello se fatto con un gruppo di amici piuttosto che da soli o in coppia; ma la scelta dei compagni è ingrediente fondamentale per la riuscita del viaggio. Ottimo sarebbe se la voglia di andare in un determinato paese sia intensa in eguale misura in tutti i partecipanti e le idee sul come viaggiare, quanto spendere e cosa fare siano il più possibile vicine. Per un viaggio on the road fondamentali sono un ottimo atlante stradale e una buona guida in modo da avere informazioni sui luoghi che si stanno percorrendo e sulle cose da vedere.

Mi scuso se mi sono dilungato in questa premessa, ma tutta la preparazione precedente ad un viaggio di questo genere è importante quanto il viaggio stesso; eventuali errori fatti in questa fase si pagano dopo la partenza.

Comunque cominciamo…. Gli Usa ci aspettano.

PRIMA PARTE DEL VIAGGIO: UNA SETTIMANA ALL’EST 1° giorno: venerdì 3 agosto 2001. Torino – Washington ore 4.30 suona la sveglia. E’ il giorno fatidico, all’Aeroporto di Caselle (Torino) ci aspetta l’aereo che, dopo uno scalo ad Amsterdam ci porterà alla nostra destinazione: Washington. Viaggiamo con la KLM e NorthWest. Ci ritroviamo nella hall dell’aeroporto tutti e sei assonnati ma emozionati per l’avventura che ci aspetta.

Dopo parecchie ore di viaggio finalmente atterriamo a Washington nelle prime ore del pomeriggio. Il tempo è bellissimo ma il caldo insopportabile. La prima cosa che abbiamo capito, confermata poi dalle altre città dell’Est., è stata che il mese di agosto non è sicuramente il migliore, dal punto di vista climatico per fare questo viaggio. Raggiungiamo subito il parcheggio di Alamo per ritirare la nostra auto, una monovolume da 7 posti. Sistemati i bagagli Alessandro si sistema al posto di guida cercando di prendere confidenza con il cambio automatico anche se con il braccio destro cerca di continuo la leva cambio che non c’è, sbeffeggiato continuamente da noi tutti. Il tragitto dall’aeroporto a Washington non è lungo per chi conosce le strade; per noi che stanchi del viaggio in aereo e freschi vagabondi delle strade americane il tempo per raggiungere la capitale si rivelerà lunghissimo. Ma ormai siamo presi dal viaggio che ci aspetta e alcuni piccoli intoppi non possono fermare la nostra corsa alla scoperta dell’Est americano.

E’ ormai tarda sera quando finalmente troviamo il giaciglio per la notte; ci troviamo a Capitol hts., un sobborgo alla periferia di Washington. Prendiamo due camere al Motel 6 dopo aver notato di essere gli unici bianchi (capiamo di essere in un quartiere nero), le camere sono peggiori di qualsiasi immaginazione, ma la stanchezza è troppo grande per cercare un altro posto. Dopo una cena a base di hamburger in un vicino Mc Donald’s andiamo a dormire. Il giorno seguente vedremo luoghi simbolo degli Stati Uniti.

2° giorno: sabato 04 agosto 2001 – Washington Al mattino sveglia molto presto e dopo una mezz’ora siamo in strada direzione centro città. Trovato parcheggio per l’auto nei pressi della sede della FBI c’incamminiamo alla scoperta della capitale. Prima però ci aspetta la prima colazione americana, che come quelle successive sarà ipercalorica. La prima visita spetta di diritto alla Casa Bianca che però non ci sembra una cosa nuova (l’abbiamo vista in troppi film); chiesta udienza non concessaci a Bush proseguiamo verso il Lincoln Memorial (ricordate Forrest Gump che durante la premiazione per meriti di guerra riconosce la sua amata e corre dentro l’acqua?), il Vietnam veterans memorial e dopo aver attraversato un infuocato Arlington memorial bridge visitiamo a bordo di un simpatico trenino l’Arlington National cemetery (con tutte le sue lapidi rettangolari bianche) soffermandoci alla tomba di John Kennedy.

Tornati indietro con la metropolitana non abbiamo più tempo per la visita al museo dell’olocausto che avevamo prenotato; ci avviamo quindi alla macchina per dirigerci in direzione Baltimora. Siamo molto stanchi e decidiamo di comprare del cibo in un supermercato e mangiare in camera. Troviamo un motel a metà strada tra Washington e Baltimora (che distano non più di 60 chilometri) che non è eccelso ma a differenza di quello della sera prima ci sembra il Danieli di Venezia. Abbiamo percorso i nostri primi chilometri sulle strade americane e molti ancora ne dovremo percorrere. Washington si è rilevata una città più bella di come ci aspettavamo; l’abbiamo trovata pulita e ordinata, con molto verde e un traffico accettabile (forse perché era sabato) e anche con molte cose da vedere. Domani ci aspetta Baltimora e in serata arrivo a Philadelphia, andiamo a dormire con in testa la musica di Rocky.

3° giorno: domenica 05 agosto 2001: Baltimora – Philadelphia Altra sveglia alla buon’ora e subito in auto per raggiungere Baltimora. Alessandro come al solito appena sveglio è affamato, quindi la prima attività appena giunti a Baltimora la svolgeremo con le gambe sotto il tavolo in un buon ristorante.

Entriamo alle 8 circa nella periferia di Baltimora e, pur non essendoci anima viva in giro cominciamo a conoscere la realtà delle metropoli americane; l’ambiente è quello dei film tipo i guerrieri della notte, con case fatiscenti, scritte e graffiti sui muri, vicoli da inseguimento e, agli angoli delle strade gli immancabili campi da basket. Entriamo finalmente nel centro città e ci dirigiamo verso il porto dove cerchiamo subito un parcheggio per l’auto. Dopo pochi minuti siamo sulle strade di Baltimora affamati ma contenti di vedere la seconda metropoli americana di questo viaggio. Giunti al porto notiamo un simpatico ristorantino su uno dei moli e, come felini ci lanciamo sulla nostra preda. All’interno abbiamo la senzazione di essere tornati negli anni ’50 e da un momento all’altro ci aspettiamo Alfred (il gestore di Arnold’s in Happy days) che ci illustra le prelibatezze della casa. Questa colazione si rivelerà una delle pratiche culinarie più impegnative. Come succederà per tutto il viaggio ci dividiamo in due scuole di pensiero: da una parte io, Simona 1, Alessandro e Diego siamo per i piatti killer composti da uova strapazzate, bacon, frittelle con marmellate varie e anche una fetta di torta (pesantissima), dall’altra Simona 2 e Federica, più delicatine e salutiste si accontentano di qualche frittella con la marmellata. Ingurgitate le colazioni decidiamo che, visto che l’unica cosa che ci pare interessante a Baltimora è solo la zona del porto, una volta visitato quest’ultimo partiremo per Philadelphia. Avendo parcecchio tempo a disposizione si decide di fare un giro più largo e passare nella contea di Lancaster dove vive la comunità degli Amish, comunità religiosa che vive ancora seguendo le regole, le tradizioni e l’abbigliamento di un secolo fa. Decidiamo di visitare una fattoria Amish; 6 dollari a persona per vedere una casa normalissima e qualche animale nei recinti nel retro della fattoria. Una delusione, anche perché degli Amish non c’è nessuna traccia. Li vedremo poi successivamente ripresa la strada per Philadelphia (non utilizzano auto ma solo calessi trainati dai cavalli) e questo ci rivaluta l’intera giornata (ci credete?). Verso sera arriviamo nei sobborghi di Philadelphia e, come sempre, sbagliamo strada e ci ritroviamo nel bel mezzo di uno dei quartieri peggiori che ci potessero capitare: il quartiere di German Town. Siamo tutt’altro che tranquilli anche per gli sguardi che ci vengono rivolti dall’esterno e già ci vediamo protagonisti di un film che non desideravamo interpretare; cerchiamo di ritrovare il prima possibile la tangenziale, ma ci vorrà più di mezz’ora. Usciti finalmente dal dedalo di strade della periferia di Philadelphia (quella di Baltimora era stato solo un antipastino) ci mettiamo alla ricerca di una cuccia per la notte. Attenzione: chi di Voi si recherà a Philadelphia tenga presente che trovare un motel al di fuori della città sarà impresa ardua: noi dopo almeno due ore di ricerca troviamo un gentile americano che ci conduce fino a un Days Inn. Dopo una buona bistecca e un’insalata in un locale vicino all’albergo ci lanciamo sui nostri letti, domani mattina ci aspetta Philadelphia: la città di Rocky Balboa, ma anche e soprattutto la città simbolo del sogno americano, della partenza verso l’Ovest, verso la frontiera, dove fu firmata la dichiarazione di indipendenza degli stati fondatori.

4° giorno: lunedì 6 agosto 2001: Philadelphia – Elmira.

Alle 8 del mattino siamo già nel centro di Philadelphia, il caldo è insopportabile. Dopo pochi minuti di cammino ci scontriamo con una delle peggiori contraddizioni di questo grande paese. Tutti i giardini e parchi cittadini che incontriamo sono pieni zeppi di homeless che si stanno svegliando e alzando. Vicino a loro passano manager e impiegati in giacca e cravatta che si stanno recando al lavoro nei lussuosi uffici del centro. Questi due estremi sembrano accettati come la cosa più normale di questo mondo. L’America è il paese dove tutto è grande: il territorio, l’economia, i grattacieli, la ricchezza e la povertà. Probabilmente i 50 milioni di poveri permettono agli altri 200 una vita prospera, forse anche questa è democrazia.

