Bros to bros, da qui a lì

Dedicato ai F.lli Costa. In giro per l’America da San Francisco a New York. Siamo appena saliti sull’aereo che va da Monaco a San Francisco, ci sediamo (nel senso di seduti e non di sedativi), subito arriva una hostess, indica una luce accesa sopra la mia testa, indica un bottone sul bracciolo della poltrona raffigurante una figura...
Scritto da: MARI65
bros to bros, da qui a lì
Partenza il: 29/07/2008
Ritorno il: 29/08/2008
Viaggiatori: in coppia
Dedicato ai F.Lli Costa. In giro per l’America da San Francisco a New York. Siamo appena saliti sull’aereo che va da Monaco a San Francisco, ci sediamo (nel senso di seduti e non di sedativi), subito arriva una hostess, indica una luce accesa sopra la mia testa, indica un bottone sul bracciolo della poltrona raffigurante una figura femminile, spinge un altro bottone, la luce si spegne, mi dice soavemente che se ho bisogno basta spingere col dito il bottone sul bracciolo e lei viene (nel senso di … E non … Bè, lasciamo perdere).

Che gentile.

Dopo cinque minuti la hostess è tornata, luce accesa e ha chiesto di cosa avevo bisogno. L’ho guardata stupito: non avevo spinto niente. Ebbene, per farla breve, tutte le volte che appoggiavo il gomito sul bracciolo, involontariamente chiamavo la hostess spingendo il bottone con il gomito stesso … Sto andando a San Francisco in quella che è stata la mecca dei beat, anche loro sognatori, come tanti, come me. Ma non sto andando in America per ripercorrere le strade della Beat Generation, ci sto andando per una simbolica deconquista del west o se preferite per la conquista dell’est.

La prima cosa da conquistare è l’ingresso in America: abbastanza facile per gli occidentali, senza visto per 90 giorni, con il solito modulo verde da compilare e le domande a cui rispondere alla dogana.

Il Dipartimento di Giustizia vuole sapere chi sei, se sei una persona retta, che lavoro o cosa fai nel tuo paese, quanti soldi contanti hai, cosa farai e dove risiederai negli Stati Uniti e … Quando te ne andrai.

Gonzales, l’efficiente e rasato poliziotto che ci ha fatto le domande, alla fine del colloquio ci ha detto: “Don’t drink and drive”. (Non bere e guidare)

Per informazione, per chi non è mai stato in America, riporto di seguito la traduzione delle domande poste nel modulo verde.

Rispondere alle seguenti domande con un Sì o un No: A. E’ affetto da malattia contagiosa; da disturbi fisici o mentali; fa abuso di stupefacenti o è tossicodipendente? B. E’ mai stato arrestato o condannato per avere commesso un’azione depravata o una violazione relativa ad una sostanza proibita; arrestato o condannato per due o più reati per i quali la sentenza complessiva di reclusione sia stata di cinque anni o superiore; ha trafficato in sostanze proibite; o intende svolgere negli Stati Uniti attività criminali o immorali? C. Ha mai svolto o svolge attività di spionaggio o sabotaggio; attività terroristiche; genocidio; o fra il 1933 ed il 1945 ha preso parte, in qualsiasi modo, alle persecuzioni associate alla Germania nazista o ai suoi alleati? D. Cerca lavoro negli Stati Uniti; è mai stato espulso o estradato; ha ottenuto o ha cercato di ottenere un visto o di essere ammesso negli Stati Uniti mediante frode o falsa dichiarazione di identità? E. Ha mai trattenuto, sottratto un minore alla custodia di un cittadino americano al quale era stato legalmente affidato in custodia? F. Le è mai stato negato un visto d’entrata negli Stati Uniti o l’ingresso negli Stati Uniti o le è mai stato revocato un visto degli Stati Uniti? dove?__________ quando?____________ G. Ha mai rivendicato l’immunità per sottrarsi ad un’azione penale? AVVERTENZA IMPORTANTE: Se ha risposto affermativamente ad una o più domande di cui sopra, la preghiamo di mettersi in contatto con l’Ambasciata degli Stati Uniti PRIMA dell’inizio del suo viaggio per gli Stati Uniti poiché l’ingresso negli Stati Uniti potrebbe essere rifiutato.

Era già buio quando siamo arrivati al motel a San Francisco. “Vedi, c’è uno stronzo che sta in piedi.” Un pezzo di cacca di cane, ritto sul marciapiede accanto ad altri due stesi, è una delle prime cose che abbiamo visto al mattino all’uscita dal motel.

E’ bella e fresca San Francisco, con i suoi saliscendi, con le sue case basse e non sembra così frenetica come altre città americane. Si sente l’influsso dell’Oceano Pacifico, il più grande, con la sua fredda corrente della California che in estate si fa sentire e vedere sotto forma di nebbia. In Union Square alcune ragazze orientali si fanno fotografare di fronte o abbracciate ad uno dei cuori posti agli angoli della piazza.

Il quartiere cinese è molto colorato e vivace, la zona del Fisherman’s Wharf è stracolma di turisti (qualcuno un po’ stressato), Ghirardelli Square si affaccia sulla baia ed il cioccolato colma qualche vuoto. C’è la fila per prendere il Cable Car. Quando arriva al capolinea viene fatto ruotare manualmente, utilizzando una piattaforma mobile, per invertire la corsa. Se c’è un problema, interviene prontamente una squadra di tecnici tra gli applausi della gente. Per azionare gli scambi di rotaia durante il percorso, l’autista ferma il Cable Car, scende, aziona con una leva lo scambio e lo fa ripartire.

Un tratto di Lombard Street, conosciuto come “Crookedest Street”, scende a tornanti, ripido e sinuoso tra le aiuole ed i palazzi. La gente si diverte a percorrerlo: sullo sfondo la baia.

Ci sono molti senzatetto, quasi tutti bianchi, alcuni parlano da soli, qualcuno sbraita. Ancora condizionato dalle vicende nostrane, ho pensato che anch’io avrei potuto mettermi a sbraitare nella mia lingua, per esempio contro gli italici pubblici personaggi, per vederne gli effetti: mi avrebbero considerato un disturbato mentale, ma … Che soddisfazione! Nella baia di San Francisco c’è l’isola di Alcatraz (Pellicano) nota per l’omonimo ex carcere di massima sicurezza da cui era (quasi) impossibile fuggire. Il carcere di Alcatraz è stato chiuso perché costava troppo mantenere lì dentro i detenuti. Penso che il Parlamento italiano sia paragonabile ad Alcatraz: è praticamente impossibile che i parlamentari se ne vadano e mantenerli costa troppo. Dopo alcuni giorni trascorsi a San Francisco è giunto il momento di mettersi sulla strada, per cui siamo andati a ritirare la macchina che avevamo noleggiato. “Prendi la macchina a San Francisco e la lasci a Manhattan? Oooh, that’s a long drive! Drive safely.” Ci hanno dato un van anzichè una intermediate perchè non era disponibile: abbiamo attraversato la città, il Golden Gate Bridge, Sausalito, Tiburon ed il nostro “long drive on the road” è iniziato. Prima destinazione: Yosemite National Park.

Lungo la strada ci siamo fermati in un market e la cassiera, appurato da dove venivamo, ci ha detto: “Italy! Cool!” Quando siamo arrivati al parco il van ha cominciato a dare segni di squilibrio: all’accensione segnalava di cambiare l’olio e frenando dalla ruota anteriore destra usciva un preoccupante rumore di ferraglie.

Un giorno allo Yosemite, con le sue cascate, i limpidi ruscelli, le millenarie sequoie e le splendide rocce granitiche tra cui spicca El Capitan considerata sacra dai nativi e poi via verso Los Angeles con sosta all’aeroporto di Fresno dove ci hanno cambiato il van con una Malibu: lo stesso modello di macchina che avevamo nel 2005 quando siamo andati da Chicago a New Orleans.

Poi, di nuovo sulla strada.

Los Angeles, Hollywood Boulevard, Sunset Boulevard, Santa Monica Boulevard, Beverly Hills: qui ti rendi conto che l’auto non serve in quanto tale, ma è un oggetto da mettere in mostra. Per fortuna si vedono anche delle vecchie auto ancora in uso, ma si capisce subito che non sono affatto cool.

Qui ci sono i luoghi di molte serie televisive e di tanto cinema, completi di guardaspiagge, guardaspalle, guardaspille, guardaguarda, guardaben.

Nella Hollywood Walk of Fame ci sono le stelle sul marciapiede con i nomi di personaggi famosi del mondo dello spettacolo. Io preferisco le stelle che stanno in cielo ma, in ogni caso, ho deciso che dovrò proprio mangiare un chili in omaggio a Peter Falk, una stella che sembra perdere luce. Sempre da quelle parti, fuori Los Angeles, abbiamo dormito in un hotel che ha lo stesso nome di quella tipa che tanto per cambiare non mangia la solita minestra e non salta nemmeno dalla finestra. Povera stella.

Gli alberi del profeta biblico Joshua (Giosuè), così come sono stati chiamati dai primi Mormoni che li hanno visti, con i loro rami che sembrano braccia alzate verso il cielo, li abbiamo cominciati ad incontrare già prima di arrivare al Joshua Tree National Park. Questa pianta particolare (Yucca Brevifolia) originaria dell’America, tipica del deserto alto (circa 4000 piedi), ci farà compagnia anche nel Mojave. La natura è meravigliosamente sorprendente e potente. L’aridità dell’ambiente ci riempie, nel ruolo di spettatori, di stimoli e sensazioni piacevoli.

La strada percorsa all’interno del Joshua Tree National Park ci ha condotti brevemente sulla storica Route 66, prima di imboccare la strada di accesso al Mojave National Preserve.

Non è la prima volta che mettiamo le ruote sulla 66: già a Los Angeles ne abbiamo percorso un tratto. La Route 66 che originariamente andava da Chicago a Los Angeles, dopo essere stata percorsa da milioni di uomini e mezzi, è stata rimossa dal sistema delle highway sostituito dall’Interstate Highway System. Ne esistono ancora dei tratti con il nome di Historic Route 66. Lungo la strada che attraversa il deserto ci siamo fermati ad osservare una vasta zona coperta da uno strato salino. Era molto, molto caldo e non c’era nessuno. Poco dopo è arrivato un pick up molto grosso, con un signore gentile alla guida che si è fermato per chiederci se era tutto ok. Tutto ok.