La intravedo da lontano; sì è proprio lei, la scalinata di Rocky. Mentre Alessandro riprende con la sua videocamera comincia la mia corsa con tanto di sandali, ma riesco comunque ad arrivare su e a urlare Adriana a squarciagola. E’ incredibile come questo posto sia invaso quotidianamente da turisti esclusivamente per la notorietà acquisita a seguito del film di Stallone e non ad esempio per l’importantissimo museo presente nella piazzetta sovrastante la scalinata (confesso che anche noi siamo qui solo per la prima ragione). Proseguiamo la visita di Philadelphia inoltrandoci verso il centro città. Attraversiamo la zona dei grattacieli dove hanno sede importanti società e notiamo che i fumatori devono addirittura uscire dall’edificio e consumare la sigarette in strada. Negli Stati Uniti non si può fumare in nessun luogo chiuso, tranne casa propria. Ci dirigiamo verso la parte storica di Philadelphia e essendo arrivata l’ora di pranzo ci fermiamo in un chiosco dove ci facciamo preparare dei panini “mostruosi” che azzanniamo proprio di fronte al palazzo dove firmarono la dichiarazione di indipendenza. Il caldo del primo pomeriggio è veramente micidiale, troviamo refrigerio all’interno del visitor center dove l’aria condizionata è a livelli sovrumani. Questa è un’altra caratteristica americana, nei mesi estivi in tutti i locali chiusi l’aria condizionata è una vera regina. E’ sempre utilizzata in maniera esagerata, come il ghiaccio nelle bibite (se non ne volete bicchieri pieni zeppi ricordatevi di dire “no ice” quando ordinate una bibita).

Dopo aver assistito ad un arresto a pochi metri da noi (ci sembrava di essere in un film) passeggiamo nella zona di Philadelphia che scende verso il porto; a metà pomeriggio prendiamo la metropolitana e ci dirigiamo verso la macchina. Ci aspettano lunghe ore di viaggio in direzione cascate del Niagara, ci fermeremo a dormire quando saremo stanchi.

Dopo un’occhiata veloce alla cartina ci dirigiamo verso Scranton. Attraversiamo la Pennsylvania da Sud a Nord. La campagna della Pennsylvania è veramente bella; con le sue dolci e verdi colline i boschi fitti e i profumi tipici dell’estate; le case sono graziose, notiamo che nessuna è cintata e non esistono cancelli, da noi non sarebbe possibile o quantomeno rischioso; come minimo la domenica ci troveremmo invasi dai maniaci dei pic-nic. Decidiamo di fare un pezzo di percorso prendendo una strada secondaria e la scelta si rivela azzeccata. E’ attraverso queste strade secondarie che si scopre la vera America, quella del mito, di Kerouac e di tutte le generazioni di vagabondi che hanno attraversato da Nord a Sud e da Est Ovest questo grande paese alla ricerca di qualcosa che forse non hanno mai trovato, ma hanno senza dubbio contribuito alla leggenda delle vecchie strade americane. E parlando di mito dopo alcune ore appena a Nord di Scrancton incrociamo e prendiamo la leggendaria strada nr. 6 che da New York porta fino in California. Seimila chilometri di asfalto per ripercorrere i percorsi dei pionieri in direzione Ovest, verso la frontiera, i territori selvaggi e, dopo le grandi pianure, gli aspri altipiani, i cocenti deserti ecco la terra promessa: le verdi pianure della California e dell’Oregon. Nel bel mezzo delle pianure Americane la nr. 6 si incrocia con la Mother road, la vecchia nr. 66 che nelle cartine attuali non è più segnalata ma che è entrata in pieno diritto nella leggenda.

Ormai stanchi dopo parecchie ore di macchina ci fermiamo a una ventina di chilometri da Elmira in un piccolo motel in mezzo al niente. E’ libera solo una camera, decidiamo di fermarci comunque e di dormire tutti e sei insieme. Dopo una buonissima cena al ristorante del Motel ci accorgiamo, passeggiando lungo il piazzale nel retro, che quest’eremo in mezzo al nulla è luogo frequentato da migliaia di grossi ragni e insetti vari; ma il massimo lo troviamo davanti alla porta della nostra camera dove ad attenderci troviamo un bel serpente. La notte sarà un vero incubo: in sei in una camera con l’aria condizionata rotta e 32 gradi di temperatura e il 400% di umidità. Riesce a dormire solo Simona 2, per lei questo caldo sovrumano è un dolce tepore. Nella lotta con la morsa del caldo il pensiero va già all’indomani, e le acque delle maestose cascate del Niagara sembrano quasi rinfrescarci.

5° giorno: martedì 7 agosto 2001: Elmira – Cascate del Niagara – Rochester Dopo un po’ di ore di sauna ci alziamo e ci prepariamo per percorrere i chilometri che ci separano dalle cascate del Niagara. Purtroppo dobbiamo abbandonare la strada nr. 6 che prosegue verso Ovest e prendere la nr. 15 verso Nord. Dopo una trentina di chilometri (più o meno) lasciamo lo stato della Pennsylvania ed entriamo nello stato di New York. Arriviamo alle cascate appena dopo mezzogiorno. E’ inutile negare ma visti i numerosi giudizi negativi siamo un po’ prevenuti. Oltretutto quello che vediamo intorno è veramente troppo “americano”; attraversiamo infatti una miriade di alberghi, campeggi, locali vari, sembra di essere sulla riviera romagnola. Non ci sembra possibile poter rovinare in questo modo una meraviglia della natura. Fortunatamente le cascate sono invece molto belle. La portata d’acqua ed il salto sono veramente impressionanti. Queste bellezze naturali ci ripagano degli scempi visti in precedenza. Io e mia moglie (Simona 1) decidiamo di fare il giro in battello fino sotto le cascate, gli altri preferiscono una passeggiata nel parco. Torniamo completamente fradici; ma è stato veramente straordinario, abbiamo toccato con mano la potenza della natura. E’ stato indimenticabile, il nostro battello nel punto più vicino alle cascate è stato completamente coperto dall’acqua. Dopo esserci asciugati raggiungiamo i nostri compagni e, dopo un bel caffè e un po’ di riposo ci accingiamo a proseguire il nostro viaggio. Alessandro alla guida e Diego navigatore decidono di prendere la strada che costeggia il Lago Ontario. A vederlo si direbbe sia un mare tanto è grande. Ci dirigiamo verso Est ammirando un bellissimo tramonto. Sono questi i momenti più belli del viaggio; quando la natura ti regala grandi emozioni non vorresti essere da nessun’altra parte, e vivi questi momenti come irripetibili sicuro che ti rimarranno per sempre nel cuore. Dopo un paio d’ore (forse tre) quando ormai la notte è calata arriviamo a Rochester e cerchiamo un albergo dove trascorrere la notte. Ci fermiamo ad un Days hotel a ridosso dell’autostrada. E’ molto bello e confortevole. Ci voleva dopo l’ultima notte.

Siamo molto stanchi (come tutte le sere), compriamo qualche pizza da Pizza Hut che sbraniamo in albergo. Mangiare la pizza in America è molto pericoloso per degli Italiani; comunque provate quella di Pizza Hut, è abbastanza abbordabile. Andiamo a dormire sapendo che il giorno seguente sarà esclusivamente di spostamento. Dobbiamo arrivare a Boston (più di 800 chilometri), sarà una delle tappe più lunghe di tutto il viaggio. Ci addormentiamo pronti ad attraversare in un solo giorno quasi tutto lo stato di New York ed il Massachusetts. 6° giorno: mercoledì 8 agosto 2001; ROCHESTER – BOSTON.

La sveglia come al solito è prestissimo e implacabile. Usciti da Rochester prendiamo la Highway nr. 20 destinazione Boston. Questa parte dello stato di New York è bella , verde ma anche molto piatta. Lungo il tragitto attraversiamo alcune cittadine di provincia molto caratteristiche, e notiamo che a differenza dell’Italia qui non ci sono i cartelli indicanti il nome della città o del paese. Ci accorgiamo ben presto che purtroppo dobbiamo andare a prendere l’autostrada, altrimenti a Boston rischiamo di arrivarci il giorno dopo. L’autostrada nr. 90 è un lungo e noioso rettilineo che, passando dalla Capitale dello stato di New York (Albany) ci porterà fino a destinazione sulle rive dell’Atlantico. Ci fermiamo a mangiare in un autogrill, e ripartiamo cambiando autista; al posto mio si mette alla guida Diego pronto a mordere l’asfalto e a superare, come suo solito, i limiti di velocità. In auto cala il silenzio, tutti dormono distrutti dalla noia; io cerco di stare sveglio per fare compagnia all’autista, piuttosto sofferente. Dopo alcune ore entriamo nello stato del Massachusetts e decidiamo di fare una sosta uscendo dall’autostrada. Ci fermiamo ad un Wendy, catena di gelaterie e snack vari. Il posto sembra uscire da un film di Walt Disney ed è pieno di famiglie con bambini. Tutta l’America è piena zeppa di posti come questo: Mcdonald’s, Burger king, Tacos bell, Frendly’s ecc…; un parcheggio enorme, un supermercato e un immancabile fast food. Sono la fotocopia uno dell’altro; qui tutto è standardizzato, e soprattutto è tutto concepito in funzione delle automobili. In questi posti arrivare a piedi è difficile e pericoloso. I discendenti dei gloriosi pionieri sembra che sappiano muoversi solo seduti nelle loro auto. Quindi dall’America aspettatevi molto dalle sue strade, dalla sua natura, dai suoi straordinari paesaggi, dalla sua storia anche se recente, ma se riuscite state lontani dalle grandi città e dalle autostrade. Cercate la vera America nelle piccole cittadine di province, nelle strade secondarie, nelle strade sterrate dei deserti dell’Ovest; questa America vi resterà dentro e vi farà venir voglia di ritornare. Ripartiamo per Boston con il terzo autista alla guida, Alessandro, che, dopo aver dormito quasi tutto il giorno è perfettamente in forma e pronto a condurci a destinazione. Decidiamo di andare a dormire a Salem, il paese delle streghe a pochi chilometri da Boston. Arriviamo che è molto tardi (in America si mangia molto presto e alle 21 e già difficile trovare un posto che ancora dia da mangiare). Dopo aver cenato cerchiamo un motel e l’impresa si rileverà molto ardua. Finalmente all’ennesimo tentativo troviamo due camere in un Super 8 e, Alessandro, ormai sfinito e coi muscoli addominali e rettali distrutti si lancia verso il bagno; quando esce sembra un Highlander dopo un’epica battaglia.