C’era un uomo che ci aspettava a Las Vegas, Nevada, dove stavamo andando, è Gabriele Penazzi, Pen D’America, un vecchio amico dei tempi della scuola. Las Vegas, Sin City. (Città del peccato) “What happens in Vegas stays in Vegas.” (Quello che succede in Vegas rimane lì) Casinò, casinò, casinò.

All’interno non si deve avere la percezione del tempo che passa, per cui non ci sono orologi e finestre, l’aria è continuamente ossigenata per tenere sveglia la gente e mentre si gioca, passa spesso una signorina che ti offre da bere: è gratis.

Al piano di sotto c’è la sala di controllo di tutte le macchine, dove ci sono gli “ingegneri” che verificano che il software funzioni “correttamente”.

Ad una certa ora, arrivano delle signorine carine, solitamente dotate di una borsetta molto piccola, che camminano intorno alla sala in attesa di essere adescate o di adescare. Alcune si spostano anche per strada e se capita di incontrarle, magari ti chiedono come stai e cosa fai quella sera.

Mentre cammini per la Strip (Las Vegas Boulevard) si notano subito, dalle facce, quelli che hanno perso soldi al gioco. Nei motel e negli hotel degli Stati Uniti di solito c’è la Bibbia (The Holy Bible), nell’hotel/casinò in cui dormivamo a Las Vegas, nel cassetto c’erano, oltre alla Bibbia, i preservativi.

Las Vegas è una città piena di employed (impiegati), dalle prostitute ai gestori dei locali, tutti pagati (forse) in funzione di quello che fanno, tutti al servizio di un giro di affari molto più grande dove pochissimi alla fine guadagnano davvero. Chi paga tutto questo sono i clienti, i giocatori. Per gli addetti ai lavori ci sono dei corsi di formazione per riconoscere i giocatori malati che, una volta individuati, vengono indirizzati verso gli specialisti messi a disposizione dalle autorità pubbliche per curarli o quantomeno per cercare di impedirgli di rovinarsi.

Ci sono molti messicani in giro, definiti: “coloro che sono venuti con i coyotes”. Ci hanno detto (se abbiamo capito bene) che attualmente c’è crisi: fino a poco tempo fa arrivavano 150 aerei al giorno, ora ne arrivano 75; alcune costruzioni pubbliche sono ferme per mancanza di fondi; il sindaco vorrebbe rendere la prostituzione legale anche nelle strade, oltre che nei locali, e farsi pagare le relative tasse. Ora le tasse le pagano solo i casinò.

C’è una classifica per i clienti: il cliente “Seven Stars” è il top dei top, il livello più alto, quello che spende di più (milioni di dollari). Tra questi clienti ce n’è qualcuno con la carta di credito “Black”, in titanio, la più esclusiva al mondo. Il cliente “Seven Stars” ha diritto di precedenza e se poi estrae la carta di credito nera, immagino che uno stuolo di persone si prostri al suo passaggio e si adopri per soddisfare qualsiasi sua richiesta ed esigenza. In tutta l’America i livelli sono diffusi ovunque: più soldi hai, più di alto livello sei.

Chissà se i nativi americani, a suo tempo, hanno avuto questa visione del futuro della loro nazione? Dentro un casinò abbiamo conosciuto una vecchietta tedesca che, pur avendo una figlia che vive da un’altra parte dell’America, preferisce stare a Las Vegas per passare il tempo: la sera prima aveva perso ventimila dollari.

Qualcuno dice che Las Vegas è il paese dei balocchi, che è una Disneyland per adulti e molti dicono, a ragione, che è una città finta. Però vi posso assicurare che il nano che sta davanti ad un casinò con un microfono in mano e che ripete continuamente le stesse cose per attirare i clienti, è vero, le ragazze giovanissime che si prostituiscono per pagarsi gli studi e l’indipendenza, sono vere, il suono incessante delle macchine da gioco è vero, i disperati, gli impiegati, i clienti, i turisti, sono veri, anche se dopo un po’ sembrano tutti attori dello stesso film che va continuamente in scena sempre uguale a se stesso.

Las Vegas non si ferma mai. Las Vegas è una città triste, molto triste, dove il senso della precarietà è molto più opprimente che da altre parti, dove quasi nessuno sembra divertirsi e dove non si percepisce nemmeno il fascino sottile del peccato e della trasgressione.

Las Vegas, I Prati, la città più luminosa del mondo che può essere vista anche dallo spazio, è stata fondata, a suo tempo, dai Mormoni, con altri scopi e altre storie.

L’uomo che ci aspettava, è stato un ospite premuroso e gentile, ci ha fatto conoscere la sua famiglia, ci ha fatto vedere la sua casa in un bel quartiere residenziale di Henderson (vicino a Las Vegas), ci ha fatto vedere la città, ci ha portato in diversi locali e ci ha fatto cenare nel ristorante che porta il suo nome: Penazzi. Complimenti. Abbiamo mangiato molto bene. La cucina, come dice Gabriele, è italiana con qualche piccolo ritocco per andare incontro al gusto degli americani. Ad Amargosa, lungo la strada per arrivare alla Death Valley, in un luogo desertico lontano da tutto, con pochissimi abitati, con oltre 110° Fahrenheit, un senzatetto, bianco, tutto intabarrato, camminava lungo il bordo della strada spingendo un carrello da supermercato contenente tutti i suoi averi: anche le strade sospese nel nulla portano da qualche parte.