Finalmente dopo una giornata di viaggio andiamo a dormire. Il giorno seguente visiteremo prima Salem e poi Boston, la città di Harvard.

7° giorno: giovedì 9 agosto 2001: BOSTON Visto il viaggio faticoso del giorno prima la sveglia oggi è meno implacabile del solito. Dopo una bella colazione la prima cosa che faremo sarà fortemente americana. Era una delle cose che volevamo assolutamente provare, la lavanderia automatica è uno dei simboli della vita quotidiana in america. Per il viaggiatore significa entrare nel cuore dell’America, sentirsi uno di loro. Dopo un’ora circa abbiamo finito e siamo pronti a partire alla scoperta di Salem. Per prima cosa visitiamo un museo delle streghe. Si rivelerà una mezza delusione. Invece di un museo si tratta di uno spettacolo (una specie di monologo) in cui raccontano vecchie storie di streghe nella Boston del 1800; parole capite 3 o 4, una tragedia. Il centro di Salem è completamente pedonale e molto carino. Ci dirigiamo verso il porto e ci fermiamo a mangiare in un locale dove mangiamo dei discreti piatti di pesce. Nel frattempo la temperatura ha raggiunto livelli insopportabili tranne, come al solito, per Federica e Simona 2 che, anzi, non disdegnerebbero un golfino (tremendo!!). Il porto non è entusiasmante, decidiamo di prendere l’auto e dirigerci a Boston. Boston rappresenta l’america moderna dei nostri giorni, ma con profonde radici nei secoli passati. Il Massachusetts ha il soprannome di puritan state (stato puritano), i padri pellegrini hanno lasciato le tradizioni, il modo di vivere e di pensare dei bianchi, anglosassoni e protestanti del 1700. La città comunque ci è piaciuta molto. I giovani sono moltissimi e, attorno al tradizionale punto d’incontro dei Bostoniani, il Quincy Market, troviamo un clima frizzante e goliardico; complessini che suonano, bar pieni di gente, persone che si incontrano e turisti che si intrufolano. Una lunga passeggiata (vari chilometri) alla scoperta del centro di Boston è segnalata con una striscia di mattoncini rossi, che ti guidano alla scoperta di questa bella città. In attesa della cena ne percorriamo un bel pezzo. Arriviamo fino al Boston common, il più antico parco pubblico di tutti gli Stati Uniti. E’ considerato un simbolo di libertà, in quanto da quando fu creato (nel lontano 1630 circa) ogni cittadino lo poteva utilizzare addirittura anche per pascolare le mucche; qui furono però barbaramente impiccati quaccheri, streghe e pirati; un’altra prova che in questo paese, simbolo e guida del mondo civilizzato, sopravvivono fuse insieme grandi libertà e profonde ingiustizie. Stanchi per la lunga scarpinata ci fondiamo in un Tex-Mex (ristorante texano messicano), si rivelerà una delle pratiche culinarie più riuscite di questo viaggio. Nel dirigerci verso la macchina per tornare al nostro motel fermandoci in un piccolo supermercato per comprare dell’acqua, facciamo uno degli incontri più belli e commoventi del nostro viaggio. Un’anziana donna ci sente parlare in italiano e ci ferma; è una donna Italiana della provincia di Avellino. Ci racconta la sua vita di immigrata nel periodo in cui in Italia la vita era veramente difficile e l’America incarnava molto più di adesso il sogno di libertà e di benessere per milioni di stranieri. La sua non è stata una vita facile e il sogno americano si è rivelato solamente una dura sopravvivenza. Solo per pochi l’America è stata la via dell’oro, per migliaia (o milioni) di anonimi è stata una vita di sacrifici e di privazioni con il dolore per la lontananza dalle proprie origini. La lasciamo tra le lacrime e con la promessa, al nostro ritorno in Italia, di fare un saluto alla sua terra. Arriviamo in motel stanchi ma felici di questa giornata americana, dentro di noi è un po’ cresciuto l’amore per il nostro paese.

8°-9°-10° giorno: venerdì 10 agosto 2001- sabato 11 e domenica 12: Boston – Denver Ci svegliamo di mattina presto. Dobbiamo preparare i bagagli perché nel pomeriggio ci aspetta l’aereo per Denver, e nella mattinata dobbiamo continuare la visita di Boston.

Prendiamo uno di quei pulmini turistici con il quale giriamo gran parte del centro città, passiamo anche davanti alla celeberrima università di Harvard, dove i figli più fortunati dell’America più ricca costruiscono il loro dorato futuro per la modica cifra di un’ottantina di milioni all’anno. Qui assicurano che, a differenza dell’Italia, i soldi spesi per l’Università sono un vero e proprio investimento. Vediamo poi il distretto finanziario con i suoi grattacieli e percorriamo tutta la zona del porto. Scendiamo a North end, vecchio quartiere del porto dove vivevano gli immigrati all’inizio del 20° secolo, si potrebbe definire la little Italy di Boston; qui si tengono feste religiose, processioni e feste varie in memoria delle vecchie tradizioni italiane. Percorriamo il quartiere in direzione centro, i bar somigliano molto a quelli italiani, ma penso che gli Italiani rimasti siano pochi; si tratta per di più di discendenti che hanno dimenticato la lingua dei loro padri e sono ormai americani al 100%. Si è fatto ormai particolarmente tardi, tra due ore dobbiamo riconsegnare l’auto e andare in aeroporto per il check in; ci fermiamo in un bar con scritte italiane, anche l’arredamento interno ricorda un bar italiano. Io e Diegone (lo chiamiamo così, ma non dipende assolutamente dalla panza) proviamo un panino con la mortadella; sappiamo di rischiare grosso, ma ci va bene, il panino è molto buono anche se molto caro (6 dollari). Finito il pranzo proviamo anche l’espresso (in sostituzione per una volta del beverone americano), buono quasi come nei bar italiani.

Alle 13.00 circa diamo l’addio all’auto con la quale abbiamo percorso 2.500 chilometri dell’Est americano. Arriviamo in aeroporto è abbiamo subito una brutta sorpresa: il nostro volo per Detroit è stato annullato per brutto tempo. E’ l’inizio di una brutta avventura che ci dimostrerà che non solo in Italia si può essere vittime di ritardi e disfunzioni. Dopo interminabili discussioni con il personale agli sportelli capiamo che dovremo trovarci un albergo per la notte perché fino alle 13 del giorno successivo non ci sarà un altro aereo. Ma non è ancora finita perché l’aereo il giorno dopo parte con un ritardo mostruoso e, arrivati a Detroit con oltre due ore di ritardo perdiamo la coincidenza per Denver. Siamo un’altra volta costretti a trovare un albergo e aspettare il giorno successivo. Tutto questo ci ha fatto arrivare a Denver domenica 12 agosto alle ore 18.00 invece che venerdì 10; abbiamo perso ben due giorni in un programma di viaggio già strettissimo. Il problema è come recuperarli; salteremo mezza giornata rinunciando a Canyonlands, altra mezza giornata la recupereremo tra Grand Canyon e Bryce Canyon e un giorno intero lo toglieremo alla California.

2^ parte del viaggio: IL MITICO OVEST 10° giorno: domenica 12 agosto 2001: DENVER – GREEN RIVER Finalmente siamo a Denver, l’Ovest americano ci aspetta. Il mito della frontiera, delle strade sterrate, degli immensi spazi, è sotto i nostri piedi. Non ci serve che un’auto e una canzone degli Eagles e l’Ovest è nostro. Raggiunto il parcheggio dell’Alamo e consegnati i documenti necessari ritiriamo l’auto e siamo pronti a partire. Per recuperare il tempo perduto dobbiamo fare più di 500 chilometri, attraversare le montagne rocciose e arrivare fino a Green River, nello Utah nei pressi dell’Arches national park. Imbocchiamo la Interstate 70 attraversiamo Denver dove si dice inizi il vero Ovest. E’ straordinario perché quando sei a Denver se guardi verso Est vedi una pianura infinita, verso Ovest le imponenti montagne rocciose. Dopo più di 6 ore di auto (a seguito delle 3 in aereo) e tutti e tre gli autisti sfruttati arriviamo moribondi a Green River e, presa una camera al motel 6 del paese, non vediamo che il letto. Trascorriamo la nostra prima notte sotto il cielo dell’Ovest, ci troviamo ad una passo da parchi straordinari. Siamo nella terra degli indiani e dei pionieri, in uno stato grande più di metà dell’Italia con neppure 2 milioni di abitanti, nonostante la stanchezza c’è l’emozione per i posti che vedremo e le strade che percorreremo e la colonna sonora del nostro sonno sarà una vecchia melodia indiana.

11° giorno: lunedì 13 agosto 2001: Arches National park – Monument valley.