Nella Death Valley la natura supera le opere dell’uomo e si manifesta, seppur silenziosa ed apparentemente immobile, in tutta la sua forza. Nella parte bassa della valle, quel giorno, la temperatura ha raggiunto i 121° F, circa 49,5° Centigradi. Bad Water (Acqua Cattiva) si trova ad 85,5 metri sotto il livello del mare ed è un piccolo acquitrino salatissimo adiacente ad un’enorme distesa di sale. Lì vicino c’è il Devil’s Golf Course (Campo da Golf del Diavolo), una grande superficie coperta da grossi cristalli di sale.

A Zabriskie Point si rimane incantati dalla vista che offrono le formazioni rocciose. Non ci sono piante.

Abbiamo percorso una strada sterrata (oltre 25 miglia), consigliata per mezzi con quattro ruote motrici, dove non c’era quasi nessuno. Abbiamo visto solo due pickup lontani, davanti a noi. La nostra auto aveva solo due ruote motrici ma se l’è cavata egregiamente, concedendoci anche qualche sbandata controllata. Questa strada parte dal Nevada, raggiunge la città fantasma di Leadfield, percorre il Titus Canyon e si immette nella Scotty’s Castle Road. Leadfield ha vissuto per poco tempo: nata come città di speranzosi minatori abbagliati dall’illusione di diventare ricchi, ha raggiunto una popolazione di circa 300 abitanti e nell’agosto del 1926 ha aperto un uffico postale. Nel febbraio del 1927 l’ufficio postale è stato chiuso e la città è morta.

C’è ombra tra le rocce del Titus Canyon che da tanto tempo assiste al passaggio di quei piccoli esseri chiamati uomini che da un po’ di tempo utilizzano anche dei curiosi mezzi detti macchine.

Incisi su alcune rocce ci sono dei petroglifi che testimoniano l’antica presenza dei nativi anche in questi territori.

Di nuovo sulla storica 66, con la ferrovia parallela alla strada ed i treni che ululano, anche a tarda notte, passando tra i centri abitati. Abbiamo dormito a Flagstaff prima di dirigerci vero il Grand Canyon.

Il Grand Canyon è uno di quei luoghi che ti fa sentire quello che sei: un piccolo ed insignificante essere al cospetto di una natura maestosamente grande, da rispettare.

Una giovanissima ranger ha attirato la nostra attenzione: stava spiegando ad un gruppo di turisti le origini del Grand Canyon recitando la sua parte da attrice consumata, con un tono di voce e dei gesti degni di un applauso. Circondata dalla Navajo Nation, la riserva Hopi comprende anche la First Mesa dove c’è Walpi, un villaggio in cui si cerca di conservare una cultura. Gli Hopi, avevamo letto, dovevano essere gli indiani più integralisti e più scortesi nei confronti dei turisti ma con noi sono stati molto gentili e disponibili al colloquio. Qui ci siamo imbattuti per la prima volta nelle Kachinas. Le Kachinas fanno parte della cosmologia e della religione indiana. Secondo gli Hopi le Kachinas vivevano nel San Francisco Peak, una montagna considerata sacra. Le Kachina Dolls (Bambole Kachina), che solitamente rappresentano la natura, i suoi fenomeni, gli esseri viventi e gli eventi, vengono tradizionalmente realizzate dagli uomini (ora a Walpi hanno dato il permesso anche alle donne), con lo scopo di educare i bambini e farli familiarizzare con la tradizione.

Ci siamo imbattuti anche nelle Kivas, stanze in cui un tempo si entrava solo dall’alto, stanze usate dai clan per parlare e per celebrare cerimonie religiose. Durante la visita guidata, una simpatica vecchietta ci ha fatto entrare nella sua casa e ci ha mostrato come vive e come prepara il pane di mais blu. Appesa ad una parete c’era la foto di suo figlio in divisa che lavora nell’esercito americano.

Per gli indiani è difficile resistere dopo essere stati sterminati, confinati, alcolizzati, sfruttati e ridotti a fenomeno da baraccone. Alcuni vendono il loro artigianato, altri sono costretti a cercare lavoro lontano dalle riserve, molti ingrassano come gli americani, ma tutti ci tengono alla loro identità e alla loro cultura. Anche nel Canyon De Chelly, ci hanno vissuto gli Anasazi, gli antichi, così chiamati dai Navajos quando ne hanno ritrovato i resti. Il Canyon De Chelly è un bellissimo monumento nazionale: rocce rosse fanno da guardia ad un fiume nella cui piana si coltivano mais e vegetali. Qui, in case di fango, vivevano gli Anasazi, misteriosamente scomparsi prima dell’arrivo degli indiani provenienti da nord est.