Prima sveglia nell’Ovest americano. Abbiamo dormito pochissime ore, ma dobbiamo svegliarci molto presto. Molti sono i chilometri da percorrere e molte le cose da vedere. Chiediamo a Jimmy (sonnolento portiere del motel) di indicarci un posto dove consumare una gigantesca colazione. Dopo due giorni terribili finalmente siamo rilassati, anche grazie a uno stupendo piatto pieno di uova bacon e patate, succhi di frutta e caffè. Il buon Jimmy ci ha suggerito un ottimo posto (da urlo anche la cameriera; bella, timida e molto americana). Dopo un’ora siamo già dentro l’Arches National park. Restiamo a bocca aperta per la bellezza selvaggia e solitaria di questo parco; l’orizzonte è infinito, il silenzio è totale, l’unico rumore è il fruscio del vento, siamo tutti zitti soli con i nostri pensieri stregati da questi luoghi. Ci spostiamo due o tre volte con l’auto per raggiungere i posti più interessanti per proseguire poi a piedi. In sequenza raggiungiamo parecchie meraviglie della natura: nel sentiero percorso a piedi incontriamo vari archi formati dall’acqua e dal vento con una lenta ma inesorabile erosione, fino ad arrivare al simbolo del parco il landscape arch, il più lungo arco naturale del mondo. Purtroppo dopo un paio d’ore il tempo peggiora ed arriva addirittura la pioggia. E’ comunque già parecchio tardi e in serata dobbiamo arrivare alla Monument Valley (circa 200 chilometri più a Sud). Imbocchiamo la highway nr. 191, una delle strade più spettacolari d’America che attraversa lo Utah e l’Arizona da Nord a Sud fino a morire al confine con il Messico. Sfioriamo Canyonlands, una delle tappe annullate a causa dei giorni persi e abbiamo la sensazione di perderci qualcosa di straordinario. Dopo il pranzo ad un Denny’s qualche chilometro a Sud di Moab riprendiamo il nostro viaggio. Il tempo peggiora sempre di più e si trasforma nel volgere di pochi minuti in un autentico nubifragio. Arriviamo a Monticello, anonimo paesino in mezzo al nulla, dove la 191 incrocia la 666 che porta alla Mesa Verde e la pioggia ci da una tregua; ci fermiamo per sgranchirci le gambe e per cambiare l’acqua ai pappagalli. Monticello è un esempio tipico dell’Ovest americano; queste piccole cittadine di provincia possono trovarsi a ore di macchina da altri centri abitati di un certo rilievo. Per noi europei è sorprendente e spiazzante l’impatto con un paese che ha nelle grandi distanze e negli spazi sconfinati le sue caratteristiche più marcate; in questi altipiani immensi si riesce a vedere all’orizzonte la rotondità della terra. Mi rendo conto di essere quasi impreparato a queste solitudini e a questi immensi silenzi; la vita di città ci ha costretto a fare l’abitudine a caos e rumore, e come tutte le abitudini col tempo ci diventano indispensabili. E’ per questo che quando ci troviamo in posti come questi, dove i silenzi, gli spazi e le solitudini regnano sovrani, ci sentiamo a disagio fino a provare addirittura quasi un malessere fisico; non siamo più protetti dalle nostre abitudini. Ripartiti da Monticello dopo circa una trentina di miglia abbandoniamo la 191 e imbocchiamo la 163, la highway che non dimenticherò e sicuramente ripercorrerò. Il paesaggio è quello dei film western, siamo nella riserva indiana dei Navajo ai quali il governo degli Stati Uniti ha donato (dopo essersi preso tutto) la vicina Monument Valley. Rivivo le migliaia di immagini viste in film e fotografie, ma stavolta io sono qui e queste sensazioni mi resteranno per sempre impresse nella mente e nel cuore. In questi luoghi immutati nel tempo si fondono insieme il mito della frontiera di ieri (quella dei pionieri) e quella di oggi (quella di Easy rider e prima ancora quella di Jack Kerouac e ora la mia); lungo questa strada nella mia mente si incrociano le canzoni degli Eagles e le pagine di “On the road”, il mito del vecchio West e una nostalgia di fondo, mia personale, struggente e malinconica: quella per le cose che non si sono vissute, per il tempo che trascorre e i tempi che cambiano. E con la convinzione ormai perduta che con un viaggio nei luoghi sempre sognati inseguendo generazioni ormai passate, si possa trovare quello che si cerca percorrendo parallelamente ad una strada un tragitto del proprio cuore. In fondo un po’ tutti siamo alla ricerca di qualcosa che forse (o sicuramente) non troveremo mai. Credo che in fondo ad ogni rettilineo e al di là di ogni curva (come da un bellissimo libro di Alex Roggero) oltre ad inseguire il fantasma del blacktop (il manto nero dell’asfalto, simbolo e spirito delle strade americane), ognuno di noi cerchi la propria disillusione.

In balia di questi pensieri e dopo circa mezz’ora di strada attraversiamo l’ultimo paesino prima della Monument: Mexican Hat (così chiamato per una roccia a forma di sombrero messicano). Il paesaggio diventa sempre più selvaggio e spettacolare e dopo un po’ di miglia iniziamo un lungo rettilineo con la Monument Valley sullo sfondo e ci fermiamo per immortalare con foto e riprese. Credo che siamo nel tratto di strada in cui si ferma Forrest Gump dopo aver corso per tre anni in giro per l’America. Arriviamo fino all’entrata e proviamo a cercare un posto per dormire all’interno ma essendoci solo un albergo di camere disponibili neppure l’ombra. Ritorniamo allora indietro a Mexican Hat dove troviamo due camere in un delizioso motel sulle sponde del San Juan river. Andiamo a mangiare in un posto stupendo; un vecchio ristorante con un imbronciato cow boy che cuoce bistecche su una griglia dondolante e due pentoloni di fagioli sulla stufa. Mangiamo all’aperto sorseggiando una birra fresca e godendoci uno stupendo tramonto che trasforma le rocce in un rosso vivo; una serata indimenticabile. Purtroppo abbiamo lasciato macchine fotografiche e videocamere in motel, quindi tutto questo resterà, indelebile e struggente, solo nei nostri ricordi. Andiamo a dormire a notte inoltrata, dopo aver trascorso un po’ di tempo sdraiati a sentire il rumore del San Juan River. Domani nella mattinata ci aspetta la visita alla Monument Valley e nel pomeriggio il viaggio per raggiungere il Grand Canyon.

12° giorno: martedì 14 agosto 2001: Monument Valley – Page.

La sveglia è implacabile alle 6.30. Dopo una veloce colazione ci dirigiamo verso la Monument sulla strada già percorsa la sera prima. Arriviamo giusto in tempo per ammirare l’alba con i raggi di sole tra i celeberrimi faraglioni. Con una specie di jeep aperta da 8 posti (con noi 6 ci sono due giapponesi) iniziamo la visita che durerà circa due ore e mezzo. L’autista è un vecchio indiano navajo (qui è tutto gestito dagli indiani) che riesce a farsi capire parlando lentamente. Arriviamo prima al John Ford point (luogo intitolato al famoso regista) da dove si ha una panoramica completa e straordinaria. Al di sopra vediamo le 3 sorelle: tre rocce molto simili che a me ricordano di più una mano con sole tre dita. A piedi attraversiamo anche un lago in cui si specchiano le rocce di fronte, e all’interno di una piccola grotta dei vecchi graffiti indiani, con disegni raffiguranti la vita quotidiana dei Navajo. Alla fine del giro ci fermiamo ad ammirare le antiche abitazioni degli indiani. Sono delle costruzioni in fango e paglia (molto resistenti); assomigliano alla lontana ai “casoni”, abitazioni tipiche della zona litorale tra Venezia e Lignano Sabbiadoro.

All’interno assieme ad una giovane Navajo, che gestisce il negozietto improvvisato di manufatti indiani, troviamo una vecchietta quasi centenaria che per oltre mezz’ora ci delizia raccontandoci vecchie storie di lei e della sua gente. Nello sguardo si nota un velo di tristezza, quello di un popolo di fieri e indomiti guerrieri ridotti a vivere della carità di chi è arrivato secoli dopo di loro. Ci dice che attualmente all’interno della valle vivono circa 6.000 famiglie. C’è una scuola per i ragazzi e tutte le abitazioni (quasi tutte catapecchie di plastica o vecchie roulotte) sono prive di luce elettrica (che all’interno della Monument non arriva). Questo piccolo numero di Navajo riesce ancora a vivere come oltre cento anni fa; ma la maggior parte ha cercato fortuna lontano nelle grandi città; trovando per lo più discriminazione e alcool. Quest’ultimo negli ultimi anni si è trasformato in una vera e propria piaga ed è tra le maggiori cause di morte tra gli indiani. Salutiamo la simpatica vecchietta e ci accingiamo a salutare la Monument Valley. Questo posto straordinario mi resterà sempre nel cuore. Penso che difficilmente si possano trovare molti altri luoghi che siano in grado di dare le emozioni che ho provato qui. I profondi silenzi, le solitudini e gli orizzonti infiniti rendono questa valle magica e magnetica e vecchie melodie indiane risuonano come a farci ricordare la storia sanguinaria di queste terre. L’uomo bianco è riuscito a sterminare gli antichi abitanti, ma non riuscirà mai a cancellare i loro spiriti che ancora aleggiano lungo i faraglioni. I miei pensieri lungo la strada in direzione Kayenta (Arizona) sono rimasti ancora per lunghi minuti all’interno della valle e negli occhi della vecchia indiana. Arriviamo a Kayenta verso mezzogiorno e ci tuffiamo dentro il primo Mcdonald’s. Mangiamo qualche hamburger in tempi minimi, ci aspetta infatti un lungo tragitto per raggiungere il Grand Canyon. Dopo aver fatto il pieno imbocchiamo la 160 sapendo che per oltre 150 chilometri non vedremo che deserto. La 160 è un lungo rettilineo percorribile anche senza il volante e senza i freni da Kayenta fino a Tuba City. Incrociamo pochissime auto e neppure una casa, ma il paesaggio e straordinario. Dopo un paio d’ore arriviamo a Tuba City assolata e sonnolenta cittadina di provincia; viene considerata la città capitale della tribù degli Hopi, la cui riserva molto più piccola confina con quella immensa dei Navajo. Gli Hopi sono sempre stati degli inermi agricoltori, la loro sottomissione si rivelò una pratica piuttosto semplice per i conquistatori. Anche adesso la loro riserva continua a rimpicciolirsi a favore dei Navajo.