Kokopelli, il mistico suonatore di flauto raffigurato nelle caverne dagli antichi, è stato assunto a divinità da parte dei Navajos.

“Nella leggenda si narra che, mentre Kokopelli cammina tra i vari villaggi suonando il suo flauto, il sole spunta nel cielo e la neve si fonde, l’erba si colora di un rigogliosissimo verde, gli uccelli cominciano ad intonare canti di gioia e tutte le creature viventi si riuniscono intorno per sentire le sue canzoni/storie.” La Monument Valley si avvicina lentamente e ci si trova gradualmente immersi nella sua vastità: gli enormi monumenti di roccia rossa ricamano l’orizzonte.

E non è affatto strano sentirsi come se si fosse all’interno di un set cinematografico, di un fumetto o di un cartone animato.

Purtroppo la Monument Valley non è un parco nazionale e si vede: da un punto di vista organizzativo e di gestione degli accessi, è il peggiore che abbiamo visto. Il Roadrunner non è solo un personaggio di quel cartone animato che ci ha divertito da ragazzini e che ancora diverte, ma è anche un vero e proprio uccello che a volte capita di vedere mentre corre sulla strada, scappando via, con le sue zampe corte.

Dalla Monument Valley verso la Petrified Forest ed il Painted Desert, dove la natura si è divertita a pietrificare dei tronchi di conifere cresciuti nel triassico e a giocare coi colori delle rocce meglio di come farebbe un artista con i propri.

Continuando a visitare i territori indiani, siamo andati a Zuni Pueblo, passando per la zona vulcanica del Malpais con vicino un altro monumento nazionale, El Morro, pieno di petroglifi, incisioni ed iscrizioni.

A Zuni ci siamo sentiti a casa quando abbiamo letto il cartello: Home Of The Falcons.

Ad Acoma Pueblo, Sky City, la Città del Cielo, è come essere sul set di un film di Sergio Leone, con la missione e le case di mattoni di fango e paglia.

Acoma (che significa Popolo della Roccia Bianca) è un villaggio di nativi americani, risalente al dodicesimo secolo e costruito su una mesa alta circa cento metri rispetto alla piana sottostante. Furono gli Spagnoli a conquistare, sterminare e civilizzare gli Acoma.

Il villaggio era molto forte, protetto dalle rocce a precipizio e difficilmente accessibile. C’era una scalinata tra le rocce composta di alcune centinaia di gradini che in prossimità della vetta si restringeva e passava attraverso una piccola gola molto ripida, per cui l’ingresso era facilmente difendibile. C’era anche un muro di pietre da cui si potevano far rotolare dei massi in caso di un attacco frontale e c’era cibo in abbondanza per resistere a lungo.

Per questi motivi gli Spagnoli non attaccarono il villaggio alla loro prima visita, ma se ne andarono.

Dopo circa 60 anni si ripresentarono ai piedi della mesa e provarono a sottomettere gli Acoma senza combattere, dicendogli che dovevano obbedire alla Corona e convertirsi alla Chiesa.

Si allontanarono e questa volta, dopo poco tempo, arrivarono una trentina di soldati armati con il loro comandante e dettero battaglia. Il comandante fu ucciso assieme ad una decina di soldati per cui gli altri si ritirarono.

Erano gli inizi del 1599 ed erano passati alcuni mesi dalla sconfitta quando gli Spagnoli decisero di chiudere la partita utilizzando una settantina di soldati pesantemente armati, comandati dal fratello dell’altro comandante ucciso. Avevano ordine di fare una guerra senza quartiere, di mettere a ferro e fuoco il villaggio, di far scorrere il sangue, senza pietà.

I guerrieri indiani sentirono le trombe che annunciavano un attacco frontale e si prepararono a riceverlo, pronti a far rotolare i massi giù dal dirupo.

Nel frattempo, una dozzina di soldati, guidati dal comandante, riuscirono ad entrare in una zona indifesa del Pueblo. Quando gli indiani si accorsero che l’attacco frontale era un diversivo per coprire l’ingresso degli altri dodici soldati, era troppo tardi: nessuno poteva più opporsi alle armi degli Spagnoli.

La battaglia durò tre giorni. Gli Acoma morirono a centinaia, sopraffatti dalla superiorità tecnologica degli Spagnoli o suicidandosi gettandosi dal dirupo.

Gli Spagnoli praticamente non subirono perdite: sembra che solo uno di loro venisse ucciso accidentalmente da un commilitone.

Dopo la strage, il Conquistatore inviato nelle Americhe dalla Corona per compiere opere di colonizzazione, emise la sentenza per gli indiani superstiti: Maschi con più di 25 anni – taglio del piede destro e venti anni di schiavitù Maschi dai 12 ai 25 anni – venti anni di schiavitù Femmine con più di 12 anni – venti anni di schiavitù Bambini sotto i 12 anni – educazione cristiana presso un sacerdote francescano Una sessantina di ragazzine furono mandate a studiare la religione dei bianchi in un convento a Città del Messico: non avrebbero mai più rivisto né la loro famiglia né Acoma.

Qualche anno dopo quel tragico evento, alcuni giovani, alcuni uomini senza piede destro e alcune donne Acoma, sfuggirono al vincolo della schiavitù e con degli espedienti, riuscirono a tornare nel loro villaggio sulla mesa. Iniziarono a ricostruire le case e le Kivas, ripresero a coltivare i campi e cercarono di ricominciare la loro vita.

Dopo una trentina d’anni arrivò il Padre Spirituale che li convertì tutti quanti, gli dette dei nomi spagnoli e li costrinse a costruire una grande missione con la sua chiesa.

La costruzione durò oltre 12 anni ed occorsero migliaia e migliaia di tonnellate di terra e pietre, portate sulla schiena fino in cima alla mesa.

I tronchi per costruire il tetto dovevano essere prelevati a circa 40 miglia di distanza, senza trascinarli per terra, altrimenti diventavano impuri. La missione di San Esteban Del Rey è un monumento al sacrificio e alla sofferenza: oltre 60 Acoma, uomini e donne, morirono durante la costruzione.

La ragazza indiana che ci ha accompagnati nel giro all’interno di Acoma Pueblo si è presentata così: “Mi chiamo Christine. Potete chiamarmi Christine, Chris, Christina, … Ehi tu, … Come vi pare.” Una guida giovane e simpatica di cui non si può dir altro che bene, non foss’altro ché ha detto che alle donne (in genere) piacciono gli uomini con i capelli coi riccioli, come i miei. “Bellamino’s second 500 years” I secondi 500 anni di Bellamino. E’ l’insegna che un indiano ha messo sulla parete di fianco alla porta di casa, dentro Acoma. Bellamino è uno dei molti venditori di prodotti artigianali, capace di attirare l’attenzione per il suo aspetto affascinante e per quella frase sull’insegna.

Da Acoma, attraversando la valle dei Jemez siamo arrivati a Santa Fe.

Santa Fe, capitale del New Messico, è una città turistica, bella, piena di negozi e con un ricco patrimonio storico: vale la pena di fermarsi. Abbiamo mangiato bene nel Cowgirl BBQ, dove BBQ sta per Barbecue.

A Santa Fe abbiamo comprato l’unico disco di questo viaggio: Floyd Red Crow Westerman – A Tribute to Johnny Cash. Il tributo a Johnny Cash da parte di un indiano.

Cash era molto orgoglioso delle sue origini Cherokee e sebbene non fosse comunemente conosciuto come indiano, è stato un grande sostenitore della causa degli indiani d’America.

In questo disco, nella canzone Drums c’è la frase: “In five hundred years of fighting not one Indian turned white” “In 500 anni di battaglie nessun indiano è diventato bianco.” Che abbia qualcosa a che fare con i secondi 500 anni di Bellamino? La guida degli Stati Uniti che avevamo portato con noi, scritta da autori americani bianchi, quando parla delle vicissitudini subite dai nativi americani, parla di genocidio che a nostro parere è il termine giusto. Vicino a Santa Fe c’è Taos Pueblo costruito nel quindicesimo secolo: un altro insediamento indiano con strutture a più piani che vale la pena di visitare.

Da quelle parti c’è anche Los Alamos il luogo “Dove Vengono Fatte le Scoperte”, come annuncia la scritta di ingresso nella città. Bisogna solo stare attenti a dove possono portare certe scoperte … E in che mani possono finire.

Di nuovo una Las Vegas, questa volta però in New Mexico: a parte il nome, niente a che vedere con quella in Nevada. Nel “Far West” ci sono pochi neri, scusate, pochi afro americani e quei pochi che abbiamo visto ascoltano musica rap. Ci sono molti messicani e molti cinesi. Tutti quei mestieri che gli americani non vogliono più fare, li fanno prevalentemente i messicani ed i cinesi, sicché molto lavoro e molti dollari passano di mano. I cinesi fanno paura, perché accumulano dollari su dollari di cui solo il 15% vengono reinvestiti negli Stati Uniti ed i rimanenti finiscono in Cina. “I cinesi sono diventati arroganti e adesso dobbiamo anche stare attenti a non farli incazzare, altrimenti ci rovinano con tutti i dollari che hanno messo insieme.” “Welcome to Texas – Proud Home of President George W. Bush” “Benvenuti in Texas, l’Orgogliosa Casa del Presidente Giorgio W. Cespuglio” Percorrendo la I-40 verso Amarillo ci siamo imbattuti in un enorme recinto con migliaia di mucche e una gran puzza di letame di vacca: aria dell’Orgogliosa Casa, aria del Texas.

Dieci Cadillac sono piantate a muso in giù nel terreno del Cadillac Ranch: un’opera d’arte aperta al pubblico.

Ancora tracce della Route 66 presso “The Big Texan Steak Ranch, Amarillo, Texas – Home of the Free 72 oz Steak” In questa famosa bistecchiera o bisteccheria, con servizio gratuito di andata e ritorno su limousine con corna di mucca sul cofano, si può tentare di cenare gratis: in meno di un’ora si deve riuscire a mangiare una bistecca di 2 Kg, gli scampi, un paio di contorni, … Abbiamo visto due avventori tentare, mentre cenavamo lì dentro, con la gente che scattava foto e l’orologio marcatempo che scandiva inesorabile i minuti residui. Entrambi hanno fallito e … Pagato il conto.