A Tuba City troviamo un grosso supermercato e ne approfittiamo per ripristinare le nostre riserve di acqua. Ci resta un’oretta di strada per raggiungere il Grand Canyon. Purtroppo dopo un giorno di tregua il tempo non promette nulla di buono. Arrivare al Grand Canyon necessita di un minimo di preparazione. La sua immensità è qualcosa che ti prende per la gola e non ti lascia respirare. Non puoi fare altro che stare in silenzio e ammirare quello che la natura è in grado di creare. E’ talmente immenso da sembrare finto e irraggiungibile. Lontano nel fondo ammiriamo il Colorado river, l’artefice insieme al vento di questa inimitabile opera d’arte. Andando in direzione del Visitor center ci fermiamo in più punti panoramici e Diego si diletta in pericolose discese vicino allo strapiombo del canyon con Federica che inutilmente cerca di dissuaderlo. Alessandro visto il luogo mistico ha i capelli come Gesù di Nazareth (vedi foto di gruppo). Dopo circa un’ora arriva purtroppo l’immancabile pioggia nostra fedele compagna di viaggio. Io e Alessandro ci chiudiamo dentro l’auto mentre gli altri sono al visitor center per prenotare un motel a Page. Ripercorriamo a ritroso la strada già fatta sperando che nel frattempo cessi di piovere. Arrivati vicino all’uscita verso la highway 32 ci fermiamo in un bar – bazar per rifocillarci e acquistare dei souvenir (proprio roba da turisti). Questa fermata si è poi rivelata un autentico colpo di fortuna. La pioggia è cessata e, anche se con un vento particolarmente freddo, abbiamo assistito ad uno dei tramonti più belli mai visti e neppure immaginati. Auguro a chiunque di poter assistere ad un tramonto sul Grand Canyon appena finita la pioggia con arcobaleni e orizzonti strepitosi. Usciamo dal parco in direzione Page con alle spalle le luci di un crepuscolo straordinario.

Dopo una giornata massacrante arriviamo distrutti a Page verso le 22 e, sistemati i bagagli al Motel 6 (veramente carino) affamati e assonnati ci fondiamo verso un Pizza hut. Divorata una quantità industriale di pizza e ingurgitato qualche litro di birra l’unico posto adatto a noi è un materasso. Ci prepariamo per la notte con la senzazione di aver vissuto una di quelle giornate della vita che sono destinate a rimanere irripetibili. Domani ci attende un’altra giornata tutt’altro che riposante con destinazione finale Bryce Canyon.

13° giorno: mercoledì 15 agosto 2001: PAGE – PANGUITCH La sveglia per una volta non è all’alba ma verso le 8. Nonostante la pizza della sera stia ancora girovagando per i nostri stomaci siamo affamati. Troviamo un posto gestito da indiani dove, essendo giorno festivo, un discreto numero di americani a Page per il weekend con tanto di barca al seguito stanno consumando le loro colazioni (il lago Powell, grandissimo e con scenari notevoli, è meta nei fine settimana per molti americani). Io, Alessandro, Diego e Simona 1 come al solito optiamo per una colazione tipicamente americana e ipercalorica con notevoli ripercussioni sul fegato. Conclusa la laboriosa pratica culinaria, prima di partire in direzione Bryce Canyon andiamo a vedere la grande diga sul lago Powell. Al Visitor Center io e Diego, forse per l’aria festosa del ferragosto, ci divertiamo come pazzi e con atteggiamenti piuttosto ambigui. A proposito la foto di Diego del lago è venuta piuttosto bene forse anche per merito mio. Il lago visto dall’alto della diga è stupendo e gli scenari sono proprio quelli di un film Western. Andando però successivamente verso la riva scopriamo che è fortemente inquinato, tanto da essere vietata la balneazione. Rinunciato alla gita in barca per il costo non elevato ma proibitivo, siamo pronti per raggiungere il Bryce Canyon che si rivelerà l’ennesima tappa strepitosa di questo viaggio. Imboccata la highway 89 dopo alcuni chilometri passiamo il confine e entriamo per la seconda volta nello stato dello Utah. Dopo circa mezz’ora raggiungiamo Kanab, piccola cittadina che per i suoi scenari naturali è stata utilizzata come set cinematografica di moltissimi film Western, tanto da essere chiamata “the little Hollywood”. Entriamo in un negozio particolare in quanto nel retro troviamo un set cinematografico; con una tipica cittadina del west dell’800 con tanto di saloon, diligenza, barbiere e banca. Il negozio è molto particolare per il numero di articoli tipici in vendita. Dai Cd di musica country all’abbigliamento da vero cow boy (anche per i bambini). Dopo qualche acquisto riprendiamo la nostra strada. Come al solito prendiamo la quotidiana dose di pioggia e anche un ingorgo in pieno deserto. Dopo alcune ore arriviamo in prossimità del Bryce Canyon. Troviamo una camera in un grazioso motel a Panguitch. Lungo la strada abbiamo visto la locandina di un rodeo. Nonostante la stanchezza decidiamo di andare a vedere. Purtroppo arriviamo quando è già tutto finito. Delusi ci consoliamo con una enorme bistecca in una vicina steak house. E’ una serata molto bella e fredda (d’altronde ci troviamo a oltre 2.000 metri di altitudine), il cielo spazzato da un vento leggero è un tappeto di stelle. Un’altra splendida giornata americana giunge alla sua fine. Questa terra da sempre sogno per intere generazioni offre continuamente grandi sensazioni, forse più che per una particolare bellezza per ciò che rappresenta e che ha rappresentato. Chi ama gli scritti di Kerouac dei suoi viaggi su e giù per l’America non può che provare una forte attrazione per la strada americana. La strada non sempre e solo una striscia di asfalto contornata da paesaggi. Molte volte può rappresentare molto di più: un ideale, un sogno, un’emozione, una storia vissuta o da vivere. Per Kerouac la strada rappresentava una fuga, sofferta e grandiosa, scintillante e miserabile dalla vita quotidiana e dalla società che lo opprimeva. Ancora oggi per molti può essere così; quando imbocchi una strada non ci deve essere necessariamente un punto di arrivo.

Tornati al motel puntiamo le sveglie ad un’ora terribile, le 5.30 !!! ma l’alba al Bryce Canyon è da non perdere.

14° giorno: giovedì 16 agosto 2001: PANGUITCH – LAS VEGAS.

Dopo l’implacabile suoneria telefonica automatica (ormai le odio) in una decina di minuti siamo già fuori per raggiungere il Bryce. La temperatura è terribile ( 7 gradi). Simona 2 è vestita come uno scalatore in prossimità della vetta dell’Everest. Ma l’alba che poco tempo dopo abbiamo ammirato ha ripagato la sveglia da caserma e la temperatura artica. Il Bryce Canyon è un parco relativamente piccolo se paragonato agli altri parchi americani. Io amo definirlo uno scrigno pieno di piccoli gioielli. E’ bellissimo vederlo dall’alto; ma una camminata di un paio d’ore al suo interno ti lascia letteralmente a bocca aperta. La natura è senza ombra di dubbio il più grande artista di sempre. Le rocce appuntite e lavorate tanto da sembrare monumenti, le gole scavate dall’acqua e dal vento, il silenzio così intenso da diventare rumoroso, i boschi attraversati da piccoli sentieri e gli orizzonti che mettono il magone; questo in poche frasi è il Bryce Canyon visto e sentito da me. Sono convinto che nei posti in cui si passa o ci si ferma il vedere sia meno importante del sentire; un luogo, una città, un paesaggio, una montagna o un fiume se restano nel cuore è perché abbiamo sentito qualcosa di importante e profondo da restare scolpito dentro di noi. Verso le 10.30 finiamo la passeggiata appena in tempo. Il caldo e centinaia di turisti stanno prendendo d’assalto il parco. L’essere arrivati molto presto ci ha permesso di goderci queste 3 ore in perfetta solitudine. Adesso lasciamo campo libero alle orde di invasori. Riposandoci in un tranquillo boschetto nei pressi della nostra auto diamo un’occhiata alla cartina per scegliere la strada che ci porterà a Las Vegas. Dobbiamo ritornare all’Highway 89, prendere poi la 14 che attraversando le montagne ci farà raggiungere l’autostrada 15 con la quale raggiungeremo Las Vegas. Lungo la strada ammiriamo il red canyon (la sera prima al tramonto era qualcosa di fantastico), ci fermiamo per alcune foto a queste montagne composte da una terra rosso fuoco, veramente molto bello. Dal Red Canyon scendiamo verso la 89, la riprendiamo in direzione Kanab ( da dove eravamo arrivati), ma dopo alcuni chilometri imbocchiamo la 14; strada molto bella ma, attraversando le montagne molto lenta, impieghiamo infatti più di 2 ore per arrivare a Cedar City. Scendiamo verso il deserto del Nevada; a ogni chilometro la temperatura aumenta. Entriamo in Nevada verso le 14 e la temperatura è arrivata ormai a 48 gradi (al mattino eravamo a 7 gradi); a questo punto anche Simona 2 può togliersi il piumino. Ci fermiamo a mangiare a Mesquite a circa 120 chilometri da Las Vegas. E’ subito chiaro che ci troviamo nello stato in cui le maggiori entrate economiche provengono dal gioco d’azzardo; infatti notiamo con un sintomo di disagio che Mesquite è un insieme di casinò-ristoranti nel mezzo del nulla. Ne scegliamo uno a caso e la lieta sorpresa sono i prezzi. Come anche a Las Vegas i prezzi per mangiare sono bassissimi soprattutto negli enormi buffet presenti all’interno di ogni casinò. A loro infatti interessa che la gente vada a giocare e a buttare i soldi dentro alle slot machine. Visto che il prezzo è forfettario (nel senso che una volta pagato puoi servirti di tutto quello che vuoi), ci ingozziamo come dei profughi bevendo buona birra fresca. Finito il luculliano banchetto cominciamo a temere l’uscita; considerando la temperatura esterna e quello che abbiamo ingurgitato potrebbe anche capitarci qualcosa di sgradevole. Ma dobbiamo arrivare a Las Vegas e quindi affrontiamo l’esterno subito aggrediti da un vento caldo come se avessimo un phon puntato sulla faccia. Raggiungiamo in tempo zero la macchina e riprendiamo l’autostrada. A metà pomeriggio siamo a Las Vegas, immensa città giocattolo dove arrivano annualmente più turisti che a Venezia (mi sembra 40 milioni all’anno). Nella periferia ci sono le zone residenziali e appare come una normalissima città, ma è lungo lo strip (la strada principale lunga una decina di chilometri che taglia la città in due) che si trasforma e diventa quella città piena di luci, alberghi e casinò che tutti conosciamo per averla vista in migliaia di film. Ci mettiamo subito alla ricerca di un albergo (a Las Vegas tranne il weekend è facilissimo trovare un posto per dormire visto il numero immenso di alberghi e motel). Dopo aver provato in un paio di alberghi troviamo due camere in un bel motel lungo lo strip di fronte a Treasure island (un albergo con davanti un enorme piscina con tanto di moto ondoso trasformata in un porto di una città caraibica dove ogni 4 ore si svolge uno spettacolo con due navi che combattono a colpi di cannone fino all’affondamento di una delle due). Ci sistemiamo nelle camere in attesa del tramonto sperando che la temperatura divenga più accettabile. La serata, dopo una passeggiata, la trascorriamo al Caesar’s Palace (albergo-casinò enorme creato sullo stile antica Roma), prima al buffet (soliti prezzi molto bassi) e poi a giocare al casinò 20 dollari a testa che ci dureranno circa un paio d’ore. Las Vegas è sicuramente una città affascinante in quanto unica nel suo genere, ma per quanto mi riguarda merita giusto un passaggio di mezza giornata a meno di non essere maniaci del gioco d’azzardo. Tornando al motel per trascorrere la notte decidiamo di saltare la visita alla Death valley prevista per il giorno dopo in quanto la temperatura sfiora i 50 gradi e temiamo anche per la tenuta dell’auto. Proseguiremo quindi per l’autostrada 15 attraversando il Mojave desert con destinazione finale il Sequoia national park.