Per quelli come me che sono leggerissimamente sovrappeso (giusto quei 20 – 30 chili), l’America è un paese accogliente e gentile: ti fa sentire un figurino. The Big Texan poi, è accogliente in modo particolare: lì dentro mi sono sentito praticamente magro.

C’erano da percorrere due tappe lunghe di trasferimento prima di arrivare a Nashville e la città scelta per fermarci a dormire è stata Henryetta, an Oklahoma Certified City.

Henryetta ha circa 6.000 abitanti di cui almeno uno o meglio una, maleducata. Ad Henryetta non c’era traccia né di turisti né di stranieri, escluso noi. C’erano dei cartelli appesi sulle vetrine con l’identikit di un tizio ricercato per duplice omicidio.

Nashville, Tennessee, la capitale della musica Country, del Bluegrass, degli stivali a punta e dei giubbotti di pelle colorati, dei cappelli da cow boy, dei gadget kitsch, dei locali in cui si suona dal vivo a tutte le ore. Al motel scelto per trascorrervi un paio di notti, ci accoglie un afro americanone, un nero con un bel fisico, insomma un negrone (sorry, chiedo scusa, ma il termine serve solo per rendere l’idea), che però si presenta con una vocina e delle movenze … Inequivocabili. E’ proprio vero che l’abito … (Donne coraggio, ci sono altre possibilità).

Comunque, era un tipo piuttosto ciarliero per cui la conversazione è finita sulla pizza. Ma che strano che un americano parli di pizza a degli italiani! Costui sosteneva di aver mangiato, in America, una pizza speciale, buonissima, “a pizza in a bowl … A pizza like a bowl … What’s the name? I don’t remember the name.” << Un calzone? >> “Oh no, not a calzoni” And so on … Man mano che la città si allontana, le luci si affievoliscono, il numero di corsie dell’autostrada si riduce e l’immaginazione vola su quegli spazi immensi. Da Nashville siamo arrivati ad Annapolis, la capitale del Maryland, dove si respira l’aria dell’Oceano Atlantico.

Un pit stop.

Durante questa lunga traversata abbiamo visto molte auto con gomme a terra, pezzi di pneumatico lungo i margini delle strade e abbiamo pensato che fosse facile forare …

Infatti domenica 17 agosto 2008 avevamo una ruota quasi a terra.

Nella nostra auto c’era il ruotino di scorta, il cric, ma non c’era la chiave per svitare i bulloni della ruota. Abbiamo chiesto aiuto alla reception del motel che ci ha mandato un messicano che aveva il cric ma non la chiave, per cui è andato a prendere una chiave …

Nel frattempo è arrivato un taxista nero che ci ha chiesto se avevamo bisogno. Gli abbiamo risposto che era tutto a posto ma lui ha insistito e allora gli abbiamo detto che ci mancava la chiave e così ha preso la sua chiave dal taxi e prima di entrare in azione ha “tastato la gomma” ed ha sentenziato: “All you need is air!” “Non avete bisogno d’altro che d’aria, per cui andate al distributore e gonfiate la gomma …” << Ok. >> Se n’è andato e noi non gli abbiamo dato retta.

Quando è arrivato il messicano con la chiave, abbiamo montato il ruotino ed abbiamo visto che nella ruota sgonfia c’era un chiodo piantato.

Nonostante fosse domenica, lì vicino c’era un gommista aperto che ci ha riparato la gomma in fretta … E mentre aspettavamo, sono arrivati molti altri automobilisti con una o più gomme a terra. Tutte quelle forature parevano quantomeno sospette … In ogni caso abbiamo speso circa 21 dollari.

Non è male Annapolis ed è in una posizione interessante per andare a Washington e a Baltimore.

Washington DC. Taxation Without Representetion. Solo a partire dal 1961 è stato concesso ai residenti nel District of Columbia il diritto di voto alle elezioni presidenziali. Attualmente possono avere propri rappresentanti al Congresso però privi di diritto di voto: da qui la scritta sulle targhe automobilistiche “Tassazione Senza Rappresentazione”.

A Washington ci sono il Campidoglio, la Casa Bianca, e tanti altri edifici di interesse storico, musei e monumenti, ma il luogo più emozionante è la zona del Lincoln Memorial dove, il 28 agosto 1963, Martin Luther King disse alle 250.000 persone presenti di avere un sogno.

Edgar Allan Poe nacque a Baltimore ed i Corvi si aggirano ancora per la città.

“Sono stato in tutto il mondo, dando piacere alla gente e ricevendone in cambio. Non era importante se suonavo al Cotton Club ad Harlem, al Palladium a Londra, al Sands a Las Vegas o al piccolo Sunset Cafe nel South Side di Chicago. La soddisfazione che ho provato a far sentir bene la gente è sempre stata la stessa.” Cab Calloway, Baltimore.

In America, tutte le volte che entri in un locale, in un negozio, in un ristorante o incontri qualcuno, ti senti chiedere come stai. Ci sono varie forme ma il significato è sempre lo stesso: How are you doing? How are you? How’s life? How’s it going? Di solito si risponde: fine, thanks.

Io trovo tutto questo insopportabile. Non basta un saluto semplice? Un ciao, buongiorno, buonasera? Evidentemente no. E allora, una volta che proprio non avevo voglia di mugugnare il solito “fine thanks”, ho risposto con un “not so baaad” calcando sull’accento.

Andando verso Philadelphia, Pennsylvania, ci siamo fermati a far benzina. Come al solito, sono sceso dall’auto pronto a farmi il pieno da solo, ma è arrivato un addetto del distributore che mi ha detto che lì eravamo in New Jersey ed il pieno me lo avrebbe fatto lui.

“Hey Sir, you are in New Jersey …” Mah! Philadelphia, la città natale di Benjamin Franklin, è famosa per i luoghi storici e per la Campana della Libertà che fu fatta suonare per la prima volta durante la prima lettura della Dichiarazione d’Indipendenza e su cui è incisa la scritta biblica: “Proclamare la libertà in tutte le terre e a tutti i suoi abitanti” La campana ha tirato delle crepe! E non solo la campana.

Gli americani sono egocentrici, competitivi, misurano il successo in dollari e molti di loro ci sono sembrati poco sereni, preoccupati, tesi, stressati. Abbiamo visto tanti senzatetto, troppi per essere nel paese più ricco del mondo. Forse la teoria del “tu muori, io sopravvivo” (mors tua vita mea) che è poi la stessa teoria che giustifica la libera detenzione delle armi, andrebbe rivista, magari con una del tipo “proviamo a sopravvivere insieme”. Forse così qualche crepa si potrebbe ancora riparare.

New York. Con l’automobile abbiamo attraversato il Lincoln Tunnel, siamo entrati in Manhattan, abbiamo raggiunto l’albergo sulla Settima Strada vicinissimo al Madison Square Garden, abbiamo scaricato le valige e poi ci siamo diretti verso la Dodicesima Strada per restituire l’auto a noleggio, dopo un “long drive” durato circa 6.000 miglia, oltre 9.000 chilometri. Qui, a New York, quando cammini per strada, in mezzo ad una marea di gente di tutte le razze, ti rendi conto di essere uno dei tanti, una piccola unità di un grande formicaio, uno qualunque e ti senti un perfetto sconosciuto tra sconosciuti. E’ la lingua che ti restituisce l’identità: quando senti qualcun altro parlare nel tuo stesso idioma, ritorni ad essere noto e questo è il motivo principale per cui, quando siamo all’estero, preferiamo non incontrare dei connazionali. In Union Square, il sabato pomeriggio, abbiamo visto manifestare la loro protesta, i rappresentanti del popolo tibetano, la cui sorte sembra molto simile a quella degli indiani.

La domenica mattina presto, ci sono pochi mezzi per strada, non si sentono i soliti clacson e le solite sirene, come invece succede tutti gli altri giorni della settimana e non sembra di essere in una metropoli dove vivono circa dieci milioni di abitanti, praticamente 1/6 della popolazione italiana. Siamo andati nel Bronx, a Brooklin, a Staten Island, al Greenwich Village, a Wall Street, a Times Square, a Union Square, al Central Park, al MoMa, sulla Broadway, sulla Quinta, sulla Settima, … New York è bella vista dal mare e dal cielo. New York non è l’America e l’America non è New York, New York è unica.

E’ giunto il momento di prendere il treno e andare in aeroporto, a Newark, dove ci aspetta il volo per Monaco. Prima di imbarcarmi, ho telefonato all’amico Gabriele a Las Vegas per salutarlo. Mi ha detto che dopo questo giro sono diventato un americano. Gli ho risposto che non sono diventato “un americano”: solo mezzo.

“Più afanti preco” Uno steward gentilissimo, con una vocina simile a “pizza in a bowl”, ci ha invitati ad accomodarci sull’aereo. Una signora cortese, che era seduta nella nostra fila di poltrone, si è spostata dietro in una fila completamente libera.

Cala la sera sull’aeroporto mentre parte il nostro aereo. Le luci, le sirene, i clacson e le voci alte di New York si affievoliscono e da tizio qualunque in una metropoli, tornerò ad essere un tizio qualunque in una piccola cittadina.

A Monaco abbiamo corso per prendere l’aereo per Bologna, ma quando siamo arrivati all’imbarco, ci aspettava una sorpresa: il nostro volo era stato soppresso per motivi tecnici, per cui ne abbiamo preso un altro alcune ore dopo.

Per fare questo viaggio ci sono voluti: 28 giorni, piedi, aereo, taxi, cable car, auto, bus, metropolitana, traghetto, elicottero, treno, … Abbiamo messo le ruote in questi stati: California, Nevada, Arizona, Indian Nation, Utah, New Mexico, Texas (L’Orgogliosa Casa …), Oklahoma, Arkansas, Tennessee, Virginia, Maryland, District of Columbia, Delaware, Pennsylvania, New Jersy, New York.

Nel paese più grasso del mondo sono dimagrito e questo, come direbbe un buon americano medio, vorrà pur dire qualcosa!

Un vecchio indiano della tribù degli Anasazi si è distolto un momento dalla meditazione per osservare com’è adesso quella che un tempo è stata la sua terra: l’America di oggi.

In questo mondo niente dura per sempre.



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