15° giorno: venerdì 17 agosto 2001: LAS VEGAS – FRESNO.

Lasciamo Las Vegas nelle prime ore del mattino, la temperatura è già infuocata e ci attende un lungo viaggio fino al Sequoia national park (sono almeno 600 chilometri). Mi metto alla guida pronto ad affrontare almeno 3 ore di deserto; dopo 150 chilometri di nulla e qualche ghost town incrociamo la sonnolenta cittadina di Barstow dove ci fermiamo per fare benzina e per un caffè. Qui dobbiamo lasciare l’autostrada che prosegue verso Los Angeles e prendere la 58. Temiamo per la tenuta della macchina visto che la temperatura non accenna a diminuire. Unico obiettivo è di arrivare il prima possibile alla fine del deserto. Finalmente verso mezzogiorno cominciamo a vedere un po’ di vegetazione, abbiamo infatti superato da alcuni chilometri la cittadina di Mojave la quale segnala l’inizio del deserto che porta lo stesso nome. Un’ora più tardi superiamo un gruppo di colline e scendiamo nella San Joaquin valley. A Bakersfield ci fermiamo per pranzare; dopo qualche ricerca troviamo un ristorantino all’interno di una graziosa villetta dove una gentilissima signora ci propone il menù del giorno. La San Joaquin valley è una fertile e enorme pianura che si estende da Bakersfield fino a Sacramento. Qui mi sembra abbiamo girato la famosa serie “La grande vallata” e il film “Il profumo del mosto selvatico”. E’ in questa valle che si produce il famoso vino californiano esportato in tutto il mondo, senza contare la variegata produzione agricola. Il paesaggio è simile alla nostra pianura padana, ogni metro di terra è coltivato e il traffico è notevole. Nel volgere di poche ore di viaggio il paesaggio si è completamente mutato. Dai colori tenui del deserto al verde intenso della pianura. Da zone completamente disabitate e inospitali del deserto del mojave intervallate da sonnolente cittadine, a questa ridente valle dove la densità di popolazione è notevole e le cittadine si susseguono una dopo l’altra e appaiono laboriose e produttive. Percorriamo per un’ottantina di chilometri la highway 99 fino a Visalia per poi imboccare la 198 che ci condurrà alle montagne della Sierra Nevada. All’entrata il Sequoia Park ci lascia un po’ interdetti; di sequoie neppure l’ombra e il paesaggio circostante e scarso di vegetazione e bruciato dal sole. Ci fermiamo al visitor center e prenotiamo il motel a Fresno, la temperatura è micidiale e le sequoie dove sono? Ripartiti e dopo almeno mezz’ora finalmente ci si presenta davanti agli occhi il paesaggio che ci aspettavamo; foreste di sequoie altissime e temperatura frizzante di alta montagna. Dopo aver fatto alcune soste arriviamo finalmente al generale Sherman l’essere vivente più grande (83 metri di altezza, 11 di diametro e 31 di circonferenza) e vecchio del mondo (3.000 anni). Purtroppo non abbiamo molto tempo in quanto sono le 18 passate. Percorriamo tutta la general Highway (che attraversa tutto il parco) fino a raggiungere un’altra famosissima sequoia: il generale Grant. Un po’ più piccola ma altrettanto incredibile. Facciamo una passeggiata in questa parte del parco; con l’imbrunire camminare in mezzo a questi giganti è un’esperienza da non perdere, il tramonto trasforma il paesaggio in qualcosa di trascendentale e mistico. Più viene buio e più siamo attratti e spaventati da questo luogo magico e un po’ timorosi riprendiamo la strada verso il parcheggio. Abbiamo vissuto uno dei momenti più affascinanti e intensi di questo viaggio, ma è ormai molto tardi e dobbiamo arrivare fino a Fresno; malinconicamente ci avviamo verso la macchina restii a lasciare questo parco rapiti ormai dalla sua struggente bellezza. Nella strada che scende a valle ci fermiamo a mangiare in un ristorante isolato ma carino; vista l’ora tarda per gli americani (sono quasi le 21.00) ci preparano solo degli hamburger. Arriviamo a Fresno molto tardi distrutti dopo una giornata massacrante; trovato il motel non vediamo che il letto. Domani ci aspetta una giornata allo Yosemite.

16° giorno: Sabato 18 agosto 2001: Fresno – Modesto Ci alziamo come sempre ad un’ora terribile. Dopo la solita energetica colazione ci dirigiamo in direzione Yosemite. Non mi soffermerò più di tanto in quanto questa giornata è l’unica da dimenticare in questo viaggio. Il parco ci ha deluso profondamente, forse la stagione non era quella giusta. Abbiamo trovato un caldo terribile, la famosa cascata era priva di acqua come tutti i torrenti. Ci siamo chiesti se ci trovavamo in montagna oppure ancora nel deserto del Nevada. Dopo un pranzo veloce in un self service e una fugace passeggiata in boschi bruciati e tra torrenti in secca siamo tornati all’auto e, dopo aver prenotato il motel, diretti verso Modesto. L’arrivo prima del previsto ci ha permesso finalmente di riposare prima della cena. Finalmente riusciamo ad accontentare Simona 2 e mangiare al Kentucky fried chichen. A pasto consumato il giudizio su questa catena di ristoranti è ottimo. Purtroppo resterà l’unica esperienza in questo viaggio. Riusciamo ad andare a dormire ad un’ora decente delusi però da questa giornata. Ci addormentiamo con davanti agli occhi il Golden gate e l’isola di Alcatraz; le nebbie di S.Francisco ci aspettano, domani finalmente saremo in quella che viene universalmente riconosciuta come la città più libera e cosmopolita del mondo.

17° -18°-19° giorno: 18/19/20 agosto 2001: Modesto – S.Francisco – Monterrey.

Modesto è una tipica città di provincia americana. Grandi strade che l’attraversano e un susseguirsi di centri commerciali, motel e fast food. Gli americani hanno una passione sfrenata per i centri commerciali, e come tutte le mode statunitensi negli ultimi anni sono proliferati anche in Europa. Lasciata Modesto prendiamo l’autostrada che ci condurrà a S.Francisco. Dopo un paio d’ore eccoci in prossimità della famosa baia. Attraversiamo le città della baia tra cui Berkeley sede della famosa università da cui partirono negli anni ’60 le rivolte studentesche dei figli della Beat generation, di quel sogno americano ormai svanito nelle nebbie di Frisco. Attraversando l’Oakland bay bridge vediamo una S.Francisco completamente coperta da nuvole e nebbia. Improvvisamente i 30 e passa gradi dei giorni precedenti si riducono in pochi minuti a circa 12 gradi. Sapremo poi da un gestore di un bar che agosto è uno dei mesi peggiori. Raggiungiamo il nostro travelodge all’angolo tra Van Ness avenue e Lombard street dove ci fermeremo per la prima volta per due notti. Nei 2 giorni trascorsi in questa straordinaria città abbiamo cercato di vedere un po’ di tutto e i chilometri percorsi a piedi sono stati molti, i continui sali e scendi oltretutto non hanno reso il nostro vagabondare molto riposante. Tra tutte le grandi città americane questa è l’unica nella quale verrei a vivere subito. Ogni quartiere è diverso dagli altri. Dal financial district con i suoi grattacieli, Chinatown con il suo mix di Oriente e New Orleans, Castro il quartiere gay la cui esistenza rende Frisco unica al mondo, Mission dove si trova un pezzettino di Messico, la zona del porto di fronte all’isola di Alcatraz con i suoi moli dove gustare fantastico pesce fresco e Ghirardelli Square con la sua fabbrica di ottimo cioccolato, e infine North Beach il quartiere italiano dove arrivarono migliaia di immigrati italiani all’inizio del novecento; adesso la maggior parte di questi si è arricchita e si è trasferita in altre zone lasciando il posto ai cinesi che si stanno allargando a macchia d’olio dalla confinante Chinatown. North beach è un quartiere ideale per bighellonare, sempre molto movimentato e frizzante. Lungo Columbus avenue, la strada principale che attraversa il quartiere in diagonale, si trovano bar, ristoranti, panetterie e pasticcerie italiane e, cosa inusuale in America, si sente il profumo del pane appena sfornato. In questa strada abbiamo mangiato un ottimo piatto di spaghetti in un ristorante gestito da una famiglia originaria di Avellino. Antonio, il capofamiglia ci ha raccontato la dura vita degli immigranti. Sono arrivati alla fine degli anni ’60 e i primi anni sono stati veramente duri; non conoscevano l’inglese e soprattutto arrivando da uno sperduto paesino del Sud Italia hanno faticato non poco ad integrarsi in una società così complessa e variegata. Ma con costanza e testardaggine hanno superato tutte le difficoltà fino ad aprire il ristorante che tutt’ora fa conoscere agli americani il vero cibo italiano. Abbiamo conosciuto anche Maurizio; meccanico di Trastevere immigrato da quasi quarant’anni. Non ha perso nulla del dialetto romanesco e si dimostra informatissimo delle vicende politiche e sportive italiane; ha nostalgia dell’Italia ma non pensa di tornarci. E’ nata subito una grande simpatia tra lui e Diego; si sono intrattenuti discutendo per un tempo interminabile di calcio e politica. Distanti come tifo, Diego Juve e Maurizio Roma, si sono avvicinati per le comuni idee antiBerlusconiane. Proseguendo sempre per Columbus Avenue incrociamo parecchi bar e caffè in stile italiano; ritrovo negli anni ’50 e ’60 di poeti e romanzieri squattrinati che ruotavano intorno a Kerouac e agli altri grandi della Beat generation. Davanti a uno di questi caffè, il Vesuvio, ecco la city lights bookstore. Una libreria all’apparenza come le altre, ma resa leggendaria dal fatto di essere stata aperta da Ferlinghetti e dall’essere stata il punto di ritrovo di Kerouac, Ginsberg, Burroughs e gli altri Beat. Vicino alla libreria c’è una strada intitolata a Jack Kerouac; si tratta di un vicolo stretto, buio e maleodorante, una vera tristezza, Jack si sarà rivoltato nella tomba. Per me era strano trovarmi lì, in quel luogo dove affamato di esperienze e sprizzante di energia, Jack non fu il rappresentante e portavoce(come da più parti viene considerato)di una generazione di vagabondi sognatori, contestatori, cappelloni e drogati.Con i suoi libri e la sua vita egli creò dal nulla quella generazione infiltrandole quelle idee di libertà e di disperazione che non ebbero come capolinea gli anni ’60-’70 , ma che sono più vive che mai ancora oggi per chi ha la fortuna e la voglia di avvicinarsi ai suoi libri. Strano trovarmi lì con cinquant’anni di ritardo aggredito da una tremenda nostalgia di qualcosa di mai vissuto… con in mente un mare di pensieri: “quanto avrei voluto conoscerli”. “Jack vieni, c’è una festa, non puoi mancare”. Mi sembra di udirne le voci…Negli ultimi anni di vita, consumata nell’alcool e nella solitudine, Jack si allontanò da Ginsberg e dagli altri, come risucchiato da quella parte borghese e perbenista di se stesso (trasmessa dalla madre) con cui aveva sempre convissuto e dalla quale aveva sempre cercato di fuggire. Con questi pensieri mi faccio scattare qualche foto ricordo sotto l’insegna della Jack Kerouac road. E’ stata una giornata indimenticabile la prima a S.Francisco, anche per il clima e la temperatura (sempre terribilmente bassa). Nei 2 giorni trascorsi qui non abbiamo visto neppure un raggio di sole. Anche Chinatown merita una lunga passeggiata. E’ veramente una città nella città, anzi, una nazione dentro una città; i cinesi sono laboriosi e si notano i ritmi di lavoro piuttosto elevati. Oltre ad un numero incredibile di ristoranti, ci si imbatte i una miriade di piccoli empori pieni zeppi di cianfrusaglie orientali, ed è tutto molto interessante e particolare. L’ autonomia e l’indipendenza di questa comunità è praticamente totale, si sono creati tutto quello che serve e per loro non è necessario uscire dal quartiere, tutto quello di cui hanno bisogno lo trovano all’interno. Certo è che hanno trovato in S.Francisco una città (come quasi tutte le grandi città americane) tutt’altro che chiusa e razzista anzi aperta e disponibile a diventare sempre più multirazziale. Le nostre grandi città italiane sono ancora molto lontane da tutto ciò, gelose delle proprie tradizioni e diffidenti verso culture e religioni straniere, per un’integrazione di questa portata devono passare ancora molti decenni. Il quartiere di Castro rappresenta la comunità gay più grande e accettata del mondo. Qui “l’amore che non osa dire il suo nome”, per dirla alla Oscar Wilde, il proprio nome lo urla addirittura e tutto è alla luce del sole, senza menzogna e senza vergogna; un calcio al perbenismo di bassa lega ancora imperante in tutti i paesi del mondo. Abbiamo pranzato in un locale incredibile proprio nel centro del quartiere, sia nelle strade sia dentro il locale non vi era ombra di una donna; le uniche presenze femminili erano le nostre tre ragazze. Non nego che inizialmente eravamo un po’ imbarazzati, ma vinto velocemente il disagio siamo riusciti a consumare in tutta tranquillità il nostro pasto e ad apprezzare l’eccezionalità di quanto stavamo vedendo e vivendo. Chiunque vada a S.Francisco non può esimersi dall’attraversare il Golden Gate, sicuramente il ponte più famoso al mondo, confine tra la baia e il mare aperto. Il suo colore rosso si staglia sull’Oceano Pacifico ed è sicuramente uno dei simboli più importanti del grande sogno americano. Attraversato il ponte siamo arrivati a Sausalito, famoso borgo di pescatori, ma ci siamo fermati solo pochi minuti a causa di un vento terribile e freddo; comunque non mi è sembrato ci fosse nulla di particolarmente interessante. Dopo la seconda e ultima notte a S.Francisco il mattino siamo pronti per la visita ad Alcatraz. Incredibilmente è una stupenda giornata di sole con finalmente una temperatura estiva. Arrivati nei pressi del Pier 39 in attesa del nostro battello ammiriamo dal pontile centinaia di leoni marini rumorosissimi che giacciono pigramente in attesa di gentili omaggi da parte dei numerosi turisti. Ne approfittiamo per una foto con porto sullo sfondo e uno splendido sole (una delle cose più rare a S.Francisco). Devo dire che la visita ad Alcatraz è stata veramente indimenticabile. All’ingresso ci hanno consegnato le cuffie con registrata in italiano (caso più unico che raro) tutta la visita alla prigione. Seguendo le indicazioni si visita con calma e in modo approfondito ogni angolo di questo luogo leggendario. A differenza di come sembra nei vari film la prigione è molto piccola, al massimo gli “ospiti” furono meno di 300. I luoghi più interessanti sono sicuramente times square che è il fondo del corridoio principale con appeso un grande orologio, la cella di Al Capone che è uguale alle altre ma simbolicamente importante. Terrificante il “buco” che era la cella buia e umida in cui finivano in isolamento i più indisciplinati; e poi il famoso cortile con vista sulla baia e sul Golden Gate. Appena si entra ci si aspetta di incrociare lo sguardo freddo di Clint Eastwood. Ma quello che mi ha impressionato di più è la dimensione delle celle mostrosuamente piccole tanto che per andare a letto o spostarsi dovevano chiudere il minuscolo tavolino che unicamente al water costituiva l’intero arredo. Verso mezzogiorno finisce questa straordinaria visita e prima di dire addio (o arrivederci?) a Frisco mangiamo degli straordinari panini con granchio in uno dei moltissimi locali che ci sono lungo il porto. Finisce quindi con le gambe sotto un tavolo la nostra avventura a S.Francisco una città che non si dimentica e resta nel cuore, così diversa dalle nostre città europee. Con le sue nebbie, le sue strade sempre in discesa e salita, i suoi quartieri così diversi uno dall’altro come città nella città; la sua gente con un incredibile miscuglio di razze enormemente lontana dai nostri egoistici provincialismi. E poi la baia che si butta nell’oceano Pacifico a segnare la fine del grande paese, punto di partenza e nello stesso tempo di fine del sogno americano; per dirla alla Keruoac arrivati alla fine della frontiera non resta che tornare indietro. Salutiamo Frisco e ci dirigiamo verso Monterey imboccando la mitica highway numero 1 che costeggia tutto l’oceano dal Canada fino al messico. Una strada inconsueta con lunghi tratti a strapiombo sul Pacifico; l’ideale è proprio percorrerla da Nord a Sud per ammirare incredibili precipizi e fare un buon carico di adrenalina. Sembra che durante la sua costruzione vista l’enorme pericolosità per i lavoratori il governo americano utilizzò migliaia di carcerati (una buona idea anche per l’Italia). Scendiamo verso Sud sempre più rapiti dalla bellezza degli scenari e nel tardo pomeriggio ci fermiamo in un motel alla periferia di Monterey. Andiamo a mangiare nella città di Steinbeck (bellissimo il busto in sua memoria lungo la strada principale) in un invitante ristorante messicano in riva al mare. Dopo una passeggiata ritorniamo al motel; domani ci attende una delle tappe più lunghe fino a Los Angeles (più di 500 chilometri).

20° giorno: Martedì 21 agosto 2001: Monterey – Los Angeles.

Dopo una veloce colazione in motel partiamo alla volta di Los Angeles, l’incredibile metropoli lunga più di 150 chilometri. Volendo goderci ancora un po’ di oceano commettiamo l’errore di continuare lungo la highway 1 invece di prendere l’autostrada 101. In parecchie ore non percorriamo che poche decine di chilometri e purtroppo fino a Morro Bay non è più possibile prendere l’autostrada. Lo spettacolo naturale continua però fino a toccare il suo massimo a Big Sur, forse uno dei pochi posti al mondo in cui fittissimi boschi collegano mare e montagna, gli ultimi pini e abeti toccano l’acqua dell’oceano. E qui che negli anni ’50 e ’60 si riunivano grandi scrittori e poeti presso la villa di Henry Miller. Anche Kerouac si rifugiò per parecchio tempo in questo paradiso per sfuggire a quella notorietà che non accettò mai e scrisse uno dei suoi ultimi libri intitolato proprio Big Sur. Ancora oggi lungo questa strada si possono vedere nostalgici autostoppisti che con i loro sacchi a pelo raggiungono questi luoghi della memoria di un’epoca letteraria irripetibile. Imboccata la 101 raggiungiamo S.Barbara nel tardo pomeriggio e ci fermiamo per una passeggiata sulla spiaggia. Sono circa le 5 ed è già deserta. Vorremmo fare un bagno nell’oceano ma scopriamo che l’acqua è veramente gelida. In questo mare paradiso dei surfisti (ne abbiamo visti a centinaia lungo il tragitto, tutti in attesa della grande onda) per fare il bagno occorre una lunga preparazione psicologica: “non è fredda, non è fredda….”.

E’ tardi è ci mancano ancora 150 chilometri per arrivare a Los Angeles, e dobbiamo trovare un posto per dormire.

Verso le 20 stiamo percorrendo una delle tangenziali di Los Angeles. Orizzontarsi è veramente difficile: le distanze sono enormi e il traffico impressionante. Troviamo un bel motel non lontano dall’aeroporto. La zona non è proprio il massimo, e alla sera cambia completamente il panorama umano che è quantomeno preoccupante. Mangiamo in un locale tutt’altro che invitante vicino al motel e, stanchi per la lunga giornata e i chilometri percorsi appena finito raggiungiamo i nostri agognati letti. Un buon riposo è necessario, domani trascorreremo un’intera giornata agli Universal Studios.

21° giorno: mercoledì 22 agosto 2001: Los Angeles (Universal Studios).

Alle 8.00 siamo già davanti ai cancelli degli studios. Il biglietto è piuttosto salato (35 $) ma questo è uno dei posti che non si possono perdere. Appena entrati si capisce di essere entrati in uno dei posti in cui la finzione americana tocca uno dei suoi punti massimi. Ogni angolo ci riporta alla mente film che hanno fatto la storia del cinema: dallo squalo a terminator, passando per Jurassic park, ET e ritorno al futuro. Cominciamo con quella che per me rimarrà la parte più interessante della giornata. A bordo di un trenino su gomma partiamo alla scoperta degli studios, quelli veri dove si girano i film (infatti dal trenino non si può scendere). Si alternano esterni con villaggi western, l’America degli anni ’20, foreste e il motel di Psyco. C’è la cittadina di Amity ville con un lago dove girarono parecchie scene dello Squalo; e, mentre lo attraversiamo un’enorme squalo (che sembra proprio vero) ci assale spalancando enormi fauci. Vediamo poi anche molti interni tra i quali una stazione della metropolitana che a causa di un terremoto viene completamente distrutta per poi ricomporsi in pochi secondi mentre ce ne andiamo. Nel resto della giornata giriamo tutto il parco senza perderci nessuna delle attrazioni e degli spettacoli, un vero tour de force, anche perché per ognuna dobbiamo affrontare lunghe code. Quindi eccoci solcare pericolose rapide a bordo di un gommone nel mondo giurassico; percorrere su una bicicletta gli straordinari scenari di ET. Tremenda la macchina di ritorno al futuro con i suoi viaggi virtuali. Tra gli spettacoli da non perdere Watergate e il cinema tridimensionale di terminator. E oltre a questi tante altre cose che fanno passare in un lampo l’intera giornata. Alla sera siamo veramente distrutti e io ho addirittura la febbre. Non avendolo provato a San Francisco vogliamo mangiare cinese e troviamo un ristorante proprio appena al di fuori degli studios. Risulterà essere la peggior cena dell’intero viaggio, forse anche perché stavo male, ma comunque il cibo cinese americanizzato è una vera schifezza.

Siamo ormai agli sgoccioli di questo viaggio straordinario, la stanchezza della vita on the road si fa sentire, ma il pensiero del ritorno alla vita di tutti i giorni è veramente terribile e un po’ di tristezza assale un po’ ognuno di noi. Con questi pensieri torniamo al motel per trascorrere la nostra terz’ultima notte americana. Domani percorreremo gli ultimi 200-250 degli ottomila chilometri in terra americana, da Los Angeles a S.Diego, dove venerdì visiteremo il parco marino di sea world e sabato prenderemo l’aereo del ritorno (Ahimè!).

22°.,23° e 24° giorno: 23, 24 e 25 agosto 2001: Los-Angeles-S.Diego-Detroit-Amsterdam-Torino.

Questa è una delle pochissime mattine in cui ce la siamo presa veramente comoda. Tanto dobbiamo solo arrivare a S.Diego. La malinconia di questi ultimi giorni sta contagiando anche il mio racconto che per questi due giorni finali sarà particolarmente stringato. Dopo la solita iper-calorica colazione (la tristezza non ha minimamente intaccato il solito bestiale appetito) e dopo aver percorso un’altra bella porzione di tangenziali eccoci sulla 5 direzione S.Diego. Anche questo tratto di strada è veramente spettacolare (soprattutto nei pressi di Oceanside) e il tempo è veramente magnifico. Anche se annebbiato dalla febbre e nel torpore del dormiveglia riesco comunque ad apprezzare una natura straordinariamente selvaggia .

Nel pomeriggio arriviamo a S.Diego dove ci concediamo un bel pomeriggio di relax. Alla sera per la cena andiamo in un Denny’s e dopo una bella passeggiata per S.Diego tutti a nanna. Ci aspetta l’ultima giornata americana al parco di Sea World. La giornata al parco è stata molto bella in modo particolare dal punto di vista atmosferico. Eccezionali gli spettacoli dei delfini e delle orche; ma tra acquari e vasche abbiamo potuto ammirare moltissime altre specie marine e non. E’ innegabile che tutti questi animali prigionieri e utilizzati per far divertire la gente fanno veramente una pena enorme. La giornata (l’ultima giornata americana) è volata via tra uno spettacolo e l’altro tra cui un bellissimo spettacolo di equilibristi direttamente sull’acqua; una miscela di salti, tuffi e peripezie varie, un insolito circo marino insomma. Purtroppo la sera è arrivata in fretta e il pensiero dell’ultima notte prima di tornare nel nostro mondo reale ci ha reso tutti un po’ più tristi. Di questa giornata, forse complice la febbre, mi è rimasto un ricordo un po’ velato, e non mi ricordo neppure cosa abbiamo fatto l’ultima nostra sera americana, ma forse è giusto così. E’ normale ricordare con più fatica i momenti meno piacevoli; di sicuro ad un certo punto siamo andati a dormire, su questo fatto non ci sono dubbi come non c’è il minimo dubbio che nella tarda mattinata di sabato 25 agosto abbiamo nostro malgrado portato la nostra auto nel parcheggio Alamo dell’aeroporto di S.Diego; è stato un distacco veramente doloroso, con essa abbiamo percorso 5.000 chilometri attraversando posti meravigliosi che resteranno nei nostri ricordi. Allontanandoci con il pulmino le ho lanciato un’ultima occhiata, quell’anonima macchina era diventata ormai simbolo di un viaggio giunto alla fine; un aereo ci aspettava per riportarci a casa. Purtroppo ci sono momenti nei quali si desidera che una cosa non finisca mai; questo era uno di quei momenti. Questo viaggio tanto atteso aveva davvero superato le aspettative; nella mia vita si è rivelato un autentico giro di boa, per un’incredibile serie di fatti successivi che l’hanno cambiata n maniera definitiva sia in negativo che in positivo, con netta preponderanza del negativo. Per queste ragioni anche se in futuro come spero farò altri viaggi, la rilevanza simbolica di America 2001 rende questo viaggio inimitabile e insuperabile nel bene e nel male. In un afoso pomeriggio di domenica 26 agosto un aereo della Klm proveniente da Amsterdam riconsegna a Torino e alla vita reale 6 vagabondi di ritorno dalla loro avventura, come sempre accade dopo molte ore di aereo e di fuso orario ci si trova in uno stato abbastanza confusionale e offuscato, che è fondamentale per attutire e posticipare a livello mentale l’accettazione della fine di un periodo eccezionale e la ripresa di un periodo normale (che corrisponde al 99,9% della nostra vita).

Conclusioni: spero di essere riuscito a trasferire su questo foglio almeno una buona parte di quello che è stato questo viaggio. La mia intenzione era quella di non limitarmi ad un freddo diario in cui sciorinare percorsi e luoghi alla stregua di un depliant di viaggi. Ho cercato il più possibile di trasmettere emozioni che sono la vera essenza del viaggio e del vagabondare. L’esserci riuscito almeno in parte costituirebbe per me motivo di grande orgoglio, ma il giudizio spetta a chi leggerà queste pagine. Spero inoltre di essere riuscito a trasmettere un po’ della mia immensa passione per l’America, per le sue strade, i suoi deserti, le sue contraddizioni e perché comunque continua ad essere simbolo di un grande sogno; e i sogni sono necessari per la nostra vita come l’ossigeno per i nostri polmoni. Purtroppo il passaggio dei pensieri e dei ricordi dalla propria testa ad un foglio bianco non è cosa facile a meno di possedere il talento di un grande scrittore, quindi chiedo scusa per i sicuri errori grammaticali e di sintassi. Credo comunque di aver dato un po’ di utili informazioni a chi avrà la fortuna di compiere un viaggio di questo genere. Il mio consiglio per tutti è quello di viaggiare per viaggiare; certo fermatevi nei posti di interesse turistico come monumenti, parchi naturali, grandi città e via discorrendo, ma provate anche ad imboccare una strada e andare, andare e ancora andare…bruciando dentro come un fuoco vivo, vi sentirete più liberi che mai senza orari e senza obiettivi da raggiungere, senza nulla di cui rendere conto e senza regole da rispettare, senza rimpianti e senza dolori; credo che questo sia quello che ognuno di noi sogna ogni mattina prima di iniziare una nuova e faticosa giornata, ma come ho già detto sopra i sogni..



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche